Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 27 GENNAIO 2012 (Lc 9: 61-62, Ger 4: 3, Eb 12: 1-2a)
“Nessuno che mette mano all’aratro e poi guarda indietro è adatto al Regno di Dio”
Questo brevissimo, fulmineo dialogo tra Gesù e un interlocutore sconosciuto richiede di essere inserito in un contesto più ampio che è la cosiddetta “sezione del viaggio”, un insieme di capitoli che nel vangelo di Luca ci mostra un Gesù in cammino verso Gerusalemme, questa città santa ma ambigua, al tempo stesso città del compimento a cui sono rivolte tutte le promesse di Dio e città in cui Gesù troverà la morte. Dunque, Gesù in cammino, ma non solitario: lo accompagnano i discepoli e lungo la via il suo andare è interrotto da continui incontri. Alcuni studiosi ritengono che Luca, il quale molto probabilmente si rivolgeva a una comunità di origine pagana, volesse in qualche modo rendere la missione di Gesù più comprensibile, più accessibile a una mentalità ellenistica richiamandosi a un tema presente nella tradizione religiosa greca, nella quale sono frequenti gli episodi di dèi che scendono tra gli umani prendendo figura umana. Da sempre gli esseri umani hanno compreso la vita come un cammino e per chiunque è molto coinvolgente questa figura di un Gesù in cammino con noi. Con noi, ma davanti a noi: perché lui è la guida e noi siamo invitati a seguirlo. Questo diventa chiaro nel contesto più immediato in cui si ambienta questo dialogo, che si svolge in occasione dell’ultimo di tre incontri di Gesù con altrettanti personaggi che potremmo dire “candidati al discepolato”. A loro, Gesù prospetta tre condizioni di sequela, che implicano tutte qualche forma di rinuncia a realtà per le quali è istintivo provare attaccamento, che è spontaneo percepire come irrinunciabili: un tetto sicuro, gli affetti familiari. Anzi, più che di rinuncia sarebbe il caso di parlare di distacco, di presa di distanze, di capacità di relativizzare. La condizione posta da Gesù al primo aspirante seguace è di non avere nidi, di non avere approdi sicuri. Se ci pensiamo, il rischio di fare della nostra fede e della nostra chiesa un nido o una tana è enorme. Sto talmente bene con le mie piccole certezze, con i miei ritmi, con il mio culto domenicale, non disturbatemi … Ma il Signore è continuamente in movimento, è colui che non ha dove posare il capo, e di conseguenza è colui che nemmeno a noi permette di star fermi, di rinchiuderci tra le nostre sicurezze. Chi vuol essere discepolo di Gesù deve, insomma, lasciarsi condurre soltanto dalla Parola di Dio e da ciò che questa suscita nei cuori delle persone e nelle situazioni; e questo vuol dire prepararsi a viaggiare, non importa se in senso letterale o figurato, ma comunque a viaggiare, e a viaggiare spesso senza troppe comodità, nella consapevolezza che la fede è continuo cammino, continua scoperta, continua meraviglia. La condizione posta al secondo interlocutore è più sconcertante, perché si tratta di “lasciare che i morti seppelliscano i morti”. È chiaro che qui Gesù non vuole invitare a trascurare i più elementari doveri familiari, tanto più che seppellire il padre morto era, in Israele, un dovere sacro. Gesù non mette in questione la legittimità di questa esigenza; ma ha visto che nel cuore di quest’uomo il regno di Dio, la causa di Dio, non costituivano davvero una priorità. Percorrere la strada della sequela significa relativizzare tutti i legami familiari. Seppellire il padre, magari logorarsi in conflitti riguardanti l’eredità – tutto questo è schiavitù, è morte. Ma la strada di Gesù è una strada che porta alla libertà e alla vita. Alla sequela di Gesù non possono esserci persone legate alla morte, ma gente aperta alla vita nel senso più vero, nel senso cioè della novità di vita annunciata e incarnata da Gesù. Il discepolo è una persona pronta ad affrontare le novità e i rischi che questa vita comporta, ad affrontarli senza voltarsi indietro. Ecco, è propria la tentazione di “volgere lo sguardo indietro” quella che accomuna i tre candidati alla sequela. Siamo così arrivati al “nostro” personaggio, il terzo interlocutore di Gesù, il terzo aspirante seguace, protagonista di un dialogo che viene tramandato soltanto da Luca. Qui, la tentazione è chiamata con il suo nome: si tratta, appunto, del desiderio di “volgere lo sguardo indietro” che prende forma, in questo caso, nella richiesta di “salutare quelli di casa”, di congedarsi dai familiari. Richiesta all’apparenza più che ragionevole e avallata da un illustre precedente, quello del profeta Elia, il quale lascia che Eliseo dica addio alla sua famiglia, prima che questi lo segua nella missione profetica. Che cosa possiamo dire, allora? Semplicemente, che l’appello di Gesù è qui ancora più radicale di quello di Elia, che anche la sequela è una scelta radicale. Questo significa che nulla deve poter trattenere colui o colei che ha liberamente optato per Gesù. Nulla può costituire un blocco, un impedimento, un fattore di esitazione, di ritardo. L’interlocutore di Gesù vorrebbe seguirlo, ma prima vorrebbe congedarsi dalla sua famiglia: forse per spiegare ai parenti la sua scelta e avere la loro approvazione; forse per coinvolgerli nella sua scelta; forse anche nell’inconsapevole speranza che gli argomenti dei famigliari possano essere migliori di quelli di Gesù e riescano a dissuaderlo da questa scelta così anticonvenzionale, così scomoda, anche così rischiosa, perché il vero discepolo inevitabilmente si espone al rischio di divenire, ben che vada, un incompreso e un emarginato nella sua cerchia di conoscenze e all’interno della società che lo circonda. Perché la sequela – e questo Gesù lo mette bene in chiaro – è sequela nella croce. Eppure la sequela è l’unica scelta che conduca alla vera vita. Le altre scelte, quelle che in apparenza salvaguardano la vita (il nido) o quelli che sono considerati i valori più preziosi della vita (la famiglia, gli affetti), sono in realtà scelte di morte, perché voltarsi indietro significa privilegiare il nostro passato umano rispetto al futuro che Gesù ci offre, significa restare immobili, pietrificati come avvenne per la moglie di Lot che “… si volse a guardare indietro e diventò una statua di sale”. Ciò che Gesù voleva dire agli aspiranti discepoli allora, e continua a dire a noi aspiranti discepoli di oggi, è che seguirlo non è cosa da prendersi alla leggera. Non lo era allora e non lo è adesso. Chi vuol farlo deve essere ben cosciente del costo che dovrà affrontare. Ecco quindi il motivo per il quale le persone che incontriamo in questo testo sembrano essere respinte da Gesù, o almeno scoraggiate dal seguirlo, anche se Luca non ci racconta come le loro storie personali vadano a finire. Ecco il motivo per cui tante persone che si sentono sinceramente attratte dalla proposta cristiana rinunciano, alla fine, a impegnarsi concretamente in una chiesa. Ma esiste anche l’altra faccia del problema: ci sono tanti che compiono una scelta di fede, che accettano di impegnarsi in una chiesa senza essere ben consapevoli delle esigenze della sequela, perché nessuno si è mai curato di spiegargliele chiaramente; magari anche (perché no) attingendo al patrimonio della memoria storica, ai tanti luminosi esempi del passato, a quella “grande schiera di testimoni” di cui si parla nella lettera agli Ebrei, schiera di testimoni che, grazie a Dio, non manca in nessuna chiesa. Sorelle e fratelli, questo passo di Luca ci interpella tutti molto severamente. Interpella quei tanti, troppi cristiani per i quali le esigenze e gli impegni familiari hanno sempre, regolarmente, la priorità rispetto alle esigenze della fede, e della chiesa della quale hanno liberamente scelto di essere membri. Ma interpella anche i ministri del culto, coloro che hanno la responsabilità di una chiesa. Oggi tutte le chiese sono in crisi, e forte è per un pastore la tentazione, pur di vedere i banchi affollati per il culto domenicale, di accogliere chiunque si presenti evitando di porre condizioni, minimizzando la serietà radicale di questa scelta. Sì, le chiese sono in crisi … ma non sarà da attribuire, questa crisi, anche proprio al fatto che a troppi aspiranti cristiani è stata proposta quella che Dietrich Bonhoeffer definiva con la celebre espressione “grazia a buon prezzo”, cioè proprio quella grazia che si sarebbe meravigliosamente adattata ai tre interlocutori di Gesù? Si domandava, a questo proposito, Bonhoeffer: “Il prezzo che oggi dobbiamo pagare con la rovina delle nostre chiese istituzionali non è forse la conseguenza necessaria della grazia acquistata troppo a buon prezzo? […] Si distribuivano fiumi di grazia senza fine, mentre si udiva assai raramente l’invito a seguire Gesù con impegno. […] Dove restavano gli ammonimenti di Lutero di guardarsi dall’annunziare un Evangelo che tranquillizzasse gli uomini nella loro vita senza Dio?”. Parole troppo dure queste; parole che potevano adattarsi alla realtà della Germania del 1937, quando furono scritte, ma che sono eccessive per le chiese e per i cristiani dei nostri tempi: tempi certo di indifferenza, di egoismo, di superficialità, ma, almeno nella nostra Europa, non tempi di crudeltà e di empietà come quelli del totalitarismo nazista… E io vi rispondo: vi illudete, sorelle e fratelli. Sia pure in modo diverso, anche i nostri tempi sono tempi senza Dio, anche le nostre vite, se lasciate a sé stesse, sono vite sempre e inevitabilmente senza Dio. Vite che hanno bisogno di essere risvegliate, scosse, non di essere tranquillizzate, anestetizzate. Chi vuole seguire Gesù deve sapere che non gli sarà richiesto soltanto di camminare con lui, non solo di “correre con perseveranza”, come dice l’autore della lettera agli Ebrei, ma anche di mettere “la mano all’aratro”, cioè di essere attivo, di compiere ciò che è necessario per produrre, un domani, dei frutti. Arare il terreno, e farlo secondo i criteri che il Signore indica a Israele per bocca del profeta Geremia: dissodare un campo nuovo e non seminare tra le spine, il che vuol dire non disperdere energie là dove non si può sperare di ottenere frutto, cioè, ancora una volta, in ciò che ci lega al passato, in ciò che è statico e morto, in ciò che blocca il libero fiorire del regno.
(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)