Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 24 AGOSTO 2014

Il sermone che vi apprestate a leggere si presenta in una veste grafica “differenziata” rispetto al consueto. Come l’intero culto odierno, è stato preparato da Walter Massenz, Predicatore presso la Chiesa Battista “Agape” di Treviso, che ringraziamo di cuore per il servizio reso alla nostra Comunità.

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Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 17 AGOSTO 2014 (Gn 1,1-7; Gv. 4,1-14; 24-26)

Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete

La samaritana al pozzo

Nel racconto della creazione lo Spirito di Dio aleggia su acque informi e le divide fra quelle che stanno al di sopra nell’infinità dei cieli e quelle che stanno quaggiù: anch’esse divise per diversa qualità e funzione. Rende l’acqua che nasce dalle sorgenti duttile ai cambiamenti della temperatura così che si raccolga in nuvole e in ghiacciai, promessa che non si esaurirà. L’ha riposta nel cuore delle comete, le affascinanti palle di acqua ghiacciata ricca di sostanze vitali, che misteriosamente viaggiano per milioni di anni fra le stelle. Lo sappiamo: tutto ciò che respira ha origine dall’acqua. Il nostro corpo lo è all’80%, i nostri figli si formano nel liquido acquoso del grembo materno. Noi, unici fra le creature viventi, possiamo sciogliere il nostro dolore in gocce d’acqua; se non possiamo bere più, le lacrime si seccano e il corpo muore. La terra di Palestina è sempre stata assetata. Tuttora soffre di periodi di terribile siccità. Se oggi vi infuria una guerra ferocemente disumana, la ragione sotterranea è la volontà di avere il predominio sulle fonti d’acqua. Fin dalla remota antichità, la Bibbia ha insegnato come fare tesoro di ogni stilla che si forma dall’umidità della notte, e innumerevoli sono i versetti che cantano la rugiada come segno della potenza di Dio e della sua benedizione sulla terra. Dice un’antica tradizione ebraica che alla fine dei tempi, nell’ultimo giorno, con una goccia d’acqua i morti risorgeranno. Da tutto questo, oltre che dalla nostra esperienza, sappiamo di quale immenso valore vitale sia l’acqua e ci arriva tutto il carico simbolico di questa parola riferita alla vita dello spirito. La Bibbia chiama acqua viva quella che sgorga da una sorgente. Se ristagna, s’infetta: allora è acqua morta. E noi, umanità dotata d’intelletto, l’abbiamo tradita, rifiutiamo di tenere in conto la saggezza dei suoi percorsi e delle sue leggi, la inquiniamo sulla terra e nelle raccolte delle nuvole e dei ghiacci. Con il disprezzo per la sua preziosità sacrale ne facciamo acqua morta portatrice di morte.
Abbiamo estremo bisogno di cambiare la mentalità che conduce l’agire del mondo. In questa calda domenica estiva proviamo a metterci al posto della samaritana. Abbiamo l’occasione di fermare il ritmo delle nostre occupazioni e delle nostre preoccupazioni e ascoltare Gesù con cuore aperto, per comprendere il senso delle parole che ci rivolge quando offre se stesso. Sì, perché egli offre se stesso a te, a me, ad ogni creatura umana, come vita vera, limpida e benefica come la più pura acqua sorgiva, che Dio ha posto nel nostro mondo malato e sconvolto per scioglierlo dal negativo e spezzare le catene che lo attanagliano al male che lo fa morire. Ma perché questo miracolo avvenga – e non sia un auspicio, un’evasione momentanea dalla realtà quotidiana – è la nostra natura stessa che deve essere interamente rinnovata per ritrovare quell’immagine che Dio aveva posto nell’uomo e che abbiamo smarrito: un compito per noi irraggiungibile – non illudiamoci, solo lo Spirito Santo può ricostruirla. Da noi esige solo un sì umile, pieno, forte e felice. La storia della donna samaritana è nota a tutti. La Samaria era una piccolissima regione montuosa fra Galilea e Giudea e il nome samaritano deriva da “samerin” che significava guardiano della legge: infatti, i samaritani erano così orgogliosi di essere i soli guardiani della legge di Dio, che si dicevano figli della luce. Disprezzavano i giudei come i giudei disprezzavano loro: era un robusto odio reciproco. Non a caso Gesù si ferma lì, presso il pozzo di acqua sorgiva del patriarca Giacobbe, scavato a 30 metri di profondità. Non a caso, all’ora di un caldo mezzogiorno, quando nessuno avrebbe affrontato la fatica di tirare su acqua da un pozzo così profondo; poteva toccare solo a una donna costretta a nascondersi perché rifiutata dalla società per la sua vita dissoluta di prima e ora perché mantenuta da un amante segreto. Non a caso Gesù è solo — davanti a lei, e lei stenta a capire di cosa parla. Ci arriva per gradi, passando dalla materialità delle cose a ciò che concerne la vita intima e poi quella spirituale che pone gli interrogativi della fede. Ci arriva solo quando Gesù la mette davanti alla realtà della sua vita, per lui trasparente come solo per Dio può esserlo. Allora, a un tratto, si vede nuda non nel corpo ma nell’anima, e il suo pensiero va alle verità eterne, al Messia, al Cristo, l’Emanuele che salva. E Gesù a lei si rivela: “Sono io, che ti parlo”. Gesù è venuto per i malati. I sani, quelli che si credono tali, non hanno bisogno di medico: sono sufficientemente paghi di ciò che sono e fanno. I malati, i rotti nell’anima, quelli che si sentono abbandonati, che muoiono di sete e di fame in un mondo opulento che li schiaccia e li emargina, hanno terribilmente sete: hanno sete e fame di vita, di giustizia, di verità. I malati nell’anima che sentono il peso dei tanti errori commessi e non trovano ristoro, hanno una sete estrema: di sapersi accolti, perdonati, amati. Ecco la grande sete di tutti i singoli e di tutti gli insiemi di donne e di uomini, di giovani e di vecchi, come di tutto ciò che ha respiri di vita: sete di amore vero, che non fallisce, eterna fonte di vita. Ecco, dice il Cristo, questo sono io, che ti parlo. Per conoscere il Cristo, l’intelletto di per sé non serve a niente, a causa della frattura che si instaura fra le doti dell’intelletto e le deviazioni della nostra psiche. Bisogna sentirsi malati, vedere tutti i nostri errori, conoscere le nostre fragilità e avere grande sete di verità e di vita nuova. Però è dura mettersi nudi davanti a Dio: perciò il Cristo ha impresso nel mondo il volto amorevole del Padre e lo ha reso accessibile a chiunque lo cerchi. Quando lo scopriamo, e ogni volta che lo ritroviamo, il cuore si riveste di speranza: è il nostro Natale, è il Natale dell’amore di Dio per noi che viene, vive in noi e fa ogni cosa nuova. Per un paio di millenni il cristianesimo ha preso come segno di benevolenza la rivelazione del Cristo a una donna; così abbiamo relegato nella beneficenza quello che è un atto rivoluzionario di fondamentale importanza, monito per la storia dell’umanità. Con fatica, a stento, i cristiani l’hanno accolto, evitando di metterlo in pratica nella sua logica interezza. Adesso viviamo in un mondo che, nella sua stragrande maggioranza, lo ignora del tutto; allora, è l’evolversi stesso della storia che urge quel mondo a capovolgere il concetto (soprattutto religioso!) della subalternità femminile, se non vuole estinguersi in guerre e in genocidi orrendi. Se mai abbiamo incontrato e conosciuto il Cristo, se Egli è in noi fonte che disseta e guarisce, a noi è affidato il compito di essere operosa fonte di quell’acqua rivoluzionaria che tutto cambia: di esserlo per il piccolo mondo che ci circonda e per il vasto mondo in cui siamo posti. Teniamoci stretti al Cristo, nutriamoci ogni giorno della sua parola, mettiamola in pratica con la forza che in noi lo Spirito Santo infonde. E preghiamo senza mai stancarci che il suo Regno venga. Amen.

Predicazione a cura di Febe Cavazzutti Rossi, Predicatrice locale della Chiesa Evangelica Metodista di Padova

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 10 AGOSTO 2014 (Dt 6,4-9; Ef 5,8-14; Mt 5,13-16)

Il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità
Sale e luce

Bontà, giustizia, verità. Quanto è difficile per noi esseri umani, uomini e donne, capire cosa siano la bontà, la giustizia e la verità! Figuriamoci poi vivere in modo tale che tali frutti siano evidenti e ci rendano testimoni! Eppure mi pare che sia proprio questo il senso dei passi che le Losungen ci hanno suggerito per oggi, vediamo di esaminarli più da vicino.
Nel passo di Matteo Gesù si rivolge ai discepoli, cioè alla comunità dei credenti, quindi a tutti noi, non come singoli, presi individualmente, ma come comunità. Quindi dobbiamo accogliere il messaggio di oggi come un annuncio rivolto a noi come popolo di Dio e già questo rappresenta una prima difficoltà: come fare ad essere tutti insieme sale e luce della terra? Noi evangelici che siamo così abituati all’individualismo, alla responsabilità personale, siamo in questo caso chiamati ad una responsabilità collettiva. Voi, miei discepoli, voi che mi ascoltate, voi che avete fede in me, non tu che sei tanto bravo, tu che hai capito tutto, tu che possiedi le chiavi della conoscenza, no, voi che siete qui davanti a me e cercate una parola che vi dia una direzione, voi accomunati da nient’altro che la fede in me, ricordatevi che siete sale della terra.
Siete, l’utilizzo dell’indicativo e non del congiuntivo, ci blocca e ci paralizza perché di fatto rappresenta un imperativo. Se avessimo trovato il congiuntivo, avremmo potuto cominciare a rilassarci: siate, cioè dovreste essere, il che darebbe spazio a tutte le nostre normali attenuanti. Sì, certo, dovremmo, ma siamo umani, siamo peccatori, e poi c’è il lavoro, la famiglia, le difficoltà quotidiane. Sì certo dovremmo essere il sale, ma si sa, e Gesù certo lo sa più di noi, non sempre si può seguire in tutto e per tutto quello che il Vangelo dice. E così avremmo edulcorato e ingentilito questo passo che come tutte le beatitudini viene più volentieri interpretato come un insieme di massime etiche e mai preso sul serio. Ma invece non c’è la possibilità, l’esortazione: qui l’uso dell’indicativo indica che ogni cristiano è chiamato personalmente a essere sale e luce, vivendo questa vocazione all’interno della sua comunità, in un lavoro collettivo. Quindi il nostro primo compito e riconoscerci come fratelli e sorelle e guardarci l’un l’altro attraverso Dio, in una sorta di visione indiretta che ci permette di vedere che anche l’altro è fatto ad immagine di Dio, per quanto ci sembri diverso da noi che forse ci eravamo eletti come metro per giudicare di che pasta fosse l’immagine di Dio. Noi, quindi, accomunati dalla nostra sororità e fraternità siamo qui riuniti perché siamo il sale della terra.
Essere il sale della terra significa avere un ruolo determinante nella storia che siamo chiamati a vivere: abbiamo infatti il ruolo, la funzione di salare la terra, cioè di darle sapore. Vi è mai capitato di mangiare cibo totalmente sciapo e poi di aggiungervi il sale? E’ incredibile, perché poi il cibo salato non sa di sale, ma è il cibo stesso che acquista sapore: la pasta che prima non sapeva di nulla, poi sa di pasta, l’insalata di insalata e così via. Il sale è discreto, non è come una spezia, che insaporisce con la propria precisa identità le nostre ricette, no, il sale non si sente, ma è determinante nel dare consistenza e sostanza ai sapori. L’argomento è evidente e talmente spesso esaminato, da essere diventato banale e abusato. Ma non dobbiamo permettere ai passi più conosciuti di diventare vani. Non dobbiamo dimenticare che se ci conformiamo completamente al mondo e alla sua saggezza, diventiamo utili quanto il sale che sia diventato insipido. Siamo, non dovremmo essere, siamo il sale della terra, cioè dobbiamo dare una nostra impronta alla terra. Ma quale impronta? Storicamente il cristianesimo ha avuto due disastrose tentazioni: o quella di imporsi non in quanto sale, ma in quanto istituzione di potere, in modo autoritario, grazie alla forza, quando non al dominio violento, oppure di annacquarsi e diluirsi al punto da non essere più riconoscibile, mimetizzandosi nella massa, nel buon senso comune, perdendo la propria identità e quindi la propria essenza.
Ma il passo di Matteo non si ferma qui e ci dice che non solo noi siamo il sale, ma addirittura la luce del mondo. Dico addirittura perché, come ben sappiamo, essere la Luce è un attributo di Dio. Naturalmente Gesù non intende dire che noi siamo Dio, ma ricordarci che la comunità dei credenti deve proclamare instancabilmente che Cristo è il Signore, cioè non deve accontentarsi di affermare banalità teologiche, luoghi comuni, o norme etiche, ma deve manifestare la vita del Signore nella sua propria. Essa deve annunciare la luce e per far ciò deve essere luce lei stessa, pena di diventare come una lampada messa sotto il letto e di diventare invisibile, inutile, buona, come il sale, solo per essere buttata. Una pila che non funziona non può che essere gettata, a cos’altro può servire?
Perché siamo sale e luce? Perché solo così possiamo essere testimoni del Padre nostro che è nei cieli. Purtroppo quante volte il cristianesimo non solo non è stato testimone di Dio, ma addirittura ha scandalizzato e allontanato tanti uomini e donne. A tutti noi sarà capitato di dover difendere il cristianesimo dagli attacchi degli atei razionalisti. La loro forza non è certo nella loro cieca fede nella razionalità umana e tanto meno nel loro fanatismo, ma nel fatto che a prova della negatività della fede cristiana possono portare esempi su esempi. Pensiamo alle crociate, ma anche alle benedizioni che tanti preti e pastori hanno dato alle azioni più efferate dell’umanità (dallo schiavismo al delirio della shoa, solo per citare i due primi esempi che mi vengono in mente) e chiediamoci che razza di testimonianza siamo stati in grado di dare al mondo che aspettava da noi una parola forte, una testimonianza viva.
Gesù ci chiede invece di risplendere davanti agli uomini. Risplendere, non emanare un fioco chiarore, questo verbo ci ricorda la notte di Natale, avvolta nel buio e nelle tenebre e nella quale appare, splendente in cielo, la cometa. Noi siamo in grado di risplendere come quella stella nella notte che ci circonda? Siamo capaci di dire una parola efficace nelle tante tragedie che ci circondano o ci siamo vaccinati e non sentiamo più i pianti dei bambini, le urla disperate delle madri e dei padri, il dolore di tanti fratelli e sorelle nel mondo che cercano solo una parola di speranza, una parola che sappia coraggiosamente essere testimone dell’amore del Padre Nostro che è nei cieli.
Perché come dice Paolo, in passato eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Comportatevi come figli di luce – poiché il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità.
Bontà, giustizia e verità. Non si tratta quindi di accontentarsi di pensare da credenti, di pregare nel chiuso delle nostre stanze e chiese, ma di buone opere e quindi di agire, prendere posizione, correre il rischio di sbagliare e di cadere, ma nella certezza di non essere soli e di poter contare sempre sull’aiuto di Dio.
Eh sì, perché questa è l’espressione che usa Gesù, “padre vostro che è nei cieli”, come nella preghiera che ci ha insegnato. Padre, quindi vicino, amorevole, presente, ma nei cieli, infinitamente distante da questo mondo martoriato dal dolore, dall’odio, dalle guerre, in una parola dal peccato, il nostro peccato.
Questo genitore amorevole ci chiama e ci ricorda, instancabilmente, che noi siamo sale e luce sulla terra, che non dobbiamo avere timore, perché questa non è una possibilità, ma è la nostra realtà perché siamo stati creati a sua immagine e somiglianza e il nostro ruolo qui sulla terra, è operare concretamente affinché chi ci vede sia trascinato dal nostro amore e dalla nostra forza a riconoscere in Gesù il suo Signore e Salvatore. Amen

Predicazione a cura di Erica Sfredda, Predicatrice locale della Chiesa Evangelica Valdese di Verona

 

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 3 AGOSTO 2014 (Lc 18,1-8; Cor 2,1-5)

UNA FEDE CHE NON SI ARRENDE

Parabola vedova

Quando leggiamo gli scritti dei tre Vangeli sinottici – Matteo, Marco e Luca – d’un tratto ci troviamo in un contesto di duemila anni fa che, con gli occhi del presente, ci dovrebbe apparire estraneo e sconosciuto. In realtà, non è così: la ragione è che i sentimenti, i pensieri, i comportamenti delle donne e degli uomini di quei giorni lontani, sono i medesimi di oggi. La parabola, quindi, come tutte le parabole di Gesù, ci tocca personalmente e mette in questione intimamente il nostro modo di essere. Per entrare nel vivo del racconto possiamo provare a rappresentarci visivamente la scena. Non siamo nell’aula di un tribunale, perché qui non ci sono degli accusati posti di fronte ad almeno tre testimoni dei fatti, come prescriveva la legge: siamo, invece, nella sede di un giudice unico che dirime contestazioni e liti fra contendenti di vario genere: chi viene qui, si appella per trovare ragione di un torto subito. Il giudice è accomodato su cuscini in posizione rilassata, proprio di fronte all’ingresso principale, ed è circondato dai suoi segretari. I postulanti sono accalcati in buona metà dell’aula e ignorano quanto potrà essere lunga l’attesa: forse di ore o forse di giorni, perciò chi può si accosta ai segretari e allunga una bustarella il cui contenuto deve essere bastante per ottenere il favore del giudice. Questo modo di procedere non era cosa insolita, perché era da quelle bustarelle che i giudici traevano il loro guadagno. Noi ne sappiamo qualcosa. Dietro la calca, proprio in fondo all’aula, c’era una vedova. Era sicuramente giovane, perché il matrimonio di una ragazza avveniva entro i suoi primi quattordici anni e, per la durezza della vita o a causa dei frequenti incidenti sul lavoro, vi erano vedove giovanissime con bambini in tenera età. Se il morto non aveva un fratello disposto a prenderla in moglie per tramandarne la discendenza, e se la donna non aveva un’eredità da restituire alla propria famiglia per esservi nuovamente accolta, il suo destino era la miseria più nera.  La legge le proibiva l’accattonaggio che era permesso solo agli uomini invalidi: a lei era concesso di andare nei campi alla fine del raccolto per cibarsi di quanto restava a terra. Questo spiega bene come mai il Libro del Deuteronomio sia ricco di prescrizioni in difesa degli orfani e delle vedove e i Salmi proclamino che Dio è il loro difensore. Ecco un punto importante: la donna però sa dalla Scrittura che ascolta in sinagoga che, anche se i giudici sono corrotti, Dio è sicuramente il suo personale difensore. Dunque, benché povera, la donna della nostra parabola aveva un qualche diritto di eredità che il giudice le avrebbe dovuto riconoscere. Non aveva soldi per la tangente e non aveva difensori. Aveva una sola arma a sua disposizione: una paziente, pedante, irremovibile insistenza, che la premierà. Le parole del giudice in aramaico suonano più o meno così: cederò a questa sgualdrina perché con il suo piagnisteo mi dà ai nervi. Chissà se vi sembra ardito che Gesù prenda questa donna a esempio per coloro che in Dio hanno riposto la loro fiducia solo in lui confidano? Dice Gesù ai suoi: se sulla terra ci sono ancora uomini e donne che giorno e notte invocano la sua giustizia, chiedono che il suo Regno venga e si compia, resteranno senza risposta? No! Dio risponderà e farà loro sperimentare la sua risposta di giustizia. Nessuno scherno, nessuna tiepidezza, nessuna impazienza, nessuna malvagità, nessun insuccesso scuote Gesù nel suo consapevole convincimento che Dio porta a compimento ciò che ha iniziato nel cuore dell’umanità. E, se usciamo dal nostro limitato concetto cronologico del  tempo, fatto di brevi ore e di fugaci giorni, possiamo ardire e intravvedere la dimensione dell’eterno tempo di Dio in cui tutto è già compreso, il principio come il suo compimento. Ma allora, perché d’un tratto l’interrogativo amaro di Gesù che chiede se quando verrà troverà ancora la fede sulla terra? Non vi pare una domanda terribile? Per una risposta plausibile credo che non dobbiamo vedere nell’invito alla paziente perseveranza l’insegnamento centrale della parabola, ma solo quello collaterale. Al centro vi è la realtà della fede: la perseveranza è il frutto della fede. Fintanto che la fede è viva e nutre i nostri rapporti, la perseveranza ne è la conseguenza naturale: niente la può scoraggiare. La fede è semplicemente una delle facoltà dell’animo che ogni neonato riceve alla nascita. Crescendo vi metterà i propri contenuti, e sarà tutta una scoperta. Secondo il pensiero teologico metodista, si chiama grazia “preveniente”, cioè che viene prima di qualsiasi altro fattore e che accompagnerà la vita di ogni singolo individuo, perché nessuno ne è privo: è una possibilità da colmare di significato e da spendere ogni giorno. Quale fede vorrebbe Gesù trovare sulla terra? in te, in me, in questa comunità di credenti? La fede della giovane vedova che non si rassegna all’ingiustizia e non si arrende. La fede che, anche se la città (forse il mondo?) è governata da giudici iniqui combatte con testarda pazienza finché il potere corrotto, indifferente e refrattario, è costretto a cedere. La fede che malgrado le delusioni, le frustrazioni e le sconfitte, non si dà pace e non dà pace al potere finché giustizia non sia fatta. C’è sempre qualcosa di paradossale nella parola biblica: anche in quella che ci viene oggi dalla parabola del Signore. La donna non ha poteri e non ha difensori. La sua fede non è fondata sui preziosi e utili saperi del mondo che l’hanno convinta; neppure si sente forte nella società per certi suoi convincimenti personali. È del tutto disarmata: eppure, nel profondo del suo essere ha deposto la certezza che Dio è il difensore degli oppressi e degli emarginati e che la giustizia di Dio è  presente e vincerà. Anche noi siamo deboli e nudi davanti a Dio e davanti agli uomini, come lo era Paolo. Ma abbiamo avuto il dono di una straordinaria grazia per cui abbiamo conosciuto quel Figlio d’uomo che, spogliandosi di ogni potere è oggi la pressante dimostrazione di quanto siano folli e fallimentari tutti i poteri che gli uomini mettono in atto. Mi chiedo talvolta, le tragedie prodotte dalle guerre passate e quelle orribili che sono a poca distanza da noi, convinceranno finalmente gli uomini che le strategie di guerra sono fallimentari e non possono produrre vita? Oggi, più che mai annunciamo il Cristo che si è caricato delle nostre pene e delle nostre colpe sulla croce, che il Padre ha glorificato facendolo vincitore della morte. In lui troviamo la riconciliazione con le donne e gli uomini che ci sono compagni di un’umanità smarrita e perduta; in lui troviamo qual è la via della salvezza per tutti gli esseri viventi e per il creato nel quale siamo posti. Non stanchiamoci, dunque, di pregare che lo Spirito Santo di Dio rinnovi in noi una fede forte, serena e operosa affinché il suo Regno venga e la sua volontà sia fatta nei nostri pochi giorni come nell’eterno tempo di Dio. 

AMEN

Sermone a cura della nostra Predicatrice Locale, Febe Cavazzutti Rossi. Il culto è stato celebrato dal Presidente della nostra Comunità, Davide Anziani, mentre il sermone è stato letto dal fratello di Chiesa, Daniele Rampazzo.

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 20 LUGLIO 2014 (Lc 8, 4–15)

IL BUON SEMINATORE

Il buon seminatore

Un uomo ancora giovane che parla, e tutt’intorno a lui una grande folla che pende dalle sue labbra e ricerca i suoi occhi, e altra gente che arriva da ogni dove, come fiumi che sfociano nel mare. Per molti dei presenti è un momento importante, forse addirittura decisivo:  il momento che può dare una svolta alla vita. Sanno che quel maestro è un grande operatore di miracoli. Ma quello che impressiona è soprattutto come parla di Dio: come mai nessuno prima! Tu l’ascolti e senti Dio presente, accanto a te, come misericordia e tenerezza: un padre che ti ama e ti apre il cuore perché vuole il tuo cuore… vuole la tua attenzione, tiene a te. Davvero, mai nessuno ha insegnato di Dio come Gesù. In lui tutto l’antico si fa nuovo: un nuovo modo di incontrare il Signore, un continuo stupore, una sorpresa che ti scalda il cuore, una cosa che mai prima hai provato, e rinnova anche te… Ed ecco, ora sei lì, davanti a lui, e lo guardi, e lo ascolti. E già fin dall’inizio cogli la novità di quel maestro. Perché non parla come gli altri maestri di comandi e precetti, non ti dice “Fa’ questo” o “Non lo fare”. Ti racconta una storia, ti dipinge una scena, e quasi senza accorgertene, ti ritrovi coinvolto, sei parte di quel mondo che è fatto di parole, ma che ha una sua realtà, dei suoi colori. Sono le “parabole” di Gesù. Brevi storie, “bozzetti” della vita di ogni giorno che sanno parlare al cuore, smuovono sentimenti e sensazioni. E tu ascolti e t’accorgi che sei il protagonista di quello che hai ascoltato: sei stato interpellato, e devi dare tu senso alla storia con la tua decisione. Il bello delle parabole è proprio questo: da un certo punto in poi non c’è più uno che parla e gli altri che lo ascoltano senza poter far altro: c’è l’unica realtà della storia raccontata. E in essa si ritrovano chi ha iniziato il racconto e chi lo sente, che adesso è sfidato a diventare protagonista: deve scoprire lui quello che la storia racchiude in sé e deve trasformarlo in verità, per se stesso e per gli altri. È davvero così: Gesù ci chiama ad essere i coautori delle sue parabole; e in questo modo, ad entrare in comunione con lui. In fondo, in questo senso, il linguaggio delle parabole è un linguaggio d’amore: non più “io” e “voi”, ma “noi”… In particolare, nel nostro testo d’oggi, Gesù chiama la folla già presente attorno a lui e chi ancora è in arrivo “da ogni città” a farsi “noi” con lui, raccontando la “parabola del seminatore”. Una parabola che inizia all’improvviso, senza un’introduzione né una similitudine, come invece molte altre che sovente si aprono con la formula: “Il regno di Dio è simile a…”.  Qui invece, c’è subito il racconto: “Il seminatore uscì a seminare la sua semenza”. E, subito, c’è il tocco del maestro: la ripetizione delle varianti della stessa parola: “seminatore… seminare… semenza…”, ti fa quasi vedere il gesto ampio e cadenzato con cui il seme viene sparso nel campo. E questo seme cade. Ma forse il campo è piccolo, o il gesto è troppo ampio, e così una parte del seme finisce sul piccolo sentiero che corre lungo il campo, e un’altra parte sul terreno roccioso, e un’altra ancora tra le spine. E quel seme va perso. Su questo “seme perso” la prima comunità cristiana ha riflettuto, e s’è come riflessa in uno specchio. Ha veduto se stessa e la sua incredulità e quella di tanti altri, venirle incontro in quelle tre realtà di “semenza sprecata” che Gesù ha pitturato. E ha cercato le risposte alle domande che sempre rendono inquieta una comunità credente: perché molti non credono nell’evangelo? E perché molti che credono non hanno la costanza di rimanere saldi nella fede? Perché non provano in sé la gioia dell’incontro con Gesù che ti cambia la vita? Perché, insomma, a volte sembra proprio che in tanti, in troppi, “guardino e non vedano, ascoltino e non comprendano”? Le risposte della comunità credente, le troviamo nella seconda parte della pagina di oggi, nella cosiddetta  “spiegazione della parabola”, che con tutta probabilità è appunto la riflessione dei primi cristiani che, proprio come la “terra buona” di cui parla la parabola, hanno accolto in sé il “seme” della parola, l’hanno conservato “in un cuore onesto e buono” e hanno “portato frutto con perseveranza”, e qui però si pongono il problema degli altri che non hanno creduto o non hanno perseverato nella fede.  Ascoltiamole allora, queste risposte: Quelli lungo la strada sono coloro che ascoltano, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, affinché non credano e non siano salvati”. Il cuore umano è un campo di battaglia. Il Signore ti fa dono della sua parola ma, veloce ed avido come “gli uccelli del cielo” che atterrano a beccare i chicchi finiti sulla via e frantumati dai piedi dei passanti, irrompe l’avversario. È il nemico per eccellenza, che Luca e la sua chiesa conoscono bene: è “il diavolo” che viene con le ali spalancate a rubare la parola, prima che essa attecchisca e chi l’ascolta creda in lei e si salvi. Poi c’è il seme che cade fra le pietre: “Sono coloro i quali, quando ascoltano la parola, la ricevono con gioia; ma non hanno radice, credono per un certo tempo ma, quando viene la prova, si tirano indietro”. Dopo gli increduli, i deboli.  Dobbiamo sempre avere ben presente che la chiesa del Nuovo Testamento vive in un clima di continua ostilità che sovente si fa persecuzione. Così, se la parola non ti ha afferrato in profondità, quando per quella fede sei chiamato a soffrire, alla gioia degli inizi della fede subentra la paura, e per paura tu “ti tiri indietro” dal seguire Gesù.  E ancora, ecco il seme “caduto tra le spine”: “Coloro che ascoltano, ma se ne vanno e restano soffocati dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non arrivano a maturità”.  Non basta avere accolto la parola. Se non diventa in te fonte di vita, libertà dalle cose che tu pensi di avere e invece sono loro a possederti, allora “le preoccupazioni, le ricchezze e i piaceri della vita” soffocano la tua fede, e tu vai alla deriva, senza nemmeno rendertene conto. E ti ritrovi vuoto. Quello che avevi udito e avevi accolto, non t’è servito a niente: in te non c’è alcun frutto ma solo delusione e un senso di sconfitta… Ecco allora: gli “increduli”, i “deboli”, i “soffocati”… Così la chiesa ha esaminato se stessa, le sue sconfitte, i suoi fallimenti e le sue frustrazioni alla luce della parabola del suo Signore. Lo ha fatto con serietà ed impegno, fino al punto di attribuire questo esame allo Spirito che Gesù le ha donato e di sentirsi così autorizzata a mettere il risultato della sua riflessione sulla bocca stessa del Signore, come sua riflessione e ammonimento a tutti i credenti che leggeranno l’evangelo… E anche noi facciamo bene a sottoporci al vaglio di questo stesso esame. A chiederci come accogliamo la parola seminata in noi: quanta ne frantumiamo, e quanta roccia c’è dentro di noi, e a quante spine diamo nutrimento… Ma non possiamo fermarci qui, sotto pena di fare del nostro essere cristiani soltanto una morale, e forse un moralismo… Se la spiegazione che la comunità di Gesù ha dato della parabola del suo Signore è certo seria e valida per chiunque di noi voglia esaminarsi su come accoglie e vive la parola di Dio, prima della spiegazione c’è e resta la parabola stessa, la storia raccontata da Gesù. E il clima di questa storia è tutto un altro… quale soltanto lui lo poteva creare… Per coglierlo, quel clima, e per gustarlo appieno, per intendere davvero la “parabola del seminatore” nel significato che le ha dato Gesù, dobbiamo fare un atto di coraggio. Dobbiamo mettere da parte almeno per un po’ la spiegazione su cui sinora ci siamo soffermati, e guardare soltanto alla parabola, come se ci fosse solo lei e come se l’ascoltassimo per la prima volta. Questa parabola è nota – già l’abbiamo detto e ripetuto – come quella “del seminatore”. Dovrebbe chiamarsi “la parabola del seminatore scalcagnato”. Perché, a guardarlo lavorare, quel seminatore è un vero disastro! Il seme in Palestina era prezioso: la produzione non era mai abbondante. Tra la farina per il pane di ogni giorno e la parte che bisognava consegnare come imposta a Roma e per la tassa del tempio, per la semina dell’anno successivo restavano davvero pochi semi, da trattare con cura per non sprecarne nemmeno uno. Qui invece c’è uno spreco colossale. Questo seminatore infatti, da un alto sembra non avere assolutamente preparato le condizioni minime necessarie per la riuscita della sua semina, e dall’altro sembra buttare il seme quasi a caso: lo manda sulle pietre che non s’è preoccupato di togliere dal campo; lo getta fra le spine che non ha estirpato prima; lo manda addirittura sulla strada che corre lungo il campo, e questo è proprio il colmo! Fosse una storia vera, in Israele, un seminatore così sarebbe stato prima bastonato dal padrone del campo, poi mandato via a calci… Ma questa storia l’ha inventata Gesù. E lui, quel seminatore, l’ha pensato tutto diverso dall’impressione che sta facendo a noi. Se lo guardiamo in faccia, vedremo che il suo volto ha qualcosa di familiare… e anzi, ci accorgeremo con grande meraviglia che quel seminatore è Gesù stesso. Sì, nella figura del seminatore Gesù rappresenta se stesso… Ma a questo punto, ci farebbe segno di spostare lo sguardo dal suo volto alla mano, e nella mano al seme che sta spargendo. Perché quello che conta, è proprio il seme! E questo lo capiamo dal finale della parabola. Una parabola è un po’ come un racconto giallo: quel che conta è il finale e tutta la storia e tutti i particolari della storia sono costruiti in funzione del finale, perché colpisca e ti rimanga impresso… Ebbene qui il finale parla appunto del seme (e non più del seminatore) e ci dice che quello caduto nel “buon terreno, quando fu germogliato, produsse il cento per uno“. Altro che OGM! È una percentuale semplicemente incredibile! Ancora oggi, nella Palestina, un seme molto buono può arrivare anche a dare “dieci”, ma “cento” è una follia! Ma allora qui capiamo che è proprio questo “folle super-seme” che consente a Gesù seminatore di essere così sprecone. Una parte del seme cade sopra il sentiero? Che gli fa? Un’altra cade dritta sulle pietre o fra spine? Non ha alcuna importanza! Quel seme è così buono che quel poco che cade dove deve cadere, sarà più che sufficiente per avere un raccolto eccezionale! È così buono che ci si può permettere di essere trascurati nel preparare il terreno per la semina e distratti nel gettarlo nell’aria… Quel seme è la parola di Gesù – in questo, la comunità che ha composto la spiegazione della parabola, è pienamente in sintonia con lui… E Gesù continua a spargerla, la sua parola, ovunque e a piene mani. La getta anche là dove verrà respinta, o disprezzata, o presto dimenticata e trascurata… Non importa! Perché quella parola è una vera e propria “bomba”! Cadrà e porterà frutto, oltre ogni immaginazione! Nel profeta Isaia,  parlando della sua parola, il Signore dice: “Non tornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero, e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (cfr 55,11). Con Gesù è la stessa cosa. C’è in questa parabola una vera grande gioia, così grande da permettere lo spreco… c’è un senso di potenza e di vittoria: la parola che Gesù sta spargendo tutt’intorno sui buoni e sui cattivi, sui credenti e gli increduli, “crescerà” a dismisura, e sarà predicata in tutto il mondo… È predicata qui oggi, dopo duemila anni…  Allora veramente, se certo ha senso e è importante interrogarci ogni volta, domandarci se siamo “strada” o “rocce”, o “spine” o “buon terreno”… però fondamentalmente non si tratta di guardare a noi stessi, di stare a preoccuparci di quel che possiamo fare o non fare, ma di guardare alla parola di Gesù, perché è lei, e solo lei che fa, opera meraviglie… le opererà anche in noi…  Il “seminatore Gesù” è anche oggi nel campo, col suo grembiule pieno. Continua a seminare, a gettare il suo seme con un gesto sicuro… quasi festoso. Vediamo che quei semi li butta sulla strada e vengono gli uccelli e li beccano via… che li butta sui sassi dove il sole li brucerà… li butta tra le spine che li soffocheranno… Ma non possiamo dirgli: “Cosa fai?”… Non avrebbe alcun senso. Perché Gesù ci guarda. E il suo sguardo è sicuro e spensierato, come acceso da un’ironica fiducia. Ci guarda e ci sorride. E quel sorriso dice: “Non starti a preoccupare! Qualche chicco è per te! Cadrà sopra di te come sul terreno soffice… e in te farà dimora… ed in te crescerà. E sarà “cento ad uno”. E verrà la mietitura e canteremo insieme la gioia del raccolto”.

Sermone a cura del Pastore Ruggero Marchetti, della Chiesa Evangelica Valdese (Unione delle Chiese Evangeliche Valdesi e Metodiste) di Trieste