Sermone; PREDICAZIONE DI DOMENICA 4 NOVEMBRE – ROMANI 7, 14 – 25

PREDICAZIONE DI DOMENICA 4 NOVEMBRE – ROMANI 7, 14 – 25

“La legge del peccato”

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

Siamo di fronte a un passo impegnativo, complesso e anche profondamente pessimistico. L’argomentare di Paolo ha un andamento serrato, si sviluppa come una sorta di monologo interiore in cui l’apostolo si arrovella sulle mille sfaccettature di un dato di fatto molto semplice: la condizione di peccato, che è la condizione propria di ogni essere umano, sembra alla fine avere la meglio sul bene, che pure sussiste in ogni essere umano, a maggior ragione se questo essere umano è un credente in Dio.

Credo di non sbagliarmi troppo dicendo che il comune credente, il normale membro di chiesa che si confronti con questi versetti non per farne oggetto di studio biblico ma per lasciarsene coinvolgere, interpellare, prova un sentimento di rispettosa attenzione, ma al tempo stesso anche di estraneità. Facciamo fatica a riconoscerci nel tono drammatico, quasi disperato di Paolo. Per dirla tutta, ci sembra che l’apostolo carichi un po’ eccessivamente i toni. Siamo sinceri: chi di noi ha mai provato la sensazione lacerante di cui parla Paolo, la sensazione che la nostra personalità sia scissa in due: “io”, e “il peccato che abita in me”? Sì, qualcosa del genere l’abbiamo anche provato, qualche volta, ma in forma molto più blanda, molto meno tragica. Difficile, credo, che qualcuno di noi abbia mai percepito sé stesso come teatro di un conflitto all’ultimo sangue tra bene e male, tra legge di Dio e legge del peccato; che abbia mai sentito di trovarsi in una situazione senza sbocco, senza vie di uscita. Fin troppo spesso nel passato le chiese, in particolare quelle che si rifanno alla tradizione della Riforma hanno terrorizzato i fedeli e creato loro pesanti sensi di colpa con la loro insistenza sul peccato. E quando la gente viene terrorizzata non vive bene la propria fede, e non di rado finisce per abbandonare la chiesa, e anche ogni fede in un Dio visto come un essere esigente e sgradevole, un nemico nei confronti di quell’essere umano che pure è una sua creatura.

Se in queste considerazioni può esserci del vero, è altrettanto vero, direi, che attualmente anche tra i credenti si è enormemente affievolito il senso del peccato. Il passo sul quale stiamo riflettendo enuncia un concetto che è alla base della fede paolina e della fede cristiana tout court: l’incapacità dell’essere umano di compiere il bene contando solo sulle proprie forze. Ciò non significa che non ci sia speranza, che non ci sia liberazione. La situazione non è disperata, ma la speranza non viene da capacità umane; la liberazione arriva, ma non per intervento umano. Questo lo dichiara Paolo all’inizio del capitolo successivo: “la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8: 2). L’essere umano non può salvarsi da sé, è Dio che lo salva. Questo concetto sta alla base della fede cristiana; in particolare, è il nucleo del messaggio della Riforma, la quale altro non è se non un invito rivolto alla chiesa e a tutti i cristiani a riscoprire il nocciolo dell’Evangelo, lasciando cadere ogni tradizione, ogni dottrina che sia prodotto di invenzione umana. Lutero ha voluto richiamare la cristianità al cuore dell’Evangelo: la salvezza si ottiene per sola grazia, non mediante sforzi umani, sforzi destinati a fallire appunto perché l’essere umano, da sé, non arriva a compiere il bene: non può arrivarci, non ne ha le forze, non ne ha i mezzi. Era questo gioioso annuncio di libertà che un tempo in Europa occidentale, e anche in Italia, attirava verso il protestantesimo tanti cristiani inquieti. Cristiani che avevano profondo il senso del peccato, ma non potevano appagarsi di ciò che insegnava al riguardo la chiesa cattolica.

Anche adesso le chiese protestanti attirano interesse e consensi. Ma questa attrattiva non è dovuta a ciò che la Riforma insegna circa la natura umana decaduta a causa del peccato e circa l’azione salvifica della grazia. Altri sono gli aspetti delle chiese nate dalla Riforma che oggi suscitano l’apprezzamento e la stima di tante persone: le posizioni in materia di bioetica, in materia di morale sessuale, in materia di rapporti tra Stato e Chiesa. In questi ambiti, le chiese protestanti vengono ammirate perché appaiono al passo coi tempi, in grado di venire incontro alle esigenze degli uomini e delle donne del giorno d’oggi. Mi riferisco, naturalmente, alle chiese che appartengono al protestantesimo storico, come quella metodista e quella valdese; non alle cosiddette chiese libere, che in campo etico e politico hanno spesso posizioni molto conservatrici e tradizionaliste.

Come è stato rilevato all’ultimo Sinodo, le nostre chiese sono molto stimate per le loro posizioni in campo etico, sociale, politico, anche da cristiani di altra confessione o da persone indifferenti dal punto di vista religioso. Lo conferma l’incremento dell’8 per mille; lo conferma anche l’afflusso di pubblico allorché una delle nostre chiese organizza conferenze, dibattiti, incontri che toccano appunto i temi nevralgici di cui parlavo prima. Ma talvolta mi domando: se una delle nostre chiese provasse a organizzarlo, uno di questi incontri aperti al pubblico, sul tema del peccato come ineludibile condizione umana, sul tema della grazia divina come unica speranza di salvezza? Se si impegnasse, cioè, a un richiamo forte a quel tema che, ripeto, è non solo il cuore della Riforma, ma il cuore dell’Evangelo? Be’, sorelle e fratelli, non credo sia necessario un grande sforzo di immaginazione per prevedere che la sala resterebbe pressoché vuota, e i pochi posti occupati sarebbero tali grazie alla buona volontà e allo spirito di collaborazione di qualche membro di chiesa. Inutile nascondercelo: il problema del peccato, lungi dal suscitare gli interrogativi angosciosi che tormentavano Paolo, non è sentito, non interessa. Un esperto di marketing direbbe: non si vende. Una chiesa che voglia “vendersi” bene, dunque, è avvisata: eviti, per piacere, questi discorsi noiosi e fastidiosi che andavano bene per la chiesa delle origini, andavano bene per i secoli passati, non vanno più bene per i nostri tempi, quando i problemi sono altri.

Non vanno più bene, i problemi sono altri. Ma ne siamo proprio sicuri? Ho parlato di “problema del peccato”, dicendo che ai nostri contemporanei non interessa più. Messa così, la cosa è vera. Il fatto è che qui non è in gioco un astratto “problema del peccato”, non sono in gioco freddi discorsi teologici. Qui è in gioco una realistica, obiettiva conoscenza di sé stessi. Se solo riscoprissimo l’arte di far silenzio intorno a noi e in noi per guardare in profondità dentro di noi, comprenderemmo che il tormento di Paolo derivava dal fatto che l’apostolo aveva capito tutto. Aveva scoperto la verità su sé stesso e su ogni essere umano, quella stessa verità esposta senza addolcimenti, senza compromessi, nelle parole del salmo: “Ecco, io sono stato generato nell’iniquità, mia madre mi ha concepito nel peccato”. Duro? Sì, estremamente duro. Politicamente scorretto, potremmo dire. Esagerato? Se siamo onesti con noi stessi, la risposta è: no, qui non c’è alcuna esagerazione. L’essere umano non è libero di non peccare, in quanto, fin dall’inizio della sua storia, è separato da Dio. Questa è la radice del problema, dal quale derivano a cascata tutti gli altri “problemi”, anche quelli di natura etica, sociale, politica. Prendere coscienza di questo è l’unica via per cominciare a uscirne. Ma uscirne con quali mezzi? Non certo con i nostri mezzi umani, ma solo, come dice Paolo, “per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore”. E a chi insista: “e questo, in concreto, a me che cosa richiede?” risponderei con la parabola raccontata da Gesù a Pietro. A noi si richiede la consapevolezza di essere tutti accomunati nel peccato, tutti debitori impossibilitati a saldare il loro debito – se non in un unico modo, rimettendoci cioè i debiti l’uno con l’altro. È quello che ripetiamo ogni giorno nel Padre nostro, no? Non ci resta, allora, che andare, e metterlo in pratica.

Amen