Sermone: EDE E OPERE (ESSERE E FARE)

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno abiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro ciò che è necessario al corpo, a che serve? Allo stesso modo è la fede: se non ha opere, è per sé stessa morta.  Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».  Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demoni lo credono e tremano.  Insensato! Vuoi renderti conto che la fede senza le opere non ha valore?  (Giac 2,14-20)

Poco tempo fa un amico che ama leggere i miei numerosi scritti (quelli che definisco impietosamente i miei “sproloqui”) mi diceva che da essi traspare una chiara visione esistenzialista, un modo di approcciare la vita sulla fondamentale differenza tra “essere” e “avere” di frommiana memoria, potremmo anche dire più intuitivamente di una differenza tra “essere” e “fare”.

Su questo si è aperta una piacevolissima conversazione e ne sono scaturite alcune considerazioni che vorrei condividere con voi oggi, probabilmente, spero, trovando minori difficoltà a farmi comprendere rispetto al confronto con il mio amico il quale si palesa come un puro razionalista.

Se facciamo riferimento al passo di Giacomo che abbiamo sentito, potremmo assimilare la fede all’essere, in quanto la fede per la quale saremo salvati non è “visibile”. Eppure noi, da rigorosi riformati, diciamo a gran voce che la nostra giustificazione davanti a Dio avverrà per sola fede e non certo per il concorso delle nostre opere.

Ma cosa significa “giustificazione”? Cosa intendiamo quando diciamo che con la venuta del Signore Gesù, con il suo sacrificio per noi, siamo stati chiamati a giustificazione?

Significa che, a causa della nostra situazione di costante peccato nella quale viviamo, a prescindere dalle migliori intenzioni di condurci solidalmente e fraternamente nell’esistenza, siamo avvolti dai nostri piccoli e grandi egoismi, privilegiamo la nostra individualità, siamo poco o per nulla disponibili a dividere ciò che abbiamo e ciò che siamo con gli altri, con TUTTI gli altri (e non solo con coloro che ci piacciono); insomma, nonostante tutte le nostre migliori intenzioni, non siamo in grado di percorrere le vie dell’amore e così è che ci conduciamo nella vita in maniera assolutamente infedele agli insegnamenti di Dio, non riusciamo a rispettare la legge di Dio, la quale viene trasgredita in toto anche se non ne viene rispettata solo una parte.

Probabilmente fra noi non c’è chi ha ucciso, ma come ce la caviamo quando si parla di “non desiderare cosa alcuna del tuo prossimo”? Oppure come abbiamo risposto nella nostra vita a “onora il padre e la madre”? E ancora, come abbiamo risposto al comandamento “non rubare”, se per rubare non si intende soltanto rapinare un’altra persona delle sue cose, ma si intende anche ingannare l’altro per il proprio tornaconto, o trarre profitto dallo sfruttamento delle energie lavorative di altri? Ma ancora, come rispondiamo nella nostra vita al dettato “non avrai altri dei all’infuori di me” se facciamo una riflessione sui vari idoli che riusciamo a costruirci: denaro, carriera, prestigio? Non sono questi idoli del tutto simili al vitello d’oro?

Ecco allora che abbiamo assoluto bisogno della giustificazione per presentarci davanti al nostro Signore, perché, per quanto facciamo, la nostra vita testimonia contro di noi, trasgressori della legge divina.

È questa la giustificazione che noi diciamo si attua concretamente in una persona già nel momento in cui crede, cioè quando pone la sua fiducia in Cristo e nell’amore di Dio.

Una giustificazione del tutto incondizionata. L’uomo non deve fare nulla, deve “semplicemente” affidarsi a Dio, credere ciecamente in Lui, accettarne completamente l’opera sua, anche quando può diventare incomprensibile.

Su questo penso che, da credenti, possiamo essere d’accordo, però non possiamo certo relegare comodamente il tutto ad un sentimento, ad un convincimento sulla bontà dell’opera di Dio. Sarebbe troppo, troppo comodo!

Un approccio del genere giustificherebbe quanti magari possono dire “per voi protestanti è tutto più facile, perché basta avere fede e non tenete conto delle opere” (e vi garantisco che me lo sono sentita dire più di una volta).

Non è così, ovviamente.

Le opere sono molto importanti, sono assolutamente essenziali nella vita del cristiano.  E lo sono semplicemente perché il nostro operare testimonia ciò che siamo e ciò in cui crediamo. Giacomo è chiarissimo su questo: non ci può essere fede senza opere, perché il nostro “fare” discende da ciò noi siamo, dai convincimenti esistenziali che nutriamo, dall’idea di vita che abbiamo.

Le nostre opere testimoniano come noi intendiamo l’amore, come noi intendiamo la fratellanza, come noi interpretiamo i rapporti interpersonali, come noi vogliamo condurci nella vita.  Il nostro operare discende direttamente dal nostro essere, è lo specchio di ciò in cui diciamo di credere.

Ecco perché le opere sono importanti e lo sono soprattutto per coloro che dicono di credere nel Dio dell’amore.

Tutto ciò però nulla a che vedere con un nostro concorso in merito alla giustificazione, ma deve rimanerci come una costante spina nel fianco per interrogarci continuamente sul nostro modo di condurci nella vita.

Non c’è una bilancia sul piatto della quale al peso della fede si somma il peso delle opere per raggiugere l’obiettivo della salvezza al cospetto di Dio!  E, tra l’altro, ancorché questa bilancia esistesse, vorrei vedere come ce la caveremmo se, per equità, sull’altro piatto venissero pesate tutte le opere mancate, tutte le nostre trasgressioni, tutte le nostre infedeltà al messaggio dell’amore, tutte le nostre iniquità, tutte le nostre mancanze di carità. Una bilancia del genere, se esistesse, non ho dubbio da che parte penderebbe.

Ecco perché, nella nostra assoluta situazione di peccato, possiamo affidarci solamente alla benevolenza di Dio che, nel suo figliolo Gesù Cristo, ha già provveduto per noi, affinché possiamo presentarci al suo cospetto come esseri ingiusti quali siamo, ma giustificati per il sacrificio della croce.

Ciò non vuol dire che ci sia una taratura fra fede e opere, ma, più semplicemente c’è un unico peso: quello della fede, il dono che ci è stato fatto gratuitamente e che decidiamo di accogliere o rifiutare nella nostra assoluta libertà; ma una fede che deve essere palesata, deve trovare dimostrazione nelle nostre opere, in ciò che facciamo proprio in nome della fede che diciamo di avere.

Che il Signore ci aiuti a proclamare al mondo la buona novella anche mediante il nostro operare, affinché la nostra fede non rimanga uno sterile pronunciamento.

AMEN!

Liviana Maggiore

Sermone: LA CONVERSIONE DI SAULO

La conversione di Saulo è così importante per Luca che la racconta tre volte nel libro degli Atti: al capitolo 9, che adesso leggerò, e con lievi differenze, al capitolo 22 e poi al capitolo 26.

Leggo al capitolo 9, i versetti dal 1 al 22:

“Saulo, sempre spirante minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote, e gli chiese delle lettere per le sinagoghe di Damasco affinché, se avesse trovato dei seguaci della Via, uomini e donne, li potesse condurre legati a Gerusalemme. E durante il viaggio, mentre si avvicinava a Damasco, avvenne che, d’improvviso, sfolgorò intorno a lui una luce dal cielo e, caduto in terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Egli domandò: «Chi sei, Signore?» E il Signore: «Io sono Gesù, che tu perseguiti. Àlzati, entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il viaggio con lui rimasero stupiti, perché udivano la voce, ma non vedevano nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla; e quelli, conducendolo per mano, lo portarono a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda. Or a Damasco c’era un discepolo di nome Anania; e il Signore gli disse in visione: «Anania!» Egli rispose: «Eccomi, Signore». E il Signore a lui: «Àlzati, va’ nella strada chiamata Diritta, e cerca in casa di Giuda uno di Tarso chiamato Saulo; poiché ecco, egli è in preghiera, e ha visto in visione un uomo, chiamato Anania, entrare e imporgli le mani perché ricuperi la vista». Ma Anania rispose: «Signore, ho sentito dire da molti di quest’uomo quanto male abbia fatto ai tuoi santi in Gerusalemme. E qui ha ricevuto autorità dai capi dei sacerdoti per incatenare tutti coloro che invocano il tuo nome». Ma il Signore gli disse: «Va’, perché egli è uno strumento che ho scelto per portare il mio nome davanti ai popoli, ai re, e ai figli d’Israele; perché io gli mostrerò quanto debba soffrire per il mio nome». Allora Anania andò, entrò in quella casa, gli impose le mani e disse: «Fratello Saulo, il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada per la quale venivi, mi ha mandato perché tu riacquisti la vista e sia riempito di Spirito Santo». In quell’istante gli caddero dagli occhi come delle squame, e ricuperò la vista; poi, alzatosi, fu battezzato. E, dopo aver preso cibo, gli ritornarono le forze. Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, e si mise subito a predicare nelle sinagoghe che Gesù è il Figlio di Dio. Tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua con lo scopo di condurli incatenati ai capi dei sacerdoti?» Ma Saulo si fortificava sempre di più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo”.

Perché è così importante la conversione di Paolo? Essenzialmente per due motivi. Il primo è che, con questa conversione il più accanito avversario di Gesù diventa il suo più zelante missionario. Per questo Lutero chiama questa conversione “il capolavoro di Dio”. Se infatti Dio è riuscito a convertire questo suo acerrimo nemico, chi potrà resistere alla sua chiamata? Se neanche Saulo ha potuto resistere – lui che era così agguerrito – vuol dire che Dio, alla fine, vince ogni resistenza. Il secondo motivo per cui Luca racconta tre volte questa conversione è naturalmente l’importanza di questo 13° apostolo il quale, benché probabilmente non abbia mai incontrato il Gesù storico e si consideri il “minimo degli apostoli”, è stato in realtà il più grande di tutti, sia come teologo, sia come missionario. Paolo è stato il discepolo più fedele di Gesù, quello che lo ha capito e servito meglio degli altri.

Vale la pena di notare che il racconto della conversione di Paolo è di Luca – anche quando lo mette in bocca a Paolo, come accade in Atti 22 e 26, che non ho letto – e non di Paolo. Paolo non parla mai, nelle sue lettere, dell’esperienza di Damasco e allude alla sua conversione, che ha coinciso con la sua chiamata, in termini molto sobri, quasi con pudore. Nel primo capitolo della lettera ai Galati, al capitolo 1, Paolo dice che Dio, che lo aveva prescelto fin dal seno di sua madre, “si compiacque di rivelare in me il Figlio suo”. Non parla dunque di una apparizione, ma di una rivelazione interiore (“in me”). Al capitolo 4 della lettera ai Corinzi c’è un altro possibile riferimento all’esperienza di Damasco, ma anche qui in termini di rivelazione interiore più che di apparizione esteriore: “Il Dio che disse: “Splenda la luce nelle tenebre” è quello che risplende nei nostri cuori, affinché noi facessimo brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio, che rifulge nel volto di Gesù Cristo”. Paolo comunque non sbandiera la sua esperienza, non la esibisce. C’è qualche volta nella chiesa un certo esibizionismo spirituale, che Paolo non pratica. Egli si limita a dire l’essenziale: Dio, o Cristo, sono entrati nella sua vita portandovi una luce che prima non c’era.

La cosa più bella di tutto il racconto è che Dio non fulmina questo nemico suo e della chiesa, non lo punisce, non lo condanna, non lo scomunica, ma al contrario gli parla, lo chiama per nome, lo converte e convertendolo, lo arruola al suo servizio. A ben guardare, questo modo di procedere di Dio è un paradigma di tutta la sua azione verso l’umanità. Siamo un po’ tutti come Saulo, forse non così accaniti e violenti come lui, ma anche noi, sotto sotto, siamo per natura nemici, increduli e ribelli; e invece, di fronte a questa durezza, giunge dal cielo una voce che ci chiama per nome e ci invita a cambiare vita, a scoprire che se siamo nemici di Dio, Dio non è nostro nemico, e che se siamo indifferenti verso Dio, egli non è indifferente verso di noi; al contrario non si stanca di cercarci e di parlarci. Così questa conversione di Saulo è, da un lato, un evento assolutamente unico ed eccezionale (e la sua eccezionalità appare dal fatto che Gesù in persona entra in scena – questo non accade per nessun’altra conversione nel Nuovo Testamento), ma dall’altro è uno specchio del modo normale, abituale, quotidiano di procedere di Dio nei nostri confronti. Ogni giorno egli usa misericordia verso di noi, ogni giorno egli ci aspetta sulla via di Damasco, ogni giorno si rivolge a noi con infinita pazienza chiamandoci per nome, fiducioso che, se abbiamo fatto orecchio da mercanti, un giorno risponderemo.

La conversione è al tempo stesso chiamata al servizio di Dio: nessuna conversione è mai fine a sé stessa, ma è in funzione di una missione. Dio ci vuole convertire per affidarci un incarico, cioè in fin dei conti la conversione non è finalizzata a noi stessi, ma gli altri. Nel racconto che abbiamo letto la conversione avviene attraverso una luce ed una voce. Paolo vede la luce e ode la voce, coloro che lo accompagnano odono la voce ma non vedono la luce. Perché? Io penso perché la conversione è qualcosa di assolutamente personale: solo Paolo vede la luce perché solo Paolo viene convertito. La luce è naturalmente la classica metafora per Dio, che è luce – come si dice nella prima lettera di Giovanni; vedere la luce significa trovarsi improvvisamente, inaspettatamente, alla presenza di Dio, che qui è rappresentata da Gesù, che si rivela per quello che è: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. In effetti era così: Saulo, perseguitando i cristiani, voleva in realtà perseguitare Gesù, nel senso di cancellare il suo nome e la sua memoria. Chi perseguita il popolo di Dio, in realtà ce l’ha con Dio, non con chi crede in lui. Così si spiega (sempre che sia “spiegabile”) anche la Shoah: i nazisti volevano annientare gli ebrei perché volevano annientare il Dio biblico per sostituirlo con il loro: il Dio della razza ariana, del sangue e del suolo tedesco. Quelli che accompagnano Saulo, odono la voce, ma non la capiscono. Sono anch’essi alla presenza di Dio, ma non lo sanno. E quindi a loro non succede nulla, non sono accecati – perché non vedono la luce – non capiscono la voce – odono soltanto il suono, e non si convertono. Saulo invece sa di essere alla presenza di Dio, perciò vede la luce, non solo ode la voce, ma la capisce, e viene convertito. È questo un messaggio anche per noi? Siamo attenti la vedere la luce di Dio tra le mille luci di questo modo? Siamo attenti a cogliere la sua voce, a riconoscerla e a capirla, tra le mille voci di questo mondo?

La conversione è sempre un trauma. Una morte e una risurrezione. Nel racconto questa esperienza è simboleggiata da due segni. Il primo è l’atterramento di Saulo: Saulo cade, e in un certo senso Saulo muore; ma appunto: c’è una caduta che può essere anche un rialzamento, c’è una morte che può essere una nascita, c’è una fine che può essere un inizio. È quanto accaduto a Saulo: c’è Saulo che muore, e c’è Paolo (nome latino dell’ebraico Saulo) che nasce. Come dicevo prima, Paolo descrive così – nella lettera ai Galati – la sua ri-nascita: “«Dio mi chiamò con la sua grazia, mi scelse fin dal seno di mia madre». Prima di ogni tua scelta, tu sei la mia scelta, io ho scelto te. Prima che tu fossi, Io sono: sono con te, sono per te, sono in te. C’è una passione più grande della nostra, anche della nostra passione per Dio, e cioè la passione del Dio che fa grazia per noi. Più grande della passione dell’uomo per Dio, è la passione di Dio per l’uomo.

Il secondo segno che evidenzia questo trauma di Paolo è la cecità. Si compie la parola di Gesù, che Giovanni riporta al capitolo 9 del suo vangelo: “Io sono venuto in questo mondo per fare un giudizio, affinché quelli che non vedono, vedano, e quelli che vedono diventino ciechi”. Risultato: l’onnipotente Saulo diventa cieco, non è più in grado nemmeno di orientarsi, non vede più la via per Damasco, deve essere condotto per mano come un bambino. Così sconvolgente è l’irruzione di Dio nella nostra vita. Tutto cambia anche se apparentemente tutto continua come prima. In realtà nulla continua come prima. Cambiano i pensieri, cambiano gli amori, cambiano i sentimenti, cambiano i rapporti, cambia il linguaggio, si imparano nuove parole, se ne abbandonano delle altre. Paolo parlerà di “spazzatura” di cui si è dovuto liberare “al fine di guadagnare Cristo”, l’unica sua e nostra ricchezza.

Tre veloci osservazioni ancora sulla conversione. La prima è questa: essa dura tutta la vita. Non si finisce mai di convertirsi. Sul letto di morte il riformatore Giovanni Calvino diceva: “Ora che cominciamo a convertirci …”. La conversione è iniziare un viaggio con Dio, iniziare una sequela di Cristo che ci condurrà forse dove non volevamo e non vorremmo andare. Paolo e tanti altri come lui saranno condotti al martirio e a un destino di sofferenza, come quello di Gesù.

La seconda è che la conversione è contagiosa: in questo racconto alla conversione di Saulo fa seguito quella che possiamo chiamare la conversione di Anania. E anch’egli si converte, nel senso che diventa fratello di colui che fino a quel momento considerava (ed effettivamente era) suo irriducibile nemico. La seconda grande luce del racconto si trova quindi al versetto 17, quando Anania si rivolge a Saulo chiamandolo fratello: “Allora Anania andò, entrò in quella casa, gli impose le mani e disse: «Fratello Saulo, il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada per la quale venivi, mi ha mandato perché tu riacquisti la vista e sia riempito di Spirito Santo». Quale grande conversione c’è dietro questa parola: fratello! Quanto profondamente ci si deve convertire per chiamare “fratello” colui che prima era il grande nemico!

La terza osservazione è questa: dietro tutte le conversioni sulla terra, su tutte le vie di Damasco di questo mondo, c’è la grande conversione in cielo, quella di Dio verso di noi. È perché Dio in Cristo si è convertito a noi, ci cerca e ci chiama, che ogni tanto, su questa dura terra, accade il miracolo assoluto di una conversione dell’uomo.

Dio ci aspetta nella sua misericordia. Dio minaccia, Dio avverte, Dio chiama, Dio prega. Così con Paolo, come abbiamo letto al versetto 4: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Spesso penso che siamo noi a pregare Dio: ma quante volte è Lui che ci prega nella Bibbia! Provate a leggerla per vedere quante volte Dio prega noi: prega più Lui noi, che noi Lui. La realtà più profonda è questa: conversione di fronte a un Dio che è sempre pronto a convertirsi, mentre noi no.

E’ per questo che nei Salmi del dopo esilio, si ha la coscienza che se è vero che l’uomo è capace di conversione, prima di tutto Dio è capace di conversione, Dio si converte dal male che ha minacciato di fare. Ricordate il libretto di Giona: “Dio si convertì dal male che aveva minacciato su Ninive”.

Oppure il Salmo 126, che al versetto 4, recita: “Convertiti Signore e noi ci convertiremo”, cioè “ritorna e noi ritorneremo”. Non è solo che Dio debba convertirci, ma in un certo senso è Lui che deve cambiare, e nella misura in cui desiste dal castigo, desiste dal male, ecco allora che Lui si converte.

In tutto questo i rabbini ebrei hanno detto, con il loro modo arguto, che in Dio che c’è una grande incoerenza: Dio minaccia il male e non lo fa mai. E’ il paradosso misterioso della fede ebraica e ce lo dice il messaggio dei profeti: colui che è onnipotente e onnisciente, poi cambia in una parola quello che ormai ha deciso. Insomma la conversione diventa davvero una forza potente, efficace, sia la conversione di Dio che la conversione del peccatore. Dio abbandona la collera, dimentica la giustizia punitiva, incoraggia il peccatore a pentirsi e a tornare; e analogamente il peccatore interrompe il cammino del male, va verso Dio e ha la forza in qualche modo di chiedere a Dio a fargli misericordia.

Io credo che in fondo Gesù sia venuto ad insegnarci questo, con le sue parole e le sue azioni: Dio si è convertito, ci ha fatto grazia, e in questa conversione ci mostra il suo amore. A noi, che accogliamo questo dono, spetta incamminarci verso di Lui e convertirci alla sua chiamata. Dio lo voglia per tutti noi.  AMEN

Fabio Barzon

News: IN RICORDO DI PAOLO TEOFILO ANGELERI

Martedì 18 settembre abbiamo dato l’ultimo saluto al fratello Paolo Teofilo Angeleri. Nel corso del servizio funebre il nipote Alberto Bragaglia lo ha ricordato con parole che hanno coinvolto tutti e che meritano di essere pubblicate per coloro che non erano presenti al culto.

Ciao Paolo: e ora che si fa? Era diventato difficile comunicare con te da tempo. Ma la memoria, quella continua ad aiutarci nel ricordo di quanto ci ha donato e di quanto abbiamo fatto insieme.

Paolo di Lidia (così lo distinguevamo in famiglia, dall’altro Paolo Angeleri, il cognato) ha avuto non una, ma tante vite: vivaci, ricche, anche complicate. Io ringrazio il Signore per averne potute incrociare più di qualcuna in questi anni.

Un toscano anomalo, nato in provincia di Potenza, cresciuto ad Arezzo, città che lo ha formato e che sentiva come propria, pur con il distacco di chi, in ogni parte del mondo sia stato, ha sempre cercato di coglierne le caratteristiche positive e negative con mente aperta e di stabilire relazioni fruttuose. Brillante e anticonformista, membro di una famiglia molto stimolante, anche dal punto di vista religioso, con la sua appartenenza all’alveo della chiesa dei Fratelli, anche se poi c’era stato un progressivo distacco. E poi gli inizi come insegnante, le esperienze all’estero fino alla definitiva scelta della carriera che lo ha portato letteralmente a girare il mondo e a farlo girare ai suoi famigliari.

Episodi, esperienze di cui lui mi aveva parlato in modo diretto, ma anche indiretto, per aneddoti e indizi, soprattutto quando il riferimento era a situazioni complicate. Perché Paolo amava raccontare, ma amava anche lasciare indizi, tracce da ricostruire o smontare per ricominciare a raccontare, scegliendo un’altra angolazione. Lettore instancabile, era sempre disponibile a capire se ci potesse essere un punto di vista diverso per riprendere a filosofare sulle cose; ovvero a trovare nuovi fili per il discorso, nuove ragioni per guardare avanti, dopo aver raccontato quel che era già alle nostre spalle. Caparbio ed estroso, a volte era faticoso seguirlo nei suoi pensieri. A volte però era lineare in modo disarmante. Spesso sorprendente, mai banale. Aperto al nuovo, tanto da accogliere in modo entusiastico, le prime macchine dedicate alla scrittura digitale, chiamate ironicamente “abulafia”, citando Umberto Eco, conosciuto e frequentato a lungo.

Questo è il Paolo che credo fosse ben conosciuto anche in questa comunità. Arrivato nella seconda metà degli anni Ottanta, quando decise di stabilirsi a Padova con Lidia da fresco pensionato, entrò a far parte anche della locale chiesa metodista. Formazione classica, grande cultura, decise di rimettersi in gioco, iscrivendosi al diploma di teologia. Un passatempo, per lui, che noi abbiamo potuto apprezzare nelle sue prediche e nei suoi studi biblici, trascinanti, originali, coinvolgenti. Per me erano anni particolari: anni in cui cercavo di trovare la mia strada, decidere la direzione da prendere. Paolo era uno stimolo continuo, un appoggio che non voleva essere ingombrante, ma voleva essere soprattutto presente.

Fu anche cassiere in questa chiesa, con pazienza e passione. E poi collaboratore a lungo con il nostro settimanale Riforma, come qualcuno ricorderà, firmandosi Paolo T (che sta per Teofilo) Angeleri. E ad un certo punto decise anche di scrivere la storia di questa comunità: un racconto, e non una pubblicazione accademica. Paolo voleva soprattutto realizzare una narrazione di fatti e di persone controcorrente, capaci di mantenere viva e vitale una piccola testimonianza in circostanze quasi sempre ostili o comunque difficili. Una storia in cui la mia famiglia è stata immersa per varie generazioni.

Eccolo ritornare sotto un’altra angolazione, Paolo: controcorrente, allergico ad ogni dogmatismo, ma fortemente legato ad uno spiccato senso del dovere, che spesso si è accompagnato ad una tendenza eccessiva a colpevolizzarsi, come ben sa Lidia. Nel caso specifico, la storia di questa piccola minoranza era segno e monito, per uno che in gioventù aveva fatto in tempo ad unirsi alla lotta partigiana e che aveva anche avuto una breve esperienza politica. Segno e monito che aiutava a mettere in guardia dal dimenticare la coscienza per abbracciare soluzioni sin troppo facili e rassicuranti. Segno e monito per chi voleva, con umiltà e semplicità, continuare a farsi interrogare dalla Parola del Signore per dare un senso alla propria vita.

Ed ecco la capacità di ragionare, affinata per una vita e la capacità di comunicare come si fa a “ragionare”. Un altro Paolo che molti di noi hanno conosciuto era proprio quello che sapeva insegnare coinvolgendo chi lo ascoltava, con una trascinante passione nello spiegare e nell’argomentare. Ma capace di conquistare il rispetto degli interlocutori anche grazie alla capacità di ascoltare. Caratteristiche apprezzata dagli studenti, ma anche da chi è entrato in contatto con lui nel corso della sua vita professionale: scrittori, studiosi, personaggi di diversa provenienza. Non trasmetteva solo nozioni, Paolo, ma anche metodo, percorsi, tracce, indizi da collegare per poter formare ragionamenti autonomi.

E infine ecco Paolo capace di grandi entusiasmi, a volte eccessivi, che rischiavano di portarlo (e a volte lo portavano sul serio) ad altrettanto grandi delusioni. Che non sempre riusciva a esorcizzare con la consueta ironia i problemi, soprattutto fisici. Ma io voglio ricordare, perché di certo sarà una cosa che porterò sempre con me, la breve e giocosa stagione dei viaggi fatti insieme con il camper. Il camper fu una grande, seppur breve, passione di Paolo e Lidia. E dei viaggi fatti insieme a Paolo e Daniele suo figlio, io conservo un ricordo molto affettuoso. Anche perché Paolo, in quel girovagare riscopriva luoghi e situazioni già conosciuti con rinnovata curiosità e stupore.

Curiosità e voglia di scoprire, sempre in compagnia, prima di tutto di Lidia. Sempre pronto a raccogliere stimoli e indicazioni. Paolo era uomo di relazioni, di rapporti umani, di condivisione. Uomo che accoglieva con grande affetto anche gli ultimi arrivati, in famiglia o in altri contesti. Cultore di una memoria da conservare e da trasmettere, come fece fermando in vivaci racconti su carta storie di famiglia e storie raccolte in conversazioni con persone diverse. Storie di grande umanità. Storie che trovo assai coerenti con quella che credo sia una delle ultime annotazioni di Paolo sulla sua Bibbia. Aveva trascritto il versetto 7 del Salmo 121: “Il SIGNORE ti preserverà da ogni male; egli proteggerà l’anima tua”, che porta al versetto successivo: “Il SIGNORE ti proteggerà, quando esci e quando entri, ora e sempre”. Sì, il Signore ci ha protetto e ci proteggerà sempre, Paolo. A ben pensarci, questo può essere un buon punto da cui ricominciare insieme i nostri studi biblici. Che dici?

Sermone: IL CRISTIANO NON HA PAURA

Atti 12, 1-11 – Giov 11,1-3 17-27 – 2Tim 1,7-10

Cari fratelli e sorelle, i testi biblici che abbiamo appena ascoltato, ci presentano tre figure, Marta, Paolo e Pietro. Tutti sono accomunati da un’unica parola chiave: FEDE. La fede, la fiducia in Cristo Gesù nostro Signore. “Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo” dice Marta. “Ora so di sicuro che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha liberato dalla mano di Erode” dice l’apostolo Pietro. Entrambi sono forti nella loro fede perché “Dio infatti ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d’amore e di autocontrollo” ribadisce l’apostolo Paolo.

Il cristiano, quindi, cari fratelli e sorelle, non deve essere una persona timida, che si fa mettere i piedi in testa, che sta in silenzio, che subisce passivamente perché tanto è scritto “porgi l’altra guancia”. Come molta letteratura superficiale e interpretazioni, altrettanto superficiali o fuorvianti, di chi, evidentemente, non ha ben letto o compreso la Bibbia, o comunque la distorce a proprio uso e consumo, ci propone.

Il cristiano, cari fratelli e sorelle, è colui che è stato fornito da nostro Signore Gesù Cristo di uno spirito di forza, di autocontrollo. Non è un debole! Egli non ha paura della morte perché, come Marta, sa che chi crede in Gesù Cristo, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in Lui, non morirà mai. Quello stesso Gesù Cristo che, come ci ricorda l’apostolo Paolo, “ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo”.

Il cristiano non ha paura, come non ha avuto paura l’apostolo Pietro quando, svegliato dall’angelo del Signore venuto a liberarlo dalla prigione, non si è messo ad urlare terrorizzato correndo come un pazzo per la cella dove era tenuto rinchiuso, ma ha avuto fede e ha fatto, tranquillamente, ciò che l’angelo gli ordinava di fare.

Cari fratelli e sorelle, dobbiamo quindi far nostra l’esortazione di Paolo a Timoteo, rileggendo e meditando bene questa seconda lettera di cui abbiamo letto oggi alcuni versetti. Questa lettera è e deve essere uno dei manifesti della nostra fede, di quello che il Signore, se ci dichiariamo veramente cristiani, lo ripeto, se ci dichiariamo con convinzione di essere cristiani, ci chiama ad essere. Non dobbiamo vergognarci di testimoniare nostro Signore, non dobbiamo aver paura di parlare di Lui, di farlo conoscere: “non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore”. Certo, possiamo avere dei fastidi, delle noie, dobbiamo affrontare prese in giro o reazioni più o meno dure, magari non ci metteranno in carcere come gli apostoli Pietro e Paolo ma, come ho detto prima, “Dio ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d’amore e di autocontrollo”. Ne dobbiamo però essere convinti, fortemente ed intimamente convinti. Se crediamo in Lui, egli sarà con noi. In qualunque momento e situazione. E questa è parola di Dio, espressa per bocca di Suo Figlio Gesù, come riportato chiaramente nell’Evangelo di Matteo al capitolo 17, versetto 20: “In verità io vi dico: se avete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: “Passa da qui a là”, e passerà; e niente vi sarà impossibile”.

Fede, fratelli e sorelle, quella stessa fede che, da sola, ci salva. Fede che da granello di senape, deve crescere dentro di noi, deve germogliare fino a diventare pianta. Fede, questa la via per la salvezza. L’unica via per quella salvezza che ci viene non a motivo delle nostre opere, ma per volontà di Dio nostro Padre e per la grazia che ci è stata fatta in Cristo, come, per l’appunto, Paolo ricorda a Timoteo.

Ma cosa vuol dire veramente fede? Vuol dire fiducia. Ma una fiducia assoluta, senza se e senza ma. Non in una persona qualsiasi. Ma in Gesù Cristo, il figlio di Dio, mandato sulla Terra affinché la nostra salvezza fosse compiuta. Marta, la sorella di Lazzaro, non ha avuto timori: sapeva che Gesù avrebbe sicuramente resuscitato suo fratello. Neanche lei, come Pietro, si è messa a piangere e ad urlare appena lo ha visto entrare, chiedendo disperatamente a Gesù il miracolo. Sapeva bene che suo fratello sarebbe resuscitato dalla morte nell’ultimo giorno e che per qualunque cosa ella si fosse rivolta a Dio, tramite Gesù, l’avrebbe ottenuta. Neanche Paolo aveva paura quando, dal carcere, scriveva a Timoteo. Non aveva paura perché, parole sue, era “sorretto dalla potenza di Dio”. Anche Pietro, come abbiamo visto prima, era in carcere, e anche lui non ha avuto paura, non ha perso la fede. E il Signore lo ha premiato con la libertà.

Fratelli e sorelle, la parola del Signore non è facile. O meglio, è facile leggerla o ascoltarla la domenica, ma capirla e viverla veramente in tutti i momenti della nostra vita, non è assolutamente né facile né semplice. Anzi, diventa a volte imbarazzante. Diventa “pietra di scandalo”. Chi fra noi non ha mai perso la fede? Chi fra noi non ha mai avuto attimi di disperazione o si è sentito perso difronte agli avvenimenti, a volte estremamente duri e difficili, che la vita ci pone davanti? Chi non si è mai chiesto “Dio ma dove sei?”.

Dio, fratelli e sorelle, non è un padrone. E non è nemmeno un distributore automatico dove basta far entrare una monetina, schiacciare il pulsante e ritirare quello che avevamo richiesto perché ci piace. Dio è un padre. Un padre che ama profondamente i suoi figli. Tanto da incarnarsi e scendere sulla Terra in mezzo a loro per farsi crocifiggere, per soffrire con loro e per loro. Certo non lo vediamo ma Egli è qui.  Dio è qui presente. È Spirito Santo. E lo ha detto chiaramente: “io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 18.20). L’ultimo versetto dell’evangelista Matteo. Gesù lascia questo mondo, diventa puro spirito, ma ci tiene particolarmente a rassicurare i suoi discepoli e quindi anche noi. Non possiamo pertanto dirci cristiani se non gli crediamo: Egli è e sarà sempre con noi.

Abbiamo quindi fede, fidiamoci ciecamente di lui e tutto andrà per il meglio. Speranza, fratelli e sorelle. Speranza. Perché, come diceva il grande riformatore Giovanni Calvino “La speranza non è se non l’attesa delle cose che la fede ha creduto essere state veramente promesse da Dio. Così la fede crede che Dio è verace, la speranza attende che al momento opportuno egli dimostri la sua veracità. La fede crede che Dio è nostro Padre, la speranza attende che una volta sia rivelata. La fede è il fondamento sul quale la speranza s’appoggia, la speranza nutre e mantiene la fede. Infatti, come nessuno può attendere e sperar nulla da Dio, se non colui che prima di tutto avrà creduto alle sue promesse, così d’altro lato è necessario che la nostra debole fede sia sostenuta e conservata da uno sperare e attendere pazientemente”.

Lode al Signore.  AMEN

Daniele Rampazzo

News: Paolo T. Angeleri

Sabato 15 settembre ci ha lasciati per tornare fra le braccia del Padre il fratello

PAOLO T. ANGELERI

Alla moglie Lidia e a tutta la famiglia va il solidale abbraccio della comunità con la preghiera al Signore di concedere loro la forza per lenire il dolore del distacco ricordando i momenti belli passati insieme.

Il servizio funebre avrà luogo martedì 18 settembre

alle ore 11 presso la chiesa metodista di Padova – Corso Milano 6.