Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 3 FEBBRAIO 2013 (Is 55:6-12, Mt 4:1-4, Eb 4:12-13)

“Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie”

Incisivo, di straordinaria suggestione, insomma bellissimo come tanti altri passi del libro di Isaia questo testo che il lezionario ci propone per oggi. Tema centrale di questo testo è l’affermazione del ruolo decisivo della Parola di Dio, che è tutto quanto resta al popolo esiliato: tutto quanto resta, ma la Parola è l’unica cosa che conta, perché è l’unica cosa che sussiste in eterno. E questa è anche l’esperienza di tutto il popolo di Dio attraverso i secoli: l’unico tesoro che ci permette di andare avanti è la Parola di Dio, di un Dio che è sempre vicino: “cercate il Signore mentre lo si può trovare” è esortazione rivolta agli esiliati, perché non pensino che il popolo è in esilio e Dio se ne sta nella terra promessa. Dio non è legato a una terra, è legato al popolo anche quando è in esilio, è vicino a tutti gli esiliati, quindi anche a noi quando ci sentiamo lontani da Lui, abbandonati da Lui, esiliati appunto. Ma siamo sempre noi che ci allontaniamo da Dio, siamo noi che per stanchezza, per sfiducia, rinunciamo a cercarlo; perché Dio non si allontana mai da noi, dato che è il Dio “che non si stanca mai di perdonare”, che non abbandona il suo popolo, anche se talvolta segue vie che noi facciamo fatica a riconoscere, a decifrare, perché sono le Sue vie e non le nostre. E il segno più forte di vicinanza che Dio offre al suo popolo è il dono continuo, inesauribile, della sua Parola. Nell’immagine agricola di questo brano, il valore della Parola divina viene evidenziato al massimo proprio perché essa è paragonata alla realtà più desiderata e attesa in un mondo assolato come è quello palestinese: l’acqua. E come la pioggia o la neve, la Parola non resta nei cieli della trascendenza, ma penetra nel terreno arido della storia, raggiungendone anche le pieghe più oscure. Dopo averci fecondato, essa ritorna a Dio, fatta carne e sangue, cioè fede, preghiera e amore dell’essere umano verso il suo Signore. È un’immagine, dicevo, legata al mondo agricolo, un mondo nel quale noi che viviamo in una società urbana facciamo fatica a riconoscerci; eppure, nonostante questo, è un’immagine che tocca corde molto sensibili del nostro cuore, perché i nostri tempi sono spesso tempi di deserto dello spirito che ci fanno anelare, come la cerva del salmo (Sal 42: 1), a quell’acqua che è la Parola di Dio, il principio stesso della sopravvivenza spirituale in quella steppa arida nella quale tante volte abbiamo l’impressione di vivere. La Parola di Dio è per noi qualcosa di cui abbiamo bisogno come dell’ossigeno, come del pane – e appunto al pane, un cibo che per l’antico Israele, come per noi, era alla base della sussistenza, paragona e affianca Gesù la Parola di Dio nel passo di Matteo che abbiamo ascoltato. Questo perché la Parola autentica di Dio non si limita a informare, a far conoscere la volontà del Signore, ma è anche operativa; non per nulla il vocabolo ebraico dabar designa contemporaneamente “parola” e “atto”, “detto” ed “evento”. La Parola di Dio, dunque, produce vita, genera vita, feconda e fa germogliare, come dice Isaia. E questo risultato lo ottiene, in primo luogo, costringendo chi la riceve a guardarsi allo specchio, a mettersi a nudo, a lasciar cadere le maschere e le illusioni, a capire chi veramente è. “La Parola di Dio è vivente ed efficace”, dice l’autore della lettera agli Ebrei, perché è spada affilata e penetrante, perché separa, perché giudica. Perché discerne, potremmo dire in altre parole; perché distingue inesorabilmente il vero dal falso, perché ci dice la verità su noi stessi, perché rivela noi stessi a noi stessi Ecco perché ne abbiamo tanto bisogno, ne abbiamo bisogno come del pane. Ne abbiamo bisogno… l’ho ripetuto ormai tante volte. Ma è davvero così? Lo vediamo davvero intorno a noi questo bisogno disperato, questa fame, questa sete della Parola? Direi proprio di no. Direi che questa pioggia benefica che Dio continua, per sola grazia, a riversare quotidianamente su di noi viene molto spesso – anche da coloro che hanno scelto di appartenere a una chiesa – nella migliore delle ipotesi accettata come “acqua fresca”, innocua, insipida, che scorre senza lasciar traccia; nei confronti della Parola vediamo disattenzione e noia, quando non radicale rigetto. Al luogo privilegiato dove la Parola viene trasmessa e annunciata, la chiesa, tanti preferiscono altri luoghi, altre situazioni (la riunione familiare, la passeggiata, il cinema…) che appaiono infinitamente più coinvolgenti, più interessanti, più vivi di quanto sia l’ascolto di una predicazione o uno studio biblico. Che cosa significa questo? Rappresenta una smentita della necessità della Parola? Rappresenta la conferma ch l’uomo può vivere benissimo di solo pane? Certamente no. L’essere umano ha bisogno della Parola, ne ha un bisogno estremo. Il problema è che non sente, non sa di averne bisogno. Pensa di avere bisogno di tutt’altro, di potersi sfamare con un pane umano, di potersi dissetare con l’acqua di questo mondo. E la Parola non può svolgere il suo compito se non le si offre un terreno pronto a riceverla, come spiega Gesù nella parabola del seminatore (Lc 8: 4-15). Che cosa significa terreno pronto, terreno disponibile? Può significare varie cose. C’è un passo molto suggestivo del Talmud ebraico che dice: “La parola di Dio è come l’acqua. Come l’acqua, essa discende dal cielo. Come l’acqua, rinfresca l’anima. Come l’acqua non si conserva in vasi d’oro o d’argento, ma nella povertà dei recipienti di terracotta, così la parola divina si conserva solo in chi rende sé stesso umile come un vaso di terracotta”. Sì, per accogliere quest’acqua “che scaturisce in vita eterna” – per dirla con Gesù davanti al pozzo di Giacobbe (Gv 4: 14) – dobbiamo avere un cuore simile a un vaso di terracotta. Fuor di metafora, ci viene proposto un atteggiamento che ai nostri giorni nel migliore dei casi è passato di moda, nel peggiore viene sbeffeggiato: l’umiltà”, o, se si vuole, la semplicità. E “umiltà” significa anche saper fare silenzio. Perché, allora, non tentare di creare nel deserto dell’esistenza quotidiana due piccole oasi, al mattino e alla sera? Modesti orizzonti di silenzio in cui ascoltare la Parola di Dio che si rivolge a noi attraverso le parole umane della Scrittura. Ascoltiamo l’appello bellissimo di Dietrich Bonhoeffer: “Facciamo silenzio prima di ascoltare la Parola di Dio, perché i nostri pensieri sono già rivolti alla Parola. Facciamo silenzio dopo l’ascolto della Parola, perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi. Facciamo silenzio la mattina presto, perché Dio deve avere la prima parola. Facciamo silenzio prima di coricarci, perché l’ultima parola deve appartenere a Dio”. Ma “umiltà” significa anche lasciare che la Parola di Dio operi in noi quella funzione enunciata nella lettera agli Ebrei, ma anche in tanti passi della Bibbia ebraica: quella di contestarci radicalmente. E a noi non piace essere contestati, non ci piace che si cerchi di renderci diversi, nuovi. Ecco perché la Parola di Dio è respinta: perché, se è veramente Parola di Dio, porta alla croce e si identifica con la croce. Porta alla croce ed è crocifissa, non è messa sugli altari. Basti pensare a come sono finiti i primi testimoni: Giovanni il battista; Gesù stesso, abbandonato da tutti, anche da Dio; Paolo… Perché? Appunto, perché la Parola di Dio non è amata e perché Dio non è popolare, Dio è sempre minoranza in mezzo agli dèi e agli idoli. Questa è la situazione. Ma, dobbiamo domandarci: è proprio solo colpa dei destinatari della Parola o molta responsabilità non ricade anche sugli interpreti della Parola, sui ministri del culto, su tutti noi che abbiamo la splendida e terribile responsabilità di trasmettere agli altri la Parola – di permettere a questa pioggia di cadere, di distribuire questo pane? Non sarà che tanta gente in chiesa non trova la Parola che cerca, e quindi lascia la chiesa, lascia le chiese, perché perché non vi trova una luce, un aiuto reale? Io credo che molta cosiddetta “secolarizzazione” sia semplicemente il frutto di una non trasmissione della Parola di Dio, dell’Evangelo. Perché nella chiesa tendiamo a mettere al centro noi stessi, e a emarginare Dio. Perché parliamo troppo di cose e di problemi secondari, umani, e così poco di Dio. Perché riempiamo la chiesa delle nostre parole umane, perché riversiamo nella chiesa le nostre personali sensazioni, preoccupazioni, emozioni, i nostri pensieri di corto respiro, invece di farne il luogo dove viene ascoltata e accolta, in spirito di obbedienza, la parola di Dio. Ma credo che il problema sia anche, forse soprattutto, questo: che noi per primi continuiamo a preferire la quiete e i discorsi edificanti alla santa inquietudine del Dio potente e Signore, alla spada della sua Parola. Dicevo che noi esseri umani istintivamente rifuggiamo da una Parola che ci contesta, la contrastiamo o, il più delle volte, cerchiamo di ignorarla, e questo è certamente vero; eppure io mi domando… anzi no, non usiamo formule retoriche: io sono certa che una predicazione che disturba e che scuote, una predicazione che ci indica la croce, una predicazione, cioè, nella quale la Parola di Dio prevale sulle parole umane, questo tipo di predicazione è capace di riscuotere attenzione, di coinvolgere anche un uditorio religiosamente piuttosto tiepido, assai più di quanto possa farlo una predicazione che addomestica la Parola, che cerca di edulcorarla, che trasforma in inefficace “acqua fresca”la pioggia potente del Signore. Sono altrettanto convinta che questa predicazione di una Parola inefficace, imbalsamata, risponde non solo alla ricerca di facili consensi da parte del predicatore, ma anche e forse soprattutto al fatto che è il predicatore il primo a non volersi lasciar disturbare e scuotere dalla presenza di Dio; perché noi stessi annunciatori della Parola, in fondo, non vogliamo credere che Egli è veramente in mezzo a noi, ora, qui, ed esige da noi vita e morte e cuore e anima e corpo. Ecco perché tanto spesso ci comportiamo come se avessimo Dio in nostro potere, anziché lasciarci prendere totalmente in suo potere. Solo se cominceremo a imparare a lasciar filtrare, quasi in una trasparenza luminosa, la Parola che permane per sempre e che scende dall’eterno e dall’infinito di Dio, potremo far comprendere ai nostri fratelli e alle nostre sorelle in ricerca che il pane di cui sono affamati è la “parola che proviene dalla bocca di Dio”.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)