Sermone: Predicazione di Domenica 25 Marzo – Lc 2, 33-35, Is 8, 14-15, 1 Pt 2, 4-8

Egli sarà un santuario, ma anche una pietra d’intoppo, un sasso d’inciampo per le due case d’Israele, un lacco e una rete per gli abitanti di Gerusalemme.

il messaggio che ci viene da Isaia, da Pietro e soprattutto dalle parole di Simeone nel racconto di Luca è un messaggio che non fa sconti a nessuno. Non ha avuto sconti Maria, la madre di Gesù, che con il suo “sì” all’annuncio dell’angelo si è offerta inerme  alla spada che le avrebbe trafitto l’anima. Non ha avuto sconti, non ne ha, non ne avrà mai chiunque si avvicini con serietà al Signore, perché la vicinanza del Signore mette in crisi, sconvolge gli equilibri, pone interrogativi su ciò che sembra ormai definitivamente acquisito. Fa cadere: fa cadere idoli, pregiudizi, preconcetti, abitudini inveterate, egoismi radicati. E rialza: rialza  perché chiama a una vita rinnovata, genera nuove energie, apre all’ascolto, alla generosità, alla condivisione. È segno di contraddizione: perché mette in contraddizione, innanzitutto, ciascuno di noi con sé stesso, obbligando a scelte, a prese di posizione spesso faticose, quando non dolorose. E in questo modo svela la realtà del cuore umano: una realtà che, se diamo ascolto a ciò che dice la Bibbia, è sempre una realtà oscura, torbida, nella migliore delle ipotesi confusa. La presenza del Signore ci interroga, ci mette a nudo, ci rivela chi siamo veramente, ci mostra tutta la nostra incoerenza; fa cadere ogni illusione che noi possiamo nutrire su noi stessi.[…]

La Scrittura ci chiede dunque di lasciare che la presenza di Dio distrugga molte cose dentro di noi. Isaia è particolarmente esplicito: “cadranno, saranno infranti”. Ma che cosa di noi deve cadere e infrangersi? La risposta è: tante cose, tante davvero. Proviamo a elencarne qualcuna? In primo luogo: deve morire Dio. Più precisamente: quell’immagine o quelle immagini di Dio che tutti noi, tutti senza eccezione, tendiamo a costruirci. Tutti noi nella nostra vita tendiamo a farci immagini di Dio. Molte di queste immagini sono abbastanza grossolane e risalgono più o meno direttamente alla nostra infanzia: per alcuni, Dio è un vecchio signore seduto su una nuvola, cioè in un luogo che si trova da qualche parte ma, in ogni caso, non dove si svolge la nostra vita; per altri, Dio è qualcuno che dovrebbe risolvere i problemi, qualcuno che possiamo ignorare tranquillamente nella vita di tutti i giorni ma che pretendiamo si metta immediatamente al nostro servizio nei momenti critici; per altri ancora, è un guastafeste che proibisce tutto ciò che dà piacere. Sono tutte immagini che con Dio hanno ben poco a che fare, perché sono immagini umane; e tutti probabilmente abbiamo anche fatto l’esperienza di come queste immagini a un certo momento vadano in frantumi. Molti, dinanzi a questa esperienza, concludono che Dio non esiste. Non pensano che in questo infrangersi delle vecchie immagini di Dio si manifesti la presenza del Signore, il quale vuol farci capire che Dio è altro. Dunque, Dio vuole che non ci facciamo di Lui alcuna immagine, alcuna rappresentazione mentale? No, non è così, anche se esiste tutto un filone teologico che propende per questa soluzione. Ma esiste un’immagine di Dio che possiamo legittimamente farci, ed è quella appunto rivelata da questo passo del vangelo di Luca: l’unica immagine valida di Dio è la Sua rivelazione in Gesù Cristo.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Domenica 18 Marzo – Giovanni , 45-48

 

Natanaele gli disse: “Può forse venire qualcosa di buono da Nazaret?” Filippo gli rispose: “Vieni a vedere”.

L’evangelista Giovanni sta raccontando come Gesù raccolse intorno a sé i primi discepoli, e notiamo subito che questo gruppo si forma in un duplice modo: alcuni, Gesù li incontra di persona e rivolge loro un invito formulato con tanta autorevolezza che all’interpellato è impossibile resistere: in questi versetti avviene così per Filippo, mentre il caso più impressionante di “chiamata diretta” ce lo racconta Luca nell’episodio della vocazione di Levi (5: 27-28). Altri discepoli, invece, si avvicinano a Gesù perché sono incuriositi e attratti dalla sua fama, perché hanno sentito parlare di lui da qualcuno in cui hanno fiducia. Nel primo modello di chiamata risalta la potenza di Gesù, una potenza che non è di questo mondo; il secondo modello di chiamata è invece molto più consueto, molto più quotidiano, avviene mediante una sorta di “passaparola” che è un’esperienza familiare a tutti noi. In questi versetti giovannei è appunto con il “passaparola” che entrano a far parte della cerchia di Gesù Andrea, che lo segue per aver ascoltato Giovanni; Simone, che viene condotto a Gesù da suo fratello Andrea; e Natanaele, che viene invitato da Filippo a fare la conoscenza di Gesù. Tra tutti costoro, Natanaele è l’unico al quale Giovanni attribuisce una certa resistenza a questo incontro, uno scarso entusiasmo dettato da scetticismo per un presunto messia proveniente da una località così insignificante come Nazaret. Dinanzi alle obiezioni di Natanaele, Filippo non si dilunga in discorsi, ma propone un’esperienza diretta: “Vieni a vedere”.

Questa esigenza di sperimentare di persona, concretamente, la presenza di Dio è un tema ricorrente nel vangelo di Giovanni. “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”, dice Gesù ai discepoli nel discorso pronunciato durante l’ultima cena (13: 35). “Mostraci il Padre”, lo supplica poco dopo Filippo, e Gesù risponde “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (14: 8-9). “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi … io non crederò”, dichiara Tommaso, e Gesù risorto lo invita a fare l’esperimento: “Porgi qua il dito e vedi le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato” (20: 25-27). Potrebbe sembrare strano questo bisogno di vedere, di toccare, di provare, di gustare anche: sappiamo infatti che la fede di Israele si fonda sulla parola e sull’ascolto, che la dimensione del visibile come manifestazione del divino non è al cuore della tradizione del popolo ebraico ed è sostanzialmente estranea anche alla tradizione del cristianesimo protestante, incentrata sull’ “ascoltare” più che sul “vedere”.

Eppure, Gesù non si dimostra chiuso né scandalizzato dinanzi a questa esigenza così umana, l’esigenza che Dio si manifesti alla sua creatura non solo mediante la Parola ma anche per altre vie, vie più concrete, più tangibili. Certo, c’è il suo rimprovero all’incredulo Tommaso; ma più che di un vero rimprovero si tratta di un confronto tra due diversi livelli di fede, quello più maturo che non ha bisogno di “vedere” e quello più imperfetto, che richiede qualcosa di simile a una “prova”. Un tempo, lo sappiamo, dell’armamentario teologico faceva parte tutto un repertorio di cosiddette “prove dell’esistenza di Dio” basate su argomentazioni razionali: si tratta di “prove” che mai sono riuscite a portare alla fede un non credente e che tanto meno al giorno d’oggi possono ritenersi proponibili ai nostri contemporanei, uomini e donne bisognosi di essere toccati, coinvolti nell’intimo, in ciò che la Bibbia chiama “cuore”. […]

Oggi, a chi cerca Gesù non è più possibile, come era possibile per i primi discepoli, incontrarsi con una persona in carne ed ossa, dotata di una piena fisicità; oggi chi è in ricerca deve rivolgersi a coloro che Gesù ha lasciato come suoi testimoni, a quelli che compongono la sua Chiesa. Devono rivolgersi, quindi, a noi. E noi, che cosa abbiamo da offrire a queste persone in ricerca? Tante cose, moltissime cose, ma in primo luogo dobbiamo rivolgere loro l’invito che Filippo rivolse a Natanaele: “Vieni a vedere”.

“Vieni a vedere”.  È l’invito che anche noi rivolgiamo a chi ci avvicina dimostrandosi interessato, o quanto meno incuriosito, nei confronti di questa realtà così strana e anomala nel contesto religioso e culturale italiano: una Chiesa evangelica. Certamente, se l’interesse di questa persona ci sembra profondo, motivato, noi pastori proponiamo un percorso catechetico da svolgere mediante un ciclo di incontri personali, ma il primo passo resta sempre questo invito: “vieni a vedere”. L’invito può essere naturalmente formulato in altri termini, ma la sostanza resta questa: vieni a “provare”, come dice il salmo, vieni a “gustare”, come dice la lettera di Pietro, vieni a “toccare con mano”, per dirla con Tommaso; vieni, insomma, a renderti conto di persona come il Signore si manifesta nella comunità dei credenti.  Ho avuto ormai varie occasioni di rendermi conto dell’importanza fondamentale di questo “venire a vedere” per la nostra testimonianza cristiana ed evangelica. Come a tanti pastori, anche a me capita di venire chiamata a parlare della nostra fede in qualche scuola, o in qualche gruppo cattolico aperto e disponibile; di solito vengo ascoltata con interesse e mi vengono rivolte varie domande, alle quali rispondo con la massima precisione possibile. Mi rendo sempre conto, però, che queste spiegazioni, per quanto esaurienti, non bastano, e allora rivolgo l’invito: “perché non venite una volta nella chiesa metodista di Padova, a vedere come si presenta un luogo di culto evangelico?”. Anzi, qualche volta la richiesta parte direttamente dai miei interlocutori, dagli insegnanti o dai responsabili del gruppo parrocchiale: “possiamo una volta venire nella tua chiesa?”. E poi vengono davvero, e noto che tutti sono incuriositi e interessati: qualcuno è perplesso, qualche altro è chiaramente a disagio, ma molti sembrano, invece, trovarsi molto bene nel nostro ambiente, quasi “a casa loro”; e c’è poi qualcuno che il giorno dopo me lo conferma, con una telefonata, un biglietto, una e-mail, e magari chiede se può una domenica partecipare al culto.

“Vieni a vedere”. Ma che cosa dovrebbe vedere, questo visitatore curioso? Vedrebbe, certamente, un locale di culto come non se ne vedono molti in Italia, una chiesa che non sembra nemmeno una chiesa, priva com’è di decorazioni, di dipinti, di statue, di tabernacoli, di arredi sacri, una chiesa in cui il punto focale sul quale converge lo sguardo è una grande Bibbia aperta su un leggìo; e spetterebbe a noi, allora, spiegargli perché questa chiesa si presenta così, raccontargli quindi la nostra storia e la nostra fede. Eppure, l’aspetto esteriore della nostra chiesa, sebbene importante per molti motivi, non è l’essenziale di ciò che il nostro visitatore curioso dovrebbe vedere, dovrebbe scoprire, presso di noi. L’essenziale dovrebbe essere, piuttosto, la “casa spirituale” di cui parla Pietro: una casa edificata sì con pietre materiali ma animata da “pietre viventi”, una casa nella quale tutti coloro che la abitano esercitano “un sacerdozio santo”, offrendo “sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo”.

Insomma, il nostro visitatore dovrebbe essere messo in condizione di “vedere” nella nostra comunità la realizzazione concreta di ciò che intendeva Lutero, allorché diceva che ogni cristiano è partecipe del ministero sacerdotale di Cristo. Dovrebbe vedere una comunità che non soltanto crede a questo principio dottrinale, che è uno dei capisaldi della Riforma, ma vi aderisce con tutta sé stessa e lo mette in pratica quotidianamente. E come lo mette in pratica? Risponde ancora Pietro: lo mette in pratica sbarazzandosi “di ogni cattiveria, di ogni frode, dell’ipocrisia, delle invidie e di ogni maldicenza”. Si può obiettare che il nostro visitatore non può certo aspettarsi di essere stato invitato a “venire a vedere” una comunità perfetta. Certamente no; ma ha tutto il diritto di aspettarsi  una comunità che, nonostante tutte le sue fragilità, è salda nella fede e cerca di comportarsi come si comporta – per usare ancora le parole di Pietro – “chi davvero ha gustato che il Signore è buono”. Vogliamo dirla con parole più semplici? Ricorriamo allora alle parole del discorso di Gesù riportato da Giovanni, al quale accennavo prima: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”. No, certo, il nostro visitatore non ha diritto di aspettarsi una comunità perfetta; ha tutto il diritto, però, di aspettarsi una comunità di discepoli. Discepoli che facciano davvero vedere, conoscere, gustare, provare “quanto il Signore è buono”.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Domenica 11 Marzo – Osea 10, 12

Seminate per voi secondo giustizia e mieterete secondo bontà; dissodatevi un campo nuovo, perchè è tempo di cercare il Signore, finché egli venga e diffonda su di voi la giustizia.

La Parola di Dio, che ci giunge attraverso le parole della Scrittura, è così ricca di senso che i nostri giorni su questa terra non bastano perché ne possiamo comprendere tutto il significato profondo che ci è necessario per la costruzione della nostra interiorità dalla quale nascono le nostro azioni, davanti a Dio e davanti agli uomini.

Perciò è prezioso ogni momento che dedichiamo alla meditazione, ma in particolare lo è questo breve tempo che ritagliamo negli affanni quotidiani per dedicarlo al culto comune. Questo ci permette di uscire dalle nostre varie solitudini per sostare insieme ai piedi del Maestro, sapendoci discepoli chiamati ad avere un medesimo animo, consapevoli della povertà dei nostri linguaggi ma tesi nella preghiera che lo Spirito santo ci sia luce e guida.

Quando l’evangelo ci parla di terra, di seme, di grano buono, parla della nostra vita. Della nostra vita di uomini e donne, di esseri singoli e al tempo stesso strettamente interdipendenti gli uni dagli altri in quella fitta rete di aggregazioni umane che ricoprono la faccia di questa nostra terra. L’agricoltore non lavora a caso. Se vuole del buon grano che gli dia pane per campare, lavora al meglio il campo che ha. Comincia prima di tutto da quello. Poi si sceglie la qualità del seme, semina, e a suo tempo raccoglie. Non c’è niente di nuovo in questo: è stato così fin dai tempi dei tempi e avviene anche oggi. Ma se il coltivatore vede che il campo non gli dà pane, lo lascia e dissoda un campo nuovo. E questa volta sa che non dovrà fallire – ha bisogno estremo di alimento, quindi è lì, in questo campo nuovo che porrà le sue energie e lì fonderà le sue speranze per il suo presente e per il suo futuro. Proprio così è della nostra vita. […]

Ebbene, l’appello che ci viene dalla Parola è chiaro: in tutti questi casi non ci può, non ci deve essere esitazione. Abbandoniamo il vecchio e dissodiamo un campo nuovo. Facciamoci un’altra vita. È questo che hanno fatto tutti coloro che si sono convertiti alla buona notizia dell’evangelo, che si sono aperti nell’interezza della propria persona a Dio perché egli vi deponga il seme del Regno di giustizia – o del Regno dei cieli come la Bibbia spesso lo chiama – che il Cristo ha già seminato e che è già presente sulla terra e nella nostra stessa vita, come molti di noi sanno per esperienza; e poi hanno rovesciato la propria terra per scendere a una maggiore profondità e riconoscervi gli elementi utili che frutteranno in nutrimento e vita. Cambiamento, rinnovamento, lo sentiamo invocare tutti i giorni nella crisi che attraversa gran parte del mondo. Ma da dove si comincia? C’è un solo punto di partenza utile ed efficace e ce lo dice il nostro testo: è tempo di cercare il Signore, finché egli venga e diffonda su di noi la giustizia. Il riassetto dell’anima nostra dipende dal rinnovamento dei nostri pensieri e del nostro agire nell’appassionata e quotidiana ricerca di Dio come è stato reso luminosamente evidente nel Cristo, nella sua predicazione, nella sua compassionevole personificazione nei più miseri, nella sua mite assunzione di morte come di un agnello sacrificale e che il Padre ha tradotto nella gloria eterna della vittoria sul male e sulla morte. E’ con questa realtà che il mondo oggi si scontra e si confronta – tutto il mondo nelle sue molteplici forme di costumi, di pensieri, di conoscenze, di linguaggi, di logiche di vita, oggi con questa realtà vissuta e presente nel Cristo, il mondo si scontra.

l riassetto economico della gente, di cui si sente un bisogno enorme, dipende dalla scoperta che la ricerca di questo Dio che cozza contro tutti gli egocentrismi è il luogo dove uomini e donne ritrovano dignità e piena umanità. Il riassetto del mondo sociale e politico dipende dal piegare gli orgogli e gli egoismi che dominano i popoli e le società nella scoperta che il rinnovamento sta nei piani di Dio per gli uomini, predicati e resi reali nel Cristo, e non nei piani degli uomini. Questo è il messaggio che questa nostra piccolissima comunità. molto poveramente e molto immeritatamente vuole vivere e annunciare. Perciò ci giunge preziosa l’esortazione dell’apostolo: carissimi, state in guardia per non venir meno nella vostra fermezza, travolti anche voi dall’errore degli empi; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. A lui la gloria, ora e nel giorno dell’eternità. Amen!

(Estratto dalla riflessione della sorella Febe)

Sermone: Predicazione di Domenica 4 Marzo – Efesini 2, 8-10

E’ per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi: è il dono di Dio. Non è in virtuù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua , essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.

Le opere buone! Credo che, tra tutti i punti che differenziano protestanti e cattolici nel modo di vivere e di interpretare la fede cristiana questo delle opere buone sia uno dei più conosciuti. Sì: in genere, in un Paese come il nostro, prevalentemente cattolico almeno come cultura e come tradizione, i protestanti sono “quelli che non credono [in ordine di importanza] nel papa, nella Madonna e nelle opere buone”. Credono solo nella Bibbia: eppure anche la Bibbia parla di “fare opere buone”, per esempio in questo passo della lettera agli Efesini, o anche nel versetto di Matteo che abbiamo ascoltato (Mt 5, 16). Come la mettiamo, allora?

Risposta immediata: consideriamo il contesto di questa affermazione di Paolo sulle opere buone. È un contesto dal quale risalta molto chiaramente quello che è il principio basilare della Riforma, cioè l’inutilità delle opere umane, anche di quelle buone, per acquistare la salvezza: per “essere giustificati”, per usare il termine teologicamente più preciso, che tuttavia ai nostri contemporanei suona di difficile comprensione. Per dirla tutta, è un discorso che anche molti protestanti faticano ad accettare. Non è una cosa che vada da sé, che l’essere umano sia “giustificato”, cioè accettato da Dio e a Lui gradito, solo per fede. Il nostro buonsenso vorrebbe che quanto meno si fosse “giustificati” per fede e per opere, le opere buone che tutti, se vogliamo, possiamo compiere. Anzi, può perfino darsi che, sotto sotto, anche noi protestanti pensiamo che quello che conta per Dio sono proprio le opere – s’intende quelle buone – perché quello che conta davvero nella vita, anche nella vita cristiana, non è ciò che pensiamo, crediamo e diciamo, ma ciò che facciamo, e in questo senso siamo inclini a pensare che in fin dei conti siamo giustificati solo per opere: sono infatti le opere, e non altro, il banco di prova della fede. Questo discorso è più che ragionevole, di una ragionevolezza tutta umana; ma non è il discorso che fa la Scrittura.

La Scrittura infatti ci dice che le nostre opere, per buone che siano, non possono saldare il nostro debito con Dio. Ma come, siamo debitori verso Dio? In che senso lo siamo? Sì, siamo in debito verso di Lui, se crediamo in Lui. Abbiamo nei suoi confronti  il debito dell’obbedienza che il figlio o la figlia hanno nei confronti del Padre; il debito della riconoscenza, che la creatura ha nei confronti del Creatore; il debito della lode, che il prigioniero ha nei confronti di Chi lo ha liberato; il debito dell’amore, che l’amato ha nei confronti di Colui che lo ama; il debito della testimonianza, che ha chi ha scoperto Dio e sé stesso nella storia e nell’opera di Gesù di Nazareth. […]

Per saldarlo non servono né le “buone opere” che possiamo aver compiuto, poche o molte che siano, né alcun altro mezzo. Anche perché noi non abbiamo nessuna idea della ferita che le nostre trasgressioni provocano in Dio (ci pensiamo mai? Dio soffre, è ferito ogni volta che il suo meraviglioso progetto di vita e di amore viene violato, viene vanificato dalle trasgressioni degli esseri umani);  così come non abbiamo nessuna idea del danno che recano alle vittime. Questo avviene anche, forse soprattutto, per esempio, nel caso di colpe che non sono tali per la legge umana ma solo per la legge divina, come ad esempio nutrire rancori o invidie, diffondere maldicenze, o semplicemente non fare il bene che potremmo fare. Sotto questo aspetto, nessuno di noi si salva. Se siamo onesti dinanzi a Dio, non possiamo non riconoscerci in quello che dice l’evangelista Giovanni: “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi” (1 Gv 1: 8).  […]

Quali sono gli impulsi ai quali obbediamo, anche quando compiamo qualcosa di buono? Siamo sicuri di essere sempre generosi, sempre solleciti del bene altrui prima che del nostro, sempre pronti a mettere in secondo piano i nostri interessi, la nostra comodità, il nostro quieto vivere se qualcuno ha bisogno di noi?  E anche quando facciamo del bene, e lo facciamo sinceramente e con dedizione: siamo sicuri della nostra purezza, del nostro totale disinteresse? Siamo sicuri di non strumentalizzare mai, nel fondo del nostro animo, coloro che serviamo, si tratti del nostro prossimo o della nostra Chiesa?  La durezza dei versetti della Genesi ci libera da una doppia illusione. La prima è l’illusione su noi stessi: pensare cioè di essere fondamentalmente buoni così come siamo, indipendentemente da Cristo. La seconda illusione è di poter stabilire che cosa è bene (e inversamente che cosa è male) indipendentemente da Dio e dalla sua parola. Conseguenza di queste due illusioni è l’atteggiamento dal quale Paolo ci mette in guardia: “vantarci” delle nostre opere.

È necessario, a questo punto, evitare che si crei un malinteso. Dio ama le buone opere, le apprezza, le valorizza, le ricompensa in questa vita e in quella futura. Ricordiamo che cosa dice Gesù nel sermone sul monte, parlando dell’elemosina, della preghiera, del digiuno: parla di ricompensa (Mt 6: 4,6,18). Ricompensa, altro non significa se non l’approvazione di Dio sull’opera dell’essere umano. Significa che l’essere umano si trova in sintonia con il progetto di Dio per l’umanità, si trova in armonia con la volontà del Signore. Non c’è ricompensa più alta, né premio più ambito di questo. Perciò, a chi ci domandasse “ma per voi protestanti, le opere non meritano proprio nulla?” noi dovremmo rispondere: “sì che meritano! Meritano la lode più alta che si possa avere su questa terra, quella di Dio!”. Dio dunque si compiace delle nostre buone opere e le premia, cioè le approva. Ma queste buone opere non servono in alcun modo a costituire nemmeno in parte la nostra giustizia davanti a Dio, per il semplice motivo che la nostra giustificazione, essendo ottenuta da Cristo sulla croce, precede le nostre opere buone, che noi compiamo non per essere giustificati, ma perché, per pura grazia, siamo stati giustificati davanti a Dio per l’opera che Gesù ha compiuto per noi e per il mondo. In conclusione: le nostre opere buone sono buone per il nostro prossimo al quale sono destinate; sono buone per Dio, che le gradisce e le premia con la sua approvazione; non sono buone per la nostra salvezza, perché non ne abbiamo bisogno, avendocela Dio già donata in Cristo gratuitamente.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)