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Sermone: Predicazione di Domenica 29 Aprile – Mt 12, 43-45

Il pericolo che incombe sulla nostra generazione e di cui Gesù oggi ci avverte è che essa sia posseduta da un numero sempre maggiore di diavoli, cosicché la sua condizione diventi sempre peggiore: staremmo quindi andando non di bene in meglio ma, se continuiamo così, di male in peggio.

Che fare, allora, se vogliamo evitare che la nostra condizione, continuando a peggiorare, diventi irrimediabile? In altri termini: che fare contro i diavoli? L’evangelo e Gesù stesso sono espliciti al riguardo: i diavoli bisogna combatterli e cacciarli, relegandoli nei “luoghi aridi” che sono loro propri. Ma per combattere e cacciare i diavoli bisogna prima smascherarli, e questa è un’impresa molto difficile. […]

Non domandiamoci ora se questo “diavolo” sia un’entità personale o se sia, piuttosto, l’espressione simbolica di una tendenza, di un’inclinazione al male insita in tutti gli esseri umani, fin da quando l’umanità ha deciso di seguire la propria strada anziché quella progettata per lei dal Signore. Gesù questo non lo chiarisce, perché non è questo che conta. Il cuore del suo messaggio, così come ce lo tramanda Matteo, è che il diavolo, cioè il male, ha un suo habitat prediletto, che è il vuoto. Nel vuoto il diavolo prospera, si rafforza, si moltiplica. Se ci guardiamo intorno, non è difficile riconoscerlo, questo vuoto: è un vuoto che si manifesta come vuoto di ideali, vuoto di speranze, vuoto di progetti, vuoto spirituale, vuoto culturale, vuoto affettivo. Di questo vuoto, anzi di questa voragine spaventosa che è attualmente, purtroppo, un tratto distintivo della nostra società occidentale, si possono dare molte spiegazioni di natura sociologica e storica. Ma qui, in questa sede, dobbiamo piuttosto interrogarci su come questo vuoto si manifesti là dove meno avrebbe ragione di esistere, cioè tra noi cristiani, nelle nostre chiese. Spetta a noi, in quanto credenti, imparare a decifrare il senso profondo dell’esortazione di Paolo, ancora nella lettera agli Efesini, a essere “ricolmi di Spirito”: perché la casa, se non diventa tempio dello Spirito santo, è vuota, e se è vuota diventa dimora dei diavoli. Ecco qui il nostro problema: noi crediamo che la nostra casa sia piena perché continuiamo a riempirla con ogni sorta di arredi, ma trascuriamo di riempirla con quello che davvero servirebbe a colmare il suo vuoto, cioè con il Signore, con il suo Spirito, con la sua parola. […]

Dio è un Dio nascosto. Ecco che allora noi finiamo per spazientirci di questo nascondimento di Dio, finiamo per stancarci di cercare di decifrare i segni della sua presenza in mezzo a noi, nella nostra storia collettiva e nelle nostre storie personali. Questo Dio così poco evidente ci fa l’effetto di uno spazio vuoto, un vuoto che noi cerchiamo di riempire alla meno peggio, creandoci dei surrogati. Quali sono queste cisterne screpolate, questi arredi inutili che sembrano aprire spazio a Dio e lo aprono invece ai diavoli?  Presso certe confessioni cristiane può trattarsi, per esempio, della sostituzione della Scrittura con tradizioni, dottrine, devozioni prive di fondamenti biblici, o della sostituzione di Dio stesso con una gerarchia di suoi “rappresentanti” che si ritengono in diritto di parlare e di agire nel Suo nome. Si lamenta tanto la mancanza di pastori, ma la chiesa d’oggi manca di profeti ancor più che di pastori. In mancanza di profeti si fanno avanti gli scribi, cioè, più o meno, tutti noi: capaci forse, grazie allo studio, di interpretare e commentare la Scrittura ma non di proferire, sulla scorta di questa Scrittura, parole illuminanti e orientatrici, che servano davvero a scacciare quei démoni che allignano dovunque e, quindi, anche nelle chiese: il démone dell’indifferenza, il démone della menzogna, il démone dell’ostilità reciproca. Invochiamo dunque lo Spirito perché ci renda tutti profeti, capaci di scacciare i diavoli con lo spirito e la parola di Cristo, con la fraternità evangelica e la verità.

 

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Pasqua – 1 Cor 15, 1-5


Credo che in tutte le comunità ecclesiali, in tutte le confessioni, ci siano  persone che ragionano come ragionavano i Corinzi più scettici, cioè, secondo quei criteri di saggezza che sono propri del “mondo” o degli “uomini”, come dice Paolo nel cap. 1 di quella stessa prima lettera ai Corinzi; persone che ragionano dimenticando che la chiesa si fonda non sulla saggezza umana, ma su quella che Paolo stesso chiama lo “scandalo” e la “pazzia” dell’Evangelo. Ma scandali e pazzie sono difficili da assumere come criteri normativi della propria vita, che istintivamente noi vogliamo improntata a razionalità e buon senso. Ecco perché non abbiamo molto da guardarci intorno per scoprire chi sono tra noi i “miscredenti”, gli emuli di quei Corinzi con i quali polemizzava Paolo. Il miscredente – almeno in certe circostanze, in certi momenti – il miscredente è ciascuno di noi, io stessa che vi parlo. Credo che anche a quelli tra noi  più saldi nella fede sia capitato almeno una volta di dubitare, di dubitare proprio di questo evento che oggi celebriamo: la risurrezione. Si tratta di un dubbio molto umano. Perché questo cardine della fede cristiana, la risurrezione, è un evento non dimostrato e non dimostrabile. Mentre la passione e morte di Gesù hanno avuto molti testimoni, la sua risurrezione non ne ha avuto nessuno. Inoltre,  si tratta di un evento che esula completamente dal campo non solo della nostra esperienza, ma anche della nostra immaginazione. Il grande teologo Karl Barth ha definito la risurrezione un evento che tocca il nostro mondo “come la tangente tocca il cerchio, senza toccarlo”: cioè lo sfiora appena e resta esterna al cerchio, al nostro orizzonte umano, pur non potendo più esserne esclusa, pur essendo entrata a farne parte definitivamente. E proprio perché è del tutto fuori dal nostro orizzonte e non riusciamo in alcun modo a concepirlo, la sua forza di convinzione è pressoché nulla. Eppure, ecco il grande paradosso evangelico: proprio questo fatto che è il meno dimostrabile, il più discutibile e contestabile, il meno convincente e il meno proponibile di tutti, è stato posto dai primi cristiani a fondamento della loro fede. […]

Certo, è vero che molti in passato e molti al giorno d’oggi hanno considerato e continuano a considerare Gesù come un maestro di morale, un altissimo modello etico; molti ritengono che si debba accettare e seguire il suo insegnamento, accantonando però la sua risurrezione che è qualcosa di inaccettabile in quanto – lo sanno tutti – i morti non risorgono. Ma dobbiamo sapere che – per quanto strano possa sembrare a prima vista – abbiamo l’insegnamento di Gesù solo perché Gesù è risorto. Quindi l’apostolo Paolo ha ragione quando scrive: “Se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede” (I Cor 15: 17). Perché “vana”? Perché se Cristo non è risuscitato, voi cristiani credereste in un morto, grande finché si vuole, ma morto: dunque un uomo, non il Figlio di Dio; dunque un Maestro, non il Signore. Sì, si può credere nell’insegnamento di Gesù, e non in Gesù Signore. Ma in tal caso, si tratta di un cristianesimo ridotto a morale, un cristianesimo diverso da quello che i primi cristiani hanno confessato, spesso anche con il sacrificio della vita. A chi chiede la “prova” della risurrezione di Gesù, direi che è questa l’unica “prova”: il fatto che, come scrive l’autore della lettera agli Ebrei, siamo “circondati da una così grande schiera di testimoni” (Eb 12:1). Testimoni di che cosa? Testimoni che Gesù è vivo, è anzi il Vivente per eccellenza. Testimoni che lo sanno per averlo sperimentato. Mi sembra già di sentire le obiezioni: “anche queste esperienze sono fatti tutti personali, non verificabili, ai quali può credere solo chi è in qualche modo già disposto a credere; a me una cosa del genere non è mai capitata”.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Domenica delle Palme – Is 50, 4-9

Il Signore, Dio, mi ha dato una lingua pronta, perché io sappia aiutare con la parola chi è stanco, Egli risveglia, ogni mattina, risveglia il mio orecchio, perché io ascolti come ascoltano i discepoli.

La folla identificava Gesù come “colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele”, riconosceva pertanto in lui una figura investita della missione di liberare e governare il popolo di Israele; una missione, dunque, certamente carica di valenze spirituali eppure in primo luogo politica. All’atteso sovrano, che la folla credeva fosse finalmente venuto nella persona di Gesù, spettavano gloria, onori, l’obbedienza del popolo, il dominio su Israele. Si trattava, in altre parole, di un uomo di potere: di un potere concepito secondo criteri umani. Una figura nella quale, indubbiamente, Gesù non poteva riconoscersi. Eppure, Gesù non si sottrae a questo trionfo: anzi, come raccontano le versioni dell’ingresso in Gerusalemme riportate dai vangeli sinottici è Gesù stesso a voler conferire a questo ingresso un carattere pubblico e solenne, è Gesù stesso a  incaricare i suoi discepoli di procurargli a questo scopo una cavalcatura, è Gesù stesso a non sottrarsi all’omaggio della folla. […]  Solo, il suo concetto di regalità era diverso da quello della folla, questo inviato dal Signore non è un re, non è un potente, non è un grande della terra: è un servo, e per giunta un servo sofferente, maltrattato, vittima di ogni sorta di oltraggi. Isaia parla di un servo tutto particolare: il servo del Signore. Sappiamo che gli esegeti hanno molto discusso sull’identità di questo servo del Signore: chi lo ha identificato con l’intero popolo di Israele, chi con un singolo, forse il profeta stesso, o forse una figura messianica; la tradizione cristiana ha riconosciuto in lui la prefigurazione di Cristo. Chiunque sia questo servo del Signore, quello che ci interessa sono le sue caratteristiche. Ricordiamo che nell’antico Israele “servo del Signore” designava il re stesso. Questa qualifica, se ci pensiamo bene, denota una condizione di straordinaria dignità, in quanto – paradossalmente – questo tipo di servitù equivale al massimo grado di libertà. “Servo del Signore” significa, in linguaggio biblico, uomo libero, il più libero che si possa immaginare, in quanto chi è “servo del Signore” non può essere, al tempo stesso, servo degli esseri umani.

La storia umana è impastata di sofferenza; eppure, il servo crede a Dio come al Dio della storia, e sa quindi che la sofferenza non avrà l’ultima parola. Nel frattempo, il servo la sofferenza la assume su di sé senza perdere la speranza, proprio come Giobbe; e con questa sua saldezza, oltre che con la sua “lingua pronta”, è in grado di divenire “luce delle nazioni”, di farsi testimone della potenza creatrice e rinnovatrice di Dio che rianima chi è stanco, chi è sfiduciato. Il servo, sofferente ma non disperato, non sconfitto, ancora in grado di annunciare le cose nuove di Dio, mostra che anche nella tragedia c’è uno spiraglio, che c’è una possibilità aperta anche là dove non è facile riuscire a vederla. E insegna la pazienza, il rispetto del tempo del Signore, che, a differenza del nostro, è spesso un tempo lungo. In questo tempo, però, i persecutori finiranno logorati come un vestito ormai consunto mentre lui, il servo, vedrà la sua apparente sconfitta tramutarsi in vittoria: non la sua vittoria, ma la vittoria del Signore. […]

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Domenica 25 Marzo – Lc 2, 33-35, Is 8, 14-15, 1 Pt 2, 4-8

Egli sarà un santuario, ma anche una pietra d’intoppo, un sasso d’inciampo per le due case d’Israele, un lacco e una rete per gli abitanti di Gerusalemme.

il messaggio che ci viene da Isaia, da Pietro e soprattutto dalle parole di Simeone nel racconto di Luca è un messaggio che non fa sconti a nessuno. Non ha avuto sconti Maria, la madre di Gesù, che con il suo “sì” all’annuncio dell’angelo si è offerta inerme  alla spada che le avrebbe trafitto l’anima. Non ha avuto sconti, non ne ha, non ne avrà mai chiunque si avvicini con serietà al Signore, perché la vicinanza del Signore mette in crisi, sconvolge gli equilibri, pone interrogativi su ciò che sembra ormai definitivamente acquisito. Fa cadere: fa cadere idoli, pregiudizi, preconcetti, abitudini inveterate, egoismi radicati. E rialza: rialza  perché chiama a una vita rinnovata, genera nuove energie, apre all’ascolto, alla generosità, alla condivisione. È segno di contraddizione: perché mette in contraddizione, innanzitutto, ciascuno di noi con sé stesso, obbligando a scelte, a prese di posizione spesso faticose, quando non dolorose. E in questo modo svela la realtà del cuore umano: una realtà che, se diamo ascolto a ciò che dice la Bibbia, è sempre una realtà oscura, torbida, nella migliore delle ipotesi confusa. La presenza del Signore ci interroga, ci mette a nudo, ci rivela chi siamo veramente, ci mostra tutta la nostra incoerenza; fa cadere ogni illusione che noi possiamo nutrire su noi stessi.[…]

La Scrittura ci chiede dunque di lasciare che la presenza di Dio distrugga molte cose dentro di noi. Isaia è particolarmente esplicito: “cadranno, saranno infranti”. Ma che cosa di noi deve cadere e infrangersi? La risposta è: tante cose, tante davvero. Proviamo a elencarne qualcuna? In primo luogo: deve morire Dio. Più precisamente: quell’immagine o quelle immagini di Dio che tutti noi, tutti senza eccezione, tendiamo a costruirci. Tutti noi nella nostra vita tendiamo a farci immagini di Dio. Molte di queste immagini sono abbastanza grossolane e risalgono più o meno direttamente alla nostra infanzia: per alcuni, Dio è un vecchio signore seduto su una nuvola, cioè in un luogo che si trova da qualche parte ma, in ogni caso, non dove si svolge la nostra vita; per altri, Dio è qualcuno che dovrebbe risolvere i problemi, qualcuno che possiamo ignorare tranquillamente nella vita di tutti i giorni ma che pretendiamo si metta immediatamente al nostro servizio nei momenti critici; per altri ancora, è un guastafeste che proibisce tutto ciò che dà piacere. Sono tutte immagini che con Dio hanno ben poco a che fare, perché sono immagini umane; e tutti probabilmente abbiamo anche fatto l’esperienza di come queste immagini a un certo momento vadano in frantumi. Molti, dinanzi a questa esperienza, concludono che Dio non esiste. Non pensano che in questo infrangersi delle vecchie immagini di Dio si manifesti la presenza del Signore, il quale vuol farci capire che Dio è altro. Dunque, Dio vuole che non ci facciamo di Lui alcuna immagine, alcuna rappresentazione mentale? No, non è così, anche se esiste tutto un filone teologico che propende per questa soluzione. Ma esiste un’immagine di Dio che possiamo legittimamente farci, ed è quella appunto rivelata da questo passo del vangelo di Luca: l’unica immagine valida di Dio è la Sua rivelazione in Gesù Cristo.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)