Sermone: IL PANE QUOTIDIANO

Esodo 16,4-16

Allora il SIGNORE disse a Mosè: «Ecco, io farò piovere pane dal cielo per voi; il popolo uscirà e ne raccoglierà ogni giorno il necessario per la giornata; così lo metterò alla prova e vedrò se cammina o no secondo la mia legge. Ma il sesto giorno, quando prepareranno quello che hanno portato a casa, dovrà essere il doppio di quello che raccolgono ogni altro giorno».

Mosè e Aaronne dissero a tutti i figli d’Israele: «Questa sera voi conoscerete che il SIGNORE è colui che vi ha fatti uscire dal paese d’Egitto. Domattina vedrete la gloria del SIGNORE, poiché egli ha udito i vostri mormorii contro il SIGNORE. Quanto a noi, che cosa siamo perché mormoriate contro di noi?»

E Mosè disse: «Vedrete la gloria del SIGNORE quando stasera egli vi darà carne da mangiare e domattina pane a sazietà; perché il SIGNORE ha udito le lagnanze che voi mormorate contro di lui. Noi infatti, che cosa siamo? I vostri mormorii non sono contro di noi, ma contro il SIGNORE».

Poi Mosè disse ad Aaronne: «Di’ a tutta la comunità dei figli d’Israele: “Avvicinatevi alla presenza del SIGNORE, perché egli ha udito i vostri mormorii”».

Mentre Aaronne parlava a tutta la comunità dei figli d’Israele, questi volsero gli occhi verso il deserto, ed ecco la gloria del SIGNORE apparire nella nuvola.

E il SIGNORE disse a Mosè: «Io ho udito i mormorii dei figli d’Israele; parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e domattina sarete saziati di pane; e conoscerete che io sono il SIGNORE, il vostro Dio”».

La sera stessa arrivarono delle quaglie che ricoprirono il campo. La mattina c’era uno strato di rugiada intorno al campo; e quando lo strato di rugiada fu sparito, ecco sulla superficie del deserto una cosa minuta, tonda, minuta come brina sulla terra. I figli d’Israele, quando l’ebbero vista, si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?» perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «Questo è il pane che il SIGNORE vi dà da mangiare. Ecco quello che il SIGNORE ha comandato: “Ognuno ne raccolga quanto gli basta per il suo nutrimento: un omer a testa, secondo il numero delle persone che vivono con voi; ognuno ne prenda per quelli che sono nella sua tenda”».

 

Giov 6,32-35

Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che non Mosè vi ha dato il pane che viene dal cielo, ma il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo. Poiché il pane di Dio è quello che scende dal cielo, e dà vita al mondo».

Essi quindi gli dissero: «Signore, dacci sempre di codesto pane».

Gesù disse loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete».

 

«Camminare nel profondo di quel bosco o salire su quella cima mi fa sentire più vicino a Dio!» Non so se vi sia mai capitato personalmente di percepire le cose in questo modo o se abbiate sentito qualcuno dire parole di questo tipo; sembra però, proprio in questo nostro tempo, una cosa abbastanza diffusa.

C’è il bisogno di trovarsi in qualche luogo straordinariamente suggestivo per incontrare Dio, per fare esperienza del divino. Sembra molto più facile in questi contesti, quando ci si è lasciati alle spalle il rumore delle città, il rumore della vita quotidiana, percepire Dio o l’assoluto.

Chissà in quanti pensano che per vivere davvero e in profondità l’incontro con Dio, si deve in qualche modo uscire dal mondo, isolarsi, andare su una montagna solitaria o nel cuore di un deserto dimenticato oppure di fronte alla maestà del mare.

Certo, chi conosca almeno un po’ la storia della chiesa cristiana, potrebbe dire che questa tendenza non è così nuova, perché già nel corso dei primi secoli del cristianesimo, vi furono, con i cosiddetti Padri del deserto, delle esperienze di individui che decisero di vivere nell’isolamento del deserto la loro esperienza di fede.

La diversità forse maggiore è che oggi la maggior parte delle persone che crede di poter incontrare Dio sulla cima di un monte o nel silenzio del deserto o dove l’individuo si trova a contemplare romanticamente la natura, non crede che quella stessa esperienza abbia qualcosa a che fare con la vita quotidiana spesa nel formicolio e nel movimento delle nostre città. Allora l’animo si perde nella bellezza dell’ambiente e si può accettare una spruzzatina di religiosità, solamente se questa non diventa una costante della vita, almeno di quella vita che ha i suoi bisogni, le sue attese, le sue speranze, che non vogliono essere riposte in qualcun altro.

In Esodo abbiamo sentito che Israele sta camminando nel deserto, sta camminando nella libertà. Eppure il suo sguardo non è ancora rivolto in avanti, continua a rimanere ancorato al passato, un passato di sofferenza, ma al tempo stesso di garanzie.  Certamente in Egitto non si viveva nella libertà, ma almeno la pancia era piena. A che cosa serve la libertà se si si è costretti a morire di fame nel deserto?

La crisi di fede di Israele non nasce da una riflessione intellettuale, dal non riuscire ad affrontare o a dare risposta a determinati problemi generali; la crisi di fede di Israele non nasce neanche in legame a qualcosa di straordinario. La crisi di fede di Israele nasce dalla difficoltà concreta, la penuria di cibo. Ad una mancanza di cibo corrisponde una mancanza di fede. E lo sapevano bene anche alcuni padri fondatori delle nostre chiese riformate che comprendevano come sia difficile parlare di Dio a chi si trova nella miseria, nella malattia, nell’impossibilità di accettare un messaggio d’amore quando si è alla ricerca della sopravvivenza fisica.

A questo punto ci si potrebbe domandare: Israele ha capito chi sia a guidare il popolo, Israele conosce il Signore che l’ha condotto fuori dall’Egitto? Ci troviamo di fronte ad una crisi che si potrebbe definire una crisi di conoscenza (nel versetto 12 troviamo scritto: “conoscerete che io sono il Signore, il vostro Dio”). Non la conoscenza che definiremmo intellettuale, bensì quel tipo di conoscenza che costituisce la relazione di fede.

Un riformatore del XVI secolo, in una sua famosa pagina, scriveva: “Conoscere Cristo significa conoscere i suoi benefici”. Che, detto in altri termini, vuol dire che la vera conoscenza di Dio si ha sperimentando o riconoscendo ciò che di buono Dio realizza nei nostri confronti.

La benedizione di Dio non si sperimenta solamente nelle situazioni eccezionali o che possono apparire straordinarie; Dio non viene ad incontrare l’umanità solamente nella cornice straordinaria di un monte isolato, sul quale sembra che la sua presenza sia più completa. Al contrario, è nella concretezza piena di questo mondo, nell’ordinarietà del bisogno che trova una risposta, che lo si conosce e riconosce.  “Conoscere i suoi benefici”, cioè riconoscere che nelle strade tortuose della vita, proprio quando si può essere nel deserto e affrontare la fame e la sete, la povertà materiale o di prospettive, il Signore non ha smesso di ascoltare la nostra voce.

Questa pagina biblica ci invita a guardare a Dio come colui che nella quotidianità della nostra vita, nella nostra quotidiana “milizia” come la chiama il libro di Giobbe (7,1), cioè vivendo spesso in una sensazione di incertezza, è il Signore che ascolta il grido di aiuto, che provvede alle nostre necessità e che, al tempo stesso, ci chiama all’obbedienza.

Vorrei che riflettessimo un poco su queste tre dimensioni, che possono apparire scontate, spesso ripetute ma altrettanto in fretta messe da parte. Il primo aspetto è questo: Dio ascolta il grido, ascolta le voci di quanti mormorano contro di lui. E questo ascolto non è selettivo: Dio presta attenzione ad ogni preghiera, anche a quelle che si ricollegano alle cose di ogni giorno.  E questo lo vediamo anche nella preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli; nel Padre nostro si prega per il “pane quotidiano”, per ciò che è essenziale per la nostra vita.

Quante volte ci capita però di pensare che dopotutto il pane quotidiano sia frutto della nostra fatica e ben poco abbia a che fare con Dio; oppure, guardandoci intorno, abbiamo l’impressione che questo pane che Dio dovrebbe distribuire a tutti sia in realtà privilegio di pochi e ci viene da chiederci “dov’è la generosità di Dio o la sua pietà nei confronti di quanti non hanno da mangiare?”.  Forse, pensando in questo modo abbia già dimenticato l’essenziale di questa preghiera, cioè il fatto di riconoscere che anche quanto abbiamo per la nostra vita sia da considerare un dono e non un possesso esclusivo.

Non è Dio a dimenticarsi di essere il Padre di tutti e che il pane sia di tutti; spesso siamo noi a parlare del Padre nostro, ma al tempo stesso a guardare al pane come ad una cosa esclusivamente mia. Creando quel circolo vizioso che impedisce la condivisione e pensa invece al vantaggio personale.

Il secondo aspetto ci ricorda che Dio provvede ai bisogni di quanti lo invocano. Anche in questo caso, questo provvedere non si situa su un piano distaccato dalla realtà concreta del nostro quotidiano. Se noi siamo qui è perché nonostante tutte le contraddizioni della vita, nonostante tutte le prove, nonostante le nostre domande aperte e i nostri dubbi, nonostante tutto, la luce di questa promessa non è stata completamente oscurata: Dio ha provveduto e provvede al suo popolo.

Questo non è il nostro giudizio definitivo sulla storia, è il nostro riconoscimento, la nostra confessione di fede. Chi conosce questa risposta di Dio conosce i benefici del Signore nei confronti dei suoi figli, ha riconosciuto che il Signore non è un’idea o un’invenzione della mente umana, ma colui dal quale la vita dipende.

Il terzo aspetto ci rimanda alla chiamata all’obbedienza. Il Signore che ascolta le esigenze quotidiane e offre la sua risposta ci chiama anche alle nostre responsabilità nel quotidiano.  Obbedire a Dio non significa uscire dal mondo, ma restare pienamente fedeli a quello che noi viviamo nella nostra quotidianità e a cui siamo chiamati da Dio, esprimere fedeltà e ascolto a quella volontà di Dio che è data non per amore dell’obbedienza in quanto tale, ma per amore della pienezza di vita.

E la pienezza non si realizza nell’accumulo del superfluo, ma nel ricevere il necessario (il pane). Rimanere fedeli a quel quotidiano in cui la fede in Dio ci chiama a vivere significa anche riflettere su quanto noi per primi siamo capaci di uscire dalla logica del popolo che corre subito a far provviste oltre la misura indicata: che cos’è necessario, che cos’è superfluo nella nostra vita?

Siamo partiti considerando come, spesso, nel nostro tempo, si parta alla ricerca di Dio pensando di incontrarlo più facilmente lontano dalla quotidianità. In realtà, come abbiamo visto, il nostro testo biblico ci indica una strada diversa: ci chiede di saper esercitare il discernimento, per riconoscere la presenza di Dio nelle necessità quotidiane.

Non c’è condanna per il popolo che mormora, non c’è condanna per chi può apparire privato della sua fede, ma, al contrario, ascolto.  Dio ascolta ed è presente. Chi vive questa presenza, chi l’attende non sarà deluso. Chi vive questa presenza comprenderà, come il popolo d’Israele, la libertà alla quale è stato chiamato, quella libertà che toglie la fame e la sete.

E per noi, donne e uomini cristiani, cioè seguaci e fedeli di Dio che si è incarnato in Gesù, la promessa viene confermata con quella bella espressione che abbiamo trovato nel vangelo di Giovanni: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete».    AMEN

past. William Jourdan / Liviana Maggiore