Sermone: La saggezza dell’ecclesiaste

Il tema della domenica di oggi è il pastore, il buon pastore, ma anche altre figure che in qualche maniera conducono il popolo o la chiesa. Vorrei oggi parlarvi di una figura speciale nella Bibbia. Una persona che ci viene presentata senza nome proprio. Viene chiamato l’Ecclesiaste, o Qoèlet o semplicemente il predicatore. Anche lui conduce il popolo d’Israele con le sue parole.

Egli dice di essere figlio del re Davide di Gerusalemme. Spesso veniva identificato nel passato con Salomone che era noto per la sua saggezza. È un personaggio che cerca di capire, di non accettare le risposte facili e di trovare e riporre fiducia in Dio. E proprio con le sue domande, questa figura antica diventa molto moderna. Egli pone domande che anche oggi potremmo sentire e dà delle risposte che anche a noi possono dire qualcosa.

Questo predicatore saggio, viveva 200 anni prima di Cristo ed era un uomo nutrito di pietà ebraica, educato nella saggezza greca, figlio dei suoi tempi – che erano pieni di catastrofi; un insegnante di saggezza, un filosofo. Si potrebbe definire uno degli autori più pessimisti nella storia mondiale della letteratura. Tutto è vanità, è un correre dietro al vento, questo lo ripete diverse volte. È vano, addirittura, essere re Salomone, esempio della saggezza. Anche un tale uomo deve dire alla fine: Tutto è vanità! – che messaggio triste.

Non voglio parlarvi oggi di un testo specifico dell’Ecclesiaste. Vorrei piuttosto farvi venir voglia di prendere oggi pomeriggio la vostra Bibbia e di leggere tutto quel libricino, sono solo poche pagine. Ma ora vi leggo il passo che forse è la più famosa poesia dell’Ecclesiaste 3,1-8

Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: 

un tempo per nascere e un tempo per morire;

un tempo per piantare e un tempo per sradicare ciò che è piantato; 

un tempo per uccidere e un tempo per guarire;

un tempo per demolire e un tempo per costruire; 

un tempo per piangere e un tempo per ridere;

un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare; 

un tempo per gettar via pietre e un tempo per raccoglierle;

un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci; 

un tempo per cercare e un tempo per perdere;

un tempo per conservare e un tempo per buttar via; 

un tempo per strappare e un tempo per cucire;

un tempo per tacere e un tempo per parlare; 

un tempo per amare e un tempo per odiare;

un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

 

È quasi strano che questo testo dell’Ecclesiaste si trovi nella Bibbia. E si sa per certo che ci sono state delle lotte e degli scontri per lungo tempo tra le persone che dovevano definire il canone biblico; ma alla fine anche il libro di Qoèlet è stato accettato dalla Sinagoga e dalla Chiesa e oggi lo troviamo accanto a Isaia, Matteo, Paolo e Giovanni. Trovo questo fatto interessante e importante. C’erano in ogni periodo della storia persone che volevano andare a fondo delle cose, che non erano disposte ad accettare le risposte facili, persone che talvolta danno fastidio a quelli che preferiscono le risposte preconfezionate; eppure alla fine ci fa bene avere qualcuno che approfondisce, qualcuno con uno spirito filosofico. Ci fa bene nel canone della Bibbia, ci fa bene in questa comunità.

L’Ecclesiaste si è confrontato con le contraddizioni della vita. Aveva dei dubbi sulla fede che non ha messo da parte, ma li ha accettati ed espressi. Ha visto le incongruenze della tradizione religiosa del suo popolo e si è confrontato con esse. – Questo è un compito che spetta a noi anche oggi, serve anche a noi nella nostra chiesa, nella nostra comunità: mettere in discussione la nostra tradizione, i nostri riti e le abitudini. Le tradizioni fanno bene, ma devono sempre essere riformate per non incatenarci ma piuttosto per darci un fondamento in ciò che facciamo.

L’ho già detto che Qoèlet viene considerato da tanti l’autore più pessimista della storia. Vede la vanità della nostra vita e il correre dietro il vento. Ciò che lo preserva in tutta quest’assurdità, dal non vedere alla fine tutta la vita come un’assurdità, è la fede in un Dio Creatore. L’Ecclesiaste crede, come sta scritto nelle prime pagine della Bibbia, che la creazione è buona, anche se vediamo delle contraddizioni in questo mondo che ci danno del filo da torcere. Non possiamo, come essere umani limitati, intuire l’illimitata realtà di Dio, questo lo sa l’Ecclesiaste. Egli vuole fare mostrare che Dio è onnipotente e che noi uomini dipendiamo totalmente da lui nella nostra ricerca di felicità. – Avete colto, che questo ridimensionamento dell’essere umano è un pensiero profondamente evangelico. Qoelet esprime un’accettazione della potenza di Dio, e con questo anche della nostra dipendenza. Forse è una lezione che dovremmo tutti imparare di nuovo.

Il concetto della dipendenza e del timore davanti a Dio è centrale per l’ecclesiaste. Così scrive: io ho riconosciuto che tutto quel che Dio fa è per sempre; niente c’è da aggiungervi, niente da togliervi; e che Dio fa così perché gli uomini lo temano.(3,14)  e esorta addirittura i suoi lettori scrivendo: infatti, se vi sono vanità nei molti sogni, ve ne sono anche nelle molte parole; perciò temi Dio! (5,6) Questo timore di Dio non dobbiamo comprenderlo come un seguire certi comandamenti o una religiosità che si esprima in certi comportamenti. Qoèlet pensa piuttosto a un fondamento religioso, un atteggiamento fondamentale che accetta Dio come creatore di tutto e tutti. Così il timore di Dio ci mette come esseri umani di nuovo al nostro posto. Ci butta giù dal trono che ci siamo fatti. E così il timore di Dio diventa come una bussola che ci aiuta trovare la strada giusta nella nostra vita.

Nella filosofia ellenistica si può notare al tempo dell’ecclesiaste una forte ‘secolarizzazione’. Gli uomini non credevano più negli Dei e tanti filosofi sostenevano: invece di credere nelle divinità o di pensarsi dipendenti da loro sarebbe meglio credere nella propria forza e prendere il proprio destino nelle proprie mani. Mi sembra un pensiero tanto moderno o per dirlo con le parole dell’ecclesiaste: non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Troviamo oggi tantissima gente che pensa di non avere più bisogno di Dio, di cavarsela meglio senza qualcuno che ha delle idee su come la vita umana dovrebbe essere. È diventato quasi il credo dei nostri giorni che ognuno debba guardare a se stesso e preoccuparsi per la sua vita e per il suo destino.

L’Ecclesiaste prende un’altra via. Per lui come ebreo credente è chiaro: la felicità non si può creare. È un regalo di Dio. Qoèlet conosce bene l’esperienza dell’insensatezza e la esprime, senza provare a mascherarla. Ma comunque rimane in lui la convinzione che noi uomini possiamo trovare un senso in questa vita solo sul fondamento della fede rimanendo fermi in Dio contro tutte le esperienze contrarie. Una vita umana felice è per l’ecclesiaste un dono di Dio. Così ci dice: Non c’è nulla di meglio per l’uomo del mangiare, del bere e del godersi il benessere in mezzo alla fatica che egli sostiene; ma anche questo ho visto che viene dalla mano di Dio.(2,24).

È Dio stesso che ci fa godere la piccola felicità nella vita con gratitudine. Proprio nello sperimentare gioia e successo si può incontrare Dio. Ma Qoèlet pensa in avanti. Sa che non esistono solo i giorni di gioia ma anche quelli di disgrazia. Per questo ci può dire: Nel giorno della prosperità godi del bene, e nel giorno dell’avversità rifletti. Dio ha fatto l’uno come l’altro (7,14) Così l’ecclesiaste ci vuole stimolare a cercare Dio non solo alle frontiere della nostra vita, quando ci sentiamo deboli e dipendenti da lui. Invece è convinto che si possa trovare Dio soprattutto nelle esperienze felici, nel bel mezzo della vita, nell’amore, nel successo e nella piccola felicità della quotidianità. È questa gioia che accompagna l’uomo nella sua fatica di ogni giorno; rende la vita umana degna di vivere e le dà un senso. Scrive l’ecclesiaste: così io ho lodato la gioia, perché non c’è per l’uomo altro bene sotto il sole, fuori del mangiare, del bere e del gioire; questo è quello che lo accompagnerà in mezzo al suo lavoro, durante i giorni di vita che Dio gli dà sotto il sole. (8,15)

L’ecclesiaste è interessato a questa vita. Ci invita a goderci la vita, e non intende solo un edonismo superfluo come oggi viene spesso proposto. Godersi la vita non ha niente a che fare con delle feste esagerate o con dei comportamenti esuberanti. L’esortazione di Qoèlet è piuttosto radicata nella fede in un Dio Creatore. Chi crede che questo mondo sia la creazione di Dio, può godersi le sue meraviglie con gratitudine come dono di Dio. L’ecclesiaste mette tutto il peso sul presente. La vita attuale è un tempo donato da Dio con possibilità e compiti. Nella poesia finale esorta a riappropriarsi di questa gioia – guardando il creatore.

E di nuovo, mi sembra un pensiero molto attuale, forse proprio per il periodo che viviamo noi con poche sicurezze. Da un lato lasciare che Dio sia creatore e non volersi mettere al suo posto, non voler fare la parte del creatore, e dall’altro lato non rattristarsi di fronte a queste situazioni nelle quali tutto sembra inutile, vano e un correre dietro il vento.

È una benedizione che il libro dell’ecclesiaste abbia trovato il suo ingresso e il suo spazio nella Bibbia.

Il libro dell’ecclesiaste ci fa vedere come un uomo pio può lottare con la sua fede, ci fa vedere come pone le sue domande, coraggiose e senza tabu, anche se non ha sempre delle risposte. Questo ci mostra: dove gli uomini chiedono e cercano, apertamente e con passione, sono sulla strada verso Dio, anche se non hanno ancora tutte le risposte in mano.

Vorrei finire con un versetto che mi sembra tipico per il pensiero contradditorio di Qoèlet. Rallègrati pure, o giovane, durante la tua adolescenza, e gioisca pure il tuo cuore durante i giorni della tua giovinezza; cammina pure nelle vie dove ti conduce il cuore e seguendo gli sguardi dei tuoi occhi; ma sappi che, per tutte queste cose, Dio ti chiamerà in giudizio! (11,9) Tutte e due i lati servono, godersi la vita e pensare a Dio. Da tutti e due i lati si può cadere da cavallo. Cerchiamo di vivere la nostra vita con gioia e timore davanti a Dio. Amen

 

Ulrike Jourdan

Sermone: La sfida dell’unità

Che cosa ci fa sentire ‘come bambini appena nati’? Che cosa ci dà forza per la nostra fede? Il testo della predicazione di oggi ci offre una risposta che forse non risulta così immediata.

Leggo dal vangelo di Giovanni capitolo 17,6-19 la preghiera di Gesù per i suoi discepoli, cioè per noi:

Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.  7 Ora hanno conosciuto che tutte le cose che mi hai date, vengono da te;  8 poiché le parole che tu mi hai date le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute e hanno veramente conosciuto che io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.  9 Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dati, perché sono tuoi;  10 e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; e io sono glorificato in loro.  11 Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, quelli che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.  12 Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.  13 Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in sé stessi la mia gioia.  14 Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.  15 Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.  16 Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.  17 Santificali nella verità: la tua parola è verità.  18 Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato loro nel mondo.  19 Per loro io santifico me stesso, affinché anch’essi siano santificati nella verità.

Le parole che abbiamo sentito si trovano nella cosiddetta ‘Preghiera sacerdotale’. È la preghiera più lunga che conosciamo di Gesù. Egli si prepara a lasciare questo mondo e si assume il compito che già Mosè e i profeti avevano, cioè impetrare al Padre per il popolo. In primo luogo, prega per i dodici discepoli che dovrà lasciare da soli, ma prega anche per tutti gli altri suoi discepoli fino ad oggi, prega anche per noi che siamo ora qui riuniti. Leggo ancora una volta il versetto 11: Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, quelli che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. Gesù sa bene che né per i discepoli del passato, né per noi oggi la vita in questo mondo è facile. Dobbiamo scontrarci con una società in gran parte indifferente che non vuole più saperne di ciò che Dio ha da dire e si chiede allo stesso tempo perché stia così male. Secondo me ci potrebbe aiutare uno sguardo proprio in questo vecchio libro. Forse nel 500enario della Riforma dobbiamo esprimere nuovamente ad alta voce questa nostra convinzione evangelica.

C’è ancora un’altra affermazione che mi colpisce nel nostro testo. Gesù prega il padre di conservare i suoi fedeli nel suo nome, affinché siano uno come sono uno Gesù e il Padre. Non è possibile separare Gesù da Dio Padre, sono un’unica cosa. – Da bambina mi hanno spiegato il mistero della trinità con l’immagine dell’acqua. A scuola si impara che l’acqua è costituita da due molecole di idrogeno e una di ossigeno, H2O, appunto. Sotto zero l’H2O si presenta a noi come ghiaccio, tra zero e cento è acqua e a più di cento gradi diventa vapore, ma comunque è sempre lo stesso H2O; dal punto di vista chimico non cambia niente, è sempre uguale. E così, come acqua, ghiaccio e vapore sono una cosa, allo stesso modo lo sono anche Dio Padre, Gesù e lo Spirito Santo: hanno forme diverse, per raggiungere meglio noi uomini, ma sono uguali, inseparabili, sono uno.

Gesù prega il Padre affinché anche noi cristiani siamo uno, così inseparabili come anche lui non può essere separato dal Padre. Vi ricordo che questo testo è stato scelto sotto il tema della nuova nascita. Cioè il legame tra i cristiani dovrebbe darci nuova vita, nuova forza, dovrebbe farci sentire come essere rinati. – Io mi sono chiesta che cosa voglia dire questo per noi in senso pratico.

A metà marzo il cardinale Kasper ha visitato la nostra chiesa a Pinerolo, in provincia di Torino. Forse ne avete letto qualcosa. Kasper ha definito l’ecumenismo la grande realtà cristiana del nostro tempo, «la risposta a una nuova situazione». In quest’incontro è stato anche citato il papa che non molto tempo fa aveva enunciato la teoria dei “due polmoni” dell’Europa, che erano il Cattolicesimo romano e le Chiese ortodosse greca e russa.

Siamo entrati in una nuova epoca ecumenica. Qualcuno ne è entusiasta, a qualcun altro fa venire il mal di pancia. Da un lato sembra che con questo nuovo papa si possano fare passi da giganti, dall’altro vediamo che la semplice condivisione del pane al tavolo del nostro Signore non è ancora possibile. Mi sono chiesta se percepiamo questo ancora come uno scandalo, o se ci siamo abituati negli ultimi decenni alla mancanza di questo elemento. A me manca.

Facciamo tante iniziative ecumeniche, anche qui a Padova. Prepariamo veglie, incontri, discussioni e ci rallegriamo del nostro legame ecumenico. Vedo un senso in questi incontri e mi piacciono, soprattutto quando si creano dei legami. Ha un senso incontrarsi. Ha senso percorrere la via dell’ecumenismo, anche se i passi talvolta sembrano piccoli nonostante le grandi dichiarazioni.

Ma a mio modo di vedere la preghiera di Gesù ci invita a essere uno come egli è unito con il Padre; e questo va ben oltre gli incontri come li facciamo noi. Poniamoci una volta la domanda: Che cosa vuol dire per noi la preghiera per l’unità come la esprime Gesù? Che cosa ci aspettiamo da questa preghiera? Abbiamo un’attesa che questa preghiera diventi realtà oppure no? Perché se non crediamo neanche che la preghiera possa diventare realtà, la preghiera diventa bestemmia. Così di nuovo la domanda: per quale unità preghiamo? Almeno una volta all’anno, in gennaio, facciamo in modo istituzionale questa preghiera per l’unità dei cristiani. È anche la nostra preghiera? Quale progetto, quale sogno, quale visione abbiamo per le chiese cristiane divise?

Meditando su di questa domanda, ho trovato dei pensieri che Vittorio Subilia, ben noto teologo protestante italiano, scrisse nel 1954 riflettendo sulla tentazione dell’unità. Egli diceva già all’epoca, in una fase di euforia ecumenica tra il primo e secondo concilio vaticano:

Potrebbe accadere che i cattolici cadano nella tentazione di chiedere a Dio di convertire i dissidenti e di farli ritornare alla chiesa madre, che, così ci viene detto, sia infallibile e ha l’autorità di definire le verità della fede. – Potrebbe accadere che gli ortodossi cadano nella tentazione di pregare Dio che tutti i cristiani possano accogliere la verità ortodossa quale è stata custodita dalla sola chiesa rimasta inalterata dal tempo degli apostoli. – Potrebbe accadere che i protestanti cadano nella tentazione di chiedere a Dio di riformare tutte le altre chiese, togliendo le soprastrutture umane e facendole ritornare alla semplicità del cristianesimo primitivo.

Questa è una grande tentazione: pregare Dio per l’unità pretendendo di avere l’unica verità, e quindi gli altri devono diventare come sono io. Ma così la nostra preghiera diventa come quella del fariseo nel tempio, quando confidando in noi stessi e disprezzando gli altri diciamo: Ti ringrazio, o Dio, che la mia chiesa non è come le altre chiese, infedeli e corrotte e eretiche, abbi pietà delle altre chiese e trasformale in modo da renderle tutte simili alla mia chiesa. – Una tale preghiera sarebbe solo farisaismo religioso e imperialismo ecclesiastico. E Dio, come potrebbe esaudire una preghiera di questo genere? Si potrebbe solo vergognare per noi se questa fosse la nostra concezione dell’unità.

Una preghiera che vuole avere come fondamento la preghiera di Gesù “Che siano uno come noi siamo uno”, una tale preghiera deve per forza essere animata dallo spirito di Cristo. Se le chiese cristiane vogliono solo conservare le proprie strutture ecclesiastiche e salvare la propria vita spirituale e teologica, così non si dovrebbero chiamare cristiane e dovrebbero rinunciare a pregare per l’unità, perché la loro preghiera suonerebbe come ipocrisia all’orecchio di Dio.

L’unità delle chiese significa purificazione della chiesa, di tutte le chiese; unità della chiesa significa, per tutte le chiese, rinunciare alla propria volontà di sopravvivere. Unità della chiesa significa morte della chiesa, di tutte le chiese a se stesse, nella speranza di una resurrezione nelle forme e nei modi che nessuna chiesa può prevedere e che Dio solo conosce. Unità della chiesa significa miracolo dello Spirito Santo, che venga a soffiare su tutte le nostre vecchie istituzioni religiose per fare ogni cosa nuova.

Se abbiamo questa speranza ci è comandato e ci può essere dato di pregare per l’unità della chiesa. Siamo sollecitati di pregare con tutta la nostra forza, che l’unità non rimanga solo una visione, ma diventi verità. Se abbiamo questa speranza non dovremmo farci limitare da organizzazioni o convenzioni, non dobbiamo più vedere i confini e le frontiere ma le possibilità che Dio ci dà nell’unità. Non dobbiamo più aspettare fino a quando un organizzazione si muove, ma possiamo vivere quello che sentiamo come verità. Se abbiamo questa speranza di unità saremo uniti nello Spirito, e questo vale più di ogni organizzazione. La dove c’è reale preghiera, vi è già, presente e potente, il miracolo dello Spirito Santo.

Prima di finire, ancora una domanda: Perché l’unità? La prima risposta potrebbe essere: Perché Dio stesso la vuole. Ma quest’unità ha uno scopo che ci viene ricordato proprio in questo periodo dopo la Pasqua, cioè la missione. L’unità dei cristiani diventa una testimonianza per il mondo. Come posso spiegare a un non-cristiano perché la chiesa che confessiamo come una, santa, universale e apostolica, sia divisa? Non è da capire e non è da spiegare come noi cristiani possiamo separarci gli uni dagli altri per delle questioni secondarie. Per questo ci serve l’unità per testimoniare alla nostra società Gesù Cristo il nostro Salvatore. Ci serve l’unità per fare quello che Gesù ci ha comandato, cioè: fate miei discepoli tutti i popoli. Mt 28,19 Se vogliamo mettere in atto la volontà di Dio è semplicemente necessario che noi ci uniamo.

Lo Spirito soffia oggi su tutte le chiese e su tutti i singoli cristiani. Chi ha orecchio ascolti ciò che lo Spirito dice.

Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: È risorto

Martin Lutero ha iniziato uno dei suoi sermoni per il giorno di pasqua con queste parole: La festa di oggi ci mette davanti agli occhi il più consolante e gioioso articolo della nostra fede, come testimoniamo: Cristo è risorto il terzo giorno dai morti; così è necessario che prima si conosca in modo semplice la storia e si impari perché sia successo e come noi possiamo godere tutto ciò.

Lutero ci dice che prima dobbiamo cogliere che cosa sia successo e non dobbiamo solo coglierlo con la testa ma soprattutto col cuore, in modo semplice e solo quando abbiamo colto col cuore il messaggio della risurrezione possiamo anche goderci questo messaggio.

La storia è questa: Gesù, dopo l’ultima cena con i suoi discepoli, è andato nel giardino, che chiamiamo Getsemani. Lì è stato tradito da Giuda con un bacio e catturato dagli ebrei. Portato dal sommo sacerdote viene interrogato fino a quando si decidono di portarlo a Pilato perché era lui ad avere il potere giuridico. Egli lo manda dal re Erode e lui di nuovo indietro a Pilato e alla fine viene crocifisso. Verso mezzogiorno c’è un terremoto e il sole si oscura. Un ultimo segno di Dio che quell’uomo alla croce è suo figlio. E verso le tre del pomeriggio Gesù muore sulla croce.

Noi crediamo che Gesù non sia rimasto morto, ma è risorto il terzo giorno. Secondo i nostri conti oggi non sarebbero ancora passati tre giorni, ma gli ebrei contano un nuovo giorno a partire dalla notte. Vuol dire, venerdì è stato il primo giorno, sabato il secondo e sabato sera con il tramonto inizia il terzo giorno. Proprio in questo terzo giorno, dopo lo shabbat, la domenica, presto, inizia il racconto di pasqua. Sentiamo come l’evangelista Matteo ci racconta quest’evento.

Leggo dal vangelo secondp Matteo 28,1-10

Nella notte del sabato, verso l’alba del primo giorno della settimana, Maria Maddalena e l’altra Maria andarono a vedere il sepolcro.  2 Ed ecco si fece un gran terremoto; perché un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e vi sedette sopra.  3 Il suo aspetto era come di folgore e la sua veste bianca come neve.  4 E, per lo spavento che ne ebbero, le guardie tremarono e rimasero come morte.  5 Ma l’angelo si rivolse alle donne e disse: «Voi, non temete; perché io so che cercate Gesù, che è stato crocifisso.  6 Egli non è qui, perché è risuscitato come aveva detto; venite a vedere il luogo dove giaceva.  7 E andate presto a dire ai suoi discepoli: “Egli è risuscitato dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Ecco, ve l’ho detto».  8 E quelle se ne andarono in fretta dal sepolcro con spavento e grande gioia e corsero ad annunziarlo ai suoi discepoli.  9 Quand’ecco, Gesù si fece loro incontro, dicendo: «Vi saluto!» Ed esse, avvicinatesi, gli strinsero i piedi e l’adorarono.  10 Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea; là mi vedranno».

Questo racconto della morte e della risurrezione di Gesù Cristo è il cuore della nostra fede cristiana. E penso che Martin Lutero abbia ragione: solo chi ha colto la profonda verità in questo racconto e intendo non solo con la ragione, ma col cuore, solo lui può gioire a Pasqua.

Possiamo parlare e discutere di tante verità della fede. Talvolta troviamo addirittura un consenso con non-cristiani, non è così difficile. Ci sono tante persone buone nel nostro mondo e nella nostra società. Ci sono tanti che si adoperano per la giustizia e la pace. Tanti sostengono progetti sociali, spesso con una dedizione meravigliosa. Non è difficile trovare dei punti in comune. Però alla croce si dividono le anime. Secondo un rilevamento il 72 percento dei protestanti credono nella risurrezione di Gesù. Io mi chiedo che cosa sia con il restante 28 percento che non crede nella risurrezione. È quasi un terzo della chiesa. Che cosa crede quel terzo dei membri delle chiese protestanti? Perché non vogliono o non possono credere nella risurrezione di Gesù Cristo? È credibile che ci siano persone che frequentano anno dopo anno una chiesa e non hanno mai colto che cosa vuol dire per loro personalmente che Gesù sia morto in croce anche per loro e che cosa abbia a che fare questa morte e risurrezione con la loro fede e vita?

Questo non è un fenomeno nuovo. Ci sono sempre state delle persone che non erano tanto certe della risurrezione, già Paolo ha combattuto con loro. Nella lettura abbiamo sentito che cosa ha scritto alla chiesa di Corinto. Vi leggo ora come prosegue il pensiero di Paolo: Ora se si predica che Cristo è stato risuscitato dai morti, come mai alcuni tra voi dicono che non c’è risurrezione dei morti?  13 Ma se non vi è risurrezione dei morti, neppure Cristo è stato risuscitato;  14 e se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede.  15 Noi siamo anche trovati falsi testimoni di Dio, poiché abbiamo testimoniato di Dio, che egli ha risuscitato il Cristo; il quale egli non ha risuscitato, se è vero che i morti non risuscitano.  16 Difatti, se i morti non risuscitano, neppure Cristo è stato risuscitato;  17 e se Cristo non è stato risuscitato, vana è la vostra fede. (1 Corinzi 15,12-17)

Paolo ci dice chiaramente che non ha nessun senso per un credente rifiutare il pensiero della risurrezione, perché senza la risurrezione di Cristo tutta la fede è vana. Una fede cristiana senza la risurrezione di Gesù è assurda.

Mi ricordo di aver chiesto una volta a un collega che cosa gli piace di più fare come pastore. Mi sarei aspettata di sentire che gli piace predicare o fare visite o non lo so. Mi ha detto che gli piacciono i funerali. – Mi sembrava una risposta strana, ma vi dico che dopo qualche anno di servizio lo capisco. I funerali sono proprio i momenti in cui anch’io sento più forte la mia fede. Incontro persone che sì sono tristi, ma contemporaneamente anche serene; persone che sanno profondamente che la morte non ha l’ultima parola. E quando diciamo le ultime parole davanti alla tomba che si chiude: “Terra prendi il tuo, Dio ha preso il suo” mi sembra di sentire Gesù che chiama alla vita. È Gesù, il risorto che chiama i morti alla risurrezione.

E la fede che mi fa dire queste cose. Non ne ho delle prove, né per la risurrezione di Gesù, né per la risurrezione in generale, né per la mia risurrezione, però io ci credo nella risurrezione. Viviamo in uno stato laico. Nessuno devo credere, ma noi cristiani possiamo fidarci che Gesù ci sia vicino persino nella morte e che ci dona vita eterna. Non è che lo dobbiamo credere, ma possiamo crederlo, possiamo fidarci di questo Dio.

Adesso in primavera inizia di nuovo la stagione nella quale le persone vanno al cimitero. Portano i fiori che sono un segno d’amore per la persona morta.

Anche la prima domenica di pasqua c’erano delle donne che andavano al cimitero per vedere la tomba di Gesù. Donne che conoscevano Gesù che erano anche presenti alla sua crocifissione. Non hanno con loro un innaffiatoio o dei fiori, ma delle creme, oli e panni freschi. In sé è una cosa normalissima quando dei parenti o amici visitano il cimitero, ma in questa domenica Matteo ci racconta di un terremoto.

In ogni vita umana conosciamo questi momenti che ci scuotono, che ci fanno paura. La vita non è sempre solo bella. Esistono dei fallimenti, dei colpi del destino, delle disgrazie. Tali turbamenti possono mettere tutta la vita sotto sopra. E direi che queste due donne alla tomba di Gesù si sentono abbastanza scosse, fuori e dentro. – E poi c’è uno che dice loro: Voi, non temete. Non avere paura! Talvolta serve che qualcuno ci dica queste parole, perché non funziona bene quando sono io a dovermele dire, serve qualcun altro. Per questo noi cristiani viviamo in comunità per potercelo dire gli uni agli altri. Non temere, non avere paura. È vero che Gesù è morto. È vero però anche che Gesù è risorto e anche tu risorgerai!

Tanti uomini credono oggi che la religione sia una cosa privata e che possano trovare Dio meglio in un bosco che in una chiesa. Ma quale albero può dire a queste persone le parole confortanti: Non temere, non avere paura.

Le due donne credono nelle parole dell’angelo. I discepoli sulla via verso Emmaus credono quando vedono Gesù spezzare il pane. Tommaso crede quando può toccare il suo Signore. Saulo vede la luce che gli toglie la vista e crede. – La Bibbia ci racconta di tanti modi diversi in cui le persone sono venute in contatto con il Risorto. Non ha importanza il come, ma il fatto in sé. È importante che si realizzi questo incontro.

Gesù c’è. Anche adesso in mezzo a noi, perché ha detto: dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro Matteo 18,20 Cristo è presente in mezzo a noi.

Questo è l’animo di pasqua. Sapere che Gesù è con noi nella nostra vita e nella morte. Se viviamo, viviamo per il Signore; e se moriamo, moriamo per il Signore. Sia dunque che viviamo o che moriamo, siamo del Signore.(Rom 14,8)

Auguro a tutti voi questa speranza di essere nella vita come nella morte con Dio. Amen.

Ulrike Jourdan

Sermone: Gesù Cristo una star?

A Vicenza viviamo abbastanza vicino al Teatro cittadino e talvolta succede che venga lì qualcuno di famoso. Mi ricordo le audizioni di ‘Italia’s got Talent’ e l’agitazione dei ragazzi che venivano a presentarsi o semplicemente a vedere, fotografare, per sentirsi parte di un mondo diverso, un mondo di successo e di gloria.

Ascoltando il racconto dell’entrata di Gesù a Gerusalemme abbiamo detto che la gente accoglie anche lui come una star. Le persone lungo le strade di Gerusalemme avevano in mano dei rami di palma, oggi abbiamo in mano i cellulari per fare le foto. Ciò che è sempre uguale è che in questo modo non si vede veramente la persona. Si vede ciò che si vuole vedere, una star, una stella sulla quale possiamo proiettare le nostre illusioni e i nostri desideri. Succede un po’ come al cinema, dove sulla parete si proiettano illusioni di un mondo bello, voglia di riconoscimento, forza e successo e tutto ciò viene in qualche modo identificato con la persona che sta recitando.

Gesù, una superstar. – È più facile convivere con una star che non con una persona normale. Una star si può mettere sul podio, lì rimane e non mi viene troppo vicino. Questo è il vantaggio delle star, non vogliono nulla di concreto da me.

Vorrei raccontarvi oggi di una star che ci viene descritta nel primo testamento dal profeta Isaia. Questa persona non ha un nome concreto, è conosciuta con lo pseudonimo del servo di Dio e Isaia lo descrive in vari inni. Vi leggo ora il terzo di questi inni del servo di Dio che viene riportato nel libro del profeta Isaia al capitolo 50

4 Il Signore, DIO, mi ha dato una lingua pronta, perché io sappia aiutare con la parola chi è stanco; egli risveglia, ogni mattina, risveglia il mio orecchio, perché io ascolti, come ascoltano i discepoli.  5 Il Signore, DIO, mi ha aperto l’orecchio e io non sono stato ribelle, non mi sono tirato indietro.  6 Io ho presentato il mio dorso a chi mi percoteva, e le mie guance a chi mi strappava la barba; io non ho nascosto il mio volto agli insulti e agli sputi.  7 Ma il Signore, DIO, mi ha soccorso; perciò non sono stato abbattuto; perciò ho reso la mia faccia dura come la pietra e so che non sarò svergognato.  8 Vicino è colui che mi giustifica; chi mi potrà accusare? Compariamo assieme! Chi è il mio avversario? Mi venga vicino!  9 Il Signore, DIO, mi verrà in aiuto; chi è colui che mi condannerà? Ecco, tutti costoro diventeranno logori come un vestito, la tignola li roderà.

Il servo di Dio è un personaggio sul quale vengono proiettate delle attese. È, in un certo senso, una star dalla quale i suoi fan si aspettano qualcosa. – Che cosa esattamente?

Isaia scrive quest’inno mentre il popolo d’Israele si trova in esilio. Là, presso i fiumi di Babilonia, sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Così viene descritto l’esilio nel Salmo 137.

Avevano perso una guerra. Gerusalemme è stata assediata per più anni dai babilonesi e quindi è caduta. Gli Israeliti sono stati deportati lontani dalla loro patria. In Babilonia vivevano come in ghetti e dovevano accettare molte disposizioni che andavano contro la loro fede. Uno degli aspetti per loro più difficile da accettare era l’impossibilità di seppellire i loro morti secondo le tradizioni ebraiche. – E se posso dirlo, anche oggi, dopo migliaia di anni, non è ancora cambiato molto. Anche oggi, nella nostra civile Europa, è difficile se si proviene da un Paese straniero che venga concesso di vivere secondo le proprie tradizioni. Pensate alla ragazza alla quale abbiamo fatto il funerale qualche settimana fa; abbiamo visto che neanche da noi è scontato, nel nostro paese cristiano, che venga dato un pezzo di terra per seppellire i propri morti. Ma di questo dovremmo forse parlare in un altro momento.

Gli Israeliti sentivano la mancanza del loro Paese, ma anche del loro cibo, dei loro amici, delle loro abitudini; ma, cosa ancora più grave, sentivano la mancanza di Dio.

Non è facile da cogliere per noi oggi. Noi pensiamo che Dio sia con noi, indipendentemente da dove siamo. Israele la vedeva diversamente. Nel loro pensiero, Dio era legato a un luogo specifico. Quel luogo era l’arca dell’alleanza nella quale si custodivano le due tavole con i dieci comandamenti. Per questo si portava quell’arca anche in guerra per assicurarsi che Dio donasse vittoria.

L’arca dell’alleanza, cioè Dio stesso, era presente per lunghi anni in una tenda, fino a quando il re Salomone costruì il primo tempio dove Dio manifestava la propria presenza nel Santissimo. Gli Israeliti andavano regolarmente a Gerusalemme per portare sacrifici, però non potevano accedere al Santissimo. Solo una volta l’anno il Sommo Sacerdote entrava in quella stanza, dove si manifestava la presenza di Dio.

Forse potete ora cogliere, perché gli Israeliti erano disperati nell’esilio. Non vedevano nessuna possibilità di mettersi in contatto con Dio. Avevano una brama grandissima di libertà, e di Dio.

E accanto a questa brama sorgeva la domanda: come è potuto accadere tutto ciò? Come è stato possibile che il tempio venisse distrutto? Dov’era Dio? Non è stato abbastanza forte? Dov’è Dio ora? Ha abbandonato il suo popolo?

Isaia risponde a queste domande con l’inno del servo di Dio. Un salvatore, una star che metterà fine a tutta questa miseria in Babilonia. Qualcuno che riporterà il popolo a Gerusalemme, qualcuno che è molto vicino a Dio, un uomo che vive in totale comunione con Dio. Qualcuno che dovrebbe superare la divisione da Dio e ricucire la lacerazione.

Chi è quel servo di Dio? – Non lo sappiamo a chi abbia pensato Isaia quando ha scritto questa poesia. Forse aveva una persona concreta davanti agli occhi, forse addirittura se stesso, forse aveva una visione divina e parla di colui che oggi identifichiamo con il servo di Dio, cioè Gesù Cristo. Gesù che ha superato in modo definitivo la separazione da Dio, tramite la sua morte in croce. Gesù non ha solo fatto dimenticare la separazione, ma è andato a fondo del problema. Ha pagato con la sua morte per liberarci dal potere del peccato e della morte. Gesù ha preso il nostro peccato su di sé.

Nel canto di Isaia viene descritto il cammino di questo servo di Dio. È un cammino di stenti e miseria. Possiamo vedere tre fasi in questa via: la prima fase descrive l’ascolto e il parlare.

Il servo di Dio è uno che ogni mattina ascolta, si “sintonizza” con Dio. Questo è un segno di ogni discepolo, non solo del servo di Dio, ma di ogni servo, di ogni discepolo. La preghiera dà alla giornata una base sulla quale può crescere quella fiducia che aiuta a superare anche i giorni meno belli.

La seconda fase della via del servo di Dio viene descritta in termini orribili: sopportare, farsi prendere a pugni e porgere l’altra guancia. Isaia racconta di oltraggi. Sul servo di Dio si sputa, gli strappano i peli della barba. È orrendo, e lui sopporta.

Per non perdere l’equilibrio voglio parlarvi direttamente anche della terza fase, nella quale ci viene descritta una forza che viene da Dio. Se cerco di tradurre questo equilibrio nella nostra vita, direi: la sofferenza nella nostra vita non la possiamo capire e neanche combattere fino in fondo. Non aiuta mettersi la maschera del vincitore, essere sempre sereni e contenti, prendere ogni difficoltà con stoicismo. Non posso sempre stare bene, non posso sempre essere forte, non posso sempre sorridere. Può essere molto liberante ammettere: sì, sono bastonato e mi sento così, e non lo devo nascondere, posso farlo vedere, posso accettare la mia condizione.

Però serve anche l’altro aspetto, altrimenti si cadrebbe nella depressione più nera. Non è giusto accontentarsi di una situazione che non va. Purtroppo è stato predicato così per lunghi anni: questa è la tua condizione, non devi né puoi cambiarla. No, per me è sbagliato pensare così.

Non devo nascondere la mia condizione, forse devo anche accettare che qualcosa non si può cambiare, però devo anche riconoscere che cresce una nuova forza in me. Posso cambiare ciò che è cambiabile e col resto so che Dio è con me. Il servo di Dio lo esprime dicendo: DIO, mi verrà in aiuto; chi è colui che mi condannerà? Queste sono parole di uno che è sicuro di sé, non di uno che sta bene nella propria miseria. Così parla uno che vive la sua vita in maniera forte, che può combattere l’ingiustizia e cambiare ciò che si può cambiare.

E così si attraversa la sofferenza e lo stento senza frantumarsi. Autentico, forte, forse più forte di prima.

Però io non voglio darvi qui qualche idea per una buona vita. Se parliamo del servo di Dio è importante come noi vediamo Dio e come noi viviamo con Dio.

Se parliamo del «servo» di solito abbiamo associazioni più negative. Uno che deve servire, deve fare ciò che vogliono altri, uno senza una propria volontà. – Se pensiamo ai costumi dell’epoca era diverso. Un servo non stava veramente male. Un lavoratore a giornata sì, lui rimaneva estraneo, ma il servo e la serva facevano in qualche modo parte della famiglia. Se qui Isaia parla del servo di Dio ci troviamo già molto vicino a Dio, siamo già dentro alla casa di Dio. Gesù ha poi fatto un altro passo e ci ha detto: siete figlie e figli di Dio. Potete rivolgervi a Dio come padre, addirittura come Abba, cioè come babbo, un papà amato.

Provo a raccogliere ancora una volta i tanti pensieri attorno a questo testo: vediamo un popolo che cerca libertà e cerca il suo Dio. Questo popolo desidera un salvatore che lo riporti nella comunione con Dio. Questo salvatore è il servo di Dio. Uno che è in contatto strettissimo con Dio, uno che è disposto a soffrire e che è nella sua sofferenza un simbolo per tutto il popolo d’Israele.

Queste star come il servo di Dio, personaggi su cui si proiettano i propri desideri, sono sempre esistite. Forse perché sono sempre servite.

Anche Isaia ha fallito nonostante tutti i suoi sforzi. La sua missione non ha avuto successo. Dopo il ritorno dall’esilio, il popolo ha preso di nuovo le distanze da Dio e finirà poi sotto il potere dei romani.

La chiesa cristiana ha identificato Gesù come il vero servo di Dio. Quando parlava lui, Dio era presente. In tutta la sua vita mostrava la volontà di Dio. Non era una delle solite star, ma ha percorso la via della perdita e della sconfitta fino alla croce. Ha sacrificato se stesso per molti. Egli è il vero servo di Dio e con lui possiamo intraprendere insieme la via che porta dal padre.

Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Il sacrificio del pedone

Chi gioca a scacchi sa che cos‘è il sacrificio del pedone. Si verifica quando è necessario perdere un pezzo minore per vincere qualcosa di più prezioso. Talvolta si deve perdere zavorra per poter continuare il viaggio. Tanti di noi hanno già dovuto fare dei sacrifici nella propria vita per raggiungere una determinata meta. L’hanno raggiunta ma hanno perso contemporaneamente qualcosa di amato.

Talvolta dobbiamo prendere delle decisioni difficili. Talvolta si deve pronunciare un giudizio – dopo una lunga riflessione e talvolta anche contro ciò che dice la pancia e il cuore.

Il testo che vi ho portato oggi parla di qualcosa di simile. Una commissione ecclesiastica deve prendere una decisione, deve esprimere un giudizio e non è facile. Così quelli che fanno parte del sinedrio sono in seduta a porte chiuse. C’è un unico punto all’ordine del giorno: un tale fa dei segni, dei miracoli – e tutto il popolo segue questo adescatore. Tutta la struttura del potere tra tempio e stato potrebbe crollare. Una rivolta da parte dei suoi seguaci e la repressione dello Stato potrebbe distruggere tutto il piccolo mondo attorno al tempio. Tutte le prerogative potrebbero essere perse. Il sinedrio deve decidersi. Si deve pesare bene questa decisione. È meglio che perisca uno che non tutto il sistema. Non prendere la decisione sarebbe anche una decisione. C’è timore che un piccolo gesto sbagliato possa portare alla catastrofe.

In un certo senso capisco i farisei e sacerdoti che emettono la loro sentenza che ora voglio leggervi. La troviamo nel vangelo di Giovanni 11,47-53

47 I capi dei sacerdoti e i farisei, quindi, riunirono il sinedrio e dicevano: «Che facciamo? Perché quest’uomo fa molti segni miracolosi.  48 Se lo lasciamo fare, tutti crederanno in lui; e i Romani verranno e ci distruggeranno come città e come nazione».  49 Uno di loro, Caiafa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla,  50 e non riflettete come torni a vostro vantaggio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione».  51 Or egli non disse questo di suo; ma, siccome era sommo sacerdote in quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione;  52 e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire in uno i figli di Dio dispersi.  53 Da quel giorno dunque deliberarono di farlo morire.

Gesù era diventato troppo famoso. Il suo ultimo miracolo, la risurrezione di Lazzaro non poteva più essere negato. Ricordiamoci: Lazzaro era già morto e messo nella tomba quando Gesù l’aveva richiamato in vita. Le persone presenti a questo miracolo volevano trattenere Gesù e gli dicevano: Non andare alla tomba – dobbiamo intendere una cava, una grotta dove si poteva entrare. Non entrare, gli dicono, puzza già! È veramente morto.

Però il potere di Gesù è più forte della morte. E questo è ciò che tutti dovevano accettare quando Gesù riportava il fratello alle sue amiche Maria e Marta. Questo segno era talmente potente e chiaro che nell’uno o nell’altro modo le autorità del tempio dovevano prendere posizione. O questo Gesù è il figlio di Dio, il Salvatore, come affermano i suoi discepoli, o è un imbroglione e delinquente che fa i suoi miracoli basandosi su un potere satanico. Altre soluzioni non ci sono. Gesù non poteva essere solo una buona persona o un esempio nella fede. Anche noi dobbiamo decidere chi sia Gesù per noi.

Il ragionamento del sommo sacerdote Caifa è sensato. Meglio sacrificare uno per poter salvare tutto il popolo. E l’evangelista Giovanni è d’accordo: Sì, doveva essere così. Gesù doveva morire per il popolo, ma anche per riunire in uno i figli di Dio dispersi. Vediamo che il piano di Dio non era di dare inizio con Gesù ad una rivolta contro i romani e al regno di Dio inteso come regno di questo mondo. Il messaggio di Gesù tratta qualcosa di più grande e qualcosa a lungo termine. Questo messaggio non si può ridurre ad un singolo momento o ad una lotta specifica.

Gesù vuole che gli uomini cambino interiormente. Gesù vorrebbe che noi trovassimo Dio liberamente e questo non si può fare utilizzando la forza.

Però Gesù deve raggiungere Gerusalemme, perché tutti i cambiamenti importanti che riguardano gli ebrei, si annunciano a Gerusalemme nel tempio. Gesù deve andare a Gerusalemme per proclamare lì la sua pretesa di essere il figlio di Dio, il Salvatore. E lì, a Gerusalemme, Gesù si mette tra i fronti. Deve morire. Dev’essere consegnato al sinedrio e dev’essere messo in croce se l’alternativa è di dare inizio ad una rivolta che porterebbe ad un bagno di sangue; e questo sarebbe ovviamente contro tutto ciò che egli aveva cercato di predicare. Non ci sono alternative a questa morte se Gesù non vuole rinunciare al suo incarico. Per l’evangelista Giovanni è molto chiaro: le sofferenze e la morte di Gesù erano predeterminati e fanno parte del piano di Dio. Gesù è morto, per dare vita al popolo e a tutte e tutti che credono in questa via di salvezza. Gesù è morto, così che noi che oggi poniamo la nostra fede in lui, possiamo vivere.

Con la vita e la morte di Gesù ha inizio qualcosa di nuovo che vale questo sacrificio. Che cos’è questo momento nuovo e grande che ha un impatto a lungo termine e porta verso il futuro, che cambierà tutto, ma non subito? Il nostro testo ci dice: Gesù doveva morire per il popolo e per riunire i figli dispersi di Dio. E questo è successo effettivamente. Da tutte le nazioni, da tutti gli angoli della terra si riuniscono da 2000 anni delle persone nel nome di questo Dio. Anche noi facciamo parte di questa riunione. Dalle nazioni sparse è nata la nuova Israele.

Talvolta mi guardo la nostra chiesa, non solo quella qui a Padova ma anche in tutta l’Italia e penso: perché siamo tanto pochi, perché siamo così deboli e perché si ascolta così poco ciò che abbiamo da dire? C’è ancora qualcuno che ci ascolta quando parliamo di temi sociali, ma che questa chiesa avesse anche un messaggio biblico da portare non viene più colto. Il messaggio del Cristo morto e risorto non suscita grande interesse.

A Vicenza c’è un predicatore evangelico, un africano che predica in piazza Signori. Quando l’ho conosciuto, utilizzava ancora una Bibbia in inglese e nessuno si fermava da lui. Dopo qualche anno ha cambiato e parla ora in italiano, però non vedo quasi mai qualcuno che si ferma per ascoltarlo. Sarà il modo che non va, però dobbiamo anche ammettere che noi abbiamo smesso di portare il messaggio salvifico in questo modo nel mondo perché è difficile, perché uno si sente impotente davanti alle masse che credono tutt’altro, perché questo messaggio non è facile da portare nella nostra società.

Però è proprio questa buona novella che la chiesa racconta da 2000 anni. Le società sono sempre cambiate, il messaggio no. Talvolta la chiesa ha vissuto dei periodi privilegiati, talvolta ha dovuto nascondersi, il messaggio è sempre rimasto lo stesso. E poi succede che comunque questo messaggio di Dio trova delle persone che sono disposte a sentirlo, persone che rimangono colpite e trovano conforto in questo messaggio che ci dice: Gesù Cristo è morto per abbattere le frontiere. Nella sua morte la tenda nel tempio si è spezzata, la via verso il padre è aperta, possiamo venire liberamente verso un Dio che ci ama. Un Dio che non vede più tutto ciò che ci separa da lui, perché Gesù ha risanato questa separazione.

Mi rendo conto che questo è un concetto vecchio e oggi non più facilmente comprensibile. Alla fine, la maggior parte delle persone non sente tanto la separazione da Dio, questo peccato che ci allontana dal Dio d’amore. I peccatori sono gli altri, noi siamo brava gente, non facciamo niente di male.

L’evangelista Giovanni che scrive il nostro testo, l’apostolo Paolo e poi i Riformatori, loro hanno sentito fortemente il distacco tra l’uomo e Dio, cioè il peccato. Loro hanno sentito che questo distacco è un vero abisso che noi esseri umani non riusciamo a superare, che serve l’intervento di Dio. – L’uomo naturale deve morire, è questo il suo destino. Paolo dice: il salario del peccato è la morte. Questa è la natura, finisce tutto. Noi crediamo invece che con la morte di Gesù che è morto per noi ha avuto inizio qualcosa di nuovo, noi che crediamo in questo Dio che è morto e risorto abbiamo vita eterna. Vita eterna che ha inizio già adesso. Vita eterna che ci apre una nuova prospettiva sulla nostra vita, perché non c’è più la fine minacciosa, la via è libera verso l’eternità. Non c’è più la tenda dietro la quale non sappiamo bene che cosa succede. Dio ha tolto la tenda e si è dato un volto che è quello di Gesù. Un volto d’amore che ci dà speranza.

Gesù è andato in croce per aprire questa via. È stato da solo, forse ha perso lui stesso la speranza, forse ha pensato anche lui di non poter fare niente essendo solo. – Noi invece non siamo soli. Noi siamo stati uniti da Cristo, abbiamo altri membri di questo corpo di Cristo attorno a noi con i quali possiamo vivere insieme la nostra fede. Viviamo insieme per poterci confortare a vicenda, per poterci confrontare e per indirizzarci sempre di nuovo verso Dio. Abbiamo altri che per noi possono essere un esempio e noi possiamo a nostra volta essere esempio per altri. Insieme formiamo la chiesa, quest’unità che si è formata dai figli dispersi di Dio. Insieme possiamo ricordarci che Gesù ci ha aperto la via verso il Dio d’amore che ha così tanto amore che ha scelto addirittura di subire la morte per procurare vera vita per i suoi figli.

Amen

Ulrike Jourdan