Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 2 DICEMBRE 2012 (Lc 1: 67-79, 1 Sam 3: 1-10, Gal 4: 1-7)

IL CANTICO DI ZACCARIA (Lc 1: 67-79)

In questi versetti evangelici risuonano le parole di un profeta; o, più precisamente, di un uomo come tanti, il sacerdote Zaccaria, che lo Spirito di Dio spinge a svolgere un ruolo profetico. Zaccaria parla infatti “pieno di Spirito Santo”: perché è lo Spirito a mettere un essere umano in grado di svolgere una missione profetica dandogli chiarezza e lucidità di visione per comprendere e per annunciare a chi gli sta intorno con potenza e autorità, il progetto di Dio nei confronti del suo popolo. Zaccaria parla: ma sono, le sue, parole così vibranti di poesia da potersi assimilare a un canto; e infatti come “Cantico di Zaccaria” viene di solito citato questo passo di Luca. Il cantico è per Zaccaria lo sbocco di una vicenda umana fuori del comune. Ricordate? Dinanzi all’angelo che preannuncia a lui e a sua moglie Elisabetta l’arrivo del figlio tanto desiderato, precisando per giunta che si tratterà di un figlio destinato a grandi cose (“sarà grande davanti al Signore”: Lc 1: 15), l’ormai anziano Zaccaria ha una reazione di incredulità, di perplessità; una reazione più che ragionevole, in considerazione dell’età avanzata sua e di sua moglie. È, in fondo, la stessa incredulità con cui avevano reagito Abramo e Sara allorché era stata loro annunciata la nascita di Isacco. Con la differenza che il patriarca e sua moglie dinanzi a questo annuncio non avevano potuto trattenersi dal ridere, come se il Signore avesse voluto scherzare con loro (Gn 17: 17; 18: 12-15); Zaccaria, invece, non ha proprio nessuna voglia di ridere, ha il tono di un uomo stanco e rassegnato, convinto che l’ordine naturale delle cose non potrà mai cambiare, convinto che “per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo” (Ec 3: 1). Mi verrebbe da pensare che per questa sfiducia, per questo pessimismo Zaccaria venga punito divenendo muto fino alla nascita del figlio; Abramo e Sara non erano stati colpiti, infatti, da alcuna punizione, sebbene Sara avesse addirittura mentito al Signore, negando di aver riso. Ma forse al Signore piace chi, anche da vecchio, mantiene la capacità di ridere. Domandiamoci, però: davvero si era trattato di una punizione, per Zaccaria? In questa “pausa di silenzio” non sarà da vedere piuttosto un’occasione preziosa che gli è stata concessa, di pensare, di meditare su ciò che gli stava capitando – un’occasione che in circostanze normali forse Zaccaria non avrebbe mai avuto perché, esattamente come succede a noi, avrebbe sempre avuto qualcosa di più urgente da fare? Forse proprio grazie a questi nove mesi di “pausa di silenzio” trasformatasi in “pausa di riflessione”, quando nasce il bambino Zaccaria è pronto, gli si scioglie la lingua ed egli “profetizza” benedicendo il Signore con questo cantico, un cantico fittamente intessuto di riferimenti e anche di citazioni dalla Bibbia ebraica. Tra queste citazioni non mancano quelle dal profeta Malachia, colui con il quale si può considerare chiusa l’esperienza del profetismo ebraico. All’epoca di Zaccaria, da molto tempo non risuonavano più in Israele voci profetiche. Era come all’epoca di Eli e di Samuele: un’epoca in cui la parola del Signore era rara, in cui non erano frequenti le visioni. Ecco perché Zaccaria non aveva potuto credere che il Signore gli avesse rivolto la parola per mezzo del suo angelo. Zaccaria non credeva di poter avere visioni, perché non sapeva sognare. Si trattava della stessa situazione in cui ci troviamo al giorno d’oggi noi cristiani e le nostre chiese: la parola del Signore è rara, le visioni scarseggiano. Ma è davvero così stagnante, la situazione, o siamo noi ad averla resa tale? Questo che potremmo chiamare “silenzio di Dio” non sarà da attribuire a una nostra incapacità di ascolto? È molto significativo che proprio lo stanco, scoraggiato, muto Zaccaria rompa questa stagnazione, erompendo in un “cantico” che è sostanzialmente una preghiera di ringraziamento, poetica come lo sono i Salmi. Zaccaria ha messo a frutto la “pausa di silenzio” che gli è stata imposta. Egli era un sacerdote devoto, giusto e irreprensibile; eppure, probabilmente mai nella sua vita era riuscito ad ascoltare la parola del Signore con tanta attenzione come in quei mesi di attesa della nascita di suo figlio. Con tanta attenzione e con tanta prontezza, con lo stesso entusiasmo del giovanissimo Samuele. Il cantico di Zaccaria non è il cantico di un vecchio. È il cantico di un uomo senza età, eternamente giovane perché aperto all’eterna novità di Dio. Che Zaccaria, ritrovando la parola, abbia ritrovato anche la fresca energia della gioventù lo dimostra in primo luogo l’inizio del suo cantico. Zaccaria benedice il Signore: quindi, dimostra di essergli grato. E la gratitudine non è sentimento da vecchi. Tipico della vecchiaia è il ripiegarsi su sé stessi, il recriminare, il riandare al passato con nostalgia o con rimpianto; sempre, comunque, sentendosi defraudati di qualcosa, sempre con la convinzione di non aver nulla di cui ringraziare. Non fraintendetemi: questo atteggiamento “da vecchi” lo si può avere in qualunque età. Ne abbiamo la prova guardandoci intorno: quanti ne vediamo, di giovani che sono “vecchi” – quante ne vediamo, purtroppo, anche di comunità cristiane che in quanto tali dovrebbero essere e sentirsi eternamente giovani, e che invece sembrano paralizzate dalla vecchiaia, ammutolite come Zaccaria, incapaci di profetizzare e, prima ancora, di benedire, di riconoscere le grandi cose che Dio ha compiuto per loro, nel corso della loro storia. Eppure, giovani, e quindi capaci di benedire e di ringraziare, si può anche ritornare. Non è impossibile: Zaccaria ne è la prova. Perché Zaccaria benedice il Signore, il Dio di Israele? Il motivo è essenzialmente questo: il Dio di Israele ha confermato la propria identità di Dio fedele alle promesse, Dio che mantiene i patti, in primissimo luogo l’antico patto stretto con Abramo. “Patto”: questo termine trova orecchie particolarmente sensibili in una chiesa metodista. Come sappiamo, nelle chiese metodiste si è soliti, all’inizio dell’anno o in altre importanti occasioni, celebrare il culto del rinnovamento del patto. Lo scopo è quello di richiamare i credenti a una realtà che dovrebbe essere costantemente presente ai cristiani di tutte le chiese, di tutte le confessioni: Dio non abbandonerà mai gli esseri umani perché si è solennemente impegnato ad accompagnarli nelle loro vicende, a farli partecipi delle sue promesse. Zaccaria pone l’accento sull’azione salvifica e liberatrice di Dio, che libera dalla mano dei nemici coloro che si affidano a lui. Questo parlare di “nemici” potrebbe apparire vuoto di significato a noi, fortunati abitanti di un Paese in cui i cristiani non sono fatti oggetto di persecuzione e nemmeno vengono più perseguitati i protestanti, nei confronti dei quali alla persecuzione è subentrata, in genere, una cortese indifferenza. Eppure, i credenti di nemici ne hanno sempre, anche nel nostro tranquillo Occidente. Certo, esistono anche dei nemici esterni, ma io sto pensando soprattutto ai nemici interni: primo fra tutti, proprio quella stanchezza alla quale mi riferivo prima, quel vivere alla giornata, senza capacità di profetare, cioè di saper leggere nella storia il disegno del Signore. Talvolta, ne sono convinta, il nostro peggior nemico siamo noi stessi. È innanzitutto nei confronti di noi stessi, della nostra aridità, della nostra incapacità di sperare, di avere visioni, che il Signore si manifesta come salvatore e liberatore. Chi è stato liberato, salvato dall’azione potente del Signore viene messo nella condizione di fare ciò che il patto prevede per lui, o per lei: servire il Signore, e servirlo, come dice Zaccaria, “senza paura, in santità e giustizia”. Vivere in “santità e giustizia” non significa prefiggersi delle norme etiche e seguirle rigidamente; significa vivere “alla sua presenza”, in comunione con il Signore, abbandonandosi con fiducia a Lui e alla sua volontà. Ma mi piace molto che Zaccaria affermi prima di tutto che il servizio dell’essere umano a Dio deve essere prestato “senza paura”. Questo significa: non con spirito servile, bensì con spirito filiale, con la dignità di chi è libero perché è stato liberato, come spiega molto bene il passo della lettera ai Galati che abbiamo ascoltato. È questo lo stile di vita al quale è destinato anche il bambino nato a Zaccaria, colui che sarà Giovanni il Battista. Giovanni dovrà infatti andare “davanti al Signore” e preparare le sue vie; dare al popolo “conoscenza della salvezza”, cioè illustrare il piano dell’opera di Dio, fondato sul suo patto e sulla novità di Gesù. Dovrà testimoniare, con la sua predicazione ma anche e soprattutto con il suo agire, la misericordia di Dio che trova il suo culmine, la sua espressione più alta, nel perdono dei peccati. Ma è solo la vocazione rivolta a Giovanni, questa? Non è vocazione rivolta a tutti noi credenti, soprattutto in un momento storico così pieno di ambiguità, per non dire di peccato? Non è forse questa la vocazione rivolta alle nostre chiese? Certo, per ascoltare e accettare questa vocazione rivolta a un piccolo bambino dobbiamo in qualche modo diventare anche noi “bambini”. Ma non c’è Qualcuno che ci ha chiesto di diventare “come i bambini”(Mt 18: 2-4)? E quel Qualcuno non è per caso Quello di cui cerchiamo di essere fedeli discepoli nelle parole e nei fatti? Se è così, allora la preghiera di Zaccaria può diventare la nostra preghiera, il suo cantico il nostro cantico.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)