Eventi: DOMENICA 2 DICEMBRE 2012: GIORNATA DI FESTA PER LA NOSTRA COMUNITA’

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Domenica 2 Dicembre sarà una giornata di festa per la comunità Metodista e Valdese di Padova. Si starà assieme, in questo inizio di dicembre, iniziando alle 10 con il gruppo giovani (il primo!). Seguirà poi alle 11 il consueto culto domenicale per approdare alle 12.30 all’agape (si mangia!) curata dall’Unione Femminile. Ci sarà anche il bazar (mercatino) e, a seguire, alle 14.30 circa la lotteria.

Per partecipare al pranzo comunitario, basta telefonare ad Antonella al 3929586601

Anche chi avesse qualche oggetto in buono stato da regalarci per il nostro bazar è pregato di mettersi in contatto sempre con la nostra Antonella.

VI ASPETTIAMO (che siate membri di Chiesa o no, braccia aperte per tutti).

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 25 NOVEMBRE 2012 (Mt 25: 1-13 Ap 21: 1-7 Is 65: 17-19, 23-25)

NUOVI CIELI E NUOVA TERRA

Siamo arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico, quando la liturgia ci invita a riflettere sul significato del tempo e dell’eternità. E proprio “domenica dell’eternità” è il nome che il calendario liturgico assegna a questa domenica. Meditare sull’eternità: non è un compito facile quello che ci viene proposto oggi, perché si tratta di elaborare delle idee, delle immagini di qualcosa che sfugge alla nostra esperienza, qualcosa di cui possiamo soltanto avere qualche barlume di intuizione. Nell’eternità sfocia il tempo. Volgere la nostra attenzione all’eternità significa quindi renderci attenti al tempo che ci è stato dato come un dono, un’opportunità preziosa di cui fare buon uso, perché saremo chiamati a renderne conto; perché la nostra eternità è strettamente legata al nostro tempo, cioè al modo in cui questo tempo noi l’abbiamo vissuto. Parlavo di farne buon uso. “Buono”, in questo caso, equivale a “saggio”, “avveduto”; proprio come sagge e avvedute furono cinque delle dieci ragazze delle quali parla Gesù nella parabola riportata da Matteo. Perché sono dette “avvedute”? Non perché siano rimaste sveglie. Tutte e dieci le ragazze della parabola si sono addormentate. A differenza delle altre, però, le cinque ragazze sagge sono pronte per ciò che le attende. Come le altre, non conoscono l’ora in cui lo sposo verrà; ma appunto per questo si sono organizzate, e quando è il momento fanno quello che sanno di dover fare: preparano le lampade, utilizzando la loro scorta di olio. Le cinque sprovvedute, invece, perdono completamente la testa, con esiti disastrosi. Perché questo fallimento finale per le cinque ragazze “stolte”? Perché hanno perduto un’occasione destinata a non ripetersi più. È quanto avviene a tanti di noi. E questo succede quando non si comprende che l’attesa non è un periodo che comincia e che finisce; che non è un tempo, ma un atteggiamento, un modo di impostare la propria esistenza. L’attesa di Dio dura tutta la vita, non è a termine; e questo atteggiamento di attesa è connaturato alla fede. Non si può dire di aver fede se non si sa attendere il domani di Dio, che verrà non quando lo aspettiamo noi, ma quando lo avrà deciso Dio stesso. Si tratta di un’attesa che il credente vive in modo consapevole e, pertanto, con tranquillità, in modo rilassato. Il vero credente può permettersi il lusso di addormentarsi, perché è ben preparato per ciò che lo attende al risveglio. Il suo sonno è un sonno sereno, benefico, ristoratore; non è il sonno, magari indotto artificialmente, di chi tenta di sfuggire a una realtà che lo spaventa. Tanto nella veglia quanto nel sonno, chi ha fede vive tranquillo perché, come le cinque ragazze avvedute, si è organizzato, ha fatto scorta di olio: ha deciso, cioè, di affidarsi totalmente al Signore. E quando il Signore deciderà di venire, di irrompere nella vita del credente, il risveglio non sarà traumatico. Sarà un entrare nella casa dello sposo, per festeggiare insieme a lui. Ma come dobbiamo interpretarla, questa “venuta” del Signore nella nostra vita? L’interpretazione tradizionale la identifica con l’incontro personale che avremo con lui al momento della morte. Non credo che questa sia un’interpretazione superata, da scartare; credo, piuttosto, che debba essere ampliata. Ho parlato di un Dio che “irrompe nella vita del credente”; ebbene, questo può avvenire in qualunque momento della vita. Compreso anche il momento estremo che noi chiamiamo morte. Qualunque momento può essere un momento in cui il Signore viene da noi come uno sposo che ci apre la porta di casa sua per farci partecipare alla sua festa. Momenti del genere sono occasioni irripetibili di incontro con la grazia del Signore, da vivere nella gioia; sono momenti che, per essere vissuti pienamente, richiedono appunto una vita impostata secondo lo spirito dell’attesa. Un’attesa non inquieta, non angosciata, ma fiduciosa; un’attesa che ha il colore della speranza. Speranza e gioia. Sono questi i sentimenti che animano tanto i versetti di Isaia quanto quelli dell’Apocalisse: a far festa è Gerusalemme in Isaia, la nuova Gerusalemme nell’Apocalisse; ma anche la Gerusalemme di Isaia è una Gerusalemme del tutto nuova, rinnovata in modo radicale. In entrambi i passi biblici si annunciano nuovi cieli e nuova terra. Perché questo porta con sé la venuta del Signore: una novità di vita. Una simbologia di straordinaria suggestione, questa di Isaia, come pure quella dell’Apocalisse. Una visione abbagliante. Che cosa potremmo volere di più? Proprio nulla. E allora, la nostra reazione potrebbe essere quella di dire “Amen”, chiudere la Bibbia e andarcene a occuparci dei fatti nostri, delle concrete, pressanti e molto spesso grige e meschine incombenze quotidiane, tra le quali è davvero molto difficile scorgere qualche indizio di nuovi cieli e nuova terra, di prossima venuta dello sposo, di feste imminenti. Troppo spesso, guardandoci intorno, non vediamo altro che notte profonda, senza suoni e luci di cortei nuziali. Voci di pianto, grida di angoscia, morti premature – queste sì, invece, ne ascoltiamo e ne vediamo fin troppe. E abbiamo ampia esperienza di preghiere non esaudite. Visione abbagliante, quella di Isaia; ma pur sempre visione, non realtà. E se, invece, la “visione” di Isaia fosse tale non perché irreale, ma proprio perché capace di “vedere” più lontano e più in profondità, perché capace di mettere a fuoco una realtà più reale, più vera di quella che siamo in grado di percepire con la nostra razionalità, con i nostri sensi, con la nostra capacità di programmare solo a breve scadenza – proprio come le cinque ragazze stolte? Riflettiamo su ciò che si proponeva l’autore di questi versetti, il cosiddetto terzo Isaia. Il terzo Isaia è il profeta di un nuovo inizio per Israele: nel senso di futuro storico, ma anche di un futuro più ampio, più grande, più definitivo. Si tratta di un futuro inimmaginabile, inconcepibile, un futuro da sogno; eppure, se il profeta propone al suo popolo questa visione non è per farlo sognare, è per rivolgergli vocazione. E questo vale anche per noi: su questi versetti non dobbiamo sognare, come se dormissimo il sonno irresponsabile delle cinque ragazze sprovvedute; dobbiamo metterci in ascolto. La visione dei nuovi cieli e della nuova terra è, sì, utopia, ma è al tempo stesso realtà, perché è una possibilità che si spalanca, un compito che viene assegnato. Qual è questo compito? Innanzitutto, quello di tenere sempre le nostre lampade rifornite d’olio. Di mantenerci, cioè, sempre disponibili a riconoscere l’azione del Signore nella nostra vita, o meglio, la grazia del Signore in azione nella nostra vita. Tante volte non la sappiamo riconoscere, appunto perché non la sappiamo attendere nel vero senso della parola, perché la speranza è assente dalle nostre vite; si spiega così perché le nostre vite sembrino intessute di voci di pianto e di grida d’angoscia, di invocazioni senza risposta e di preghiere non esaudite. Noi manchiamo di speranza perché manchiamo di fede – tutti noi manchiamo di fede, nessuno escluso –, appunto per questo so bene che questo invito a riconoscere la grazia del Signore nella nostra vita può essere accolto con scetticismo, può suonare come un invito a cullarci nelle illusioni. Eppure, se pensiamo al nostro passato credo che a tutti noi capiti di riconoscere che certi fallimenti, certe occasioni mancate sono da addebitare proprio alla nostra carenza di speranza e di fede. Quello che più colpisce nel passo di Isaia è che Dio festeggia con Gerusalemme. Quando è che Dio festeggia? Quando la terra festeggia, quando la terra diventa un’unica grande città della gioia. Allora la gioia di Dio è il riflesso della gioia del mondo. Si delinea così il secondo compito verso il quale il profeta spinge la comunità di Israele, e noi con lei: suscitare una novità sulla base di questa visione che il profeta le mette dinanzi agli occhi. Isaia ci spinge a mobilitarci come credenti, come comunità umana, ad andare incontro ai nuovi cieli e alla nuova terra. Questo non significa che spetti a noi realizzare questa novità di vita. A noi spetta bussare alla porta dello sposo, cioè lasciarci coinvolgere nel progetto di Dio. E questo potremo farlo solo se la nostra attesa sarà un’attesa saldamente fondata sulla fede. Allora, sì, qualche frammento di questo “nuovo” anche noi potremo contribuire a costruirlo che ci dia il segno che questo “nuovo” non è un sogno, ma è una realtà del futuro che diventa presente. Un futuro nel quale, dice Isaia, “il lupo e l’agnello pascoleranno insieme”. Un futuro per definire il quale non saprei trovare termine migliore di “ecumenico”. È vero: l’aggettivo rimanda a un vocabolo, “ecumenismo”, che in molti di noi suscita ormai un senso di noia, di inutilità, talvolta quasi di fastidio. È triste riconoscerlo, eppure è così. Da decenni le varie confessioni cristiane si cimentano in questo sforzo, in questa tensione – non verso l’unità, questo lo sappiamo tutti molto bene, bensì verso un traguardo più modesto eppure meraviglioso, quello della “diversità riconciliata”. Ma nemmeno questo obiettivo siamo riusciti a raggiungere. Che cosa dobbiamo fare, rassegnarci? “Rassegnazione” è vocabolo che non appartiene al lessico dell’Evangelo; non ha nulla a che fare né con l’attesa, né con la speranza. Perché non provare piuttosto, a vivere in una prospettiva ecumenica a 360 gradi che si estenda ben oltre le nostre spesso misere realtà confessionali per generare una “riconciliazione delle diversità” estesa non solo a ogni realtà umana, ma al creato intero? Proviamoci tutti quanti, diversi come siamo: lupi e agnelli, leoni e buoi, senza escludere nemmeno i serpenti. Questo significherebbe davvero vivere il tempo dell’attesa costruendo in vista dell’eternità, un’eternità di benedizione. Amen.

(Sermone a cura di Caterina Griffante, Pastora della nostra comunità)

LA CHIESA EVANGELICA METODISTA DI PADOVA E’ IN FESTA!

DUE NUOVI MEMBRI ENTRANO A FAR PARTE DELLA NOSTRA COMUNITA’ PROPRIO NEL GIORNO DELLA RIFORMA

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Doppia festa domenica 28 Ottobre a partire dalle ore 11.00 per la Chiesa Evangelica Metodista di Padova. Oltre alla tradizionale ricorrenza della Festa della Riforma (come tutti sanno, il ricordo va al 31 Ottobre del 1517 quando Martin Lutero diede il via alla sua riforma della Chiesa) si festeggiavano anche due giovani (45 anni in due, come ben evidenziato dalla Pastora della comunità, Caterina Griffante) che, con la loro Professione di Fede, hanno detto sì ad un altro modo di seguire Cristo.

Si tratta di Alberto Ruggin (a destra nella foto) 25 anni, impiegato commerciale in un’azienda del settore telefonia, residente ad Este (Bassa Padovana) e Federico Tirindelli (a sinistra nella foto) studente all’università di Padova, facoltà di Scienze Politiche con indirizzo Relazioni Internazionali e Diritti Umani, 20 anni, residente a Padova ma nativo di Abano Terme. Entrambi provenienti dalla Chiesa Cattolica ed entrambi iscritti alla F.G.E.I.

Ma perché hanno compiuto questo passo che, in un Veneto dominato largamente dalla cultura cattolica appare veramente “rivoluzionario”?

Glielo abbiamo chiesto.

Alberto: “Ho deciso di aderire alla Chiesa Valdese in seguito ad un percorso personale di studio e di riflessione, al termine del quale ho potuto constatare come una persona, nel 2012, che voglia vivere veramente la propria fede in armonia con la propria affettività, non possa non riconoscersi nel protestantesimo storico. In sostanza, a mio avviso, una persona può vivere, con coerenza, il suo essere omosessuale e cristiano, in una chiesa come quella dove mi accingo ad entrare con gioia. Ho scelto, infine, di entrare come membro valdese in quanto attratto dalla figura e dalla spiritualità di Pietro di Valdo”.

Federico: “Il mio incontro con la realtà valdometodista risale all’inizio del 2010. La ricerca di una chiesa diversa da quella in cui sono cresciuto, vale a dire la Chiesa Cattolica, nasce da una mia adesione, maturata nel tempo attraverso una lettura approfondita della Bibbia, ai principi fondamentali del protestantesimo storico, vale a dire in primis la salvezza per sola Grazia mediante la fede, il “Sola Scriptura”, con contestualizzazione dei testi biblici, “Solus Cristus”, “Soli Deo Gloria”. Facendo delle ricerche in internet ho poi scoperto la comunità metodista di Padova”.

Entrambi sono particolarmente “attivi e promettenti”, non solo sul piano della realizzazione personale (Federico nutre ambizioni relativamente alla carriera diplomatica o del funzionariato internazionale mentre Alberto è il conduttore, presso una radio locale, di un programma su tematiche LGBT) ma anche in vista di un futuro sviluppo della nostra comunità.

Entrambi, infatti, hanno l’intenzione di creare un gruppo giovani nella comunità valdometodista di Padova in collaborazione (siamo ancora in fase di “studio”) con quella battista che ne condivide i locali. Oltre a ciò, nell’estate di quest’anno, hanno agganciato dei contatti con la Chiesa di Svezia (luterana) per dei possibili scambi/gemellaggi futuri, con particolare attenzione alle realtà giovanili delle due chiese. Inoltre, l’estate prossima andranno entrambi in Argentina ed in Uruguay con altri ragazzi della realtà valdometodista/battista per uno scambio con le comunità valdesi del Rio De La Plata, con il proposito di portare a casa degli spunti per arricchire la nostra comunità. Infine, uno dei loro obiettivi principali, è anche quello di divulgare la conoscenza della realtà valdometodista, ancora assai poco conosciuta in Italia, non a scopo di proselitismo ma per far capire che, per chi lo desideri, esistono altre forme possibili di cristianesimo oltre al cattolicesimo.

Torniamo alla giornata di festa, che ha visto la chiesa di Padova stracolma (non capita spesso di vedere i banchi occupati e gente in piedi!) impegnata in un culto assai sentito e partecipato, diretto dalla Pastora Caterina Griffante, allietato dal coro Gospel-Up che si è anche esibito in un mini concerto al termine del rito. E poi … tutti all’agape! Organizzata e gestita dalle appartenenti al gentil sesso della comunità, la giornata si è conclusa con il pranzo nei locali sociali della Chiesa.

“Famiglia Cristiana, o più semplicemente Famiglie?” Resoconto di un grande evento

Foto: TAVOLA ROTONDA SABATO 27 OTTOBRE 2012 "FAMIGLIA CRISTIANA? O, PIÙ SEMPLICEMENTE, FAMIGLIE?" - CHIESA METODISTA DI PADOVA - Corso Milano, 6

 

Alla presenza di una trentina di persone, si è tenuta, Sabato 27 Ottobre, presso la nostra sala di culto, la tanto attesa Tavola Rotonda dall’accattivante titolo “Famiglia Cristiana, o più semplicemente Famiglie?” organizzata dalla nostra Chiesa.

Introdotti brevemente dalla nostra Pastora, Caterina Griffante, sei rappresentanti delle istituzioni e delle confessioni religiose locali, si sono confrontati su posizioni assai diverse ma accomunati tutti da un grande rispetto ed interesse per l’argomento.

Ha moderato i lavori l’Avvocato Manuel Giacomazzi che ha iniziato il suo intervento partendo dagli articoli della nostra Costituzione (29, 30 e 31 che definiscono la famiglia in quanto “società naturale” e gli art. 2 e 3 che ne danno invece una concezione più ampia). L’Avv. Giacomazzi ha quindi dichiarato come la Corte Costituzionale, con la sentenza 138/2010, a seguito di un caso sollevato dal Tribunale di Venezia, e successivamente, a seguito di analogo caso sollevato dalla Corte d’Appello di Roma, abbia dato, unitamente alla Corte di Cassazione, una risposta forte sul tema delle unioni omoaffettive, stimolando il legislatore (Parlamento) a dare risposte in tal senso. In sintesi, ci troviamo difronte, conclude il relatore, ad un evidente “distacco” fra i nostri massimi organi giuridici (più “avanti” sull’argomento) rispetto al legislatore.

E’ stata quindi la volta di Marco Bouchard, magistrato e docente universitario, membro della Commissione del Sinodo Valdese incaricata, nel 2010, di preparare un documento ufficiale in merito alla benedizione delle coppie omoaffettive. Il Dottor Bouchard ha chiaramente ricordato come le Chiese Valdesi e Metodiste non abbiano un loro modello di famiglia da proporre, ma cerchino di contribuire ad un modello cristiano della stessa. In sostanza, queste Chiese riconoscono la pluralità dei modelli di famiglia, riconoscendo come il matrimonio e l’istuto familiare siano e debbano essere “quello che dice la legge in materia”. Il matrimonio, ha ricordato inoltre, per le chiese che si riconoscono nel protestantesimo “classico” (come appunto i Valdesi ed i Metodisti) non è un sacramento e quindi non è da considerarsi indissolubile. Queste Chiese riconoscono inoltre l’omoaffettività come una dimensione propria del singolo ma anche come unione, legame fra due persone. A questo si è arrivati allorquando, nel 2010, il Sinodo, stimolato dalla benedizione di una coppia omoaffettiva a Trapani e dalla celebrazione del battesimo di un bimbo di una coppia “arcobaleno” a Roma, avvenuti entrambi in chiese valdesi, abbia deciso di emanare un documento ufficiale sul tema affidandolo, per l’appunto, ad una commissione di cui faceva parte anche il relatore in questione. Il Sinodo delle Chiese Valdesi e Metodiste, spinto dalla situazione di clandestinità e di difficoltà in cui si trovavano e si trovano tuttora molti fedeli, si è quindi imposto una presa di posizione, ovvero la benedizione delle coppie omoaffettive solo in quelle comunità ove non vi sia una “ostilità manifesta”.

E’ stata quindi la volta di Maurizio Pioletti, responsabile della campagna “Una volta per tutti” volta alla raccolta di firme per una iniziativa di legge popolare (partita a giugno di quest’anno) in merito al riconoscimento delle unioni civili. Come ha ben detto il relatore, si tratta di una iniziativa “per una società veramente civile” e volta non solo alle coppie omoaffettive. In sintesi, la campagna mira ad estendere i diritti e i doveri del matrimonio tradizionale, ad una introduzione del P.A.C.S. (Patto di Azione Civile di Solidarietà) sul modello francese e al riconoscimento del diritto di assistenza anche alle unioni di fatto e non solo alle famiglie tradizionali.

A seguire, don Enrico Piccolo, assistente diocesano di Azione Cattolica, che si è definito “non in rappresentanza della Chiesa ma come un prete che non ha specifiche competenze in materia” ma presente a tale avvenimento “solo perché me lo hanno chiesto”. Don Piccolo, evitando di usare il termine “omosessuale”, ha semplicemente fatto notare come vi siano, nella nostra realtà locale, sempre più famiglie mononucleari, meno matrimoni e sempre più convivenze. Queste ultime viste come un “periodo di prova”. Ha inoltre evidenziato come molti divorziati risposati vivano in situazioni di povertà, dal momento che, oltre alle spese per vivere (magari anche con un mutuo alle spalle) debbano sostenere anche quelle per pagare gli alimenti all’ex consorte. Ha poi spostato l’attenzione sull’aumento di richieste, da parte di conviventi, di accedere ai sacramenti o ai corsi per fidanzati in preparazione al matrimonio. Ma, d’altra parte, ha ribadito la posizione della Chiesa Cattolica sul fatto che a tali persone (divorziati e conviventi) sia espressamente chiesto di non poter essere catechisti o padrini di battesimo. Ha quindi continuato ribadendo come le coppie conviventi siano di “difficile accompagnamento” secondo i dettami della Chiesa di Roma. L’intervento si è concluso riconoscendo come la Chiesa Cattolica sia ancora molto “guardinga” ed in fase di riflessione relativamente al riconoscimento delle famiglie di fatto.

E’ stata quindi la volta di Daniela Ruffini, Presidente del Consiglio Comunale di Padova, in rappresentanza delle istituzioni locali. La Consigliera Ruffini, in un intervento assai applaudito al termine, ha ribadito come il Comune di Padova riconosca le unioni di fatto, rilasciando un certificato anagrafico nel quale si attesta l’esistenza di una famiglia basata su “vincoli affettivi”. Un piccolo passo avanti, ha evidenziato la relatrice, compiuto dalla precedente legislatura comunale. La relatrice ha quindi precisato il cuore del suo intervento, ovvero come la politica non riesca a dare una risposta a molte persone in tema di riconoscimento delle unioni di fatto e che questo debba finire, onde evitare ulteriori sofferenze inutili. Chiaro il legame con quanto espresso in precedenza dall’Avv. Giacomazzi sul “silenzio del legislatore” in materia.

L’ultimo dei relatori, il pastore Franco Evangelisti della comunità Avventista di Padova, ha quindi evidenziato come la nostra sia una società complessa che richiede quindi una pastorale a 360 gradi. Ha poi citato le parole, oseremo dire profetiche, di Dietrich Boenhoffer “cercare Dio in un tempo senza Dio”. Ha comunque ribadito il passo biblico “E Dio li creò maschio e femmina” invitando ad una riflessione se esista o meno, nel nostro tempo, il concetto di peccato, dal momento che, sempre secondo il relatore, “Dio viene sempre più messo da parte in nome della libertà individuale”. Un Dio che con la Sua Parola “parla di una coppia che è chiamata a dare la vita”.

Ha concluso la serata un interessante e partecipato dibattito con il pubblico presente.

 

Sermone; PREDICAZIONE DI DOMENICA 4 NOVEMBRE – ROMANI 7, 14 – 25

PREDICAZIONE DI DOMENICA 4 NOVEMBRE – ROMANI 7, 14 – 25

“La legge del peccato”

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

Siamo di fronte a un passo impegnativo, complesso e anche profondamente pessimistico. L’argomentare di Paolo ha un andamento serrato, si sviluppa come una sorta di monologo interiore in cui l’apostolo si arrovella sulle mille sfaccettature di un dato di fatto molto semplice: la condizione di peccato, che è la condizione propria di ogni essere umano, sembra alla fine avere la meglio sul bene, che pure sussiste in ogni essere umano, a maggior ragione se questo essere umano è un credente in Dio.

Credo di non sbagliarmi troppo dicendo che il comune credente, il normale membro di chiesa che si confronti con questi versetti non per farne oggetto di studio biblico ma per lasciarsene coinvolgere, interpellare, prova un sentimento di rispettosa attenzione, ma al tempo stesso anche di estraneità. Facciamo fatica a riconoscerci nel tono drammatico, quasi disperato di Paolo. Per dirla tutta, ci sembra che l’apostolo carichi un po’ eccessivamente i toni. Siamo sinceri: chi di noi ha mai provato la sensazione lacerante di cui parla Paolo, la sensazione che la nostra personalità sia scissa in due: “io”, e “il peccato che abita in me”? Sì, qualcosa del genere l’abbiamo anche provato, qualche volta, ma in forma molto più blanda, molto meno tragica. Difficile, credo, che qualcuno di noi abbia mai percepito sé stesso come teatro di un conflitto all’ultimo sangue tra bene e male, tra legge di Dio e legge del peccato; che abbia mai sentito di trovarsi in una situazione senza sbocco, senza vie di uscita. Fin troppo spesso nel passato le chiese, in particolare quelle che si rifanno alla tradizione della Riforma hanno terrorizzato i fedeli e creato loro pesanti sensi di colpa con la loro insistenza sul peccato. E quando la gente viene terrorizzata non vive bene la propria fede, e non di rado finisce per abbandonare la chiesa, e anche ogni fede in un Dio visto come un essere esigente e sgradevole, un nemico nei confronti di quell’essere umano che pure è una sua creatura.

Se in queste considerazioni può esserci del vero, è altrettanto vero, direi, che attualmente anche tra i credenti si è enormemente affievolito il senso del peccato. Il passo sul quale stiamo riflettendo enuncia un concetto che è alla base della fede paolina e della fede cristiana tout court: l’incapacità dell’essere umano di compiere il bene contando solo sulle proprie forze. Ciò non significa che non ci sia speranza, che non ci sia liberazione. La situazione non è disperata, ma la speranza non viene da capacità umane; la liberazione arriva, ma non per intervento umano. Questo lo dichiara Paolo all’inizio del capitolo successivo: “la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8: 2). L’essere umano non può salvarsi da sé, è Dio che lo salva. Questo concetto sta alla base della fede cristiana; in particolare, è il nucleo del messaggio della Riforma, la quale altro non è se non un invito rivolto alla chiesa e a tutti i cristiani a riscoprire il nocciolo dell’Evangelo, lasciando cadere ogni tradizione, ogni dottrina che sia prodotto di invenzione umana. Lutero ha voluto richiamare la cristianità al cuore dell’Evangelo: la salvezza si ottiene per sola grazia, non mediante sforzi umani, sforzi destinati a fallire appunto perché l’essere umano, da sé, non arriva a compiere il bene: non può arrivarci, non ne ha le forze, non ne ha i mezzi. Era questo gioioso annuncio di libertà che un tempo in Europa occidentale, e anche in Italia, attirava verso il protestantesimo tanti cristiani inquieti. Cristiani che avevano profondo il senso del peccato, ma non potevano appagarsi di ciò che insegnava al riguardo la chiesa cattolica.

Anche adesso le chiese protestanti attirano interesse e consensi. Ma questa attrattiva non è dovuta a ciò che la Riforma insegna circa la natura umana decaduta a causa del peccato e circa l’azione salvifica della grazia. Altri sono gli aspetti delle chiese nate dalla Riforma che oggi suscitano l’apprezzamento e la stima di tante persone: le posizioni in materia di bioetica, in materia di morale sessuale, in materia di rapporti tra Stato e Chiesa. In questi ambiti, le chiese protestanti vengono ammirate perché appaiono al passo coi tempi, in grado di venire incontro alle esigenze degli uomini e delle donne del giorno d’oggi. Mi riferisco, naturalmente, alle chiese che appartengono al protestantesimo storico, come quella metodista e quella valdese; non alle cosiddette chiese libere, che in campo etico e politico hanno spesso posizioni molto conservatrici e tradizionaliste.

Come è stato rilevato all’ultimo Sinodo, le nostre chiese sono molto stimate per le loro posizioni in campo etico, sociale, politico, anche da cristiani di altra confessione o da persone indifferenti dal punto di vista religioso. Lo conferma l’incremento dell’8 per mille; lo conferma anche l’afflusso di pubblico allorché una delle nostre chiese organizza conferenze, dibattiti, incontri che toccano appunto i temi nevralgici di cui parlavo prima. Ma talvolta mi domando: se una delle nostre chiese provasse a organizzarlo, uno di questi incontri aperti al pubblico, sul tema del peccato come ineludibile condizione umana, sul tema della grazia divina come unica speranza di salvezza? Se si impegnasse, cioè, a un richiamo forte a quel tema che, ripeto, è non solo il cuore della Riforma, ma il cuore dell’Evangelo? Be’, sorelle e fratelli, non credo sia necessario un grande sforzo di immaginazione per prevedere che la sala resterebbe pressoché vuota, e i pochi posti occupati sarebbero tali grazie alla buona volontà e allo spirito di collaborazione di qualche membro di chiesa. Inutile nascondercelo: il problema del peccato, lungi dal suscitare gli interrogativi angosciosi che tormentavano Paolo, non è sentito, non interessa. Un esperto di marketing direbbe: non si vende. Una chiesa che voglia “vendersi” bene, dunque, è avvisata: eviti, per piacere, questi discorsi noiosi e fastidiosi che andavano bene per la chiesa delle origini, andavano bene per i secoli passati, non vanno più bene per i nostri tempi, quando i problemi sono altri.

Non vanno più bene, i problemi sono altri. Ma ne siamo proprio sicuri? Ho parlato di “problema del peccato”, dicendo che ai nostri contemporanei non interessa più. Messa così, la cosa è vera. Il fatto è che qui non è in gioco un astratto “problema del peccato”, non sono in gioco freddi discorsi teologici. Qui è in gioco una realistica, obiettiva conoscenza di sé stessi. Se solo riscoprissimo l’arte di far silenzio intorno a noi e in noi per guardare in profondità dentro di noi, comprenderemmo che il tormento di Paolo derivava dal fatto che l’apostolo aveva capito tutto. Aveva scoperto la verità su sé stesso e su ogni essere umano, quella stessa verità esposta senza addolcimenti, senza compromessi, nelle parole del salmo: “Ecco, io sono stato generato nell’iniquità, mia madre mi ha concepito nel peccato”. Duro? Sì, estremamente duro. Politicamente scorretto, potremmo dire. Esagerato? Se siamo onesti con noi stessi, la risposta è: no, qui non c’è alcuna esagerazione. L’essere umano non è libero di non peccare, in quanto, fin dall’inizio della sua storia, è separato da Dio. Questa è la radice del problema, dal quale derivano a cascata tutti gli altri “problemi”, anche quelli di natura etica, sociale, politica. Prendere coscienza di questo è l’unica via per cominciare a uscirne. Ma uscirne con quali mezzi? Non certo con i nostri mezzi umani, ma solo, come dice Paolo, “per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore”. E a chi insista: “e questo, in concreto, a me che cosa richiede?” risponderei con la parabola raccontata da Gesù a Pietro. A noi si richiede la consapevolezza di essere tutti accomunati nel peccato, tutti debitori impossibilitati a saldare il loro debito – se non in un unico modo, rimettendoci cioè i debiti l’uno con l’altro. È quello che ripetiamo ogni giorno nel Padre nostro, no? Non ci resta, allora, che andare, e metterlo in pratica.

Amen