Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 18 AGOSTO 2013 (Mt 5:5-7; Ap 21:1,5-6; testo di predicazione Is 42:3)

“Manifesterà la giustizia secondo verità”

Questo versetto del Deuteroisaia, uno dei testi biblici che il lezionario ci propone per questa domenica, appartiene al primo dei cosiddetti “canti del Servo”. Come è noto, non è possibile sapere chi sia questo Servo che Dio ha scelto per portare a compimento la sua missione. Si tratta di un personaggio non definito né definibile; quel che è certo è che si tratta di un eletto, di qualcuno che Dio, per ragioni inaccessibili alla ragione umana, ha scelto tra molti affidandogli un compito particolare. Inutile cercare chiarimenti che il testo non ci offre. Meglio concentrarsi su ciò che esso ci dice, e ci dice in modo molto preciso. Qual è la missione del Servo? “Manifesterà la giustizia alle nazioni”, leggiamo al v. 1; “manifesterà la giustizia secondo verità”, dice il v. 3, il nostro versetto. In che modo il Servo svolgerà questa missione? Ciò che a Isaia preme comunicarci è come il Servo non la svolgerà, la sua missione. “Non griderà, non alzerà la voce”, ci spiega il v. 2. Il v. 3 aggiunge che “non frantumerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante”; il v. 4 conclude che “non verrà meno e non si abbatterà” fino a che, appunto, la giustizia non sia stata ristabilita sulla terra. Chiunque sia questo misterioso Servo, dunque, una cosa è certa: è qualcuno il cui modo di agire, il cui stile di comportamento è l’esatto opposto dei criteri ai quali si ispira il mondo. Secondo le consuetudini del mondo, chi ha un progetto che gli sta molto a cuore – anche, e forse soprattutto, se si tratta di un progetto ritenuto conforme al disegno di Dio e benefico per l’umanità, o per la società, o per la chiesa – chiunque nutra un progetto del genere difficilmente resiste alla tentazione di “alzare la voce”, di imporsi, di soverchiare le mille voci degli avversari o degli indifferenti. Altrettanto facile – altrettanto umano, direi, appunto secondo i criteri umani, che non sono quelli di Dio – è cedere alla tentazione opposta, quella alla quale accenna il v. 4: deprimersi, abbattersi fino al punto di rinunciare, di “mollare tutto”, di ripiegare nel silenzio e nel nascondimento, allorché il progetto sembra scontrarsi con ostacoli difficili da superare, o addirittura sembra destinato a fallimento sicuro. E poi ecco la terza tentazione, quella sulla quale siamo invitati a riflettere oggi: quella di frantumare la canna rotta, di spegnere il lucignolo fumante. In altre parole: eliminare tutto ciò che può ostacolare il buon esito del progetto perché è (o appare) fragile, debole, in condizioni precarie. Anche questa è legge del mondo, una legge particolarmente dura e spietata. Potremmo assimilarla alla legge darwiniana dell’eliminazione degli inadatti. Chi non ce la fa da solo, chi ha bisogno del supporto e dell’aiuto dei forti e dei sani, non solo è inutile, ma è dannoso, perché intralcia lo spedito procedere degli altri, fa loro disperdere energie preziose. Di che si tratta poi, in fin dei conti? Di oggetti umilissimi: una canna, lo stoppino di una lucerna. Oggetti che al tempo di Isaia si potevano trovare dovunque, oggetti che certo non era difficile rimpiazzare quando erano malandati e inservibili. Perché mai bisognerebbe preoccuparsi di simili oggetti, risparmiarli, averne cura? Perché il Servo di Dio non assesta il colpo di grazia alla canna già rotta, al lucignolo già moribondo? Investito di una missione nobile e grandiosa come quella di “manifestare la giustizia alle nazioni”, perché lascia che il suo cammino sia rallentato da questi riguardi assurdi, ridicoli quasi, per realtà insignificanti e, secondo ogni apparenza già destinate a perire? In altre parole: perché tanta delicatezza per i falliti, i perdenti, gli sconfitti dalla vita? Appunto per questo: perché la logica del Servo di Dio, la legge che lo ispira, sono la logica e la legge di Dio, non la logica e la legge del mondo e degli esseri umani. Come dice il Signore per bocca dello stesso Deuteroisaia: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie” (Is 55: 8). Le vie che il Servo percorre per realizzare il compito che gli è stato affidato sono altra cosa dalle vie umane. Il procedere del Servo – cioè, il procedere di Dio per mezzo del suo Servo – è un procedere paradossale. Il Servo è potente della potenza datagli da Dio, il quale nel primo versetto di questo capitolo dice di lui “io lo sosterrò”, “io ho messo il mio spirito su di lui”. Ma anche questa potenza è una potenza altra rispetto alla potenza secondo le categorie umane. Secondo le apparenze, anche il Servo è uno sconfitto, un fallito come lo sono la canna rotta e il lucignolo fumante. La sua vittoria non si realizzerà, non completamente almeno, se non alla fine dei tempi. Sembra che il mondo abbia bisogno della sofferenza, abbia addirittura bisogno di crearla. Sembra che per sussistere non possa fare a meno di incrinare canne, di spegnere lucignoli, di soffocare speranze. Ebbene, compito del Servo è mantenere viva la speranza, a dispetto di tutto e di tutti, nel tempo della sofferenza, che è il tempo della nostra storia. Compito del Servo è mostrare che c’è sempre uno spiraglio, testimoniare che c’è sempre una possibilità aperta, anche se non è facile vederla. Nel Servo (e nel Servo, ricordiamolo, è Dio che si manifesta) possiamo riconoscere il modello esemplare di quei “mansueti” che, secondo Gesù, “erediteranno la terra”. La erediteranno quando l’umanità tutta sarà divenuta non violenta: una condizione ideale che, purtroppo, si profila ancora molto lontana. Nemmeno il cristianesimo, infatti, si è messo alla scuola del Servo, nemmeno il cristianesimo ha saputo costruire una civiltà non violenta: anzi, al contrario, la cosiddetta “civiltà cristiana” è una civiltà molto violenta. Ancora: il Servo è modello ideale di coloro “che sono affamati e assetati di giustizia”. Non si darà pace finché non sarà saziato, cioè finché non sarà stata appagata l’esigenza della realizzazione della giustizia, che è bisogno primario dell’umanità ed è – come ci dice Isaia ma, in fondo, tutta la Scrittura – la grande passione di Dio. Nella Bibbia ebraica Dio preferisce la giustizia e il diritto ai culti, ai canti e alle liturgie. Nulla gli è così caro come la giustizia. Quelli che hanno fame e sete di giustizia sono coloro che hanno conosciuto Dio e non hanno ricevuto giustizia, o coloro che fanno propria la fame e la sete di giustizia di altri esseri umani. Là dove c’è una lotta, una passione vissuta, praticata, per la giustizia, e per la causa di tutti coloro ai quali non è stata resa giustizia, là questa fame e questa sete sono saziate. E infine, il Servo è modello ideale di quei “beati” che sono i misericordiosi: perché la giustizia si fa vera solo nella misericordia e la misericordia, per essere tale, non può non perseguire la giustizia. Torniamo alla nostra canna rotta, al nostro lucignolo fumante; torniamo all’interrogativo che essi ci pongono, anzi che ci pone lo strano comportamento del Servo. Perché salvaguardare canna e lucignolo? Perché questo attaccamento a ciò che è irrecuperabile? Perché non buttare via questi che sono ormai praticamente dei rifiuti, buttarli via insieme a tutto ciò che è vecchio, consunto, logorato, e provvedersi di nuove canne e di nuovi lucignoli che ci siano veramente utili nel nostro cammino verso il futuro – un futuro che deve vederci impegnati nella testimonianza e nell’azione per la buona causa di Dio, del suo regno, della sua giustizia? Questa testimonianza, questa azione sono un debito che noi abbiamo nei confronti di un’umanità (quell’umanità alla quale Isaia si riferisce con i termini “nazioni”, “isole”) affamata di giustizia e di diritto. Via, dunque, le canne e i lucignoli che ormai hanno fatto il loro tempo. Via il passato, almeno quando si tratta di un passato ormai segnato dalla fragilità e dall’impotenza. Del resto, in tutta la Bibbia, Dio non presenta forse sé stesso come il Dio che invita a non voltarsi indietro, a non farsi più condizionare da ciò che è vecchio e passato, ma ad aprirsi al nuovo? È appunto una visione di “cose nuove” che si spalanca nel libro dell’Apocalisse, quello che conclude le Scritture. Attenzione, però. Che cosa dice, in Ap 21, “colui che siede sul trono”? Dice: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. Non si tratta di eliminare e di sostituire, come fa chi vuole rinnovare l’arredamento della propria casa; si tratta di rinnovare nel senso di trasfigurare, di ri-creare. È una nuova creazione, quella che sta compiendo l’Essere che siede sul trono. Che cosa significa? Significa dare nuovamente un significato a ciò che sembra ormai aver perso ogni significato. Significa dare nuovamente dignità a chi sembra ormai aver perso ogni dignità. Significa dare nuovamente un obiettivo e uno scopo a chi sembra ormai aver perso ogni obiettivo e ogni scopo. Significa, insomma, compiere ciò che prima dicevo essere la missione del Servo di Dio: dare nuovamente speranza a chi sembra ormai aver perso ogni speranza, a tutto ciò che sembra non contenere più alcun elemento di speranza. E questo in che modo? Agendo come agisce il Servo, cioè realizzando la beatitudine della misericordia, della misericordia unita alla giustizia. Questa unione di misericordia e di giustizia ha un nome che ci viene insegnato da tutta la Bibbia, ma in modo tutto particolare dal Nuovo Testamento. Il nome è “amore”, e si tratta di quella realtà che, come dice Paolo, non arretra dinanzi ad alcun ostacolo: “soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa” (1 Cor 13: 7). Un amore così, certamente, potrà trovare la sua compiuta realizzazione non nella storia, ma solo alla fine dei tempi; e non per opera degli esseri umani, ma solo di Colui che siederà sul trono alla fine dei tempi, Colui nel quale i cristiani riconoscono il Servo di cui parla Isaia. Questa consapevolezza, tuttavia, non deve costituire una comoda giustificazione per rinunciare a ogni tentativo di seguire la via paradossale indicata dal Servo. Guardiamoci intorno, troviamo occhi per vedere le canne incrinate e i lucignoli fumanti intorno a noi: i vecchi abbandonati e maltrattati negli ospizi, per esempio, o i carcerati detenuti in condizioni indegne di un Paese civile, o, sì, anche certe nostre comunità, certe chiese in difficoltà che sbrigativamente vengono date per morenti e gentilmente aiutate a morire del tutto: frantumate, spente. Non è di azioni di morte che la società e la chiesa hanno bisogno; hanno bisogno di azioni di speranza e di vita, perché solo così si potrà “manifestare la giustizia alle nazioni”.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante