Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 26 MAGGIO 2013 (Lc 6:27-28; 1 Cor 4:11-13. Testo di predicazione Nm 6: 22-27)

“Ti benedica il Signore e ti protegga”

Come avrete notato, è già la seconda domenica che il lezionario propone come testo di predicazione un passo tratto dal libro dei Numeri, un libro biblico che certo non siamo molto abituati a frequentare. È un libro che tendiamo a considerare arido, quindi tutto sommato trascurabile; a penalizzarlo contribuisce anche il titolo, certo non accattivante, che viene dalla traduzione greca della Bibbia detta “dei Settanta”. Il titolo ebraico del libro è molto diverso: per certi versi ancora più arido, ma anche più suggestivo del titolo greco: be-midhar, “nel deserto”, e deriva dal primo versetto del libro: “Il Signore parlò a Mosè, nel deserto”. Queste ultime due parole sono state trasformate nel titolo del libro. Titolo, dicevo, forse più suggestivo del titolo greco: il deserto, infatti, ha un suo fascino, contiene in sé un mistero; soprattutto, porta a dimenticare tutto ciò che non è essenziale e ispira alla contemplazione, in un silenzio che può essere colmo e denso, anche di visioni. Ed è infatti “nel deserto” che il Signore rivolge la sua parola a Mosè. Gli rivolge la parola ripetutamente, fino a dargli questo ordine, un ordine da rivolgere ad Aronne e ai suoi figli. Questo ordine consiste in una formula di benedizione. Una formula, questa sì, molto familiare a tutti noi, perché spesso la usiamo a chiusura del culto; si è soliti chiamarla “benedizione di Aronne”. Si tratta del rituale della benedizione dei sacerdoti sul popolo, sulla comunità dei credenti. Nel 1979, in una necropoli presso Gerusalenne, vennero scoperte due sottilissime lamine d’argento, risalenti almeno al sec. VII a. C., riportanti questa benedizione che ancora oggi viene usata nella liturgia sinagogale proprio col suo nome, birkat kohanim, la benedizione sacerdotale. L’amore per questa benedizione, dunque, unisce ebrei e cristiani. E questa benedizione è molto amata perché è veramente bella: ha uno stile poetico perfetto, immagini indimenticabili. È divisa, questa benedizione, in tre versetti. Il primo promette la benedizione di Dio ai suoi figli. Questa benedizione “paterna” è un tema ricorrente nella Bibbia ebraica: Dio la rivolge alla prima coppia, la rivolge ad Abramo nel chiamarlo a una missione estremamente impegnativa, e promette che in lui “saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 1: 28; 12: 1-3); Giacobbe e Mosè concludono la loro vita terrena benedicendo le nuove generazioni ( Gn 49 e Dt 33). I libri dei grandi profeti si concludono con parole di benedizione. Che cosa significa tutto questo? Significa, in sostanza, che noi possiamo contare sulla presenza di Dio al nostro fianco: Egli ci precede, ci guida. Egli ha già preparato la nostra strada: non ci resta che percorrerla con piena fiducia. Possiamo farlo, perché questa benedizione non è una sorta di influsso astrale che ci arriva in forma anonima e astratta. Essa viene dal Dio vivente. Ce lo ricorda il secondo versetto del nostro testo, in cui Dio esprime la benedizione mediante lo splendore del suo volto. Il volto indica una persona. E questo Volto risplende: è dunque fonte di luce. L’immagine della luce evoca il calore del sole, il rinnovarsi della vita, lo splendore della gioia, ma anche e soprattutto la chiarezza della rivelazione, la salvezza dalle tenebre. Non a caso il vangelo di Giovanni dice che Gesù è “la vera luce che illumina ogni uomo” (Gv 1: 19). Nel terzo versetto la benedizione fa ancora un passo avanti: Dio non si limita a far risplendere il suo volto sui suoi figli, ma offre loro un dono, un dono estremamente prezioso, la pace. Ne abbiamo davvero bisogno, della pace: siamo tormentati dai nostri dolori e dai nostri errori, viviamo in un mondo triste e terribile. Ma Dio ci libera, e in quanto cristiani noi crediamo che questa liberazione ci raggiunge nella persona di Gesù. Non è un caso che il Risorto, quando incontra i suoi discepoli distrutti dal dolore e dallo sconforto, dica “Pace a voi” (Gv 20: 19). Annunciando la pace, Gesù non recita una formula di cortesia, ma vuole dimostrare che in lui si adempiono le Scritture, che riconoscono nel Messia il “principe della pace” (Is 9:5) e che prefigurano i tempi messianici come fondati su un “patto di pace” (Ez 34: 25 e 37: 26). Gesù è morto ed è risorto proprio per realizzare questo patto di pace. “Benedizione” è, dunque, una parola bellissima, ed è anche un concetto bellissimo, forse il più bello che ci sia, non solo nella Bibbia, ma nell’esperienza umana: è una luce che illumina il mondo, una stella nella notte, una grazia preparata per noi. Eppure, in fondo, se ne parla poco, forse per un senso di pudore – si ha spesso un certo pudore a parlare di temi che sentiamo come coinvolgenti, addirittura cruciali per la nostra vita –, ma più probabilmente perché tendiamo a dimenticare con facilità proprio questo aspetto fondamentale della vita e della fede. Questi versetti smentiscono dunque l’“aridità” spesso imputata al libro dei Numeri, proprio perché ci invitano a riflettere, a interrogarci su che cos’è, cosa significa, come va vissuta la benedizione del Signore che qui viene annunciata ai figli di Israele, e quindi anche a noi, per un tramite umano, la persona di Aronne, colui che nel nostro uso corrente “dà il nome” a questa benedizione. Ecco, direi che il primo spunto che qui possiamo cogliere è questo: parliamo di “benedizione di Aronne”, ma né Aronne né nessun altro essere umano può “benedire” in senso stretto. Perché questo può farlo solo Dio. Dio solo è la fonte di ogni benedizione; è lui, anzi, la benedizione per eccellenza. Osserviamo che “benedire” significa, alla lettera, “dire bene”: e l’unico che può “dire bene” in assoluto è Dio, e Lui soltanto. Dio infatti “dice bene” di noi quando dice che siamo giusti benché peccatori, perdonati benché colpevoli. Dio benedice, cioè (a differenza di noi) dice bene, perché (a differenza di noi) pensa bene: “Io so i pensieri che medito per voi, dice l’Eterno, pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza” (Ger 29: 11). Dio dice quello che pensa e fa quello che dice. Egli benedice, cioè dice bene, perché pensa bene e fa bene. Nessuno dunque, se non Dio solo, può conferire la benedizione, perché la benedizione appartiene a Dio solo, è lui l’unico titolare di ogni benedizione. Noi possiamo solo invocare la benedizione di Dio, non la possiamo dare, se non nel nome suo, che è l’unico che può e vuole effettivamente darla. Nessuno di noi potrà quindi “benedire”; potrà invece (appunto come Aronne) farsi portatore e trasmettitore, presso i suoi fratelli e le sue sorelle, di questo evangelo, di questo lieto annuncio: la benedizione è l’azione costante, l’occupazione quotidiana di Dio – ed è, in fondo, la nostra unica speranza. Comunicare agli altri questa benedizione, però, non è soltanto una facoltà che ci viene data; è un nostro preciso compito, è la vocazione che viene rivolta a ciascuno di noi. Qui è rivolta ad Aronne, tanto che si parla di “benedizione sacerdotale”; ma se guardiamo alla Bibbia nel suo insieme, vediamo che la benedizione di Dio circola liberamente all’interno del popolo di Dio e diventa in qualche modo patrimonio comune. La seconda considerazione, dunque, può essere questa: la benedizione di Dio non è più monopolio di qualcuno (a esempio di un clero o di un’autorità di qualunque tipo), ma diventa una parola di grazia e favore divino che gli uomini e le donne, nel nome di Dio, si scambiano a vicenda. Chi dunque può pronunciare la benedizione? Chiunque, purché sappia quello che fa e creda nel Dio che benedice, il Dio d’Israele e di Gesù. E mi sembra bellissimo il fatto che questa benedizione travalica i confini della chiesa, perché nei passi neotestamentari che abbiamo ascoltato Gesù dice ai discepoli: “Benedite quelli che vi maledicono”, e l’apostolo Paolo dice dei cristiani: “Ingiuriati, benediciamo”. Cioè: la benedizione è più forte della maledizione, lo spirito e la parola di Gesù trasformano in benedizione la maledizione. Tre brevissime osservazioni, infine, sulla pace, la pace nella quale si manifesta la pienezza della benedizione di Dio. La prima: questa pace non equivale a “quieto vivere”. In una lettera del 1944, Dietrich Bonhoeffer parla della benedizione come del ponte che collega Dio alla felicità umana; egli però ricorda anche che essere benedetti non significa essere esentati dalla prova e dalla sofferenza. Si pensi alla sorte di due “benedetti” come Giobbe, e come Gesù stesso. Nella Bibbia dunque non c’è contrapposizione assoluta tra benedizione e croce, né nella Bibbia ebraica né nel Nuovo Testamento. La differenza tra loro, dice Bonhoeffer, “sta solo nel fatto che nell’Antico Testamento la benedizione racchiude in sé anche la croce, nel Nuovo la croce racchiude in sé anche la benedizione”. Seconda considerazione, strettamente collegata alla precedente: questa pace è per noi un dono ma anche un compito, come ha ricordato Gesù dichiarando “beati” “quelli che si adoperano per la pace” (Mt 5: 9). Ne consegue la terza considerazione: “pace” non significa “adagiarsi”, accettare – e benedire – il mondo così com’è, adeguarci a un mondo fatto di competizione e di egoismo, di durezza e di vanità, di falsità e – dovunque – di ingiustizia. Con la “benedizione di Aronne”, Dio vuol dirci tutt’altra cosa. Vuole dirci che ci benedice affinché noi diventiamo testimonianza vivente della sua benedizione, perché, appunto, ci “adoperiamo”: e questo talvolta può richiederci di diventare persone scomode, persone che alzano la voce, che prendono posizione contro l’ingiustizia, dovunque essa si manifesti; perché senza giustizia – lo sappiamo – non può darsi vera pace. Persone scomode, che si adoperano per una pace scomoda. Ma solo così potremo diffondere la benedizione del Signore, divenendo a nostra volta una piccola benedizione su questa terra. Amen.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 19 MAGGIO 2013 (PENTECOSTE) (Gv 15:26-27; At 2:1-13. Testo di predicazione: Num 11:4-6, 10-11,16-17, 24-29)

LA LIBERTA’ E’ SCOMODA

Immagine

È un momento alquanto critico quello di cui qui racconta il libro dei Numeri. Siamo nel secondo anno dall’uscita dal paese d’Egitto del popolo di Israele, che sta attraversando il deserto del Sinai guidato dal Signore sotto forma di nuvola. Ma nell’accampamento degli israeliti c’è un clima di tensione, di insofferenza non solo contro Mosè, ma contro il Signore stesso, che per mezzo di Mosè ha sottratto i figli di Israele a una condizione subalterna, ma pur sempre di relativa sicurezza e tranquillità qual era la schiavitù in Egitto, per spingerli su una via di libertà che si profila piena di disagi e di pericoli. Di una libertà di questo genere, il popolo alla fine non sa che farsene; è stanco, esasperato di questo viaggio faticoso verso una terra promessa che ancora non si profila all’orizzonte, e chissà poi se esiste davvero. Il cap. 11 si apre appunto su questo scenario di generale scontento, su questo coro di lamentele e di recriminazioni: già il primo versetto informa che “il popolo cominciò a mormorare in modo irriverente alle orecchie del Signore”. E poco dopo, ecco mettersi a piagnucolare “l’accozzaglia di gente raccogliticcia che era tra il popolo”. I versetti che seguono mostrano che questi piagnucoloni sono seccanti, ma oltremodo meticolosi: sanno elencare con estrema precisione – perché ne hanno una grande nostalgia – quel cibo di cui si nutrivano a volontà in Egitto, quel cibo tanto più vario e gustoso dell’insipida manna, che una volta cucinata “aveva il sapore di una focaccia all’olio” (Num 11: 8). Non ne possono più, gli israeliti, di questa manna; e non ne possono più di quel dono non richiesto che appare loro deludente non meno della manna, il dono della libertà. In questo clima di nervosismo collettivo, anche a Mosè saltano i nervi, tanto che anche lui rivolge a sua volta una protesta al Signore rinfacciandogli di avergli affidato un incarico troppo pesante, che Mosè non si era certo andato a cercare: condurre in salvo fino al paese promesso tutto un popolo e intanto averne cura, di questo popolo che è come un bambino, indifeso e capriccioso. Mosè si sente così sfinito, e così disperatamente solo, da lasciarsi andare a parlare al Signore senza tanti complimenti e senza giri di parole: “Sei tu, Signore, che mi hai cacciato in questo guaio”, dice in sostanza Mosè, “e ora è compito tuo venirmi in aiuto, perché da solo io proprio non ce la faccio”. Dio stesso sembra controllarsi a fatica: all’inizio del capitolo ha dato libero sfogo alla sua ira contro i figli di Israele, addirittura incendiando parte del loro accampamento (Num 11: 1), e adesso di nuovo “la sua ira si accese gravemente” (Num 11: 10). Eppure questa volta non punisce il suo popolo e nemmeno rimprovera Mosè, che pure gli parla con tanta libertà. La sua risposta è sorprendente: il Signore si manifesta donando il suo Spirito. Lo dona in un modo singolare, molto bello: condividendolo, distribuendolo. Chi sono i destinatari di questo dono? Sono i settanta collaboratori che il Signore dà a Mosè affinché condividano con lui “il carico del popolo” (v. 17), in modo che Mosè non debba più patire quella sofferenza tremenda che è la solitudine, una sofferenza che tanto spesso accompagna le mansioni di alta responsabilità. Ed è bello vedere come procede il Signore: “prende lo Spirito” che è su Mosè e lo mette sui settanta anziani. È come una candela che accende altre candele, trasmettendo loro la propria fiamma. Condivisione dello Spirito, per consentire la condivisione dei pesi del lavoro. E qual è il primo atto che vediamo questi anziani compiere sotto l’impulso dello Spirito? Non li vediamo occuparsi insieme a Mosè di questioni organizzative, che pure, come si è visto, richiedevano attenzione con estrema urgenza; no, li vediamo profetizzare. E sappiamo che nella Bibbia il profeta è colui che sa decifrare la volontà di Dio, che annuncia questa volontà al popolo affinché la esegua, e la esegua con gioia, cantando la gloria di Dio. Questi settanta anziani divenuti profeti invitano dunque i figli di Israele a prendere sul serio la promessa che un giorno hanno accettato; invitano “l’accozzaglia di gente raccogliticcia” a convertirsi al Dio vivente, a permettere a Dio di trasformarla in un popolo. Dopo un po’, tuttavia, i settanta smettono di profetizzare. Eppure lo Spirito non smette di agire, e lo fa, ancora una volta, in modo sorprendente. Ci sono due uomini, Eldad e Medad, che “erano fra i settanta” ma non sono andati con gli altri davanti alla “tenda”: sono rimasti nel campo. Ebbene, proprio lì nel campo lo Spirito li raggiunge, raggiunge anche loro senza nemmeno servirsi dell’intermediazione di Mosè, ed essi profetizzano con la stessa potenza degli altri. La cosa però non piace a tutti. Accanto a Mosè c’è un “giovane rampante”, Giosuè, il quale sa che presto o tardi Mosè dovrà pur morire, e allora toccherà a lui di fare il capo. La sua carriera è però garantita solo se il prestigio di Mosè rimane intatto, ma questi due profeti irregolari nuocciono alla sua autorità. È meglio zittirli finché si è in tempo. E, come è sorprendente e bellissima l’azione di Dio, anche la risposta di Mosè è sorprendente e bellissima: “Oh, fossero pure tutti profeti nel popolo del Signore, e volesse il Signore mettere su di loro il suo Spirito!”. Cara comunità, caro Daniele che oggi di questa comunità entri ufficialmente a far parte, mi sembra che questo testo che viene a noi da tempi tanto antichi presenti dei tratti di straordinaria attualità, validi per la nostra chiesa, validi per qualsiasi chiesa. Un’accozzaglia di gente che mormora in modo irriverente, che piagnucola… Certo non è un modo convenzionale di descrivere una comunità di credenti. Qualcuno potrebbe anche trovarlo offensivo. Spero che nessuno di voi si offenda; ma se qualcuno si offende, pazienza. Perché di questo dobbiamo essere ben consapevoli: tutta la nostra chiesa è un’accozzaglia di gente raccogliticcia. Dobbiamo esserne consapevoli noi, devi esserne consapevole tu, Daniele: in questa chiesa della quale hai chiesto di entrare a far parte non ci sono eroiche figure di testimoni della fede, ci sono – a cominciare dalla pastora – persone comunissime, facili a lamentarsi e a recriminare assai più che a lodare il Signore, persone che spesso si sentirebbero molto sollevate se potessero scambiare con una comoda e dorata schiavitù in Egitto quella difficile, faticosa libertà che Dio ci ha donato nella persona del Suo Figlio, quella libertà alla quale Lutero ha richiamato la chiesa del suo tempo e di tutti i tempi. Sì, siamo proprio un’accozzaglia, perché siamo una comunità quanto mai eterogenea, e un’accozzaglia raccogliticcia per giunta, perché a questa chiesa siamo approdati per le vie più svariate, a volte addirittura quasi per caso. E questa, badate bene, non è una caratteristica esclusiva della nostra chiesa di Padova: no, tutte le nostre chiese, direi tutte le chiese cristiane sono “accozzaglie di gente raccogliticcia”. A ben guardare, del resto, quale comunità si può definire “accozzaglia raccogliticcia” più di quella massa di persone di cui ci narra il libro degli Atti: persone convenute a Gerusalemme più o meno da tutto il mondo allora conosciuto, da “ogni nazione che è sotto il cielo”, ciascuna delle quali nel giorno di Pentecoste udì i discepoli parlare nella sua lingua? La comunità dei credenti, la chiesa, non siamo noi a farla, non siamo noi a costruircela su misura – sulla nostra misura, e dobbiamo aggiungere: grazie al cielo; la comunità dei credenti, è lo Spirito del Signore a crearla. Guai a noi se non manteniamo sempre la consapevolezza di essere, per natura nostra, null’altro che un’accozzaglia raccogliticcia, e di poterci dire chiesa, di poter essere chiesa, solo per il dono gratuito che il Signore ci fa del suo Spirito. La chiesa è la comunità di coloro che professano “Gesù è il Signore”, e possono fare questa professione di fede, possono rendere questa testimonianza (come dice Gesù nei versetti di Giovanni che abbiamo ascoltato), perché lo Spirito del Signore è sceso su di loro, è con loro. A chi dobbiamo offrirla, la nostra testimonianza? A coloro che ne hanno bisogno. E chi sono coloro che ne hanno bisogno? Sono, in primo luogo, le nostre sorelle e i nostri fratelli di fede, perché la chiesa muore, si estingue come una fiamma soffocata se al suo interno il fuoco dello Spirito non viene continuamente comunicato, trasmesso dall’uno all’altro, proprio come avvenne quel giorno in mezzo al popolo di Israele, nel deserto del Sinai. E tutti siamo chiamati a trasmetterci l’un l’altro questo fuoco dello Spirito: in altre parole, tutti siamo chiamati a essere profeti. Tutti, nessuno escluso. Non commettiamo l’errore di Giosuè; non tentiamo di mettere a tacere gli Eldad e i Medad di turno solo perché profetizzano nel campo anziché alla tenda di convegno, in un posto cioè che a noi può apparire sbagliato e inopportuno, ma che agli occhi del Signore può essere invece il posto più indicato. Cerchiamo anzi di incoraggiarli, gli Eldad e i Medad che possono nascondersi tra noi; cerchiamo di incoraggiarli a rispondere alla vocazione profetica che è rivolta a tutti, e quindi anche a loro, e incoraggiamoli a essere profeti nel campo se non vogliono esserlo alla tenda, perché va bene anche così, va benissimo. E poi, hanno diritto alla nostra testimonianza tutti gli altri: quelli che stanno al di fuori della nostra tenda di convegno. Ci sono quelli che non credono, e che forse hanno ragione a non credere, perché il Dio nel quale si rifiutano di credere non è che un falso Dio, una caricatura di Dio. E ci sono quelli che credono in modo diverso da noi. A tutti questi, noi siamo chiamati a dare testimonianza della nostra fede lasciandoci guidare dallo Spirito, che è fuoco e libertà. Il che significa: con passione e coraggio. Ricordiamo questo: una scelta di fede – come quella che ciascuno di noi ha compiuto, altrimenti non sarebbe qui; come quella che compi tu oggi, caro Daniele – una scelta di fede non significa appiccicarci un’etichetta, significa lasciarci prendere dallo Spirito, e diventare profeti, e portare scompiglio, e anche metterci nei guai. Lo Spirito è scomodo: ricordiamolo. Appunto perché è Spirito di libertà. La libertà è scomoda; eppure, per il cristiano non c’è altra via che questa via scomodissima. Amen

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Ricordiamo che il riferimento nel sermone è relativo all’ingresso, nella nostra comunità, del fratello Daniele Rampazzo.

PERCHE’ HO SCELTO DI ESSERE PROTESTANTE

PENTECOSTE 2013: UN NUOVO INGRESSO NELLA NOSTRA CHIESA

vlcsnap-2013-09-05-12h12m15s114

Domenica 19 maggio 2013, festa di Pentecoste, lo Spirito Santo è disceso sulla Chiesa Evangelica Metodista di Padova riunita per celebrare, durante il consueto culto domenicale delle 11.00, la professione di fede del suo nuovo membro: Daniele Rampazzo, 46 anni, insegnante, residente a Padova, studente presso la Facoltà Teologica Valdese di Roma, che ha scelto di entrare in qualità di membro della Chiesa Evangelica Valdese.

Guidato dalla Pastora Caterina Griffante ed allietato dalle note del Coro Pollini di Padova, diretto da Marina Malavasi, il culto ha avuto il suo momento “clou” nella pubblica confessione di fede del nuovo fratello:

“In comunione con la Chiesa Universale, io confesso che Gesù Cristo è il mio Salvatore e il mio unico Signore, in cui Dio mi perdona e mi accoglie come suo figlio. Io riconosco di appartenergli con tutto l’essere mio e prometto di seguire la sua guida con umiltà e fiducia per essere fedele a Dio e servirlo in ogni circostanza. Cercherò la comunione costante con Cristo attraverso la lettura della Bibbia, la preghiera, la partecipazione ai culti e alla Cena del Signore, e per questo invocherò l’aiuto dello Spirito Santo, che il Signore ha promesso. Quale membro della sua chiesa, so di essere chiamato, per grazia di Dio, in comunione con i miei fratelli e sorelle, a mettermi al servizio del prossimo e a testimoniare la fede cristiana in ogni luogo e situazione in cui mi troverò a vivere e a operare”.

A cui ha fatto seguito il solenne impegno-promessa di fedeltà:

[IL PASTORE:] E’ questo, DANIELE, che dichiari e prometti?

[DANIELE]: Sì, con l’aiuto di Dio

[IL PASTORE:] Il Signore fortifichi la tua fede e ti aiuti a mantenere le tue promesse.

Dopo l’esecuzione, da parte della Comunità, di due inni “storici” profondamente sentiti dai protestanti “classici”, quali il “Giuro di Sibaud” (simbolo della storia dei Valdesi) e “Forte Rocca” di Martin Lutero (l’inno più famoso della Riforma) un altro momento forte è stata la consegna, da parte del Presidente del Consiglio di Chiesa, Davide Anziani, della Bibbia al nuovo fratello.

Al termine del Culto, la festa è poi proseguita con l’agape, anche in questo caso magistralmente preparata dalle signore della nostra Unione Femminile, nei locali sociali.

Perché Valdese?

E’ tradizione che colui che desidera entrare a far parte della nostra Chiesa, espliciti, in una lettera, le motivazioni che lo spingono ad un tale gesto. Tale lettera, indirizzata al Consiglio di Chiesa, viene poi letta pubblicamente dal nuovo fratello nel corso della cerimonia del suo ingresso ufficiale.

Anche in questo caso la tradizione è stata rispettata e, ritenendo tale lettera assai significativa, la pubblichiamo volentieri:

“Vengo dalla Chiesa Cattolica, come il 97% degli Italiani. Ma voglio adesso far parte dell’1,5% della popolazione. Perché? Masochismo? Voglia di distinguersi? Protagonismo?

E invece tutta una serie di motivi che da più di trent’anni, da quando a quindici o sedici anni lessi di Calvino (Giovanni, non Italo, come dico sempre) sul mio libro di Storia delle scuole superiori. Motivi che mi spinsero, ora come allora, a riflettere e a credere in un cristianesimo “alternativo”, “altro” rispetto ad una tradizione inveterata, ad un modo di credere che ritengo più simile ad una routine quotidiana, ad un semplice “tran-tran”.

E allora, per non annoiarvi oltre, saltando a piè pari tutte le critiche e le negatività che mi arrivarono e mi arrivano per questo mio pensare, posso serenamente affermare che. questo mio passaggio dal cattolicesimo al protestantesimo,

E’ il mio NO, deciso, ad un:

  • Modo di vivere la religione come “bisogna andare in chiesa alla domenica perché si fa così”, “bisogna andare a confessarsi prima di Pasqua perché si fa così”, “bisogna segnarsi quando il Papa dà la benedizione in televisione perché si fa così” (etc.);

  • All’obbedienza ceca ed assoluta a chi ha imposto per decreto la sua infallibilità (non sbaglia mai);

  • A chi invece di denunciare chi commette atti di pedofilia li sposta semplicemente da un posto all’altro;

  • A chi non ammette alla Comunione i divorziati e poi la dà tranquillamente ai dittatori sudamericani che hanno massacrato chi non la pensava come loro (tanto per fare un esempio fra i molti).

E’ il mio SI’, deciso, ad una:

  • Chiesa libera, senza dogmi, cioè senza l’imposizione di una lettura univoca, calata dall’alto, da parte della gerarchia e di un capo da ritenersi assoluto:

  • Chiesa più aderente alla Scrittura. Che respinge tutte le sovrastrutture imposte dalla tradizione che con la Scrittura non hanno nulla a che fare (culto delle reliquie, dei santi, della Madonna). Sola Biblia, ovvero la sola Bibbia mi sia di guida, come dicevano i Padri della Riforma: no a tutti i sacramenti che non siano Battesimo ed Eucarestia e no ai dogmi dell’infallibilità papale di cui ho parlato prima e no a tutte quelle tradizioni che non hanno fondamento sulla Scrittura;

  • Chiesa che proponga una lettura storico-critica, ovvero una interpretazione che tenga conto della realtà storica del tempo in cui è stato scritto il testo biblico (Antico e Nuovo Testamento) e che quindi lasci liberi in merito alla sfera personale, alla vita di tutti i giorni (omosessualità, disposizioni sul fine vita, eutanasia, testamento biologico);

  • Chiesa che permetta di accedere a Dio direttamente, senza intermediari umani. Una religiosità immediata. Dio non ha bisogno di mediatori;

  • Chiesa semplice: niente quadri, niente immagini (ricordiamoci il primo comandamento. Es 20,4 Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra);

  • Un Dio che non ti chiede di giustificarti ma che ti giustifichi lui stesso. E che quindi non ti chiede sempre di compiere opere per perdonarti ma che ti ha già perdonato prima.

Insomma, ho cercato una Chiesa che faccia della libertà individuale un valore fondamentale.

E ritengo di averla trovata nella Chiesa Evangelica Valdese.

Ma perché proprio Valdese? Perché non un’altra denominazione protestante?

Per due ordini di motivi, fondamentalmente. Il primo:

Si fa un gran parlare in questi giorni di San Francesco e di povertà. Come dico da sempre ai miei studenti quando parlo della chiesa medievale, c’era un’altra persona che, nata cinquant’anni prima di Francesco e morta vent’anni prima di lui, faceva il mercante di stoffe e tessuti. Anche lui era ricchissimo e famosissimo e aveva venduto tutti i suoi beni ai poveri senza tenersi nulla ed era andato in giro a predicare la povertà e la semplicità, mendicando sotto gli occhi inorriditi dei suoi concittadini. Solo a che a lui e ai suoi seguaci andò male: scomunicato e dichiarato eretico, mentre Francesco divenne poi santo come tutti ben conosciamo. Anche se i suoi seguaci, i francescani, dovettero poi cambiare rotta rispetto alle idee più radicali del loro fondatore per non incorrere nei rigori della Chiesa. Una chiesa, quella valdese, da sempre perseguitata (i roghi medievali, i massacri subiti in Francia, in Piemonte, nell’Italia meridionale nel corso del Cinquecento e del Seicento) ma sempre presente: mi spezzo ma non mi piego. Una comunità che nel 1689 passa addirittura, con donne, vecchi e bambini, le cime delle Alpi in pieno inverno pur di tornare a casa, nelle loro valli, sfidando le persecuzioni. Una chiesa libera solo da poco più di centocinquant’anni, dal 17 febbraio del 1848 per la precisione.

E il secondo motivo è perché i valdesi sono calvinisti. E qui torniamo all’inizio di questa mia lettera. La scoperta della Riforma è avvenuta tramite la scoperta di Calvino e delle sue idee. Ci sono diverse chiese che si richiamano a Calvino anche in Italia. Ma quella valdese ne dà, a mio avviso, un’interpretazione non settaria ma autentica, quella che si basa su di una lettura biblica storico-critica e non letterale, fondamentalista. Una lettura per cui la Chiesa non viene a giudicare le tue scelte personali, morali, etiche. Una Chiesa che non ti impone, che ti cala dall’alto delle regole da osservare pena la “dannazione eterna”.

Apprezzo molto anche il metodismo, cui la chiesa valdese è legata, qui in Italia, da un patto di integrazione che, dal 1979, è un bell’esempio di collaborazione e comunione fraterna fra chiese che si richiamano al comune Signore. Del metodismo apprezzo molto l’impegno sociale che lo contraddistingue fin dalla sua nascita e la sua testimonianza attiva nel mondo unita ad un forte rigore e impegno personale per crescere sempre più sulla via della propria, personale, santificazione.

Ecco: questa è la mia chiesa. La chiesa di una minoranza che non ha alcuna velleità di diventare maggioranza, che non suona i campanelli delle case la domenica mattina, che non importuna la gente per strada, che non vende corsi di “realizzazione personale” o libri di varia natura.

Una chiesa che NON gode di esenzioni, di privilegi e di benefici statali, ma una chiesa che nonostante abbia un deficit di 500.000 euro ha ancora la forza di NON destinare i soldi che riceve con l’otto per mille al mantenimento dei pastori o alle spese di culto ma che, rispettando il comandamento evangelico della carità, li usa per progetti sociali di assistenza e sostentamento ai più bisognosi e in stato di necessità.

Una chiesa, insomma, che non sostiene di avere la verità in mano, che non si ritiene infallibile, ma che crede invece di essere, come diceva l’apostolo Paolo “un membro di quel corpo unico che si chiama Cristo”.

Grazie a tutti

Daniele Rampazzo

Se volete visualizzare le foto della cerimonia e dell’agape, cliccate qui:

Pentecoste culto ed agape 1905132

Se invece volete guardare il video della Professione di fede (purtroppo non è stata ripresa l’intera cerimonia) potete cliccare sul nostro canale You Tube “MetodistiPadova”

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 12 MAGGIO 2013 (Eccl.: 5,1-2; Lam, 3,25-26; Rom. 8,19-28)

Quando stai davanti a Dio, fai silenzio!

Immagine

Nell’Antico Testamento incontriamo abbastanza di frequente la parola che abbiamo ascoltato nella lettura del Salmo 37: quando stai davanti a Dio, fai silenzio!Il silenzio è uno spazio anomalo nella nostra vita. Le nostre giornate sono piene di rumori e piene di parole. Sono fiumi di parole. Nei talk show, nelle conversazioni occasionali per via, sono fiumi di parole belle e brutte, spesso di rabbia, talvolta di ricerca di soluzioni. Quando le abbiamo ascoltate tutte quello che ne resta è un niente. Dentro di noi c’è rumore. Di tante parole che udiamo o che passano dentro di noi e che non è facile fermare ed elaborare perché trovino un senso compiuto; vengono e vanno sull’onda dei nostri stati d’animo. Vengono da tante preoccupazioni, dalla situazione contingente economica che opprime le nostre famiglie o quelle di chi sappiamo in condizione di sofferenza. Vengono dai nostri desideri e dalle nostre aspirazioni, da quello che vorremmo e non possiamo, ma anche dal vanto di qualcosa che abbiamo realizzato. Rumore nella mente generato dalle nostre passioni, dalle sofferenze come dalle speranze. Sappiamo che la preghiera è un rifugio dove ricondurre tutto ciò, ma non è detto che ci riusciamo: anche se la preghiera è entrata nelle nostre consuetudini, non è detto che riusciamo a pregare come si conviene. Abbiamo bisogno di aiuto; abbiamo sempre bisogno di imparare. Tutta la Bibbia invita a pregare. Del resto, non c’è espressione religiosa sulla faccia della terra che non inviti a pregare e detti le proprie ricette. Nel lontanissimo oriente gli oranti affidano la propria preghiera a dei lembi di stoffa colorata e li mettono in lunga fila in un alto luogo isolato: verrà il vento, passerà attraverso i fili del tessuto e raccoglierà le parole di ogni preghiera per porla ai piedi di Dio. Dalle parole antiche del Salmista, che riecheggiano in parecchi altri scritti biblici che questa mattina abbiamo appena accennato, viene un invito severo che è posto come premessa essenziale: quando ti poni davanti a Dio, fai silenzio! Interrompi il monologo in cui rovesci il rumore dei tuoi pensieri e dei tuoi sentimenti. Prima di tutto, fai silenzio! perché sei davanti a colui che ha creato l’universo, sei davanti al Solo talmente altro da te che è Egli stesso parola vivente creatrice, dal cui soffio vitale dipende la tua stessa esistenza. Fai silenzio, e nel silenzio attendi. E’ strano che i discepoli chiedano a Gesù di insegnare loro a pregare. Infatti, per gli ebrei la preghiera era ed è l’elemento di primaria importanza per l’osservanza e la pratica religiosa. Ma davanti alla predicazione di Gesù, così nuova, così diversa, i discepoli si sentono smarriti. Chiedono a Gesù come pregare perché si accorgono di non essere spiritualmente preparati. Come non lo siamo neanche noi. Noi siamo tutti impregnati della vita quotidiana, ed è giusto, oltre che naturale: siamo chiamati a molteplici doveri a seconda di dove siamo posti nei nuclei familiari e sociali, e sappiamo di essere responsabili delle nostre azioni; non sempre siamo ugualmente consapevoli della responsabilità che sta nelle parole che diciamo e che sono lo specchio del reale rapporto che intratteniamo con il nostro prossimo come con Dio: quando ne percepiamo la responsabilità, avviene anche che ne sentiamo tutto il peso. Avremmo bisogno di un metro di misura sicuro al quale riferirci. Ed eccoci al punto di partenza che chiude il cerchio: il metro di misura sta nella nostra capacità di stabilire un vero rapporto con Dio. Ma da soli non ne siamo capaci, abbiamo bisogno di aiuto. Paolo ne ha la piena consapevolezza e ce lo dice chiaramente: abbiamo bisogno che lo Spirito santo venga in nostro soccorso. Esattamente come ne abbiamo bisogno in ogni aspetto del nostro vivere. Per prima cosa lo Spirito ci aiuta a conoscere la nostra debolezza. Anche la nostra difficoltà a fare silenzio. E anche la nostra difficoltà a perseverare. Gesù pregava spesso: per farlo sceglieva un luogo appartato e senza rumori. E invita noi: se vuoi pregare ritirati nella cameretta del tuo cuore dove soltanto il tuo Dio ti vede e ti ascolta. Fai silenzio davanti a Lui, e nel silenzio ascoltalo. In quel silenzio lo Spirito ci aiuta a percepire anche quanto sia incerto lo scopo delle nostre richieste: dalla molteplicità dei nostri bisogni e dei nostri desideri lo Spirito ci aiuta a fare chiarezza e lì, in quella chiarezza, ci aiuta a capire quale sia la volontà di Dio che di gran lunga supera le nostre limitate cronologie e ci indica il progetto di bene e di salvezza che Egli ha già posto nel mondo intero e, soprattutto, dentro la nostra vita. Nel silenzio davanti a Dio, ci arriva la sua Parola. Il vangelo secondo Giovanni ci offre la parola di Gesù molte volte: credo che alcune delle sue parole hanno segnato momenti della nostra vita. In verità, io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, è passato dalla morte alla vita (Giov. 8,24). E, ancora, una promessa di vitale importanza per noi: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Giov. 8,31). E poi, anche, la chiave essenziale e determinante per tutto ciò che fin qui abbiamo detto: Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. (Giov. 4,23). L’amore è l’energia di vita che regge ogni cosa che esiste. Senza amore non siamo che un mucchietto di polvere.Dunque, se anche una sola volta abbiamo percepito l’amore di Dio nella nostra vita, dimoriamo nella sua parola. Lo Spirito ci assisterà a comprenderla, ci insegnerà a cercarla e ad amare. Tutto questo può sembrare un discorso strettamente individuale. Ma non è così. Non c’è niente di solitario nella nostra vita, anche quando avviene che siamo soli: ogni nostro dire e fare ha una ricaduta non solo per le persone che ci circondano, ma per la società intera, per il popolo di cui siamo parte: e ha la sua ricaduta nell’evolversi della storia.Così Gesù insegna ai suoi discepoli a pregare: affinché il nome di Dio sia riconosciuto e rifulga su tutto il mondo, perché il suo Regno di giustizia si compia e la sua volontà di salvezza avvenga per ogni essere, per ogni creatura vivente.Amen.

Sermone a cura della nostra Predicatrice Locale, Febe Cavazzutti Rossi

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 05 MAGGIO 2013 (Sal 1; Gal 2: 20; Gv 16: 25-33 testo di predicazione)

“Fatevi animo …. Io ho vinto il mondo!”

Immagine

Questo intensissimo passo del vangelo di Giovanni è incastonato nell’ultimo discorso rivolto da Gesù ai suoi discepoli prima del precipitare degli eventi, prima dell’arresto notturno che lo condurrà al processo, alla tortura e alla morte. Il capitolo che immediatamente segue e quello che immediatamente precede li abbiamo, forse, più impressi nella memoria: perché il cap. 15 è quello in cui Gesù descrive l’intimo legame tra sé e i suoi mediante un’immagine di straordinaria suggestione come quella della vite e dei tralci, mentre il cap. 17 ci tramanda la celebre preghiera sacerdotale, con la supplica al Padre “che siano tutti uno”: una supplica che ripetiamo ormai per tradizione, quasi per abitudine, nelle liturgie ecumeniche, una supplica nella quale Gesù chiede al Padre null’altro se non che la sua Chiesa ritrovi finalmente il suo volto originario, il volto che risponde al progetto di Dio su di lei, un volto non incrinato da fratture e discordie (e quando mai, possiamo domandarci in una sommessa parentesi, questa supplica verrà esaudita? Non occorre nemmeno guardare alle grandi divisioni tra chiese che dovrebbero trattarsi da sorelle; basta guardare nelle nostre rispettive case, basta guardare alle mille divisioni che lacerano le nostre comunità, anche le più piccole…). Il tema dell’amore è, insomma, il tema dominante di questi capitoli giovannei. Si tratta di amore divino e umano in tutte le sue possibili declinazioni: amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre; amore del Figlio per i suoi, per coloro che Gesù qui chiama suoi “amici” e che una volta risorto, nell’incontro con Maria di Magdala – ce lo ha ricordato il vangelo di Pasqua – chiamerà suoi “fratelli”; amore del Padre per questi “amici” e “fratelli” del Suo Figlio; amore reciproco che non può non sussistere tra questi amici e fratelli di Gesù. Una rete di legami luminosi, al cui intreccio appartiene anche l’affermazione di Gesù che risuona nel nostro testo: “il Padre stesso vi ama, perché mi avete amato”. E accanto al tema dell’amore eccone un altro, quello della pace, che potremmo definire un prodotto, un frutto dell’amore. Gesù, che già in precedenza aveva assicurato ai suoi “vi lascio pace; vi do la mia pace” (Gv 14: 27), ora ribadisce: “Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me”. È davvero necessaria, questa garanzia di una pace “nonostante tutto”, di una pace “a dispetto di tutto”, una pace più forte, più salda, più stabile di qualsiasi forza negativa e distruttrice. C’è bisogno di questa certezza. Ce n’era bisogno, allora, per i discepoli ai quali qui Gesù preannuncia un futuro portatore di “tribolazione”. Si riferiva, in primo luogo, al loro immediato futuro, che li avrebbe costretti a confrontarsi con eventi così traumatici da uccidere in loro ogni fiducia, ogni speranza; e credo che gran parte della “tribolazione” patita dai discepoli sia consistita nella scoperta della loro debolezza, della loro inaffidabilità, della loro pavidità, della loro prontezza a rinnegare e ad abbandonare quel loro Maestro che li chiamava “amici”, della loro incapacità di confortarlo anche soltanto con la loro presenza (pensiamo al sonno che li coglierà nel giardino del Getsemani). “Mi lascerete solo”: preannuncia Gesù a coloro che chiamava “amici”: e lasciarsi soli, tra amici, è qualcosa che ammazza l’amicizia – quando, beninteso, si tratta di semplice amicizia umana. Ecco perché era così necessario, per i discepoli, ricevere in anticipo la rassicurazione che la pace donata da lui è tutt’altra cosa dalla pace che dà il mondo (Gv 14: 27), perché, dice Gesù, è “pace in me”. E una pace in Gesù è appunto una pace “nonostante”: nonostante ogni tradimento, nonostante ogni abbandono, nonostante ogni miseria umana. Perché emana, questa pace, da un amore che non è di questo mondo, da un’amicizia che non è di questo mondo. Per questa stessa ragione, la pace che dà Gesù, la pace in Gesù, è anche una pace “nonostante” qualsiasi sofferenza provocata dagli altri, “nonostante” qualsiasi persecuzione. E ce n’è bisogno, di questa certezza di pace, anche per noi che tentiamo oggi di essere discepoli, cioè amici, fratelli di Gesù. Anche noi, sempre di nuovo, siamo costretti a confrontarci con la nostra costante tendenza ad abbandonare, a lasciar solo, a rinnegare, a tradire quello che pure abbiamo liberamente scelto come il nostro Maestro. Siamo esposti a questo rischio allorché si profila la possibilità che la coerenza con la nostra fede richieda un sia pur minimo prezzo da pagare. “Avere tribolazione nel mondo”, per usare il linguaggio di Giovanni – soffrire in qualche modo, cioè, per la nostra fedeltà al Signore – ma davvero ci è mai capitato, sorelle e fratelli? Non è certo la prima volta che pongo questo interrogativo, a voi e a me stessa; perché credo che noi e le nostre chiese, in questi tempi e in questo nostro Paese, siamo molto poco attrezzati a patire “tribolazione” per la causa di Gesù e del suo Evangelo. Anche quando la “tribolazione” si limita a qualche piccola scomodità, a qualche incrinatura nella nostra tranquilla routine quotidiana. Può accadere per esempio, che la nostra fede cristiana – specie se professata come la professiamo noi, cioè nella sua declinazione protestante – rischi di creare un senso di estraneità, di generare qualche impaccio, qualche diffidenza tra noi e gli altri: tra noi e i colleghi che frequentiamo quotidianamente sul posto di lavoro, tra noi e certi conoscenti appartenenti a qualche “giro” che ci sta particolarmente a cuore, addirittura tra noi e qualcuno dei nostri familiari… E allora, in questi casi, la nostra reazione è spesso molto simile a quella dei discepoli, ed è, in sostanza, quella di fare del nostro meglio per mimetizzarci con l’ambiente che ci circonda. Per seguire – richiamandoci al salmo 1 – una via che forse non sarà proprio la via degli “empi”, ma certo non è la via del Signore. Tutto questo non deve stupirci. Tale è l’animo umano; inutile farci illusioni. È sano realismo, non pessimismo esasperato, quello del Catechismo di Heidelberg, nel quale, alla domanda se sia possibile adempiere perfettamente a ciò che esige da noi la legge divina, l’essere umano risponde, parlando in prima persona: “No, perché sono per natura incline a odiare Dio ed il mio prossimo”. “Odiare” Dio? “Odiare” il prossimo? Ma quando mai, ci verrebbe da dire. Eppure, se teniamo presente che qui “odiare” va inteso come “non amare”, o quanto meno “non amare abbastanza”, allora non possiamo non riconoscere quanto sia profondamente vero, quanto appartenga all’esperienza di ciascuno di noi riconoscere l’esistenza di questa nostra innata inclinazione forse non all’odio, non al male, ma certamente all’egocentrismo, alla ricerca di sicurezza e di comodità e, di conseguenza, alla tiepidezza, alla cautela anche in ciò che richiederebbe invece dedizione appassionata, come la nostra fede. Tutto questo Gesù lo sapeva bene, tanto da adombrarlo in queste parole riportate da Giovanni: “sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo”. Perché rompere la relazione con lui significa, inevitabilmente, anche rompere la relazione di amicizia e di fraternità che tiene unito il gurppo dei discepoli. Chi lascia solo Gesù non può non ritrovarsi solo a sua volta – ecco perché la solitudine è un malessere, potremmo dire una malattia, così diffusa oggi, anche tra coloro che si dicono cristiani. Perché per essere cristiani non basta “credere” a livello intellettuale. Era questo il “credere” dei discepoli: “Ora sappiamo che sai ogni cosa”, dichiarano, “perciò crediamo che sei proceduto da Dio”. Un “credere” di questo genere non merita altro che l’ironico ribattere di Gesù: “Adesso credete?”. Per il cristiano, Gesù Cristo non è l’oggetto di un insieme di dottrine o di dogmi. È qualcuno che vive, anzi il Vivente per eccellenza: qualcuno che lo ispira, lo anima, lo abita, e gli rende possibile affermare, con l’apostolo Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Si è cristiani solo quando si è incontrato Cristo e si continua a incontrarlo come qualcuno che ci parla come nessuno ci ha mai parlato, che ci ispira come mai siamo stati capaci di parlare o di amare, che ci fa felici come mai siamo stati, che rende feconda la nostra vita, generosa, allegra, coraggiosa come mai avremmo creduto possibile. Il cristiano non è una persona necessariamente migliore delle altre. È qualcosa di diverso: è uno che è abitato, uno che sa che abita in lui un Altro. Domandiamoci dunque, sorelle e fratelli: siamo abitati o siamo soli? Compiangiamo la nostra solitudine o viviamo con una presenza? Una cosa, tuttavia, deve essere ben chiara: non siamo autorizzati a compiangerci, non a demoralizzarci, per nessun motivo; nemmeno per la nostra inadeguatezza, quella irrimediabile inadeguatezza che connota da sempre i discepoli di Gesù. Questa domenica appartiene ancora al tempo di Pasqua, e il tempo di Pasqua è il tempo privilegiato per ricordare che allorché sono cominciati gli incontri con il Risorto il gruppo dei discepoli ha finito una volta per tutte di essere un gruppo di gente demoralizzata, demotivata, spenta, priva di prospettive e di speranze. Ma prima della risurrezione, prima ancora della morte, Gesù ha lasciato ai suoi discepoli di allora e di tutti i tempi questa parola: “coraggio”. Sapeva quanto ne avevano, quanto ne abbiamo bisogno, di questa parola, “coraggio”: come della parola “pace”. Come non può esserci pace senza amore, così non può esserci pace senza coraggio. “Coraggio” è una parola straordinariamente bella e nobile, indica, secondo me, la qualità più necessaria per stare al mondo seguendo “la via dei giusti”. È una qualità tutt’altro che comune; anzi, al contrario, è rara. Perché è davvero difficile “farsi coraggio”, se con questo intendiamo non il coraggio di quello che può essere un momento eccezionale, eroico, ma l’oscuro coraggio quotidiano, che ci aiuta a evitare la via dell’opportunismo, del conformismo, della ricerca di sicurezza a tutti i costi. È difficile, ma può diventare facile se avremo la certezza che chi vive in noi è Colui che ha vinto il mondo. Amen.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante