Sermone: LA DOMENICA DELLE PALME – Quale fede?

Giovanni 12,12-19 – INGRESSO TRIONFALE A GERUSALEMME

Il giorno seguente, la gran folla che era venuta alla festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme, uscì a incontrarlo, e gridava: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!». Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, montato sopra un puledro d’asina!» I suoi discepoli non compresero subito queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui, e che essi gliele avevano fatte. La folla dunque, che era con lui quando aveva chiamato Lazzaro fuori dal sepolcro e l’aveva risuscitato dai morti, ne rendeva testimonianza. Per questo la folla gli andò incontro, perché avevano udito che egli aveva fatto quel segno miracoloso. Perciò i farisei dicevano tra di loro: «Vedete che non guadagnate nulla? Ecco, il mondo gli corre dietro!»

Quand’ero ragazzina, per alcuni periodi vivevo in una famiglia tedesca, di fede mista luterana e cattolica. Spesso nella nostra casa di Bolzano era ospite uno zio del mio padrino, un austero vescovo luterano, il quale però, pur se con fare molto serioso, parlava volentieri con me, trasgressiva e contestatrice adolescente, su argomenti di etica e religione.

Ricordo bene quegli incontri. Ma mi piace oggi ricordare una domenica delle palme, quando zio Karl mi aiutava ad addobbare l’albero di Pasqua. Sì, proprio l’albero di Pasqua che vedeva un fascio di rami di Kätzchen (germogli pelosetti di un tipo di salice, credo) dai quali pendevano uova che avevamo prima colorato. Tutto intorno al fascio di rami erano poste foglie di palma e il vaso veniva ricoperto con un sontuoso drappo rosso. Bellissimo.

Ebbene, mentre con calma addobbavamo il nostro Osterbaum, lo zio vescovo mi faceva riflettere sul significato di questa tradizione nordica che, come peraltro l’albero di Natale, aveva origini pagane ma era stata assunta con significati religiosi. I nuovi germogli delle piante rappresentavano la rinascita primaverile, certo, ma simboleggiavano anche la grande rinascita del genere umano data dalla resurrezione di Cristo che si festeggia con la Pasqua. E le foglie di palma e il drappo rosso riportavano alla mente l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, con la gente che lo segue cantando “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” e che stende a terra i mantelli al suo passaggio.

Fin qui tutto bene e logico, ma ….. le uova? Lo zio mi disse che le uova erano un cibo povero, semplice, e rappresentavano quindi l’assoluta semplicità di questo Signore che, pur avendo la consapevolezza di essere il figlio di Dio, non entrava in Gerusalemme come un condottiero su un prestigioso destriero, ma vi entrava a cavallo di un asino, una cavalcatura che era a disposizione anche di coloro che non vantavano un alto rango sociale.

Certo, l’umile animale però non era stato scelto solo per dimostrare uno spirito semplice e povero, ma era il chiaro segno che Gesù voleva dare alla gente che attendeva il Messia e che magari ricordava quanto detto dal profeta Zaccaria: “Esulta grandemente, o figlia di Sion, manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme; ecco, il tuo re viene a te; egli è giusto e vittorioso, umile, in groppa a un asino, sopra un puledro, il piccolo dell’asina” (Zac 9,9).

Ma sui passi che abbiamo letto di Matteo e Giovanni dobbiamo fare ancora due considerazioni e credo sia doveroso per noi riflettere sulla nostra posizione.

1 – In Matteo ci viene detto che Gesù manda due discepoli a cercare il puledro d’asina e loro hanno bisogno di rassicurazione (“Se qualcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà”) e Giovanni dice chiaramente che “i suoi discepoli non compresero subito queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui”. Quindi non dobbiamo pensare che tutti avessero bene a mente la profezia di Zaccaria, tant’è che Giovanni stesso ci riferisce che la folla che gli fa festa lo fa perché ricorda i suoi prodigi e, nello specifico, la resurrezione di Lazzaro.

Direi che anche noi, come i discepoli e come la folla, troppo spesso ci dimentichiamo delle promesse del Signore, così come molti di coloro che lo seguivano si erano dimenticati della profezia del riscatto.

Ma spesso noi, che abbiamo ricevuto anche le testimonianze del Nuovo Testamento, ci dimentichiamo delle promesse del Signore, dei suoi insegnamenti, e magari per credere vorremmo vedere eventi prodigiosi, miracoli, manifestazioni eclatanti, quasi che non li avessimo costantemente sotto gli occhi se solo imparassimo a guardare la nostra esistenza con gli occhi della fede.

2 – Un’altra considerazione va fatta per i farisei. A dispetto dei connotati negativi attribuiti nel linguaggio comune odierno, va detto che i farisei erano profondamente credenti e molto legati alle Scritture. Tuttavia il loro essere ligi alla religione li portava ad essere una setta che predicava e praticava un eccessivo rigore formalista nell’osservanza della tradizione mosaica e della legge giudaica.

Da qui le loro espressioni di scherno. Da qui i vari episodi che troviamo nei vangeli, dove i farisei ci vengono presentati come coloro che vogliono provocatoriamente mettere alla prova Gesù, ponendogli domande che vorrebbero metterlo in difficoltà.

Ho molto rispetto per i farisei, perché comprendo bene che il messaggio di Gesù era certamente destabilizzante per l’ordine costituito ed inoltre costringeva (e costringe ancor oggi) le genti ad abbandonare le loro certezze consolidate per entrare in una dimensione dove non tutto può essere conosciuto, dove non tutto può essere provato, dove non c’è alcuna certezza “materiale e terrena” che conforti un atteggiamento di completa fiducia in un Signore che non vediamo, un Signore al quale dobbiamo affidarci per fede.

E allora mi chiedo e, sorelle e fratelli, faccio anche a voi la stessa domanda: “Ma la mia fede, la nostra fede, è veramente tale? Oppure, soprattutto se non coltivata con la lettura della Parola e con la preghiera, diventa un baluardo, una sovrastruttura culturale che ci deriva dalla nostra tradizione, una buona scusa per discriminare ciò che per noi è giusto o ingiusto, ma non è il faro illuminante della nostra vita.

Qualche giorno fa un giovane che frequenta anche la nostra chiesa mi scriveva che talvolta non sa se ha fede, oppure se il sentimento che pova è invece una speranza per affrontare la paura del domani, l’incertezza della vita. Io gli ho risposto che certamente la speranza è frutto anche della fede, ma non certo la speranza per lenire le nostre paure, perché la fede ha una valenza ancora diversa. La fede è quella che nel momento delle prove difficili, oppure nel momento in cui possiamo pensare di essere arrivati al termine della nostra corsa terrena, ci fa dire serenamente “Signore, sia fatta la tua volontà, anche se non comprendo. Signore, nelle tue mani affido tutto me stesso”.

E quindi, sorelle e fratelli, nel fondo del cuore, nel segreto della nostra casa, ci chiediamo mai se la fede in Colui in cui diciamo di credere fa sì che siamo disposti ad abbandonarci completamente alla Sua volontà, a vivere secondo i Suoi insegnamenti, a non temere la morte perché siamo certi che ci sarà una Pasqua anche per noi?”

Domande importanti e profonde, che non possono avere in risposta un atteggiamento farisaico, più legato al fare che all’essere.

AMEN

Liviana Maggiore