Sermone: IL DONO DI NATALE

Questo è un periodo particolare dell’anno. Le nostre città, i negozi, le nostre stesse abitazioni sono addobbate per l’evento, il più delle volte in una strana commistione fra il sacro e il profano. L’aria delle feste si sparge sulla nostra distratta e materialistica civiltà, facendo magari in modo che il Natale diventi una festa anche per coloro che non sono credenti.

Una consuetudine ormai radicata è quella di scambiarsi doni (almeno per chi ne ha le possibilità) e magari siamo portati a interpretare i doni solo come “cose” da regalare e non ci fermiamo a riflettere sul fatto che il dono può essere anche il nostro tempo condiviso per stare insieme, fossilizzati come siamo nel fare anziché nell’essere.

Io ritengo di essere una persona fortunata perché ho avuto l’abitudine fin da giovane a considerare un grande dono la vicinanza di persone che amo e dalle quali mi sento riamata. E questo è accaduto anche in questo Natale, il cui preludio è stato veder realizzato un grande desiderio: passare ore insieme con una persona che ha condiviso con me l’ascolto di musica, le chiacchiere, la condivisione dei pasti, l’allegria così come la tristezza. Molto, molto più di un regalo materiale.

E proprio riflettendo sul significato del “dono” assume una particolare valenza il passo della prima Epistola di Giovanni, un passo per me pregno di gioia e speranza, un passo nel quale veniamo sollecitati a riflettere sul grande dono che ci è stato fatto con la nascita del Bambinello a Betlemme.

Leggo da 1 Giovanni 3:1-6

Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio! E tali siamo. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.

Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è. E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica com’egli è puro.

Chiunque commette il peccato trasgredisce la legge: il peccato è la violazione della legge. Ma voi sapete che egli è stato manifestato per togliere i peccati; e in lui non c’è peccato.

Chiunque rimane in lui non persiste nel peccare; chiunque persiste nel peccare non l’ha visto, né conosciuto.

Ho detto che in questi versetti traspare la gioia e in tal senso cerco di spiegarmi.

Questa lettera è attribuita da molti all’autore del quarto vangelo, altri invece ritengono che non lo sia. Tuttavia per la nostra riflessione questa disputa non riveste particolare importanza perché oggi è meglio concentrare la nostra attenzione sul significato dei versetti che abbiamo letto.

L’epistola non inizia con una dedica di apertura in cui siano indicati i destinatari, però alcuni studiosi ritengono che Giovanni volesse scrivere alle chiese dell’Asia minore, nelle quali era ben conosciuta la radice ebraica derivante dall’Antico Testamento.

In questo senso quindi possiamo leggere il versetto 5, nel quale Giovanni dice che “chi commette peccato trasgredisce la legge”, perché così era interpretato il peccato: fare qualcosa che va contro la legge, contro le regole imposte.

Ma Giovanni ci parla anche di amore, di un amore immenso che noi cristiani sappiamo essersi manifestato con la venuta di Gesù sulla terra. Un amore che ci dà la speranza, anzi la certezza del perdono per il peccato, perché noi sappiamo bene che anche la persona più retta e più proba vive comunque in una situazione di peccato e necessita quindi del perdono.

Nonostante nella cultura cattolica dominante il peccato sia spesso letto come il “fare qualcosa che non va bene”, se ci soffermiamo a riflettere comprenderemo bene che il peccato è qualcosa che va bene al di là delle nostre azioni. Il peccato non è solo non ledere gli altri, non rubare, non uccidere, non maltrattare. E tantomeno il peccato non è certo commettere “atti impuri”, magari assimilandoli a comportamenti sessuali che risentono per lo più dalla civiltà in cui siamo inseriti.

Spesso le azioni che consideriamo “peccato” risentono più dei nostri sensi di colpa e poco hanno a che fare con azioni realmente peccaminose.

Il peccato è altro. È la situazione nella quale costantemente viviamo perché il nostro condurci nella vita in realtà non è fraterno, non è amorevole nei confronti degli altri, non è realmente solidale, non ci fa uscire dal nostro guscio per condividere ciò che siamo e ciò che abbiamo, quasi che tutto ciò che ci viene messo a disposizione in termini materiali e non materiali sia una nostra proprietà, della quale possiamo disporre totalmente, lasciando agli altri le briciole.

Così inteso il peccato è qualcosa di più grande, più coinvolgente, sempre presente nel nostro agire e nel nostro essere, perché in realtà siamo … esseri piccoli e meschini, che non riescono a vedere più in là del loro naso e che hanno bisogno di norme e leggi per definire il buon condursi nella vita o la trasgressione. Direi una visione decisamente veterotestamentaria.

Ma oggi è Natale. Ricordiamo la nascita di Gesù, quindi dobbiamo chiederci quale sia la relazione fra quanto abbiamo fin qui detto e questa grande festa della cristianità.

Giovanni ci dice che il Padre ci ha manifestato un grande Amore, un Amore con la A maiuscola. Il Padre ci ha fatto un grandissimo dono “dandoci di essere chiamati figli di Dio”. E questo dono ci è stato fatto proprio con Gesù, uomo fra gli uomini, Dio incarnato per solo e puro amore di un Signore che continua ad amarci nonostante le nostre infedeltà e che, lungi dall’essere solo il Dio degli eserciti, ci concede il perdono attraverso suo figlio, Dio egli stesso, ma non un altro Dio, bensì una diversa manifestazione dell’Eterno.

Ecco allora che la venuta di Gesù è una rottura completa con il passato. La venuta di Gesù produce una “anastrofe” una completa inversione di termini, una anteposizione rispetto a ciò che prima era, ma senza cancellare ciò che prima esisteva. Non è quindi una “catastrofe” che azzera il passato, ma una nuova visione del mondo e della vita basata sul perdono e sulla grazia gratuitamente elargita.

Ecco dove sta la gioia che deve inondare i nostri cuori.

Quel bambino di Betlemme nasce ancor oggi per ciascuno di noi, viene per farsi conoscere da noi, viene per donarci la consapevolezza che siamo figli di Dio, che siamo destinatari di un amore puro e infinito, che siamo coloro che riconoscono nel Signore l’unica vera fonte di grazia, quella grazia che ci riscatta dal peccato, dalla situazione di infedeltà che costantemente ci attanaglia.

Quindi, sorelle e fratelli, gioiamo oggi nel ricordo di un grande evento che ha cambiato i tempi. Gioiamo nel profondo dei nostri cuori perché Qualcuno ha già provveduto alla nostra salvezza.

Tuttavia, consapevoli di questo grandissimo dono, certo non materiale, realizziamo nella nostra vita un pezzetto di quella anastrofe, cambiando talvolta il nostro modo di essere e di porci nei confronti degli altri, non relegando i nostri pensieri solo nelle nostre esperienze passate, nei comportamenti legati alla nostra storia personale, a quella limitata vita finora vissuta.

Concentriamoci invece sul fatto che tutti noi, ciascuno col proprio nome (tu Francesco, tu Valdo, tu Mary, tu Sophia, tu Federico …), siamo in cuore a Dio che fa piovere sul nostro capo il perdono grazie alla presenza sul mondo di Gesù, un bimbo nato povero fra i poveri per la salvezza del mondo.

Con questo spirito gioioso, sapendo che come canteremo nel prossimo inno “una nuova alba sorge”, auguriamoci vicendevolmente “Buon Natale”.

AMEN

Liviana Maggiore