Sermone: Predicazione di Domenica 29 Luglio – 1 Pt 3, 8-17, Is 8, 12-13, Lc 6, 20, 22-23, 26


Le indicazioni pastorali offerte da Pietro nella prima parte del passo che il lezionario propone oggi alla nostra riflessione (3: 8-9), come pure nei versetti che questo passo precedono, a cominciare da 2: 11, suggeriscono norme di comportamento che aiutano, al tempo stesso, a edificare la comunità dei cristiani e a offrire, mediante una vita irreprensibile, un’eloquente testimonianza ai “pagani”. Norme che altro non vogliono essere se non un tentativo di tradurre l’Evangelo nella prassi quotidiana dei credenti: si parla di concordia, compassione, amore fraterno, misericordia, umiltà, si parla di sostituire la maledizione con la benedizione… Sembrano orientamenti ovvi, scontati per chi ha scelto di seguire Cristo, ma sono in realtà difficilissimi da attuare, perché richiedono un costante, ostinato, determinato sforzo di superare la nostra natura, che è una natura decaduta, degradata, sfigurata dal peccato. Sì, sorelle e fratelli, sfigurata dal peccato: non ho proprio alcun ritegno a usare questo linguaggio, il linguaggio dell’apostolo Paolo, il linguaggio dei padri della Riforma. […]

La seconda parte dell’esortazione di Pietro ai suoi fratelli di fede riguarda più direttamente il confronto dei cristiani con il mondo esterno alla comunità, un confronto che frequentemente assume piuttosto la fisionomia dello scontro. Quattro sono le regole indicate qui dall’apostolo. La prima, sulla falsariga delle Beatitudini, impone di astenersi in ogni caso dal male, ma non affliggersi, anzi rallegrarsi, se pur facendo il bene ci si troverà a dover soffrire (3: 13-14a, 17). La seconda insegna a non lasciarsi sopraffare dalla paura. I persecutori non vanno temuti, perché – sottintende Pietro – in realtà non sono nulla, sono apparenze vane, come gli idoli; l’unico Signore è Cristo, ed è a Lui solo che il cristiano deve tributare lode e obbedienza (3: 14b-15). La terza raccomanda di essere sempre pronti a rendere conto della propria speranza (3: 15b). La quarta ammonisce: nel fare questo, e più in generale nel testimoniare la propria fede, evitare i toni aggressivi e polemici, essere sempre rispettosi dell’interlocutore, in modo che costui non trovi ragione per calunniare i cristiani.  […]

Ancora una volta vi dico, allora, guardiamoci intorno, sorelle e fratelli, e prima ancora guardiamoci dentro. Guardiamo all’interno delle nostre comunità e all’interno di noi stessi, all’interno dei nostri cuori.  Siamo liberi di professare la nostra fede cristiana evangelica, è vero; ma la libertà di cui ormai da molto tempo godiamo non è e non è stata per noi l’occasione di un rinnovato fervore nel “glorificare Cristo” rendendogli testimonianza. Poco alla volta ci siamo abituati ai benefici di Dio come se ne avessimo diritto, come se fosse naturale e logico avere una vita relativamente tranquilla, dimenticando che la tranquillità per un cristiano non può e non deve essere un fine, ma può soltanto essere un mezzo per facilitare l’annuncio dell’Evangelo. […]

Siamo prigionieri: non di estranei che ci perseguitano, ma di una specie di cerchia che non sappiamo o non vogliamo sfondare né spezzare, una cerchia pesante di inutili o insignificanti ragioni personali, familiari, delle quali si osa accampare un’urgenza inesistente o un’importanza molto discutibile. È di tutto questo, e non del Signore degli eserciti, che noi proviamo “timore e paura”; appunto perché, come ancora dice Isaia, camminiamo “per la via di questo popolo”, per la via più battuta, più consueta. Sembra quasi che il nostro cielo si sia abbassato, si sia ridotto alle nostre miserevoli dimensioni.

Sorelle e fratelli, non spacciamo per cristianesimo un modo di vivere fiacco e abitudinario, nel quale la fede appare solo come elemento tradizionale. Di questo cristianesimo, né Dio né gli uomini sanno che farsene. Sapete in che cosa consiste, a mio modo di vedere, il cuore del problema? Consiste nel fatto che non sappiamo più “render conto della speranza che è in noi”. Siamo diventati muti per quanto riguarda la speranza – e non vorrei che questo fosse dovuto al fatto che in noi non esiste più speranza. A questo non voglio, non posso credere. E allora, coraggio. Perché la speranza, quell’ardore di attesa che il regno di Dio venga, porta con sé anche la volontà di manifestare quei frammenti di regno che già sono presenti in mezzo a noi. Rendiamo conto della speranza che è in noi, dunque. Come? Condividiamo la nostra speranza. Chi ha speranza, cercherà di dare coraggio per il prossimo passo a chi è impaurito; starà vicino a qualche persona abbandonata.

 

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)