Sermone: Servizio

Stiamo riflettendo in questo mese sui mandati ricevuti dalla chiesa. L’altra settimana abbiamo parlato dell’adorazione. Siamo partiti dalla domanda che pone uno scriba a Gesù chiedendo: «Qual è il più importante di tutti i comandamenti?»  E poi la risposta di Gesù:

«Il primo è: “Ascolta, Israele: Il Signore, nostro Dio, è l’unico Signore:  30 Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua”.  31 Il secondo è questo: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è nessun altro comandamento maggiore di questi». (Marco 12,28-31)

L’amore per Dio ha il primo posto, ma ciò che segue è altrettanto importante, cioè l’amore verso il prossimo e verso se stessi. – Forse qualcuno di voi, conoscendomi, sa che spesso sottolineo che non dobbiamo pensare che noi, come singole persone, saremmo il centro dell’universo. Esistono già troppe persone in questo mondo che amano soprattutto se stesse. Per questo è strano che oggi vi dica che nella Bibbia sta scritto anche Ama … te stesso.

Che cosa vuol dire amare se stesso in senso biblico? Non può essere inteso come un mettersi al centro e tutti gli altri ruotano intorno; non può essere inteso come un guardare solo più a se stessi con i propri interessi e idee. Questo non è amore, anzi è peccato, è distacco da Dio perché in un sistema del genere non c’è più spazio per Dio.

Quando Gesù ci esorta ad amarci, lui vorrebbe che fossimo in grado di guardare a noi stessi con gli occhi amorevoli di Dio. Ci sono varie cose che non mi piacciono quando guardo a me stessa. E noi evangelici siamo abituati ad un’introspezione molto profonda nella confessione di peccato. Per questo in qualche modo conosciamo i nostri lati oscuri, sappiamo bene in quale trappola cadiamo sempre di nuovo, sappiamo di non essere degni di fronte a Dio.

Quando si tratta degli altri è più facile chiudere gli occhi. Agli altri concediamo degli errori che a noi stessi non permettiamo. – Con i mei figli sto sempre ancora cercando di far passare l’idea che quando si incontra qualcuno si dice un bel ‘Buongiorno’. Questo è quello che pretendo dai miei. Dagli altri accetto anche un semplice ‘Ciao’ o un cenno di saluto muto. Può essere però imbarazzante quando i miei figli dicono a voce alta: Guarda mamma che maleducato non ci ha salutato come si deve! – Non è facile spiegare perché pretendo una cosa da loro e dagli altri, invece, può andare bene anche diversamente.

Ciò che voglio dirvi è che talvolta è più facile per noi amare gli altri che non noi stessi. Io non voglio essere debole, non voglio fallire o essere dipendente da altri. Talvolta è molto più facile dare ad altre presone che non ricevere. Ma proprio a questo Dio ci invita. Lui vuole offrirci il suo amore e ci chiede di comportarci verso noi stessi in modo amorevole.

Perché solo se possiamo amare noi stessi siamo in grado di compiere ciò che Dio ci chiede, cioè il servizio con e per gli altri, il servizio in questo mondo.

Non è un tema nuovo, già generazioni di credenti si sono chiesti che cosa Dio si aspetti da noi, che cosa vuol dire servizio in questo mondo. Così è già stato chiesto Gesù: chi è il mio prossimo?

Che cosa risponderemmo noi? Chi è il nostro, il mio prossimo? È forse la persona che sta seduta a sinistra o destra rispetto a voi? O sono i membri della propria famiglia o anche il gruppo di amici? Chi è quel prossimo che sarebbe da amare?

Gesù risponde a questa domanda con una parabola. Leggo dal vangelo di Luca nel 10 capitolo a partire dal versetto 30

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.  31 Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada; e lo vide, ma passò oltre dal lato opposto.  32 Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto.  33 Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe pietà;  34 avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, versandovi sopra olio e vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui.  35 Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: “Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno”.  36 Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?»  37 Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia». Gesù gli disse: «Va’, e fa’anche tu la stessa cosa».

Il racconto del buon samaritano è una di quelle storie che guardiamo solo da lontano e pensiamo di sapere già tutto. Non avrei neanche dovuto finire il racconto. Inizio con le prime parole e già uno sa come andrà a finire: amore per il prossimo, diaconia, carità, rispetto davanti agli estranei, accoglienza, qualche parola contro quei credenti che si accontentano di vivere la loro fede come quel sacerdote e levita. Tutto questo lo sappiamo e in teoria potrei dire ‘Amen’ e proseguiamo con l’aperitivo, perché amiamo già il nostro prossimo, facciamo diaconia e comunque non abbiamo dei pregiudizi nei confronti degli stranieri, profughi, musulmani, omosessuali e chi sa chi altro. – Quando parliamo dell’amore per il prossimo, sembra tutto chiaro – in teoria – però cerchiamo di non farlo diventare troppo pratico, perché sappiamo che poi può diventare impegnativo.

In quella parabola di Gesù ci sono due persone che s’incontrano. Uno ha bisogno di aiuto e l’altro si occupa di lui. Lo vide …, fasciò le sue piaghe, … poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. Questi due non si erano mai visti prima. Sono totalmente estranei ma in quel giorno diventano vicini. Uno fa cadere la distanza, vede e agisce. Questo è tutto. È così semplice, naturale e proprio così dev’essere. E SE è così, è buono, anzi molto buono. Però non è sempre così semplice. Abbiamo sentito qualcosa della cruda realtà nella lettura dell’Antico Testamento. Sono forse il guardiano di mio fratello? (Genesi 4,9) – Cosa ho a che fare con quello? – Anche di questo racconta la storia del Samaritano. Racconta degli altri due, del sacerdote e del levita che avrebbero anche potuto realizzare quell’incontro – ma ne perdono la possibilità. Anche loro vedono. Vedono la stessa scena dell’altro ma mantengono la distanza. L’altro rimane solo, non si costruisce la vicinanza. Loro passano, non trovano la via verso l’altro. Il sacerdote, il levita e tutti gli altri che prendono questa strada perdono la possibilità dell’incontro, perdono ciò che c’è da guadagnare lì.

Di solito pensiamo che sia il samaritano che offre: il suo tempo e denaro e non sa nemmeno se riceverà un ringraziamento per tutto ciò. Però Gesù ci dice: è lui che vince, che guadagna in questo incontro. Gesù racconta questa parabola solo perché uno scriba gli chiede: Maestro, che devo fare per ereditar la vita eterna? (Luca 10,25) Chi pone questa domanda, cerca qualcosa. Quello scriba non vuole perdere l’essenziale nella vita, vuole trovare la giusta via, la via verso la vita eterna. E Gesù gli risponde con quel racconto quotidiano e crudele. Una storia di una vittima e dei carnefici come la potremmo sentire ogni giorno al tg. Su una strada provinciale nel deserto giudaico c’è da trovare questa vita eterna. Potremmo dire anche su Corso Milano si decide se uno trova questa via o no. La domanda importante è: con chi si riesce a stabilire un rapporto? Per questo Gesù capovolge la domanda. Lui non chiede chi sarebbe il prossimo al quale si deve offrire aiuto, bensì: chi è stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni? Chi è diventato prossimo perché ha visto e agito? Il sacerdote e il levita non sono diventati prossimi. Questo è il loro grande problema. Loro non trovano la via verso la vita.

Di per sé la storia del samaritano non è un manuale che ci dice come realizzare l’amore giusto verso il prossimo. Ciò che fa quell’uomo è assolutamente ovvio e naturale. Non è niente di straordinario. È il comportamento più ovvio e ciononostante non è sempre così ovvio per noi fare ciò che è evidente. Anche per il sacerdote e il levita sarebbe stato naturale aiutare, ma non l’hanno fatto. Noi possiamo semplicemente constatare che solo il samaritano ha aperto il suo cuore ed è diventato prossimo.

Per noi è uguale. Se riusciamo ad essere prossimi a qualcuno non è niente di speciale. Succede senza scopo, è un semplice incontro. – Se noi oggi chiedessimo al samaritano come mai ha agito così, forse alzerebbe le spalle e direbbe: ma era normale.

È comunque ci sembra talmente anormale che abbiamo l’impressione che Gesú metta tutto sotto sopra quando dice: non trovi la salvezza, la vita eterna nel tempio a Gerusalemme o nelle chiese belle e protette, ma sulle strade di questo mondo. La vita eterna si trova in contatto con altre persone, diventando prossimo.

Anche noi siamo in viaggio sulle strade di questo mondo. Da Padova a Vicenza, a Venezia, a Roma o ancora più lontano. Talvolta siamo noi che rimaniamo feriti lungo la strada, talvolta abbiamo noi bisogno di qualcuno che ci viene incontro. Talvolta ci comportiamo come il sacerdote e il levita. Siamo troppo presi da noi stessi e delle nostre faccende per essere aperti a qualcun altro. Talvolta possiamo anche essere come quel samaritano. Spero che sia così, perché ci sono tante persone in questo mondo che hanno bisogno di uno che diventa per loro il prossimo. E lo spero per noi, che riusciamo ad avvicinarci alle persone perché solo così si trova la strada giusta verso una vita come Dio se l’è immaginata.

Maestro, che devo fare per ereditar la vita eterna?» Gesù dice: Va’, e fa’anche tu la stessa cosa.

È una risposta semplice come in teoria sarebbe semplice e naturale essere prossimo. Ci auguro che Dio ci aiuti ad essere prossimi quando ne abbiamo la possibilità.

Amen

Ulrike Jourdan