Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 28 APRILE 2013 (Mt 11:25-30; Col 2:6-7; Is 12:1-6 testo di predicazione)

 

Dio è la mia salvezza, io avrò fiducia e non avrò paura

Dio la mia forza

Un’esplosione di gioia incontenibile: non saprei definirli in altro modo, i versetti di Isaia che il lezionario ci propone per oggi, quinta domenica di Pasqua. Non a caso questa domenica ha il nome latino di Cantate e ci invita appunto a cantare al Signore, sulla scorta del salmo 98: “Cantate al Signore un cantico nuovo, perch’egli ha operato prodigi” (Sal 98: 1). E questo passo di Isaia assomiglia a un salmo, ha la struttura, la cadenza di un salmo. Come un piccolo salmo incastonato nel libro profetico; un piccolo salmo nel quale il popolo di Israele inneggia al suo Signore perché ne ha sperimentato la presenza, l’azione potente nella sua vita e nella sua storia. Ascoltiamo: è tutto un susseguirsi vertiginoso di espressioni che parlano di una ritrovata sicurezza che ormai non potrà più venire meno: “tu mi hai consolato / Dio è la mia salvezza / io avrò fiducia / non avrò paura / il Signore è la mia forza / è stato la mia salvezza. Questa sicurezza, divenuta ormai salda fiducia, viene riconosciuta come dono del Signore e genera una gioia riconoscente (“attingerete con gioia l’acqua dalle fonti della salvezza”) che non può avere altro sbocco che la lode (“io ti lodo / lodate il Signore”), una lode che può trovare piena espressione solo nel canto (“salmeggiate al Signore / grida, esulta”). Il cuore di questo passo – almeno secondo la mia sensibilità – lo riconosco nel v. 2b: “il Signore è la mia forza e il mio cantico; egli è stato la mia salvezza”. Riprende si può dire alla lettera, questo versetto, un altro versetto della Bibbia ebraica, un versetto che fa parte del cantico innalzato al Signore da Mosè e dai figli di Israele dopo il passaggio del Mar Rosso: “Il Signore è la mia forza e l’oggetto del mio cantico; egli è stato la mia salvezza” (Es 15: 2a). Questo, perché in Isaia il ritorno dall’esilio è visto come un nuovo esodo, una nuova esperienza di liberazione. Per lodare degnamente un tale Dio, l’essere umano non può trovare parole adeguate: e infatti il vero cantico a Dio è Dio stesso, quel Dio che è insieme forza e cantico del suo popolo, che è, ad un tempo, la salvezza di Israele e la sola risposta di lode che Israele gli può innalzare, la sola risposta adeguata a tale salvezza, con la  proclamazione del suo Nome. “Il Signore è la mia forza e il mio cantico; egli è stato la mia salvezza”. In queste parole così semplici eppure così incisive, così radicali, è racchiusa una delle più belle professioni di fede che un cristiano possa pronunciare. È questa la risposta che noi cristiani dovremmo dare a chiunque ci chiedesse “chi è il tuo Dio? Cosa intendi quando parli del tuo Dio?”. “Il Signore è la mia forza”. Questo significa: il mio punto di appoggio, il mio punto di riferimento, il fondamento sicuro sul quale posso costruire la mia vita, e che al tempo stesso è l’unico capace di dare un senso alla mia vita, è il Signore, il Signore con la S maiuscola, Colui che gli ebrei indicano con il Nome che non si può pronunciare e che i cristiani riconoscono come il Padre di colui che l’ha rivelato, Gesù Cristo. Questo Signore è la mia forza: l’unico Signore, non uno dei tanti piccoli signori effimeri e inconsistenti che si affollano intorno a noi offrendoci falsi punti di forza e false sicurezze, piccoli signori che hanno nomi come successo, carriera, prestigio, ricchezza. Solo questo Signore, dunque, merita il nostro canto di lode; anzi, è lui stesso un canto. Ma adesso, sorelle e fratelli, secondo il mio solito vi invito a guardare sinceramente nell’intimo di voi stessi, nel vostro cuore, per usare il linguaggio della Scrittura. E io a mia volta guardo nel mio cuore. E quello che vedo contrasta radicalmente con quanto ho detto finora. Chi di noi si sente di definire Dio come di Colui che è sua forza e suo cantico – anzi, non di “definirlo”, questo è un verbo molto freddo; di inneggiare a Dio, di salmeggiare a Dio, proprio perché riconosce in Lui la propria forza? Dio, noi, lo lodiamo quando la liturgia ce lo impone. E quanto alla nostra forza, noi non abbiamo l’abitudine di cercarla in Dio. La cerchiamo nelle realtà più svariate, ma non in Dio. Ed è nelle realtà più svariate che riponiamo la nostra fiducia, che cerchiamo una fonte di energia spirituale e di coraggio; non in Dio. In fondo – ma nemmeno tanto in fondo – nei confronti di Dio l’atteggiamento prevalente da parte nostra è l’esatto contrario del gioioso, riconoscente abbandono descritto nei versetti di Isaia. In Dio, noi non abbiamo fiducia; piuttosto, anzi, diffidiamo di Lui. È profondamente radicata in noi la tendenza a percepire Dio come un personaggio potente ma capriccioso, il cui preciso dovere sarebbe quello di venire incontro alle nostre esigenze ma che non sempre è disposto a farlo, anzi troppo spesso ci delude. Infatti, un ritornello che ricorre anche sulla bocca di tanti cosiddetti credenti è “ma Dio, in fin dei conti, che cosa ha mai fatto per me?”. “Che cosa ha mai fatto Dio per me?”. Ecco, il punto è tutto qui. Torniamo a Isaia, e leggiamo ciò che segue a “il Signore è la mia forza e il mio cantico”: “egli è stato la mia salvezza”. Potremmo aspettarci, dopo “è la mia forza e il mio cantico”, un altro verbo al presente: “egli è la mia salvezza”. Invece no: il libro profetico dice “è stato”. Perché? Perché qui a parlare è un israelita che si identifica in pieno con le sorti del proprio popolo, o è addirittura il popolo stesso, l’intera collettività di Israele; e Israele, lo sappiamo, vive di memoria, pratica costantemente l’esercizio della memoria, sente la continua necessità di riandare a ciò che le passate generazioni hanno vissuto, e di cui appunto c’è memoria, per riconoscervi le tracce, le impronte dell’azione di salvezza del Signore, un’azione di salvezza alla quale non si può rispondere se non con una lode senza fine. Credo che noi cristiani abbiamo molto da imparare al riguardo. Credo sia necessario, urgente per noi apprendere questo esercizio della memoria, farlo diventare per noi un modo di essere, il nostro modo di rapportarci alla nostra vita e a quel Dio che è il Signore della nostra vita. Nel linguaggio corrente capita di sentir usare l’espressione “storia sacra” in riferimento alla storia del popolo di Israele così come ci viene narrata nella Bibbia ebraica; ebbene, perché non adottare questa espressione anche per definire la nostra storia, la storia di ciascuno di noi? Quando impareremo una buona volta a riconoscere che ogni storia umana – e per “storia” intendo anche e soprattutto le vicende individuali di ciascuno di noi – è storia sacra, perché sempre in qualche modo segnata dalla presenza e dall’intervento del Signore? Quando impareremo a capire che, davvero, non solo per l’antico popolo di Israele, ma anche per ciascuno di noi il Signore è stato la salvezza? Direte: ma come possiamo? La nostra storia personale non registra eventi straordinari. Non è mai stata segnata da spettacolari interventi del Signore. La nostra è una vita ordinaria, semplice, banale; insulsa, potremmo forse essere tentati di aggiungere. E questo la dice lunga su di noi. Perché se abbiamo una vita insulsa, vuol dire che abbiamo un Dio insulso. Un Dio che ci siamo costruiti a nostra immagine; quindi, un Dio insignificante, inconcludente, magari anche un po’ pasticcione. Un Dio nel quale possiamo, al più, riporre una tiepida speranza di salvezza personale nell’aldilà (qualunque cosa poi intendiamo con questa espressione). Ma che non riusciamo a riconoscere come Colui che nel nostro passato è stato fattore di salvezza, è stato la salvezza. E quando mai lo sarebbe stato? Credo che ciascuno di noi abbia la sua collezione privata di delusioni, di fallimenti, di lutti, di abbandoni, di malattie dalle quali Dio non lo ha salvato. In questo settore, l’operazione memoria funziona sempre benissimo: abbiamo registrato tutto, e tutto viene conservato nel nostro archivio mentale. Perché sono queste, e queste soltanto, le situazioni dolorose, pericolose, comunque sgradevoli dalle quali ci saremmo attesi salvezza e liberazione. Per il resto – non siamo mai stati salvati dalla schiavitù attraverso le acque di un mare, né siamo mai stati ricondotti in patria dopo un lungo esilio in terra straniera. Non che ci risulti, quanto meno. Eccolo qui il nostro problema: non sappiamo riconoscerci come schiavi liberati, né come esuli rimpatriati. E questo avviene perché l’esercizio di memoria di cui siamo capaci è un esercizio molto grossolano, che tiene fedelmente nota di tutti i fatti più esteriori, in fondo i più superficiali, e non sa scavare nelle pieghe più profonde della nostra esistenza. Siamo incapaci, in altre parole, di leggere i tanti segni che Dio ha lasciato di sé lungo la nostra strada perché in realtà siamo ciechi, incapaci di vedere, di vedere ciò che effettivamente Dio ha operato e continua a operare nella nostra vita. E questa cecità è dovuta a null’altro che a insufficienza di fede. Ecco perché ci riesce così difficile seguire quelle semplicissime indicazioni di cammino cristiano che ci vengono offerte dalla lettera ai Colossesi: un cammino che culmina nel ringraziamento, che “abbonda nel ringraziamento”, nello stesso spirito di lode riconoscente che anima i versetti di Isaia e che, nel vangelo di Matteo, muove Gesù a lodare il Padre. Una lode, notiamo, che fa seguito a un insuccesso pastorale di Gesù in tre cittadine di Galilea, che all’inizio sembravano interessate alla sua predicazione. Lodare Dio per un insuccesso? Uno di noi, al più, pregherebbe dicendo “Signore, dammi la forza di non avvilirmi per questo fallimento”. Ma Gesù è dotato di una capacità di discernimento profonda, che gli consente di riconoscere l’azione del Padre anche là dove noi non riusciremmo a vederla. Quante volte una sconfitta si è risolta per noi, forse quasi inavvertitamente, in un nuovo progetto di vita? Quante volte la mano del Signore è silenziosamente intervenuta a tirarci fuori da un nostro personale Egitto, a farci ritornare da un nostro personale esilio? Impariamo, dunque, ad affinare il nostro sguardo interiore e la nostra memoria, e a riconoscere quei momenti in cui il Signore è stato la nostra salvezza. Ma riusciremo a farlo soltanto se sapremo diventare come quei “piccoli” di cui parla Gesù: là dove “piccoli” non sta certo a indicare “sempliciotti”, e nemmeno “ostentatamente umili”, bensì persone che in Dio e in Dio soltanto trovano la loro forza e la loro ragione di vivere e di sperare.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante