2. Aspettando Pentecoste

2. Dio entra nel nostro piccolo cuore

Riflessioni settimanali verso la Pentecoste a cura del teologo Paolo Ricca

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Cancellato il Sinodo 2020

Rinviata di un anno l’annuale assemblea delle chiese metodiste e valdesi

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Venite a fare colazione

Inizio questo giorno con gioia 
certo che sei con me in ogni passo del cammino,
certo che c’è uno scopo per ogni mio respiro,
certo che c’è una speranza, verso cui cammino.

Inizio questo giorno con fede:
Tu sei la forza da cui dipendo,
Tu sei l’amore che mi abbraccia e custodisce,
è la tua pace che calma la mia anima.

Inizio questo giorno lodando:
sono certo che il tuo Spirito
illumina il mio pensiero, ispira le mie parole, guida le mie azioni.
Spero che il mio pensiero, le mie parole e le mie azioni
possano essere testimonianza del tuo amore per l’umanità;
spero che la tua grazia, attraverso la mia testimonianza,
possa raggiungere altri cuori.
(J. Birch)

Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e due altri dei suoi discepoli era-no insieme. Simon Pietro disse loro: «Vado a pescare». Essi gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Uscirono e salirono sulla barca; e quella notte non presero nulla. Quando già era mattina, Gesù si presentò sulla riva; i discepoli però non sapevano che era Gesù. Allora Gesù disse loro: «Figlioli, avete del pesce?» Gli risposero: «No». Ed egli disse loro: «Gettate la rete dal lato destro della barca e ne troverete». Essi dunque la gettarono, e non potevano più tirarla su per il gran numero di pesci. Allora il discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!» Simon Pietro, udito che era il Signore, si cinse la veste, perché era nudo, e si gettò in mare. Ma gli altri discepoli vennero con la barca, perché non erano molto distanti da terra (circa duecento cubiti), trascinando la rete con i pesci.
Appena scesero a terra, videro là della brace e del pesce messovi su, e del pane. Gesù disse loro: «Portate qua dei pesci che avete preso ora». Simon Pietro allora salì sulla barca e tirò a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci; e benché ce ne fossero tanti, la rete non si strappò. Gesù disse loro: «Venite a fare colazione». E nessuno dei discepoli osava chiedergli: «Chi sei?» Sapendo che era il Signore. Gesù venne, prese il pane e lo diede loro; e così anche il pesce. Questa era già la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli, dopo esser risuscitato dai morti.
(Giovanni 21,2-14)

Vado a pescare… Veniamo anche noi con te.
Questa volta i discepoli sono tutti concordi: torniamo a lavorare.
E perché no? I discepoli devono lavorare, provvedere al loro mantenimento; non possono continuare a girovagare in attesa che qualcuno si occupi di loro: devono darsi da fare. Gesù è morto e risorto, ma non è con loro, non è più come prima, la loro vita deve continuare.
Lo capiamo bene noi che dopo due mesi cerchiamo di ritrovare quelle occupazioni, quei gesti, quella routine che bruscamente ci è stata tolta. È un modo per scacciare la paura, per incoraggiarsi e guardare al futuro con ottimismo; è un modo per mettere nella scatola dei brutti ricordi un periodo difficile, in cui ci siamo inaspettatamente sentiti impotenti, deboli, vittime. E quindi, sì, perché no? Torniamo a lavorare e riprendiamoci la nostra vita.
Eppure questa loro decisione ci mette a disagio. Mentre Pietro parla, sentiamo chiaramente in sottofondo il rammarico, la rassegnazione, la tristezza; e nelle parole dei suoi compagni traspaiono la stanchezza e lo smarrimento, il bisogno di recuperare un punto di riferimento, qualcuno che proponga e diriga il lavoro.
… e questo non lo capiamo! Com’è possibile che dopo gli eventi degli ultimi giorni, dopo aver vissuto l’emozione della Pasqua e aver visto il Cristo risorto, i discepoli tornino, come se niente fosse accaduto, alla loro vita di prima? Come possono farlo?
Forse come facciamo anche noi, anno dopo anno, ogni volta in cui, dopo aver ricordato la Pasqua, lasciamo che la nostra vita proceda nel solito modo; quando nonostante tutte le nostre riflessioni e convinzioni, lasciamo che la Parola di Dio resti solo parola e non le permettiamo di agire, non ci lasciamo coinvolgere e guidare dalla sua forza.
Dopo aver ricordato le tappe più importanti della salvezza operata da Dio per il suo popolo, vorremmo fare qualcosa in più provando a condividere con gli altri e le altre la gioia, la fiducia, la serenità che riceviamo dall’Evangelo… ma è difficile, non ci riusciamo, e allora come Pietro, ci accontentiamo del prima. Gesù è nato, ha condiviso la nostra esistenza, ci ha testimoniato l’amore di Dio morendo e risuscitando, possiamo sentire la sua presenza … ma tutto questo spesso rimane un’emozione, una disposizione spirituale, una consolazione interiore che non ha sbocco nella quotidianità. Nulla cambia.
Anzi, tutto sembra tornare indietro, al tempo in cui i discepoli erano semplici pescatori di pesci.
Li possiamo vedere mentre preparano la barca, la mettono in acqua e vi salgono cercando di recuperare quei gesti conosciuti, quei pensieri familiari, quelle attenzioni che da tempo avevano messo da parte.
Ma proprio nella ricerca del conosciuto, si accorgono che c’è qualcosa di diverso.
In loro? Nel mare? Nella barca? Forse non lo sanno neanche loro! Eppure quello che sapevano fare meglio, ciò a cui si erano dedicati per tutta la vita, quello in cui si rifugiano quando sono disorientati e bisognosi di sicurezza, proprio quello non funziona. Provano a pescare tutta la notte, ma non ne ricavano niente. La soddisfazione che si aspettavano di ricevere non arriva e con la delusione, lo sappiamo per esperienza, arrivano invece la rabbia e la tristezza.
Figlioli, avete del pesce?        Gettate la rete dal lato destro della barca e ne troverete.
Quanto può essere fastidioso che gli altri si accorgano di ciò che non riusciamo a fare… e lo è ancora di più se pretendono di correggerci, di insegnarci come farlo!
La frase di Gesù sembra quasi una presa in giro: destra o sinistra, cosa vuoi che cambi? Pesce non ce n’è!
Eppure le reti vengono buttate, forse più per sfida che per convinzione. E quando si riempiono di pesce, allora i discepoli riconoscono Gesù.
Non lo riconoscono dall’aspetto, nonostante fosse la terza volta che Gesù si presentava loro; non lo riconoscono dalla parola, una parola che voleva essere d’aiuto e invece viene compresa come una messa in discussione della loro competenza; non lo riconoscono dall’intenzione, dal voler condividere con loro un’esperienza negativa per redimerla… i discepoli lo riconoscono dal miracolo. Forse sono così chiusi nella delusione, nella frustrazione, nella poca fiducia nel futuro che li aspetta, che non riescono a vedere Dio se non in ciò che è fuori dalla loro esperienza, fuori da ciò che riguarda il loro mondo.
Venite a fare colazione.
Il Signore risorto non solo entra di nuovo e in modo deciso nella loro vita, ma li invita a condividerla nelle azioni più banali della quotidianità: prima pescare, ora fare colazione.
I discepoli non sono soli nel lavoro, non sono soli nel mangiare… non devono lavorare da soli e non devono neanche preparare loro la colazione.
Il Dio della creazione, dell’incarnazione, della resurrezione è anche il Dio della quotidianità. Quel mattino, quando i discepoli scendono dalla barca, si accorgono che Gesù ha già preparato la brace, il pesce sta cuocendo e il pane è già pronto.
Eppure Gesù chiede ai discepoli di portare un po’ del pesce che hanno pescato.
Dio potrebbe offrire tutta la colazione, ma preferisce condividere. Nel rapporto con Dio non esiste il mio e il tuo, ma il nostro: lui condivide ciò che possiede con noi, ma anche ci chiede di mettere a disposizione sua e degli altri ciò che noi possediamo, perché ogni cosa ci è donata da lui, dal suo amore… i discepoli hanno il pesce solo grazie all’intervento di Gesù.
La Pasqua è passata. Le nostre solite attività a poco a poco ricominceranno e anche noi cercheremo di ritrovare la nostra vita di prima. Ma oggi ci viene ricordato che Gesù ci si avvicina per condividere la nostra vita in ogni situazione, nell’emergenza come nella routine della quotidianità che tanto ci manca. Ci avvicina non per metterci in difficoltà, ma per accompagnarci nei successi, come nelle delusioni; ci indica i segni della sua presenza e del suo amore. E alla fine, per ognuno di noi, c’è l’invito: Venite a fare colazione: il pesce è sulla brace, il pane è pronto… mancate solo voi.
Avviciniamoci a Dio e gli uni e le une agli altri e alle altre, così come siamo, pronti a condividere ciò che abbiamo e ad accogliere ciò che ci viene offerto, per vivere insieme, con lui, la nostra vita. Amen.
(Past. Daniela Santoro)

Signore, salvaci da noi stessi.
Continuiamo a fare sempre le stesse cose,
aspettandoci risultati diversi:
abbiamo paura del nuovo e ci rifugiamo nel passato.
Signore, salvaci dal fare troppo.
Andiamo a pescare ogni giorno
e non ci accorgiamo che tu ci aspetti sulla spiaggia
e hai già preparato la colazione per noi.

Signore, salvaci dal fare troppo poco.
Ti diciamo che ti amiamo,
eppure spesso trascuriamo le tue pecore.
Signore, salvaci da noi stessi.
Aiutaci ad ascoltarti e a risponderti con gioia
quando ci dici: “Vieni e seguimi”.

(N. Decker, Preghiera sul cap.21 di Giovanni)

Aspettando Pentecoste

Il vento soffia

Riflessioni settimanali verso la Pentecoste a cura del teologo Paolo Ricca

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Tommaso

“Se non vedo e non tocco, non credo”

Per me è stato diverso, forse doveva esserlo.
Tutta la mia vita è stata la stessa,
la stessa di mio fratello gemello:
gli stessi vestiti, lo stesso primo giorno di scuola – in sinagoga,
lo stesso compleanno – spesso gli stessi regali…
anche lo stesso nome, se la gente ci confondeva.
Gesù è stata la prima persona che mi ha veramente trattato come un individuo.
Sapeva che cosa fosse importante per me. Sapeva che cosa mi rendeva me stesso.
Così forse, riflettendoci,
Gesù aveva le sue ragioni per incontrare gli altri discepoli quando io non c’ero.
Fu una settimana strana per me:
tutti parlavano di angeli e fantasmi, di corpi rubati, di viaggi e di pane spezzato…
non sapevo a cosa credere.
Avevo bisogno di vedere Gesù con i miei occhi e una settimana dopo lo feci.
Lui stava davanti a me e si rivolgeva proprio a me, a Tommaso,
invitandomi a toccarlo per assicurarmi che fosse in carne e ossa.
Per me è stato diverso, ma forse è diverso per tutti.
Gesù chiama ognuno di noi in modo diverso e ci invita nella sua vita risorta.
(R. Burgess)

Or Tommaso, detto Didimo, uno dei dodici, non era con loro quando venne Gesù. Gli altri discepoli dunque gli dissero: «Abbiamo visto il Signore!» Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato, io non crederò».
Otto giorni dopo, i suoi discepoli erano di nuovo in casa, e Tommaso era con loro. Gesù venne a porte chiuse, e si presentò in mezzo a loro, e disse: «Pace a voi!» Poi disse a Tommaso: «Porgi qua il dito e guarda le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente». Tommaso gli rispose: «Signor mio e Dio mio!» (Giovanni 20,24-28)

Se non vedo e non tocco, non credo”… e così Tommaso è diventato il diffidente per antonomasia, il credente imperfetto. Eppure, che cosa ha fatto Tommaso di diverso rispetto agli altri discepoli?
Alla notizia che il corpo di Gesù era sparito, Pietro e un altro discepolo corrono al sepolcro per verificare le parole di Maria: cercavano una prova!
Quando Gesù si mostra agli altri discepoli, non solo parla, ma fa vedere loro le mani e il costato: dà loro una prova!
Perché Tommaso dovrebbe credere senza condizioni ad un annuncio irrazionale, incredibile, solo per la parola di presunti testimoni? Perché noi dovremmo credere all’annuncio che da migliaia di anni ci raggiunge invitandoci a riporre la nostra fiducia nel Risorto?
Noi come Tommaso sperimentiamo tutta la difficoltà di comprendere e di vivere l’annuncio che ci è rivolto, quella Parola che non vuole solo essere presa in considerazione e ritenuta vera, ma pretende di rivoluzionare il nostro modo di pensare, di scegliere, di agire; una Parola che ci vuole cambiare mentre la ascoltiamo, che vuole formare la nostra identità ed esserne parte. Per questo non basta solo ascoltarla, abbiamo bisogno di incontrarla, di sperimentarla nel nostro mondo personale… ed è questo, in fondo, che chiede Tommaso.
Credere nella resurrezione di Gesù, significa dover reinterpretare tutta la sua esperienza con il Maestro, significa dover rivedere le sue convinzioni, rielaborare i suoi progetti…
“Se non vedo e se non tocco”… e quando Gesù si presenta di nuovo a tutti i discepoli riuniti, ci aspetteremmo, come si vede spesso nelle opere d’arte ispirate a questo racconto, che Tommaso metta il ditino nelle ferite. Ma questo non accade.
Tommaso vede e ascolta il Risorto, esattamente come hanno fatto gli altri discepoli una settimana prima, e dopo… si, c’è un dopo, Tommaso fa qualcosa che gli altri discepoli non hanno fatto, Tommaso adesso confessa la sua fede: “Signor mio e Dio mio!”. E con questo ha compiuto il suo personale cammino di fede. Il Risorto non è solo il maestro Gesù risuscitato, non è un Signore e un Dio qualsiasi; non è il Signore e il Dio delle persone che glielo hanno fatto conoscere. Il Risorto è il Signore e il Dio della sua vita, il Dio che lo ha raggiunto nel momento del dubbio, dell’incredulità, dell’inquietudine, donandogli la risposta di cui aveva bisogno; il Risorto è il Signore e il Dio di Tommaso.
Una sorella nella fede con cui pochi giorni fa ho scambiato alcune mail proprio su Tommaso (questo scritto nasce da questo dialogo), mi ha fatto riflettere sul nome di questo discepolo: Tommaso in aramaico, Didimo in greco, Gemello in italiano. Lei scrive: “anch’io sono gemella e per esperienza so che si ha a che fare con la ricerca continua della propria identità, con la ricerca dei particolari che ai più sfuggono, con tutto ciò che questa situazione comporta”.
Più che dubitare, Tommaso è in ricerca: l’aver conosciuto Gesù ha messo in questione la sua vita, le sue scelte, e sente che sta cambiando. Tommaso è pronto a seguire Gesù fino alla morte (Gv 11,16), ma ammette anche di non sapere dove Gesù vada e quale sia la via da seguire (Gv 14,5); sa che Gesù è risuscitato, ma che conseguenza ha questa informazione sulla sua vita, in che direzione lo porta?
Gesù sembra ascoltarlo, lo conosce e sa di che cosa lui abbia bisogno: eccolo lì, davanti a lui. E le sue parole, in questo contesto, non sono un rimprovero, sembrano più un incoraggiamento: Non essere incredulo, ma credente.
Come Filippo, quando proviamo a vivere la nuova realtà della fede nella concretezza della quotidianità, ci scopriamo sì credenti, ma anche in ricerca, con tutte le nostre domande, i nostri vorrei, potrei, non so, mi piacerebbe… perché la fede non è solo una bella e confortante frase da ricordare all’occorrenza, ma un invito a vivere in modo rinnovato la propria esistenza, ad essere persone nuove, che trovano nell’incontro con Dio la loro vera e profonda identità.
Per questo l’incredulità di Tommaso è una richiesta: poter incontrare anche lui il Risorto. In fondo, anche quando noi parliamo agli altri e alle altre del conforto, della consolazione, dell’accompagnamento, del perdono, dell’amore che riceviamo da Dio, lo diciamo sperando che la nostra esperienza possa diventare concretamente l’esperienza di chi ci ascolta, e quando questo accade, significa che Dio si è reso visibile e si è fatto incontrare, ha risposto personalmente… proprio come ha fatto con Tommaso.

(Past. Daniela Santoro)

Dio, ci troviamo in uno spazio liminale,
il caos e il disordine hanno confuso le nostre vite,
i nostri tempi, i nostri pensieri, le nostre abitudini.
Ma in questo spazio ci offri ancora un tempo
per incontrarti e ricevere la tua pace.
Ci sediamo con i discepoli sul divano, attorno al tavolo,
con le porte chiuse a chiave e aspettiamo,
intimoriti, sperduti.
Ma quando ti rendi presente,
il tuo spirito di pace riempie i nostri spazi angusti.
Raggiungici e incontraci oggi,
donaci la stessa parola di speranza che hai dato ai discepoli spaventati
quella sera di Pasqua di tanti anni fa,
rasserenaci e rallegraci.
Te lo chiediamo nel nome di tuo Figlio,
il nostro Salvatore risorto, Gesù Cristo. Amen.

(L. Grammer)