Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 3 MARZO 2013 (Num 23:7-8,20 Rm 11:32 Mt 25:35 testo di predicazione)

“Fui straniero e mi accoglieste”

“Fui straniero e mi accoglieste”. Sulla scorta di queste parole del vangelo di Matteo, l’accoglienza allo straniero è diventata norma di comportamento per tutti coloro che vogliono essere cristiani. Sono parole che sentiamo risuonare molto frequentemente nelle cerchie dei credenti, a qualsiasi chiesa appartengano; parole che vengono spesso adottate come testo base per un culto, come avviene per noi oggi, o per un incontro di preghiera e di riflessione, o anche per qualche convegno o giornata di studi. Sono parole che sentiamo necessarie tanto più ai nostri giorni: viviamo in un’epoca in cui i viaggi e i soggiorni all’estero e anche i trasferimenti definitivi dal proprio paese a un paese straniero, sono esperienze familiari a tutti, specie ai più giovani. In particolare, l’Italia è diventata terra di immigrazione, meta transitoria o definitiva di uomini e donne provenienti soprattutto dalle aree più disagiate e problematiche del mondo. Di qui la grande attualità, e anche la grande e forse un po’ troppo facile popolarità, di queste parole tramandateci da Matteo. Perché parlo di “facile popolarità”? Perché, secondo me, queste parole vengono spesso interpretate dai cristiani in un modo un po’ superficiale e anche un po’ autocompiaciuto, come esortazione a essere “buoni” (cioè “comprensivi”/ “generosi”/ “ospitali”/ “tolleranti” e così via) nei confronti del “povero” straniero. “Noi” siamo coloro che hanno sempre e soltanto qualcosa da “dare”, gli “stranieri” (e quando si parla di “stranieri” in questo contesto si sottintendono ovviamente sempre gli stranieri poveri, i diseredati, coloro che più facilmente sono oggetto di discriminazione e di emarginazione) sono coloro che hanno sempre e soltanto qualcosa da ricevere. Sorelle e fratelli, devo dirvi che questa lettura non solo mi dà un po’ fastidio, ma mi sembra molto riduttiva: riduttiva rispetto a ciò che in generale la Bibbia dice sul rapporto con lo straniero ma anche riduttiva proprio in relazione a questa espressione di Matteo. Mi accoglieste”, è il testo. Ebbene, che cosa si intende con “accogliere”? Certamente, si intende anche aprire le porte a chi chiede di venire a vivere tra noi, trattandolo con benevolenza e offrendogli, al bisogno, ospitalità e ogni altro genere di aiuto. Ma vorrei che riflettessimo un momento sull’uso che facciamo di questo verbo proprio in contesti che hanno a che fare con la nostra vita di fede. Non parliamo forse di accogliere ciò che Dio ci offre come un dono – per esempio, e in primissimo luogo, di accogliere il dono della salvezza per grazia? In questo caso, non si tratta di piegarci benignamente verso qualcuno che si trova, in qualche modo, in una situazione di inferiorità; si tratta, al contrario, di aprirci, di renderci disponibili a Dio, o comunque a qualcosa che ci viene da Lui. Siamo noi, in questo caso, che dobbiamo tendere le mani verso ciò che ci viene donato dall’alto e che sappiamo bene di non potere in alcun modo ripagare. Perché questo non dovrebbe valere anche per l’interpretazione di queste parole del re-giudice? Che cosa dice, infatti, il re-giudice? Dice che accogliendo lo straniero accogliamo Lui. Ma questo, allora, significa che lo straniero non è – o non è soltanto – destinatario della nostra generosità; è anche, portatore di doni, strumento di Dio per operare il nostro bene. Ricevere lo straniero come una grazia di Dio: direi che la Bibbia ci offre molti suggerimenti che vanno in questa direzione. Ma soffermiamoci un momento, prima di tutto, a considerare che cosa dice la Bibbia ebraica sullo straniero. Ci sono due tipi di straniero: c’è quello che è “dentro le tue porte” e che deve essere accolto e amato come se fosse un israelita (“amate lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”); e poi c’è lo straniero che è fuori della porta, fuori dei confini di Israele, cioè i popoli vicini con i quali Israele deve convivere, cosa non facile perché essi costituiscono, per Israele, o una tentazione o una minaccia. La tentazione consiste nel conformarsi agli usi e costumi di quei popoli, adottando le loro pratiche cultuali e persino le loro divinità, dimenticando l’Iddio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. È la tentazione di “essere come gli altri popoli”, anziché essere il popolo di Dio, la tentazione sottile e perenne del conformismo che già l’apostolo Paolo combatteva esortando i cristiani a “non conformarsi a questo mondo”. (Tra parentesi, ma non poi tanto: questo ammonimento vale per i cristiani di tutti i tempi, vale anche e più che mai per noi, sorelle e fratelli. Ricordiamolo, una chiesa conformista diventa straniera, straniera questa volta in senso assolutamente negativo, rispetto alla sua vocazione, e questo accade quando si appiattisce sulla mentalità, sui valori, sugli stili di vita del “mondo”, diventa cioè mondana, qualche volta senza neppure accorgersene. Allora, anziché essere testimone e parabola del regno di Dio, la chiesa non è altro che la versione religiosa del mondo, e quindi diventa straniera a Dio). Oltre che tentazione, lo straniero “fuori della porta” è anche sempre stato una reale minaccia per Israele: sono stati tanti i tentativi di cancellare il popolo di Israele dalla faccia della terra. Ma proprio in questo quadro di tentazione e minaccia che i popoli stranieri costituiscono per il popolo di Dio, nella Bibbia incontriamo figure di stranieri che finiscono invece per rivelarsi strumenti preziosi di Dio in favore del popolo di Israele. Particolarmente suggestiva è la figura dello straniero come profeta. È una figura che percorre l’intera Bibbia. Ricordate da chi viene pronunciata la prima confessione di fede cristiana? Non da uno dei discepoli, ma da uno straniero, il centurione che sotto la croce dice “Veramente quest’uomo era figlio di Dio!”. Ma fermiamoci sulla storia di Balaam: ne abbiamo ascoltato solo pochi versetti, ma è una storia lunga, che occupa ben tre capitoli del libro dei Numeri. Balaam è un indovino, un mago che un giorno viene chiamato dal re di Moab, Baalac, affinché maledica Israele, un popolo del quale Baalac ha una grande paura e che vuole indebolire privandolo dell’aiuto divino. Durante il viaggio un angelo blocca la strada di Balaam, il quale però non lo vede; ma lo vede la sua asina, alla quale Dio dà la parola in modo che possa difendersi dalle bastonate di Balaam rivelandogli la presenza dell’angelo, e questo angelo ordina a Balaam di dire su Israele soltanto quello che Dio gli suggerirà di dire. Finalmente tutto è pronto per la maledizione di Israele, ma Balaam per tre volte di seguito non maledice, ma benedice Israele, perché così Dio gli comanda di fare. Il re Baalac ovviamente è furioso e caccia malamente Balaam, che non solo non ha maledetto Israele, ma lo ha addirittura benedetto. Cerchiamo di cogliere il senso di questa storia molto bella, che ho qui riassunto per sommi capi. Qui, innanzitutto, c’è uno straniero che diventa profeta. Che cosa significa che uno straniero diventa profeta? Significa tante cose, ma la più importante mi sembra questa: che in Dio non ci sono stranieri perché in lui non ci sono confini. Con grande libertà Dio parla agli altri popoli attraverso il suo popolo, e parla al suo popolo attraverso altri popoli. Si serve di Abramo per benedire tutte le famiglie della terra e si serve di Balaam per benedire i figli di Abramo. Ma se è così, se lo straniero può diventare profeta e Dio può parlare al suo popolo attraverso voci esterne e non soltanto interne, allora dobbiamo, come comunità cristiana che vive in terra italiana, tendere l’orecchio e ascoltare (accogliere) non solo le voci che vengono dall’interno, dalla nostra comunità, dall’ambiente che ci è familiare, ma anche le voci che vengono dall’esterno, le voci, appunto, degli stranieri, perché proprio da lì possono provenirci messaggi da parte di Dio. Messaggi, e anche benedizioni. E qui c’è un insegnamento fondamentale per noi, un insegnamento che non dovremmo mai dimenticare e che invece sempre di nuovo dimentichiamo: noi non possiamo disporre di Dio. Noi non possediamo Dio, noi non possiamo tenerlo nelle nostre mani. Dio non si fa catturare, il suo Spirito soffia dove vuole: tra noi, come tra quelli che sono stranieri rispetto a noi. Rispetto a noi, ma non rispetto a Dio, perché in Dio non ci sono stranieri, c’è solo una comunità di esseri umani tutti ugualmente peccatori e tutti ugualmente perdonati, come ricorda Paolo nel versetto della lettera ai Romani che abbiamo ascoltato. Accogliamo dunque Dio nello straniero che è tra noi, accogliamo ciò che Dio vuol dirci attraverso lo straniero che è tra noi; perché può darsi che lo straniero sia portatore di una benedizione per noi, come Balaam lo fu per Israele. E può darsi che Dio voglia fare di noi, a nostra volta, degli strumenti per la benedizione dello straniero. Ma che cosa significa essere, come Balaam, portatori di una benedizione? Significa ravvisare in questo la nostra ragion d’essere, il senso della nostra esistenza. Quello che Balaam è per Israele, Israele lo è per il mondo: una benedizione. E questo devono essere per il mondo i cristiani. Gente che pronuncia una benedizione, ma che prima ancora è una benedizione, come Gesù lo è stato per la sua generazione e tutte le altre in seguito. Essere una benedizione per chi ci sta accanto: esistiamo per questo. Siamo chiamati a esserlo noi per gli stranieri che vivono con noi: sia che questi stranieri siano cristiani come noi, della nostra o di un’altra confessione; sia che seguano altre fedi religiose; sia che non si riconoscano in alcuna fede. Perché non è un’etichetta religiosa che può impedire a Dio di servirsi di chiunque come strumento del proprio amore. E possono esserlo, una benedizione, gli stranieri nei nostri confronti: tutti gli stranieri, qualsiasi straniero. Possiamo dunque chiedere allo straniero: “Sii una benedizione per il paese che ti ospita”. E dobbiamo chiedere a noi stessi di essere noi una benedizione per gli stranieri che ospitiamo.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante