Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013 (Is 5:1-7; Rm 5:1-9; Mc 12:1-12 testo di predicazione)

“Giustificati per il sangue di Cristo”

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Questa è una parabola difficile, dura e sgradevole. Non solo perché racconta una storia terribile, nella quale nessuno si salva, ma perché ai personaggi è concessa solo l’alternativa tra due ruoli, quello di omicida e quello di vittima, con il padrone della vigna che, alla fine, questi ruoli finisce per ricoprirli entrambi. Dicevo: non c’è solo la cupezza di questo quadro d’insieme. C’è anche il fatto, purtroppo, che questa parabola è uno di quei passi neotestamentari sui quali si è esercitato e ha trovato ampio spazio di manovra l’antigiudaismo. Sappiamo benissimo tutti a quale interpretazione si può aprire questa parabola, che ha chiaramente per modello il “cantico della vigna” che abbiamo letto nel libro di Isaia. Qui si racconta di una amara delusione, la delusione provocata da una vigna che, sebbene amorosamente coltivata e curata, non ha risposto alle aspettative del suo padrone, producendo soltanto uva selvatica. Questa vigna andrà incontro a un triste destino: sarà abbandonata, ridotta a un deserto. E nell’ultimo versetto viene reso esplicito, per chi non l’avesse capito, il significato dell’allegoria: “Infatti la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta”. Ecco dunque come la parabola della vigna, che oggi ci viene proposta nella versione di Marco ma che troviamo in tutti e tre i sinottici, si è potuta leggere come una sentenza di condanna nei confronti del popolo di Israele, identificato con i vignaioli malvagi che maltrattano e uccidono gli inviati del loro padrone – cioè i profeti, ripetutamente inviati da Dio per indurre a ravvedimento il suo popolo – e infine uccidono anche l’“unico figlio diletto” del padrone, cioè l’Inviato e il Figlio per eccellenza, Gesù. La vicenda di Gesù, in questa parabola che è anche un preannuncio della passione, altro non è che l’epilogo di una lunga storia di rifiuti. Di qui la collera di Dio, che “farà perire” quello che fino ad allora è stato il suo popolo, Israele, e affiderà “la vigna”, cioè la comunità dei credenti, “ad altri”, cioè alla nascente chiesa cristiana. Credo che questa interpretazione ciascuno di noi abbia avuto qualche occasione di ascoltarla, e temo anche che sia dura a morire, che esistano tuttora ambienti cristiani in cui la parabola dei vignaioli viene letta secondo lo schema “condanna di Israele/trionfo della chiesa”. Ecco perché questa parabola facilmente suona offensiva a un orecchio ebraico. Si tratta, comunque, di una interpretazione che attualmente nessuna esegesi seria può accogliere. Si è ipotizzato che Gesù abbia preso lo spunto da un fatto di cronaca – una sollevazione in Galilea di vignaioli contro il loro padrone, culminata nell’uccisione dell’erede; e questa ipotesi può essere sufficientemente realistica. Ciò che davvero conta, però, è che da un eventuale fatto di cronaca Gesù prende lo spunto per dire qualcosa di essenziale circa il rapporto tra Dio e l’essere umano: certo, l’essere umano in un contesto storico ben preciso, quello del popolo di Israele, contesto e popolo al quale anche Gesù apparteneva. Nell’interpretare questa parabola non si può dimenticare, come si tendeva a fare in passato, l’ebraicità di Gesù, che con il suo popolo si identificava, che amava il suo popolo, che al suo popolo non avrebbe mai augurato un destino di distruzione. In questa luce, allora, chi sono “gli altri” ai quali il padrone darà la vigna? Sono stati interpretati come “i non ebrei”, invece sono semplicemente “altri”: vignaioli diversi dai precedenti, vignaioli mossi non dall’avidità e dall’invidia ma dal desiderio di eseguire la volontà del padrone, di collaborare con lui, vignaioli consapevoli che curando gli interessi del proprietario della vigna, assecondando i suoi progetti, curano anche i propri interessi e assicurano un futuro anche ai propri progetti. Così stando le cose, è impossibile per noi cristiani sentirci rassicurati da questa parabola. Gli “altri”, le persone di fiducia alle quali il padrone si rivolgerà perché coltivino e amministrino la sua vigna secondo la sua volontà, non siamo “noi” in quanto cristiani. Perché gli “altri” sono appunto, semplicemente, coloro che fanno la volontà del Signore – cosa che, come è facile constatare, non sempre fanno coloro che portano il nome di cristiani. Indubbiamente Gesù nel raccontare questa parabola aveva in mente alcuni responsabili del suo popolo, del popolo di Israele; ma la storia, e l’insegnamento che si trae da questa storia, vale ugualmente per la comunità cristiana, per tutte le chiese che portano il nome di cristiane, e per tutti i loro responsabili – il che equivale a dire, per ciascun membro di ciascuna chiesa, perché chiunque ha scelto di appartenere a una chiesa cristiana ha una parte di responsabilità nel buon andamento della chiesa stessa. Questo dovrebbe apparire evidente in particolare a noi che ci riconosciamo nella tradizione della Riforma, secondo la quale la responsabilità dei cosiddetti “laici” non è certo minore, pur nella diversità dei ruoli, a quella dei ministri consacrati. Tutti e ciascuno di noi, allora, proprio per il ruolo che rivestiamo – quello di donne e uomini che hanno un compito nella conduzione della vigna del Signore – ci troviamo continuamente esposti al rischio di interpretare la parte dei vignaioli malvagi. In che senso? Indicazioni molto precise ce le offre il seguito del cap. 5 di Isaia, nel quale al “cantico della vigna” segue immediatamente una serie di “guai” di invettiva contro i peccati di Israele. “Guai”, per esempio, a coloro che “non pongono mente a ciò che fa il Signore, e non considerano l’opera delle sue mani” (5: 12b). “Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro! Guai a quelli che si ritengono saggi e si credono intelligenti!” (5: 20-21). La fonte di tutti i guai sta nel non conoscere o non voler conoscere la verità su Dio e la verità su noi stessi, sta nel non capire o non voler capire che cosa è Dio e che cosa è l’essere umano, e quali sono i rispettivi ruoli: non si considera ciò che il Signore ha fatto e continua a fare, e si presume di noi stessi, e quel tanto di verità che si arriva a conoscere la si travisa secondo i nostri interessi, arrivando a chiamare “bene il male e male il bene”. È ovvio poi che quando si leva ad ammonirci una voce in qualche modo “profetica”, cioè una voce che ci invita a guardare le cose secondo l’ottica del Signore e non secondo la nostra, noi tendiamo a trasformarci in vignaioli omicidi. Non c’entra niente l’appartenenza a Israele o alla chiesa: questa tentazione è sempre in agguato per chiunque. I profeti, quando sono veri profeti (cioè quando sono tali per vocazione divina e non per propria scelta), inevitabilmente danno fastidio, per vari motivi: perché scombussolano il nostro quieto vivere, perché ci costringono a guardarci in uno specchio nel quale preferiremmo non guardare, perché annunciano una Parola che sempre ci contesta, perché ci richiamano alla nostra libertà di figli di Dio, e la libertà – lo accennavamo anche domenica scorsa – a volte fa paura, proprio per le responsabilità, le fatiche, anche le sofferenze che può comportare. All’apparenza, i vignaioli malvagi sembrano mossi da spirito di libertà: non vogliono più lavorare sotto padrone, vogliono essere loro i proprietari della vigna e gestirla secondo i propri interessi. Invece, proprio con questo comportamento si rivelano per quello che sono: schiavi, schiavi di un idolo che si chiama potere, l’idolo al quale si inchina quello che nel Nuovo Testamento viene designato con il termine “mondo”. Ecco: i vignaioli sono gente asservita a criteri mondani, criteri che inducono a cercare la realizzazione della propria vita nel successo, anche se questo successo lo si ottiene chiamando bene il male e male il bene, o addirittura togliendo di mezzo chi ci è di ostacolo. Lo vediamo quotidianamente, qualche volta lo abbiamo anche sperimentato, quanta gente possa venire sacrificata, metaforicamente (ma non tanto) uccisa, affinché qualcun altro abbia la strada spianata verso il raggiungimento dei propri obiettivi. Si dirà: ma questa, appunto, è la logica del “mondo”, una logica estranea ai credenti, sia che appartengano a Israele sia che appartengano alla chiesa. Magari fosse davvero così; ma lo sappiamo benissimo che così non è. Guardiamo in casa nostra, all’interno della chiesa cristiana, all’interno della chiesa valdese, della chiesa metodista, di ciascuna delle nostre chiese. Quante volte nelle nostre chiese l’opportunismo, il desiderio di conquistare e mantenere qualche briciola di potere portano a non ascoltare, a emarginare, a deridere, a soffocare le voci profetiche che pure lo Spirito continua a suscitare tra noi? Quante volte, nelle nostre chiese, quella pietra angolare che è la parola del Signore, e coloro che con maggior coerenza se ne sono fatti interpreti, hanno dovuto subire il destino della pietra scartata dai costruttori perché considerata non adeguata, o addirittura di intralcio? Eppure, la storia di Israele rivela che è su queste voci di “opposizione”, su questa parola scartata, oppressa, non compresa, umiliata, che si è costituita l’identità del popolo. È un dato di fatto, questo, sul quale anche la chiesa cristiana, anche le nostre chiese, dovrebbero riflettere. E una riflessione merita anche il comportamento del padrone della vigna. Un comportamento paradossale: capisce che le cose si mettono male, eppure continua, ostinatamente, a mandare i suoi servi, uno dopo l’altro, perdendoli tutti, fino a perdere il suo stesso figlio. Ce la mette tutta, per ottenere i frutti della vigna: per forza, per qualsiasi via, li vuole ottenere. È un’ostinazione che per noi si trasforma in segno di speranza: perché il nostro Dio è un padrone che non si rassegna alla nostra aridità, che non si dà e non ci dà pace prima di aver ottenuto i frutti che gli spettano. In altre parole: Dio è un padrone della vigna che non abbandona i vignaioli a loro stessi, per quanto siano malvagi. La morte del suo Figlio non ha scatenato la sua ira su di noi, pur essendo noi suoi nemici: al contrario, ci ha salvati dall’ira, come annuncia Paolo ai Romani. “Giustificati per il sangue di Cristo”: è questa la nostra identità di vignaioli omicidi eppure salvati. Solo se accetteremo questa identità, allora per noi ci sarà davvero salvezza.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)