LA CRUDELTA’ DELLA CROCE

Mt 27,31-50
Il brano che abbiamo letto è pregno di drammaticità e di dolore. Siamo nel quadro della passione e crocifissione di Gesù, un fatto di una crudezza straziante: un innocente arrestato, deriso, processato e alla fine inchiodato su di una croce, con davanti a sé un’unica speranza: che la morte giunga presto per porre fine al dolore.
Forse siamo troppo abituati a vedere le varie raffigurazioni che nel tempo sono state fatte della crocifissione di Gesù, ma non per questo non possiamo non accorgerci di quali crudeltà abbia saputo partorire la mente umana. E non possiamo nemmeno dimenticare che una tale atrocità è stata perpetrata con la scusante di un ideale di giustizia, di rispetto della religione, di garanzia dell’ordine sociale.
Tutto ciò sarebbe già molto grave, ma purtroppo nei secoli sono continuati altri strazi simili e drammaticamente continuano ancor oggi. Pensiamo ai roghi, alle persecuzioni dei valdesi, ai forni crematori dell’olocausto, alle guerre condotte con le armi più sofisticate o con lo spargimento di prodotti chimici capaci di uccidere migliaia di persone o di ferire i loro corpi in maniera indelebile e irreversibile, oppure pensiamo al fatto di sapere e fare poco o nulla nel lasciare che uomini, donne e bambini muoiano in mare. E il tutto è stato e viene fatto il più delle volte con motivazioni che appaiono insostenibili per il prezzo di morte che chiedono.
Da credenti cristiani avremmo voluto che quella di Gesù fosse stata l'ultima condanna a morte, l'ultimo frutto avvelenato del peccato che invade la mente umana. Invece gli strumenti di morte, più o meno sofisticati, più o meno giustificati da chi li impiega, continuano ad imperare sulla scena della storia. Di fronte a Gesù crocifisso tutti dovrebbero dire “basta alle uccisioni”, ma quel “basta!” dura solo fino alla prossima guerra, al successivo fatto di sangue per annientare nemici veri o presunti, al prossimo fatto di sangue anche per coloro che si professano cristiani, come accade nelle faide di mafia e camorra.
Gesù che muore in croce smaschera la ferocia delle menti che macchinano violenza, divisione e guerra; smaschera i sistemi di governo del mondo, siano essi politici, militari o semplicemente culturali e religiosi che elaborano sempre nuove divisioni e nuove guerre.
La croce di Gesù smaschera la violenza insita persino nella religione, qualsiasi essa sia. La religione col suo rituale sacrificale vuole vittime: tori, agnelli, colombi, ma poi queste vittime del sacrificio non bastano più, ma tanto a morire sono i cosiddetti nemici da annientare e coloro che muoiono “dalla parte giusta” sono invece martiri di scellerate scelte di altri, martiri che vengono immolati per alzare il valore del sacrificio, affinché appaia sempre più meritorio agli occhi del dio o dell’idolo di turno, dell’ideologia politica ed economica perversa che non consente di dare il giusto valore alla vita umana.
Pensiamoci bene: è una vera e propria aberrazione!
Di fronte alla croce di Gesù ogni religione che non depone la propria violenza è una religione che continua a crocifiggere quel Gesù che dice di onorare e adorare.
Gesù che muore in croce non può andare di pari passo con la benedizione delle armi o degli eserciti, con la sostanziale complicità e/o indifferenza per le vite che vengono stroncate.
Di fronte alla crudeltà della croce di Cristo e delle croci di altri esseri umani dovremmo dire, come individui e come chiesa, BASTA!  Basta alle morti, basta alle discriminazioni che causano conflitti e morte, basta alle armi, basta a sacrifici inutili, basta a scontri di religione (veri o presunti), basta a scelte politiche, economiche e culturali che diffondono falsità sul prossimo e che possono solo alimentare la violenza e i pregiudizi fondati quasi sempre sull’ideologia e sull’ignoranza.
L'unica parola che un cristiano deve pronunciare di fronte alla crudeltà della croce è quindi un chiaro NO alla violenza e un altrettanto chiaro SÌ all’amore e alla solidarietà.
Il Cristo che muore in croce, il Figlio di Dio immolato per il riscatto dell’uomo, non solo ci costringe a denunciare la violenza, ma ci suggerisce pensieri ben più alti. A noi, come singoli e come chiese, spettano quindi le azioni conseguenti, le denunce che vanno fatte ad alta voce, fuori dal chiuso delle nostre case e delle nostre chiese e, se necessario, fuori dal coro, senza timori di essere derisi. AMEN
Liviana Maggiore
 

PARLIAMO DI PACE

Un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario. Sì, perché oggi le parole sono diventate così “multiuso”, che non puoi più giurare a occhi bendati sull’idea che esse sottendono. Anzi, è tutt’altro che rara la sorpresa di vedere accomunate accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo.

Guaio, del resto, che è capitato soprattutto ai termini più nobili; alle parole di serie A; a quelle, cioè, che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà. A dire il vero, per quel che riguarda la pace, pare che questa “sindrome dei significati stravolti” fosse presente anche nei tempi remoti, se è vero che perfino in un salmo della Bibbia troviamo denunce del genere: “essi dicono pace, ma nel loro cuore tramano la guerra“.

Luca, unico tra gli evangelisti, ci presenta ravvicinati il duplice volto, prima splendente, poi deturpato, della pace. Lo fa raccontandoci l’arrivo di Gesù, dopo tanto peregrinare, a Gerusalemme.  La parola “Gerusalemme” è un termine composto probabilmente anche dal termine salem-shalom – pace; ed infatti l’autore della lettera agli Ebrei, al capitolo 7, chiama Gerusalemme “la città della pace”.

Luca ci mostra prima l’ingresso di Gesù, con la folla festante che acclama la pace, nella città santa, e subito dopo le lacrime proprio di Gesù sulla stessa città, che non comprende le vie della pace.  Ascoltiamo:

Dette queste cose, Gesù andava avanti, salendo a Gerusalemme. Come fu vicino a Betfage e a Betania, presso il monte detto degli Ulivi, mandò due discepoli, dicendo: «Andate nella borgata di fronte, nella quale, entrando, troverete un puledro legato, su cui non è mai salito nessuno; slegatelo e conducetelo qui da me. Se qualcuno vi domanda perché lo slegate, direte così: “Il Signore ne ha bisogno”». E quelli che erano stati mandati partirono e trovarono tutto come egli aveva detto loro. Mentre essi slegavano il puledro, i suoi padroni dissero loro: «Perché slegate il puledro?» Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». E lo condussero a Gesù; e, gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava stendevano i loro mantelli sulla via. Quando fu vicino alla città, alla discesa del monte degli Ulivi, tutta la folla dei discepoli, con gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutte le opere potenti che avevano viste, dicendo: «Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in cielo e gloria nei luoghi altissimi!». Alcuni farisei, tra la folla, gli dissero: «Maestro, sgrida i tuoi discepoli!» Ma egli rispose: «Vi dico che se costoro tacciono, le pietre grideranno». Quando fu vicino, vedendo la città, pianse su di essa, dicendo: «Oh se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi. Poiché verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti accerchieranno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché tu non hai conosciuto il tempo nel quale sei stata visitata» (Luca 19,28-44)

Come forse avete capito, io vorrei provare a restituire, con l’aiuto della Parola appena letta, il suo significato più profondo al termine “Pace”. I nostri cuori, e il mondo che ci circonda, molto spesso non sono in pace.

Certo, il termine “pace” non indica una realtà così precisa e dai contorni così ben definiti, da escludere nettamente zone di valori limitrofi. È difficile tracciare la linea di demarcazione che distingue l’area della pace da quella propria della libertà, o della giustizia, o della comunione, o del perdono, o dell’accoglienza, o della verità.  Con tutti questi valori la pace ha sicuramente stretti rapporti di consanguineità.

Ma ciò che crea problemi, invece, è quella terribile operazione di contrabbando secondo cui si espongono nella medesima vetrina, magari con la medesima etichetta, prodotti completamente diversi. Diciamocelo francamente: la pace la vogliono tutti, anche i criminali; e nessuno è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante della guerra. Ma la pace di una lobby di sfruttatori è la stessa perseguita dagli oppressi? La pace delle multinazionali coincide con quella dei salariati sotto costo? La pace voluta dai dittatori si identifica con quella sognata dai perseguitati politici? E a livello personale: la pace che chiediamo alla nostra esistenza è solo una tranquilla inerzia o è impegno quotidiano verso noi stessi e verso le persone che frequentiamo nei nostri ambienti? La pace del nostro cuore è assenza di emozioni o un sentimento di gioia per la vita?

È necessario evitare il rischio di pericolose contraffazioni. È indispensabile, almeno per noi credenti, fissare dei criteri sulla cui base selezionare il genere di pace per il quale valga la spesa di impegnarsi in una scommessa.

Dire che la pace è un dono di Dio sta diventando purtroppo uno slogan pronunciato da noi cristiani senza molta convinzione e usato come formula di maniera. Tutto sommato, all’atto pratico facciamo affidamento più sulle mediazioni diplomatiche che sull’implorazione, più sulla bravura delle cancellerie della terra che sulla forza della preghiera, più sulle nostre abilità che sulla perenne fedeltà del nostro Signore.

Preghiamo, questo sì, per la pace. Ma considerare la pace come acqua ricavata dai nostri pozzi è un tragico errore di prospettiva. Quando, nella nostra riflessione personale e in quella delle nostre comunità, si riuscirà a scoprire che le fondamenta della pace sono nella croce del Risorto?

Certo, la pace è innanzitutto dono di Dio ma questo non significa che la pace proviene miracolosamente dal Cielo. Occorre scongiurare quel fatalismo che fa ritenere inutili, se non addirittura controproducenti, le scelte di campo, le prese di posizione, le decisioni coraggiose, le testimonianze audaci, i gesti profetici. È un “bluff” limitarsi a chiedere la pace in chiesa, e poi non muovere un dito per denunciare la corsa alle armi e la militarizzazione della nostra società (la “legittima difesa” …). Bisogna smascherare la logica di guerra sottesa a tante scelte pubbliche e private (“la difesa del mio territorio, della mia cultura, del mio …” e avere il coraggio di indicare nelle leggi dominanti di mercato i focolai della violenza.

Come cristiani, messaggeri della pace, la Parola ci sprona ad accelerare l’accoglimento di criteri che favoriscano un nuovo ordine economico internazionale, a tracciare i percorsi concreti di una educazione autentica alla pace, nel nostro cuore, nelle nostre famiglie, negli ambienti di lavoro. Per esporsi, magari anche con i segni paradossali ma eloquenti, del perdono, dell’accoglienza, della fiducia nell’uomo.

La Bibbia allude spesso ad abbracci tra pace e giustizia. Dice Isaia al capitolo 32: “Frutto della giustizia sarà la pace e l’azione della giustizia, tranquillità e sicurezza per sempre. Il mio popolo abiterà in un territorio di pace, in abitazioni sicure, in quieti luoghi di riposo”.

E il salmo 85, al versetto 10: “La bontà e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate”. Persino si baciano la pace e la giustizia!

È una scoperta biblica, tutto sommato recente, questa del legame esistente tra pace e giustizia. Pace, sì. Ma che c’entrano i 50 milioni di esseri umani che muoiono ogni anno per fame? Sulla pace non si discute. Ma che cosa hanno da spartire con essa i discorsi sulla massimizzazione del profitto? La pace, va bene. Ma non sa di demagogia chiamare in causa, ad ogni giro di boa, le divaricazioni esistenti tra Nord e Sud della terra? Pace, d’accordo. Ma è proprio il caso di tirare in ballo la ripartizione dei beni, o i debiti del terzo mondo, o le manipolazioni delle culture locali, o lo scempio della dignità dei poveri?

Attenzione! È in atto una campagna “soft” che spinge pace e giustizia alla “separazione legale”, con espedienti che si vestono di ragioni morali, ma camuffano il più bieco dei sacrilegi. Sentite ancora Isaia, sempre al capitolo 32: “In noi sarà infuso uno Spirito dall’alto. Allora il deserto diventerà un giardino…e la giustizia regnerà nel giardino…e frutto della giustizia sarà la pace“.

Il coraggio della riconciliazione, la non-violenza, il desiderio di relazioni autentiche con tutti, questa è la strada che Gesù Cristo ci ha indicato senza equivoci. Il grande esodo che oggi ciascuno di noi singolarmente e tutti insieme come comunità cristiane siamo chiamati a compiere è questo: abbandonare i recinti di sicurezza garantiti dalla forza per abbandonarsi, sulla parola del Signore, alla apparente inaffidabilità dell’amore, che tutto accoglie e tutto trasforma.

Il grande teologo protestante Bonhoeffer parlava di “grazia a caro prezzo“. Forse è ora che ci abituiamo a pensare che anche la pace ha dei costi altissimi. Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime, di incomprensione e di sangue. “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”, dice Gesù. Operatori, non semplici uditori. La pace va messa in atto, va operata tutti i giorni, e come cristiani dobbiamo avere la fierezza di annunciare, senza sfumature, e di praticare, il vangelo della pace e la prassi della nonviolenza. È chiaro che se, invece che fare ammutolire i potenti, ammutoliamo noi, ci rendiamo complici rassegnati della volontà di predominio di questo mondo.

Sempre Bonhoeffer diceva che bisogna “osare la pace per fede”. Noi cristiani non possiamo perseguire una pace frutto solo della prudenza umana, della saggezza della carne, dei sillogismi della ragione, dei calcoli prodotti dalle nostre paure. La pace va “osata” sulla parola di Cristo, non “calcolata” dai nostri equilibri. La pace deve continuamente tenere i conti aperti. Con la stoltezza della Croce che provoca il sorriso dei dotti. Con la debolezza della Parola di Dio che suscita le preoccupazioni dei prudenti. Con il “linguaggio non suggerito da sapienza umana” (si dice nella prima lettera ai Corinti) che genera il compatimento dei devoti e l’indifferenza della massa.

La pace è una meta sempre intravista, e mai pienamente raggiunta. La sua corsa si vince sulle tappe intermedie, e mai sull’ultimo traguardo. Esisterà sempre un “gap” tra il sogno cullato e le realizzazioni raggiunte.  Ma chi è convinto che la pace è un bene la cui interezza si sperimenterà solo nello stadio finale del Regno, troverà nuovi motivi per continuare la corsa anche nella situazione di scacco permanente in cui è tenuto dalla storia.

Coraggio, allora! Nonostante le nostre esperienze frammentate di pace, in noi stessi e tra di noi, scommettiamo su di essa, perché ciò significa scommettere sull’uomo. Anzi, sull’Uomo nuovo. Su Cristo Gesù: egli è la nostra Pace, come abbiamo lettera nella lettera agli Efesini. E lui non delude. Del resto anche lui, finché staremo sulla terra, sarà sempre per noi un Ospite velato. Faremo di lui un’esperienza incompleta, e i suoi passaggi li scorgeremo solo attraverso segni da interpretare e orme da decifrare. Faccia a faccia, così come egli è, lo vedremo solo nei chiarori del Regno di Dio.

Ricordiamoci la pace che Gesù è venuto a realizzare, come si dice nel vangelo di Giovanni: “Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà”.  Se noi sapessimo, almeno oggi, ciò che occorre per la nostra pace, così come Gesù diceva di Gerusalemme: “Se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace!”.  Solo osservando Gesù lo sappiamo. Seguendo i suoi passi possiamo essere portatori di pace. Mettendo in atto le sue parole, la profezia della nuova Gerusalemme, città della pace, potrà realizzarsi, come si dice nel libro dell’Apocalisse: “E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Dio abiterà con loro, essi saranno suoi popoli ed egli stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate”.

Alla vigilia della Pasqua di Gesù, Dio ci doni la sua pace. AMEN

Fabio Barzon

LEGALITA’ E TESTIMONIANZA

Diceva poi a tutti: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua.  Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per amor mio, la salverà.

Infatti, che serve all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde o rovina sé stesso?  Perché se uno ha vergogna di me e delle mie parole, il Figlio dell’uomo avrà vergogna di lui, quando verrà nella gloria sua e del Padre e dei santi angeli.

Ora io vi dico in verità che alcuni di quelli che sono qui presenti non gusteranno la morte, finché non abbiano visto il regno di Dio». (Luca 9,23-27)

Coloro che hanno ascoltato (o letto) le mie predicazioni sanno che rifiuto vigorosamente una visione doloristica del messaggio evangelico, perché ritengo che lo stesso sia invece un annunzio di gioia, un invito inoltre a non vivere in maniera personalistica ma di apertura verso l’altro, senza rinchiudersi nel proprio sentimento individuale, sia esso lieto o di sofferenza.

Ma allora, come interpretare questo passo dove SEMBRA che Gesù inviti il credente ad immolarsi, dove SEMBRA che al credente venga detto di soffrire per seguire il Signore (rif. “… prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”).

Non ho mai avuto simpatia per quei detti popolari che richiamano la croce come un dolore, una sventura, un simbolo di sofferenza. Li conosciamo: “ogni giorno ha la sua croce” oppure, in caso di eventi negativi che colpiscono la persona, “ha una croce da portare”.

Noi sappiamo bene che non ha significato interpretare la Scrittura in maniera letterale, perché nel corso del tempo la lingua cambia, i termini assumono altri significati, non previsti nel momento in cui chi li ha scritti li ha utilizzati.

Ad esempio, come ben noto nelle nostre chiese, sappiamo che il termine “protestante” che viene spesso interpretato con la connotazione negativa di “essere contro”, in realtà ha il significato di “affermare a favore” (dal latino pro-testare).  Ma perché questo discorso sull’etimologia delle parole?

Perché conoscere il significato “antico” dei termini ci consente di dare interpretazioni diverse anche ai passi biblici. Vediamo allora il passo di oggi.

Gesù dice: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua». E questa affermazione, questo imperioso invito, viene fatto appena dopo essersi palesato come il Cristo, il Figlio di Dio, il Messia che era atteso. E non è un caso che tutti e tre i vangeli sinottici riportino questo passo.

In questa affermazione di Gesù c’è il vigoroso invito a quella che chiamiamo la sequela, il seguirne gli insegnamenti, l’accoglimento senza titubanze della chiamata, della vocazione che ci viene rivolta.

Ma è interessante anche il contesto in cui vengono pronunciate queste parole. Il versetto precedente al passo che abbiamo letto ci riferisce la consapevolezza di Gesù per la sua sorte, predicendo la sua stessa morte, quella morte che avviene poi sulla croce (rif v. 22 «Bisogna che il Figlio dell’uomo soffra molte cose e sia respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, sia ucciso, e risusciti il terzo giorno»). È un lampante riferimento a quello che possiamo chiamare il “martirio” della croce, ma questa visione non è limitata alla sofferenza che si concentra sull’uccisione della persona, ma, se guariamo meno distrattamente noteremo anche le ultime parole del versetto, dove Gesù parla e preannuncia la sua resurrezione.

Se ci concentriamo sulla visione limitata della morte, si concede tutto ad una interpretazione doloristica che possiamo credere venga ribaltata su di noi, noi credenti cristiani.

Ma non è così, o almeno non è solo così.  E qui entra in ballo il significato delle parole che assumono valenze positive o negative in rapporto al contesto in cui vengono usate.

È vero che la croce per i cristiani diventa elemento di “martirio”, ma dobbiamo intendere martire nel senso originario del termine.  Originariamente il termine “martire” era diffuso soprattutto in ambito giuridico e stava a indicare un testimone che garantiva la verità degli avvenimenti e che normalmente prendeva le difese dell’accusato. Col tempo il termine è stato usato anche in ambito filosofico, di testimonianza della verità, e solo successivamente assume il significato di testimonianza di un avvenimento religioso di cui il credente, con la sua vita e la sua predicazione è testimone. E osserviamo che questo termine non è mai stato usato in ambito biblico (né giudaico, né cristiano) nel significato odierno di “testimonianza sino anche alla morte”, se non dopo la nascita del cristianesimo, con l’avvento delle persecuzioni.

La lettura dell’evento annunciato del martirio della croce, quindi non può prescindere dall’annuncio di ciò che accade il terzo giorno. Ecco allora che la croce non assume il significato unico di “patimento”, ma quello più importante di “segno di testimonianza”, appunto di “martirio” nel senso originario del termine.

Ecco allora che l’imperativo che rivolge Gesù sulla sequela è un invito vigoroso alla testimonianza, una testimonianza che deve essere realizzata dal singolo e dalla chiesa tutta, una testimonianza che i credenti in Cristo sono tenuti a dare sull’amore di Dio, fondamento del patto missionario.

Ma a chi è rivolto questo invito?  Per chi sono le parole che i tre evangelisti Marco, Matteo e Luca riferiscono?

Sicuramente a coloro che hanno udito direttamente le parole di Gesù, hanno potuto verificare il suo amore per la gente (per tutta la gente, non solo per i suoi seguaci, ma anche per coloro che non credevano in lui come Messia e che magari si rivolgevano a lui come ultimo appiglio nel dolore di fronte alla malattia o alla morte di un congiunto). Ma l’invito è rivolto anche a coloro che non lo hanno conosciuto se non attraverso le parole e i racconti dei suoi discepoli, di coloro che hanno testimoniato su ciò che egli era e, nel tempo quindi anche a noi, a noi che, come moltissimi altri nei secoli, abbiamo letto oppure abbiamo sentito raccontare le vicende di Gesù di Nazareth, colui che interpretiamo come il figlio di Dio fatto uomo per il riscatto dell’umanità.

Ecco allora che l’invito alla testimonianza arriva dritto dritto fino a noi, impegnandoci a non affermare solo a parole quello in cui diciamo di credere, impegnandoci a non vivere solo per noi stessi, perché “chi vorrà salvare la propria vita (leggi la SOLA propria vita) la perderà”.

Ma cosa c’entra la testimonianza con la domenica della legalità che celebriamo oggi?

Nel momento in cui accettiamo di essere seguaci di Cristo, sappiamo che il suo messaggio non riguarda il singolo, sappiamo che la dimensione di quella salvezza annunciata non è individuale, bensì collettiva e, per ciò stesso, la persona che intenda seguire gli insegnamenti evangelici non può rintanarsi nella propria individualità, ma deve uscire da sé stesso per giudicare con occhi non egoistici gli accadimenti che lo circondano, assumendo un ruolo di testimone non silenzioso di fronte al dilagare dell’ingiustizia, alla privazione dei diritti per coloro che calpestano assieme a noi il suolo di questa terra.

Se credo nella grazia di Dio, nella sua misericordia, nella sua giustizia, debbo essere consapevole che non sono solo io la persona chiamata a salvezza, ma sono anche gli altri. Ed ecco allora che il mio essere (inteso come corpo e spirito, senza alcuna dualità) che credo sia destinatario dell’amore di Dio, non può essere inteso come uno scrigno che contiene le sole mie emozioni ed i soli miei pensieri, ma deve diventare un unicum con gli altri, con coloro che con me sono figli e figlie del medesimo Padre.

In questa prospettiva, quindi, non posso come individuo o come chiesa tacere di fronte alle ingiustizie, girare il capo da un’altra parte per non vedere, non essere testimone che credere nella croce e nella resurrezione richiede l’affermazione che tutti gli esseri umani sono uguali, a prescindere dal colore della pelle, dalla provenienza geografica, dalle abitudini sociali, dai comportamenti sessuali o da chissà cos’altro ancora.

Tutti uguali, tutti con uguale dignità, tutti con i medesimi diritti, tutti degni di uguale rispetto.  E, in questo senso, a nulla valgono le pretese politiche e sociali che anche di recente abbiamo sentito affermare e a nulla valgono le banali idee di “proprietà” del nostro orticello, così come proclamate da coloro che dicono “padroni a casa nostra” o che giustificano mezzi eccessivi di difesa del proprio ambiente o che strumentalizzano e sfruttano illegalmente gli altri.

Nella domenica della legalità siamo tenuti a fare una seria riflessione come singoli e come chiesa sulla nostra vocazione e soprattutto sul nostro impegno affinché tutti gli uomini e le donne siano considerati uguali.

E se noi ci vergogneremo di affermare questo con parole e fatti, se ci vergogneremo di annunziare che il messaggio evangelico non attiene solo alla sfera spirituale e mistica, ma riguarda la vita stessa degli individui, se decideremo di indugiare all’immobilismo, preferendo magari la nostra dorata solitudine, cosa diremo quando Qualcun altro si vergognerà di noi?

A cosa varranno allora i nostri piccoli e grandi poteri dei quali ci inebriamo? A cosa serviranno perfino le nostre depressioni che ci fanno guardare solo al nostro ombelico? A cosa sarà servito girarci dall’altra parte di fronte a chi soffre per l’ingiustizia?

Che il Signore ci aiuti e ci ispiri per camminare sulle sue vie.

AMEN

Liviana Maggiore

DOCUMENTO DEL CONSIGLIO DEL VII CIRCUITO DELLA CHIESA EVANGELICA VALDESE-UNIONE DELLE CHIESE METODISTE E VALDESI IN ITALIA SUL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE (WORLD FAMILY CONGRESS)

Siamo donne cristiane che appartengono ad una chiesa evangelica da molti anni impegnata in un percorso di riflessione sul matrimonio, la famiglia, la genitorialità. Siamo chiamate dalla nostra fede ad essere testimoni dell’amore di Dio per ciascuno e ciascuna nella realtà sociale in cui viviamo e per questo vogliamo unirci alle tante voci che si sono levate per ribadire il rispetto dei diritti e delle libertà di tutte le persone e per prendere una posizione critica nei confronti del Congresso Mondiale delle Famiglie (World Family Congress) appena svoltosi a Verona.
Non condividiamo l’idea che la natura abbia assegnato a uomini e donne differenti destini sociali e diverse funzioni psichiche, identificando automaticamente per la donna un ruolo meramente riproduttivo e di cura. Rifiutiamo l’idea che il lavoro delle donne fuori dal contesto casalingo, il divorzio e la possibilità di abortire siano le cause del declino demografico di cui soffrono le società occidentali. Ribadiamo con forza, invece, l’arricchimento che proviene dal riconoscimento dei diritti civili a configurazioni familiari diverse dalla coppia eterosessuale unita in matrimonio.
Ci preoccupano in particolare il carattere ideologico e discriminatorio delle posizioni assunte dai partecipanti, sia uomini che donne, al Congresso Mondiale delle Famiglie, la violenza culturale insita nella mancata accettazione della diversità, il ritenere che esista un solo modello al quale tutti e tutte debbano aderire.
Scorgiamo in questa operazione mediatica il tentativo di imporre con la violenza, non tanto fisica quanto psicologica ed economica, posizioni anacronistiche che aprono scenari di schiavitù e asservimento che speravamo fossero ormai superati. Ci rendiamo conto che il non aver sufficientemente elaborato le responsabilità che alcune ideologie hanno avuto nella storia del nostro paese ha permesso alle stesse di ripresentarsi in modi tanto simili a quelli che i nostri nonni e le nostre nonne hanno combattuto e contro i quali hanno perso la vita. I diritti acquisiti dalle lotte dei nostri padri e delle nostre madri sono di nuovo contestati e messi in discussione da una parte della società che ha paura della diversità, in qualsiasi modo questa si esprima.
Forti dell’esperienza di tutte quelle donne e quegli uomini che, prima di noi, hanno saputo opporsi alla violenza con la forza dell’amore, continueremo la nostra testimonianza dell’amore di Cristo che ci chiama ad accogliere ed amare il prossimo, chiunque esso o essa sia.
Il Consiglio del VII Circuito