PREDICAZIONE DI DOMENICA 17 MARZO 2013 (Lc 24:31-35; 1Cor 9:16-17; Ger 20:7-18 testo di predicazione)

Il lamento di Geremia

Questo, che nella Nuova Riveduta viene intitolato “Lamento di Geremia”, è un testo celebre, di alto profilo letterario. Geremia ha ottimi motivi per lamentarsi. Si trova in una situazione angosciosa: è stato sottoposto alla flagellazione e incarcerato, si vede ormai rifiutato da tutti, precipitato dentro a un baratro; tanto più che il personaggio che lo sta torturando è un rappresentante del potere, Pascùr, sacerdote, anzi sovrintendente del Tempio, la massima autorità sacrale. “Lamento”: certamente è un lamento, questo di Geremia, e un lamento disperato; ma nel giro di pochi versi questo lamento si trasforma in qualcosa d’altro, in un’esplosione di aggressività, un’aggressività che porta il profeta a scagliare una maledizione. Contro chi? Contro i suoi persecutori, contro coloro che lo umiliano e lo deridono? No: il profeta scaglia la sua maledizione contro Dio, quel Dio che lo ha chiamato, e che Geremia maledice appunto perché lo ha chiamato. Geremia aggredisce Dio con tale violenza da suscitare disagio: tanto è vero che questo testo, talmente duro da non permettere altra interpretazione che quella che vedremo, è stato interpretato abusivamente come espressione del fascino e della meraviglia dell’essere stati conquistati da Dio. No, il senso non è assolutamente questo, anzi è l’esatto contrario. Geremia accusa Dio, lo contesta, gli rinfaccia di averlo irretito. “Tu mi hai persuaso, Signore, e io mi sono lasciato persuadere”; altre traduzioni dicono “tu mi hai sedotto, e io mi sono lasciato sedurre”. Il senso comunque non cambia: Geremia ritiene che gli sia accaduto ciò che può accadere a chi si imbatte in qualcuno che lo adesca con il suo fascino e si serve poi spregiudicatamente di lui per le proprie mire. Come, per esempio, un innamorato potrebbe lamentarsi della seduttrice che lo ha trascinato in un’avventura amorosa finita male. Anzi, peggio: il verbo ebraico è un verbo che viene usato per riferirsi alla circonvenzione dell’incapace, quindi qui si allude a qualcosa di più spregevole, al raggiro cioè che si compie ai danni di una persona non in grado di tutelare sé stessa e i propri interessi. È a questo infatti che pensa Geremia nella sua recriminazione: Tu hai preso me che ero giovane – ricordiamo la vocazione del profeta, la sua obiezione: “Ahimè, Signore, Dio, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo” (Ger 1: 6), sì, un ragazzo che si può facilmente corrompere e circuire. Mi hai preso per attuare le tue trame, e mi hai condotto al disastro. Ti sei, quindi, comportato da vile nei miei confronti – proprio Tu, o Dio, che sei la difesa dei deboli – usandomi per un’avventura destinata al fallimento. Ed ecco la decisione del profeta: tu rivolgendomi vocazione mi hai tolto la libertà e io, ora che sono consapevole di che cosa la libertà significhi, me la riprendo. Io non parlerò più nel tuo nome, non farò più il profeta, mi ritirerò finalmente a vita privata, come tutti gli altri. Mi ritirerò a vita privata… Questa espressione richiama immediatamente alla mente di tutti noi un recente quanto eclatante caso di “rinuncia” a un altissimo ministero esercitato nel nome di Dio: la rinuncia di cui si è reso protagonista papa Benedetto XVI. Indipendentemente dai motivi che possono averla determinata (motivi sui quali non è certo questo il momento o la sede per avanzare ipotesi), credo che questa decisione raccolga molta solidarietà. È quasi inevitabile infatti che prima o poi chiunque si adopera al servizio di Dio – in qualsiasi modo, a qualsiasi livello, in qualsiasi chiesa od organizzazione religiosa – venga colto da un profondo senso di stanchezza, di frustrazione, di impotenza, addirittura di nausea, e di conseguenza venga preso dalla voglia irresistibile di “mollare tutto”. In uno degli ultimi numeri di “Riforma” Alberto Corsani, prendeva spunto dal gesto di Benedetto XVI per osservare: “In una società che, nonostante le adesioni a questa o quella chiesa o sètta, è sempre più secolarizzata, chi si dedica convinto al servizio della Parola di Dio sente su di sé la gioia della vocazione, ma può avvertire anche il peso di una responsabilità che necessita di fraternità e solidarietà – da parte dei colleghi e delle comunità; il che non sempre è facile”. Non sempre è facile. Credo che di questo, forse un po’ eufemistico, “non sempre è facile”, molti di noi, se non tutti, abbiano fatto esperienza. Credo, quindi, che Geremia possa trovare tra noi vari fratelli e sorelle in grado di solidarizzare con la sua disperazione. E di solidarizzare, forse, anche con l’esito di questa disperazione: l’invettiva contro Dio e la decisione di liberarsi di Lui, e di riprendersi così la propria libertà. Perché non c’è ombra di dubbio: Geremia ha subìto violenza da parte di Dio. Costretto a fare il profeta, in questa veste è costretto ad annunciare sempre notizie orribili (ciò che viene tradotto come “violenza e saccheggio”, in ebraico equivale più o meno a: “Aiuto! Siamo alla fine”). Per giunta, ci sono coloro che ironizzano su di lui e lo tormentano. Ma più ancora lo tormenta la parola di Dio, sempre dentro “nel suo cuore come un fuoco ardente”. Perché l’aspetto più terribile di questa situazione è che della parola di Dio non ci si libera. Il profeta vorrebbe essere solo un ex profeta, ma non ci riesce. “Sono stato sedotto – constata Geremia – mi voglio liberare, ma Tu, Dio, mi riprendi ancora, senza lasciarmi tregua. Questa parola dentro di me è fuoco che brucia la mia indipendenza, la mia libertà”. Per Geremia è impossibile non continuare a esercitare la missione profetica, anche se contro la propria volontà; esattamente come sarebbe accaduto a Paolo che, volente o nolente, si riconosceva costretto a evangelizzare. Ma per Geremia l’impegno è ormai insostenibile, e a questo punto non vede che una strada: maledire la vita; maledire non più Dio, ma sé stesso, concludendo – come concluderà Giobbe (cfr. Gb 3) – che il dono più bello che gli si sarebbe potuto fare sarebbe stato quello di non essere mai venuto al mondo, di essere stato semplicemente un aborto. Dio, con un intervento arbitrario, aveva usato violenza a Geremia predestinandolo a essere profeta prima ancora della sua nascita, anzi, addirittura prima ancora del suo concepimento (Ger 1: 5); ed ecco Geremia maledire il giorno della sua nascita, maledire colui che aveva portato a suo padre la notizia della sua nascita. Il profeta tratteggia questo quadretto tipicamente orientale, con suo padre che, secondo la tradizione, è uscito dalla camera della partoriente per aspettare fuori l’annuncio della nascita, e ora è colmo di gioia perché è nato un maschio (è noto cosa significasse in Oriente avere un maschio: assicurare l’eredità, la continuità del nome, della stirpe). Ebbene – dice Geremia – quell’annuncio non era un annuncio di gioia; e quell’uomo, il messaggero, sia maledetto, sia ridotto come una città distrutta, in cui tutto è rovina e desolazione. A questo punto potreste dirmi: e i vv. 11-13, così pieni di fiducia nel Signore? Rispondo: non è il caso di prenderli in considerazione più di tanto, perché si tratta di un inserto redazionale, introdotto per rasserenare un po’ l’atmosfera di una pagina così ardente e violenta. Questa preghiera di Geremia era così cupa e disperata da poter suonare scandalosa; ecco allora che il redattore finale inserisce come nucleo centrale del “lamento” un altro testo, forse l’elaborazione di un testo salmico, che come tutti i salmi “finisce in gloria” per far almeno baluginare un po’ di quella speranza finale che ricorre sempre nei salmi, come una luce lontana all’orizzonte. Ma è un intervento che sentiamo come stereotipato, forzato, che non riusciamo a far nostro. Direi che questi versetti provocano in noi la stessa reazione di indifferenza un po’ infastidita che potrebbero suscitarci le parole di qualche sorella o fratello di fede che, animato di buone intenzioni ma incapace di comprenderci pienamente, cercasse di confortarci in uno di quei momenti di stanchezza, di esasperazione, di ribellione ai quali accennavo prima. In effetti, il confine tra fede e bestemmia è qui veramente molto sottile, come lo è nel libro di Giobbe. Forse anzi le espressioni contenute in questi versetti sono, insieme a quelle del libro di Giobbe, le espressioni in assoluto più acri di tutta la Bibbia ebraica. Ma si deve aggiungere: esse costituiscono anche un tipo di preghiera. Dio coglie l’atteggiamento orante anche se esso si scosta dai modelli codificati nei testi liturgici – o, se si vuole, dalle nostre opinioni di “credenti perbene”. Lutero diceva: Dio gradisce e capisce certe volte molto più le bestemmie dell’uomo disperato, che non le lodi tranquille e serene rivoltegli la domenica mattina, durante il culto, dal benpensante privo di preoccupazioni. Perché Geremia, nella sua rivolta, dimostra di prendere Dio sul serio. Lo accusa, quasi lo insulta, eppure, anzi proprio così facendo, lo riconosce come il centro della propria vita. Quando il ministero che esercitiamo nella chiesa – perché non mi stancherò mai di ribadire che uno dei punti cardine della Riforma è il sacerdozio universale dei battezzati, e non mi stancherò mai di ricordare che a tutti noi è affidata una qualche forma di ministero – quando il ministero, dicevo, o la chiesa stessa ci deludono, quando Dio stesso sembra averci ingannato e tradito, non dobbiamo esitare a rivolgere anche noi a Dio il nostro “lamento”, come Geremia. Perché a Dio sono infinitamente più gradite le contestazioni, anche violente, di una “buona educazione” nei suoi confronti che, spesso, altro non è che assenza di fede. E allora, può darsi che accada anche a noi ciò che è accaduto a Geremia. Proprio nel dolore egli ha acquistato coscienza di sé stesso e gli si è aperto un sentiero di grazia. Il seguito delle sue vicende dimostra che il giovane timido e insicuro che abbiamo conosciuto all’inizio del libro è diventato un uomo risoluto, dotato di forte personalità e, soprattutto, un grande profeta e credente. Questo può accadere anche a noi: a patto che davvero ci lasciamo sedurre, violentare da Dio; a patto che dentro di noi la parola di Dio sia “come un fuoco ardente” tale da far “ardere il nostro cuore”, come ardeva il cuore ai due discepoli di Emmaus. Fuoco ardente: una realtà scomoda, inquietante, esplosiva, incontenibile, e proprio in quanto tale unica vera e possibile fonte di vita e di speranza, per ciascuno di noi, per ciascuna delle nostre chiese.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante