Un
saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di
Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle
parole il senso originario. Sì, perché oggi le parole sono diventate così
“multiuso”, che non puoi più giurare a occhi bendati sull’idea che
esse sottendono. Anzi, è tutt’altro che rara la sorpresa di vedere accomunate
accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo.
Guaio,
del resto, che è capitato soprattutto ai termini più nobili; alle parole di
serie A; a quelle, cioè, che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore
umano come pace, amore, libertà. A dire il vero, per quel che riguarda la pace,
pare che questa “sindrome dei significati stravolti” fosse
presente anche nei tempi remoti, se è vero che perfino in un salmo della Bibbia
troviamo denunce del genere: “essi dicono pace, ma nel loro cuore
tramano la guerra“.
Luca,
unico tra gli evangelisti, ci presenta ravvicinati il duplice volto, prima
splendente, poi deturpato, della pace. Lo fa raccontandoci l’arrivo di Gesù,
dopo tanto peregrinare, a Gerusalemme.
La parola “Gerusalemme” è un termine composto probabilmente anche dal
termine salem-shalom – pace; ed infatti l’autore della lettera agli Ebrei, al
capitolo 7, chiama Gerusalemme “la città della pace”.
Luca
ci mostra prima l’ingresso di Gesù, con la folla festante che acclama la pace,
nella città santa, e subito dopo le lacrime proprio di Gesù sulla stessa città,
che non comprende le vie della pace. Ascoltiamo:
“Dette queste cose, Gesù andava avanti, salendo a
Gerusalemme. Come fu vicino a Betfage e a Betania, presso il monte detto degli
Ulivi, mandò due discepoli, dicendo: «Andate nella borgata di fronte, nella
quale, entrando, troverete un puledro legato, su cui non è mai salito nessuno;
slegatelo e conducetelo qui da me. Se qualcuno vi domanda perché lo slegate,
direte così: “Il Signore ne ha bisogno”». E quelli che erano stati
mandati partirono e trovarono tutto come egli aveva detto loro. Mentre essi
slegavano il puledro, i suoi padroni dissero loro: «Perché slegate il puledro?»
Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». E lo condussero a Gesù; e, gettati
i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava
stendevano i loro mantelli sulla via. Quando fu vicino alla città, alla discesa
del monte degli Ulivi, tutta la folla dei discepoli, con gioia, cominciò a
lodare Dio a gran voce per tutte le opere potenti che avevano viste, dicendo: «Benedetto
il Re che viene nel nome del Signore; pace in cielo e gloria nei luoghi
altissimi!». Alcuni farisei, tra la folla, gli dissero: «Maestro, sgrida i tuoi
discepoli!» Ma egli rispose: «Vi dico che se costoro tacciono, le pietre
grideranno». Quando fu vicino, vedendo la città, pianse su di essa, dicendo: «Oh
se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace! Ma ora è nascosto
ai tuoi occhi. Poiché verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici ti
faranno attorno delle trincee, ti accerchieranno e ti stringeranno da ogni
parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te
pietra su pietra, perché tu non hai conosciuto il tempo nel quale sei stata
visitata» (Luca 19,28-44)
Come
forse avete capito, io vorrei provare a restituire, con l’aiuto della Parola
appena letta, il suo significato più profondo al termine “Pace”. I nostri
cuori, e il mondo che ci circonda, molto spesso non sono in pace.
Certo,
il termine “pace” non indica una realtà così precisa e dai contorni
così ben definiti, da escludere nettamente zone di valori limitrofi. È difficile
tracciare la linea di demarcazione che distingue l’area della pace da quella
propria della libertà, o della giustizia, o della comunione, o del perdono, o
dell’accoglienza, o della verità. Con
tutti questi valori la pace ha sicuramente stretti rapporti di consanguineità.
Ma
ciò che crea problemi, invece, è quella terribile operazione di contrabbando
secondo cui si espongono nella medesima vetrina, magari con la medesima
etichetta, prodotti completamente diversi. Diciamocelo francamente: la pace la
vogliono tutti, anche i criminali; e nessuno è così spudoratamente perverso, da
dichiararsi amante della guerra. Ma la pace di una lobby di sfruttatori è la
stessa perseguita dagli oppressi? La pace delle multinazionali coincide con
quella dei salariati sotto costo? La pace voluta dai dittatori si identifica
con quella sognata dai perseguitati politici? E a livello personale: la pace
che chiediamo alla nostra esistenza è solo una tranquilla inerzia o è impegno
quotidiano verso noi stessi e verso le persone che frequentiamo nei nostri
ambienti? La pace del nostro cuore è assenza di emozioni o un sentimento di
gioia per la vita?
È
necessario evitare il rischio di pericolose contraffazioni. È indispensabile,
almeno per noi credenti, fissare dei criteri sulla cui base selezionare il
genere di pace per il quale valga la spesa di impegnarsi in una scommessa.
Dire
che la pace è un dono di Dio sta diventando purtroppo uno slogan pronunciato da
noi cristiani senza molta convinzione e usato come formula di maniera. Tutto
sommato, all’atto pratico facciamo affidamento più sulle mediazioni
diplomatiche che sull’implorazione, più sulla bravura delle cancellerie della
terra che sulla forza della preghiera, più sulle nostre abilità che sulla
perenne fedeltà del nostro Signore.
Preghiamo,
questo sì, per la pace. Ma considerare la pace come acqua ricavata dai nostri
pozzi è un tragico errore di prospettiva. Quando, nella nostra riflessione
personale e in quella delle nostre comunità, si riuscirà a scoprire che le
fondamenta della pace sono nella croce del Risorto?
Certo,
la pace è innanzitutto dono di Dio ma questo non significa che la pace proviene
miracolosamente dal Cielo. Occorre scongiurare quel fatalismo che fa ritenere
inutili, se non addirittura controproducenti, le scelte di campo, le prese di
posizione, le decisioni coraggiose, le testimonianze audaci, i gesti profetici.
È un “bluff” limitarsi a chiedere la pace in chiesa, e poi non
muovere un dito per denunciare la corsa alle armi e la militarizzazione della
nostra società (la “legittima difesa” …). Bisogna smascherare la logica di
guerra sottesa a tante scelte pubbliche e private (“la difesa del mio
territorio, della mia cultura, del mio …” e avere il coraggio di indicare nelle
leggi dominanti di mercato i focolai della violenza.
Come
cristiani, messaggeri della pace, la Parola ci sprona ad accelerare
l’accoglimento di criteri che favoriscano un nuovo ordine economico
internazionale, a tracciare i percorsi concreti di una educazione autentica
alla pace, nel nostro cuore, nelle nostre famiglie, negli ambienti di lavoro.
Per esporsi, magari anche con i segni paradossali ma eloquenti, del perdono,
dell’accoglienza, della fiducia nell’uomo.
La
Bibbia allude spesso ad abbracci tra pace e giustizia. Dice Isaia al capitolo
32: “Frutto della giustizia sarà la pace
e l’azione della giustizia, tranquillità e sicurezza per sempre. Il mio popolo
abiterà in un territorio di pace, in abitazioni sicure, in quieti luoghi di
riposo”.
E
il salmo 85, al versetto 10: “La bontà e
la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate”.
Persino si baciano la pace e la giustizia!
È
una scoperta biblica, tutto sommato recente, questa del legame esistente tra
pace e giustizia. Pace, sì. Ma che c’entrano i 50 milioni di esseri umani che
muoiono ogni anno per fame? Sulla pace non si discute. Ma che cosa hanno da
spartire con essa i discorsi sulla massimizzazione del profitto? La pace, va
bene. Ma non sa di demagogia chiamare in causa, ad ogni giro di boa, le
divaricazioni esistenti tra Nord e Sud della terra? Pace, d’accordo. Ma è
proprio il caso di tirare in ballo la ripartizione dei beni, o i debiti del
terzo mondo, o le manipolazioni delle culture locali, o lo scempio della
dignità dei poveri?
Attenzione!
È in atto una campagna “soft” che spinge pace e giustizia alla
“separazione legale”, con espedienti che si vestono di ragioni
morali, ma camuffano il più bieco dei sacrilegi. Sentite ancora Isaia, sempre
al capitolo 32: “In noi sarà infuso uno Spirito dall’alto. Allora il deserto
diventerà un giardino…e la giustizia regnerà nel giardino…e frutto della
giustizia sarà la pace“.
Il
coraggio della riconciliazione, la non-violenza, il desiderio di relazioni
autentiche con tutti, questa è la strada che Gesù Cristo ci ha indicato senza
equivoci. Il grande esodo che oggi ciascuno di noi singolarmente e tutti
insieme come comunità cristiane siamo chiamati a compiere è questo: abbandonare
i recinti di sicurezza garantiti dalla forza per abbandonarsi, sulla parola del
Signore, alla apparente inaffidabilità dell’amore, che tutto accoglie e tutto
trasforma.
Il
grande teologo protestante Bonhoeffer parlava di “grazia a caro prezzo“.
Forse è ora che ci abituiamo a pensare che anche la pace ha dei costi
altissimi. Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di
lacrime, di incomprensione e di sangue. “Beati gli operatori di pace, perché
saranno chiamati figli di Dio”, dice Gesù. Operatori, non semplici uditori. La
pace va messa in atto, va operata tutti i giorni, e come cristiani dobbiamo
avere la fierezza di annunciare, senza sfumature, e di praticare, il vangelo
della pace e la prassi della nonviolenza. È chiaro che se, invece che fare
ammutolire i potenti, ammutoliamo noi, ci rendiamo complici rassegnati della
volontà di predominio di questo mondo.
Sempre
Bonhoeffer diceva che bisogna “osare la
pace per fede”. Noi cristiani non possiamo perseguire una pace frutto solo
della prudenza umana, della saggezza della carne, dei sillogismi della ragione,
dei calcoli prodotti dalle nostre paure. La pace va “osata” sulla parola di
Cristo, non “calcolata” dai nostri equilibri. La pace deve continuamente tenere
i conti aperti. Con la stoltezza della Croce che provoca il sorriso dei dotti.
Con la debolezza della Parola di Dio che suscita le preoccupazioni dei
prudenti. Con il “linguaggio non suggerito da sapienza umana” (si dice nella
prima lettera ai Corinti) che genera il compatimento dei devoti e
l’indifferenza della massa.
La
pace è una meta sempre intravista, e mai pienamente raggiunta. La sua corsa si
vince sulle tappe intermedie, e mai sull’ultimo traguardo. Esisterà sempre un
“gap” tra il sogno cullato e le realizzazioni raggiunte. Ma chi è convinto che la pace è un bene la
cui interezza si sperimenterà solo nello stadio finale del Regno, troverà nuovi
motivi per continuare la corsa anche nella situazione di scacco permanente in
cui è tenuto dalla storia.
Coraggio,
allora! Nonostante le nostre esperienze frammentate di pace, in noi stessi e
tra di noi, scommettiamo su di essa, perché ciò significa scommettere
sull’uomo. Anzi, sull’Uomo nuovo. Su Cristo Gesù: egli è la nostra Pace, come
abbiamo lettera nella lettera agli Efesini. E lui non delude. Del resto anche
lui, finché staremo sulla terra, sarà sempre per noi un Ospite velato. Faremo
di lui un’esperienza incompleta, e i suoi passaggi li scorgeremo solo
attraverso segni da interpretare e orme da decifrare. Faccia a faccia, così
come egli è, lo vedremo solo nei chiarori del Regno di Dio.
Ricordiamoci
la pace che Gesù è venuto a realizzare, come si dice nel vangelo di Giovanni: “Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non
vi do come il mondo dà”. Se noi
sapessimo, almeno oggi, ciò che occorre per la nostra pace, così come Gesù
diceva di Gerusalemme: “Se tu sapessi,
almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace!”. Solo osservando Gesù lo sappiamo. Seguendo i
suoi passi possiamo essere portatori di pace. Mettendo in atto le sue parole,
la profezia della nuova Gerusalemme, città della pace, potrà realizzarsi, come
si dice nel libro dell’Apocalisse: “E
vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio,
pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Dio abiterà con loro, essi
saranno suoi popoli ed egli stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli
asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né
cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate”.
Alla vigilia della Pasqua di Gesù, Dio ci doni la sua pace. AMEN
Fabio Barzon