Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 17 AGOSTO 2014 (Gn 1,1-7; Gv. 4,1-14; 24-26)

Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete

La samaritana al pozzo

Nel racconto della creazione lo Spirito di Dio aleggia su acque informi e le divide fra quelle che stanno al di sopra nell’infinità dei cieli e quelle che stanno quaggiù: anch’esse divise per diversa qualità e funzione. Rende l’acqua che nasce dalle sorgenti duttile ai cambiamenti della temperatura così che si raccolga in nuvole e in ghiacciai, promessa che non si esaurirà. L’ha riposta nel cuore delle comete, le affascinanti palle di acqua ghiacciata ricca di sostanze vitali, che misteriosamente viaggiano per milioni di anni fra le stelle. Lo sappiamo: tutto ciò che respira ha origine dall’acqua. Il nostro corpo lo è all’80%, i nostri figli si formano nel liquido acquoso del grembo materno. Noi, unici fra le creature viventi, possiamo sciogliere il nostro dolore in gocce d’acqua; se non possiamo bere più, le lacrime si seccano e il corpo muore. La terra di Palestina è sempre stata assetata. Tuttora soffre di periodi di terribile siccità. Se oggi vi infuria una guerra ferocemente disumana, la ragione sotterranea è la volontà di avere il predominio sulle fonti d’acqua. Fin dalla remota antichità, la Bibbia ha insegnato come fare tesoro di ogni stilla che si forma dall’umidità della notte, e innumerevoli sono i versetti che cantano la rugiada come segno della potenza di Dio e della sua benedizione sulla terra. Dice un’antica tradizione ebraica che alla fine dei tempi, nell’ultimo giorno, con una goccia d’acqua i morti risorgeranno. Da tutto questo, oltre che dalla nostra esperienza, sappiamo di quale immenso valore vitale sia l’acqua e ci arriva tutto il carico simbolico di questa parola riferita alla vita dello spirito. La Bibbia chiama acqua viva quella che sgorga da una sorgente. Se ristagna, s’infetta: allora è acqua morta. E noi, umanità dotata d’intelletto, l’abbiamo tradita, rifiutiamo di tenere in conto la saggezza dei suoi percorsi e delle sue leggi, la inquiniamo sulla terra e nelle raccolte delle nuvole e dei ghiacci. Con il disprezzo per la sua preziosità sacrale ne facciamo acqua morta portatrice di morte.
Abbiamo estremo bisogno di cambiare la mentalità che conduce l’agire del mondo. In questa calda domenica estiva proviamo a metterci al posto della samaritana. Abbiamo l’occasione di fermare il ritmo delle nostre occupazioni e delle nostre preoccupazioni e ascoltare Gesù con cuore aperto, per comprendere il senso delle parole che ci rivolge quando offre se stesso. Sì, perché egli offre se stesso a te, a me, ad ogni creatura umana, come vita vera, limpida e benefica come la più pura acqua sorgiva, che Dio ha posto nel nostro mondo malato e sconvolto per scioglierlo dal negativo e spezzare le catene che lo attanagliano al male che lo fa morire. Ma perché questo miracolo avvenga – e non sia un auspicio, un’evasione momentanea dalla realtà quotidiana – è la nostra natura stessa che deve essere interamente rinnovata per ritrovare quell’immagine che Dio aveva posto nell’uomo e che abbiamo smarrito: un compito per noi irraggiungibile – non illudiamoci, solo lo Spirito Santo può ricostruirla. Da noi esige solo un sì umile, pieno, forte e felice. La storia della donna samaritana è nota a tutti. La Samaria era una piccolissima regione montuosa fra Galilea e Giudea e il nome samaritano deriva da “samerin” che significava guardiano della legge: infatti, i samaritani erano così orgogliosi di essere i soli guardiani della legge di Dio, che si dicevano figli della luce. Disprezzavano i giudei come i giudei disprezzavano loro: era un robusto odio reciproco. Non a caso Gesù si ferma lì, presso il pozzo di acqua sorgiva del patriarca Giacobbe, scavato a 30 metri di profondità. Non a caso, all’ora di un caldo mezzogiorno, quando nessuno avrebbe affrontato la fatica di tirare su acqua da un pozzo così profondo; poteva toccare solo a una donna costretta a nascondersi perché rifiutata dalla società per la sua vita dissoluta di prima e ora perché mantenuta da un amante segreto. Non a caso Gesù è solo — davanti a lei, e lei stenta a capire di cosa parla. Ci arriva per gradi, passando dalla materialità delle cose a ciò che concerne la vita intima e poi quella spirituale che pone gli interrogativi della fede. Ci arriva solo quando Gesù la mette davanti alla realtà della sua vita, per lui trasparente come solo per Dio può esserlo. Allora, a un tratto, si vede nuda non nel corpo ma nell’anima, e il suo pensiero va alle verità eterne, al Messia, al Cristo, l’Emanuele che salva. E Gesù a lei si rivela: “Sono io, che ti parlo”. Gesù è venuto per i malati. I sani, quelli che si credono tali, non hanno bisogno di medico: sono sufficientemente paghi di ciò che sono e fanno. I malati, i rotti nell’anima, quelli che si sentono abbandonati, che muoiono di sete e di fame in un mondo opulento che li schiaccia e li emargina, hanno terribilmente sete: hanno sete e fame di vita, di giustizia, di verità. I malati nell’anima che sentono il peso dei tanti errori commessi e non trovano ristoro, hanno una sete estrema: di sapersi accolti, perdonati, amati. Ecco la grande sete di tutti i singoli e di tutti gli insiemi di donne e di uomini, di giovani e di vecchi, come di tutto ciò che ha respiri di vita: sete di amore vero, che non fallisce, eterna fonte di vita. Ecco, dice il Cristo, questo sono io, che ti parlo. Per conoscere il Cristo, l’intelletto di per sé non serve a niente, a causa della frattura che si instaura fra le doti dell’intelletto e le deviazioni della nostra psiche. Bisogna sentirsi malati, vedere tutti i nostri errori, conoscere le nostre fragilità e avere grande sete di verità e di vita nuova. Però è dura mettersi nudi davanti a Dio: perciò il Cristo ha impresso nel mondo il volto amorevole del Padre e lo ha reso accessibile a chiunque lo cerchi. Quando lo scopriamo, e ogni volta che lo ritroviamo, il cuore si riveste di speranza: è il nostro Natale, è il Natale dell’amore di Dio per noi che viene, vive in noi e fa ogni cosa nuova. Per un paio di millenni il cristianesimo ha preso come segno di benevolenza la rivelazione del Cristo a una donna; così abbiamo relegato nella beneficenza quello che è un atto rivoluzionario di fondamentale importanza, monito per la storia dell’umanità. Con fatica, a stento, i cristiani l’hanno accolto, evitando di metterlo in pratica nella sua logica interezza. Adesso viviamo in un mondo che, nella sua stragrande maggioranza, lo ignora del tutto; allora, è l’evolversi stesso della storia che urge quel mondo a capovolgere il concetto (soprattutto religioso!) della subalternità femminile, se non vuole estinguersi in guerre e in genocidi orrendi. Se mai abbiamo incontrato e conosciuto il Cristo, se Egli è in noi fonte che disseta e guarisce, a noi è affidato il compito di essere operosa fonte di quell’acqua rivoluzionaria che tutto cambia: di esserlo per il piccolo mondo che ci circonda e per il vasto mondo in cui siamo posti. Teniamoci stretti al Cristo, nutriamoci ogni giorno della sua parola, mettiamola in pratica con la forza che in noi lo Spirito Santo infonde. E preghiamo senza mai stancarci che il suo Regno venga. Amen.

Predicazione a cura di Febe Cavazzutti Rossi, Predicatrice locale della Chiesa Evangelica Metodista di Padova