Sermone: NON SI COSTRUISCE SENZA PRIMA AVER ABBATTUTO

Geremia 1,4-10

4 La parola del SIGNORE mi fu rivolta in questi termini: 5 «Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni». 6 Io risposi: «Ahimè, Signore, DIO, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo». 7 Ma il SIGNORE mi disse: «Non dire: “Sono un ragazzo”, perché tu andrai da tutti quelli ai quali ti manderò, e dirai tutto quello che io ti comanderò. 8 Non li temere, perché io sono con te per liberarti», dice il SIGNORE. 9 Poi il SIGNORE stese la mano e mi toccò la bocca; e il SIGNORE mi disse: «Ecco, io ho messo le mie parole nella tua bocca. 10 Vedi, io ti stabilisco oggi sulle nazioni e sopra i regni, per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare».

In questa seconda domenica d’avvento ci arriva dai testi che abbiamo letto, una richiesta importante: metterci in ascolto obbediente, perché siamo conosciuti dal Signore, siamo conosciuti sin dal grembo materno, ed Egli ha un incarico da affidarci, un compito, ci indica una strada da seguire e forse si tratta di un percorso molto facile, oppure molto impegnativo o addirittura pericoloso, come quello che è toccato a Geremia, ma non dobbiamo temere. Anche se ci sentiamo troppo minuscoli per affrontare il nostro compito, il Signore è con noi e non ci abbandona.

Cerchiamo dunque di capire quale rapporto possa esserci tra la nostra storia personale, di uomini e donne del XXI secolo, e quella di Geremia, un profeta antico, la cui vicenda può sembrarci epica, qualcosa che oggi non ha più nulla da dirci, se non in termini molto simbolici. Così come presto, tra un paio di settimane, saremo chiamati a metterci in discussione di fronte alla storia di un piccolo bambino nato in una grotta, o in una stalla, alla periferia di Betlemme.

Tutti i profeti hanno vissuto in situazioni difficili, ma Geremia ha dovuto svolgere il suo ministero profetico in un periodo storico particolarmente drammatico. Il regno settentrionale d’Israele non esisteva già più da parecchio e la sua capitale, Samaria, era occupata dagli Assiri. Ma anche il regno del Sud aveva perso la sua autonomia diventando stato vassallo dell’Assiria. Gli assiri erano stati presto sostituiti dai babilonesi, guidati dal famoso Nabucodonosor che era entrato in Gerusalemme e aveva operato una prima deportazione. Nonostante i ripetuti inviti di Geremia, che aveva iniziato il suo ministero poco prima, Gerusalemme si era ribellata ai babilonesi. Nabucodonosor era quindi tornato e dopo un lungo assedio era entrato a Gerusalemme e l’aveva distrutta. Gli israeliti vennero deportati in massa in Babilonia. Gerusalemme e il tempio furono distrutti, la terra promessa occupata e martoriata, nulla sembrava più essere come avrebbe dovuto. Già prima della disfatta il popolo aveva cominciato ad allontanarsi dalla propria fede e si era lasciato contaminare da altri culti più facili. Sì, più facili, perché si trattava di culti che promettevano ricchezza, bellezza, fertilità… Culti che in cambio della devozione sembravano dare agli uomini e alle donne quello che maggiormente essi desiderano: la facile felicità. Chi di noi non la vorrebbe? Chi di noi in fondo non sarebbe disposto a rinunciare alla propria spiritualità, alla propria fede, se gli venisse promessa la felicità? Il raggiungimento dei propri sogni? Non facciamo un pochino anche noi la stessa cosa? Non abdichiamo alla nostra fede mille volte anche noi? o forse solo cento, o dieci o solo qualche volta per opportunismo, per quieto vivere, per il cosiddetto buonsenso? O anche, semplicemente, perché in fondo abbiamo perso il senso stesso di ciò che è bene e ciò che è male?

E poi, guardiamoci intorno: non pensiamo spesso che a viste umane non c’è più nulla da sperare? Che nel mondo tutto è sotto il segno del peccato, tutto è perduto e quindi a che vale che solo noi resistiamo? Non è più facile farsi portare dalla corrente? E non succede quindi anche a noi di abbandonarci agli idoli? Di chiedere aiuto agli idoli che ci circondano? In questo contesto Geremia è chiamato ad andare per annunciare che tutto ciò va sradicato. Anzi che va sradicato, demolito, abbattuto e distrutto. Non si tratta di sinonimi, ma di verbi che ci restituiscono il senso del tremendo potere che Dio dà a Geremia perché conduca a termine la sua missione.

Geremia sapeva, perché lo sentiva dentro di sé, ne aveva la consapevolezza, di essere predestinato al difficile compito di essere profeta, e profeta di sventura, oltretutto! Sentiva che era nato per questo, ma sentiva anche che gli mancava la forza e forse il coraggio per esserlo. Non capita lo stesso anche a noi? Quante volte succede che ci tiriamo indietro, che non sappiamo percorrere fino in fondo la strada che pur intuiamo essere la nostra? Quante volte la visione delle difficoltà ci blocca, ci paralizza e ci impedisce di andare avanti? Quante volte ci siamo accontentati di fermarci al primo bivio? Ci siamo detti che era sufficiente questo? Geremia si sente troppo giovane, noi forse ci sentiamo troppo vecchi, ma a noi come a lui sembra mancare la forza sufficiente per fare quello a cui eravamo destinati fin dal grembo delle nostre madri. Predicare, lavorare per la nostra comunità, ma anche essere adeguati a quello che il nostro ruolo comporta in famiglia, nei luoghi di lavoro, nella società, ma soprattutto essere e rimanere consapevoli sempre che siamo figli di Dio e che i nostri vicini, amici e conoscenti, avranno o non avranno il dono della fede anche a causa nostra, a causa della nostra testimonianza.

E a questo proposito vorrei che rifletteste un momento su cosa significhi profezia, perché non credo che dobbiamo pensare che sia qualcosa che non ci riguarda, un’attività del passato, anzi da credenti del passato, perché al contrario la profezia è qualcosa che riguarda, o può riguardare, ognuno e ognuna di noi. Cosa significa, cosa può significare oggi, in un’epoca in cui tutto sembra molto prosaico e materiale, dove la tecnologia domina le nostre esistenze, parlare del dono profetico? Al giorno d’oggi sembra ci siano parecchi guaritori, indovini, mistici dediti all’esoterismo, e ne troviamo all’interno delle chiese cristiane, ma anche nelle sinagoghe, nelle moschee, nei templi laici e atei della modernità. Ma a tutti questi personaggi mancano due caratteristiche che accomunano i profeti dell’Antico Testamento: la prima è il parlare con un’autorevolezza che non proviene da loro stessi, che li trascende. Il profeta non annuncia se stesso, non mette in mostra i propri doni, ma è sempre e solo colui che comunica la volontà di Dio, che è mandato da Dio ed operante solo grazie alla potenza di Dio. L’altra caratteristica è che il profeta è colui che è inviato per chiamare uomini e donne a convertirsi, cioè a tornare alla loro vocazione più profonda. Non è un mestiere facile, perché il profeta arriva là dove ci si è allontanati e questo provoca sempre delle reazioni di rifiuto, quando non aggressive. Il profeta biblico non è tanto colui che predice il futuro, ma colui che ti aiuta a discernere la volontà di Dio, ma anche, laicamente, a discernere il bene, a costo di mettere in pericolo la propria stessa vita.

Infine vorrei sottolineare stamattina che Geremia è inviato “per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare». Ci vuole un bel coraggio! Anche per costruire e piantare, se chi ci sta attorno non è d’accordo, figuriamoci per sradicare, demolire, abbattere e distruggere!

Pensiamo per un attimo a cosa c’è dentro di noi che potremmo sradicare per diventare persone migliori. Non necessariamente persone con una fede in Dio, o una fede maggiore, o più coerente, ma semplicemente persone migliori. Ognuno e ognuna di noi potrebbe pensare, adesso, a un aspetto di sé che andrebbe sradicato: la presunzione? la vigliaccheria? la falsità? l’ipocrisia? Pensiamoci per un attimo. E dopo che avremo visto questa parte, piccola o grande, di noi, dopo che l’avremo identificata, potremo cercare di demolirla. Pensiamo allora a una azione che potremmo fare per demolire questa parte di noi che si nutre del nostro sangue, della nostra stessa vita, ma che andrebbe sradicata. E ora pensiamo a cosa potremmo fare per distruggere questa parte, in modo che non rientri in noi, in modo che non torni ed abbia nuovamente il sopravvento. Solo dopo aver fatto questo, cioè sradicato, demolito, abbattuto e distrutto quello che dentro di noi ci allontana dalla nostra vocazione, sarà arrivato il momento per costruire e per piantare. Sì perché spesso non c’è più posto dentro di noi, spesso siamo talmente pieni di noi stessi e di quella che crediamo la nostra ricchezza, ma che spesso è invece la nostra povertà, che nulla può più essere piantato e costruito. Quando ci rinchiudiamo nella gabbia di una vita, nella quale idolatriamo il denaro, o il potere, o i nostri doveri o, perfino, dove idolatriamo la nostra bontà, la nostra capacità di essere presenti nel modo e nel tempo giusto, in questo tipo di vita non c’è spazio per altro, non c’è spazio per Dio.

Ecco dunque un compito per queste giornate in cui ci prepariamo a ricordare l’avvento di Gesù: possiamo cercare cosa ci allontana dalla nostra vocazione e provare a demolirlo per fare spazio al Signore che arriva. La buona novella di stamattina è che nel fare questo lavoro, lungo, difficile, doloroso, talvolta perfino pericoloso dal punto di vista relazionale e sociale, non dobbiamo temere perché non siamo soli, il Signore infatti dice a Geremia e a tutti noi: “Non temere, perché io sono con te per liberarti»

Amen!

Erica Sfredda