Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 28 APRILE 2013 (Mt 11:25-30; Col 2:6-7; Is 12:1-6 testo di predicazione)

 

Dio è la mia salvezza, io avrò fiducia e non avrò paura

Dio la mia forza

Un’esplosione di gioia incontenibile: non saprei definirli in altro modo, i versetti di Isaia che il lezionario ci propone per oggi, quinta domenica di Pasqua. Non a caso questa domenica ha il nome latino di Cantate e ci invita appunto a cantare al Signore, sulla scorta del salmo 98: “Cantate al Signore un cantico nuovo, perch’egli ha operato prodigi” (Sal 98: 1). E questo passo di Isaia assomiglia a un salmo, ha la struttura, la cadenza di un salmo. Come un piccolo salmo incastonato nel libro profetico; un piccolo salmo nel quale il popolo di Israele inneggia al suo Signore perché ne ha sperimentato la presenza, l’azione potente nella sua vita e nella sua storia. Ascoltiamo: è tutto un susseguirsi vertiginoso di espressioni che parlano di una ritrovata sicurezza che ormai non potrà più venire meno: “tu mi hai consolato / Dio è la mia salvezza / io avrò fiducia / non avrò paura / il Signore è la mia forza / è stato la mia salvezza. Questa sicurezza, divenuta ormai salda fiducia, viene riconosciuta come dono del Signore e genera una gioia riconoscente (“attingerete con gioia l’acqua dalle fonti della salvezza”) che non può avere altro sbocco che la lode (“io ti lodo / lodate il Signore”), una lode che può trovare piena espressione solo nel canto (“salmeggiate al Signore / grida, esulta”). Il cuore di questo passo – almeno secondo la mia sensibilità – lo riconosco nel v. 2b: “il Signore è la mia forza e il mio cantico; egli è stato la mia salvezza”. Riprende si può dire alla lettera, questo versetto, un altro versetto della Bibbia ebraica, un versetto che fa parte del cantico innalzato al Signore da Mosè e dai figli di Israele dopo il passaggio del Mar Rosso: “Il Signore è la mia forza e l’oggetto del mio cantico; egli è stato la mia salvezza” (Es 15: 2a). Questo, perché in Isaia il ritorno dall’esilio è visto come un nuovo esodo, una nuova esperienza di liberazione. Per lodare degnamente un tale Dio, l’essere umano non può trovare parole adeguate: e infatti il vero cantico a Dio è Dio stesso, quel Dio che è insieme forza e cantico del suo popolo, che è, ad un tempo, la salvezza di Israele e la sola risposta di lode che Israele gli può innalzare, la sola risposta adeguata a tale salvezza, con la  proclamazione del suo Nome. “Il Signore è la mia forza e il mio cantico; egli è stato la mia salvezza”. In queste parole così semplici eppure così incisive, così radicali, è racchiusa una delle più belle professioni di fede che un cristiano possa pronunciare. È questa la risposta che noi cristiani dovremmo dare a chiunque ci chiedesse “chi è il tuo Dio? Cosa intendi quando parli del tuo Dio?”. “Il Signore è la mia forza”. Questo significa: il mio punto di appoggio, il mio punto di riferimento, il fondamento sicuro sul quale posso costruire la mia vita, e che al tempo stesso è l’unico capace di dare un senso alla mia vita, è il Signore, il Signore con la S maiuscola, Colui che gli ebrei indicano con il Nome che non si può pronunciare e che i cristiani riconoscono come il Padre di colui che l’ha rivelato, Gesù Cristo. Questo Signore è la mia forza: l’unico Signore, non uno dei tanti piccoli signori effimeri e inconsistenti che si affollano intorno a noi offrendoci falsi punti di forza e false sicurezze, piccoli signori che hanno nomi come successo, carriera, prestigio, ricchezza. Solo questo Signore, dunque, merita il nostro canto di lode; anzi, è lui stesso un canto. Ma adesso, sorelle e fratelli, secondo il mio solito vi invito a guardare sinceramente nell’intimo di voi stessi, nel vostro cuore, per usare il linguaggio della Scrittura. E io a mia volta guardo nel mio cuore. E quello che vedo contrasta radicalmente con quanto ho detto finora. Chi di noi si sente di definire Dio come di Colui che è sua forza e suo cantico – anzi, non di “definirlo”, questo è un verbo molto freddo; di inneggiare a Dio, di salmeggiare a Dio, proprio perché riconosce in Lui la propria forza? Dio, noi, lo lodiamo quando la liturgia ce lo impone. E quanto alla nostra forza, noi non abbiamo l’abitudine di cercarla in Dio. La cerchiamo nelle realtà più svariate, ma non in Dio. Ed è nelle realtà più svariate che riponiamo la nostra fiducia, che cerchiamo una fonte di energia spirituale e di coraggio; non in Dio. In fondo – ma nemmeno tanto in fondo – nei confronti di Dio l’atteggiamento prevalente da parte nostra è l’esatto contrario del gioioso, riconoscente abbandono descritto nei versetti di Isaia. In Dio, noi non abbiamo fiducia; piuttosto, anzi, diffidiamo di Lui. È profondamente radicata in noi la tendenza a percepire Dio come un personaggio potente ma capriccioso, il cui preciso dovere sarebbe quello di venire incontro alle nostre esigenze ma che non sempre è disposto a farlo, anzi troppo spesso ci delude. Infatti, un ritornello che ricorre anche sulla bocca di tanti cosiddetti credenti è “ma Dio, in fin dei conti, che cosa ha mai fatto per me?”. “Che cosa ha mai fatto Dio per me?”. Ecco, il punto è tutto qui. Torniamo a Isaia, e leggiamo ciò che segue a “il Signore è la mia forza e il mio cantico”: “egli è stato la mia salvezza”. Potremmo aspettarci, dopo “è la mia forza e il mio cantico”, un altro verbo al presente: “egli è la mia salvezza”. Invece no: il libro profetico dice “è stato”. Perché? Perché qui a parlare è un israelita che si identifica in pieno con le sorti del proprio popolo, o è addirittura il popolo stesso, l’intera collettività di Israele; e Israele, lo sappiamo, vive di memoria, pratica costantemente l’esercizio della memoria, sente la continua necessità di riandare a ciò che le passate generazioni hanno vissuto, e di cui appunto c’è memoria, per riconoscervi le tracce, le impronte dell’azione di salvezza del Signore, un’azione di salvezza alla quale non si può rispondere se non con una lode senza fine. Credo che noi cristiani abbiamo molto da imparare al riguardo. Credo sia necessario, urgente per noi apprendere questo esercizio della memoria, farlo diventare per noi un modo di essere, il nostro modo di rapportarci alla nostra vita e a quel Dio che è il Signore della nostra vita. Nel linguaggio corrente capita di sentir usare l’espressione “storia sacra” in riferimento alla storia del popolo di Israele così come ci viene narrata nella Bibbia ebraica; ebbene, perché non adottare questa espressione anche per definire la nostra storia, la storia di ciascuno di noi? Quando impareremo una buona volta a riconoscere che ogni storia umana – e per “storia” intendo anche e soprattutto le vicende individuali di ciascuno di noi – è storia sacra, perché sempre in qualche modo segnata dalla presenza e dall’intervento del Signore? Quando impareremo a capire che, davvero, non solo per l’antico popolo di Israele, ma anche per ciascuno di noi il Signore è stato la salvezza? Direte: ma come possiamo? La nostra storia personale non registra eventi straordinari. Non è mai stata segnata da spettacolari interventi del Signore. La nostra è una vita ordinaria, semplice, banale; insulsa, potremmo forse essere tentati di aggiungere. E questo la dice lunga su di noi. Perché se abbiamo una vita insulsa, vuol dire che abbiamo un Dio insulso. Un Dio che ci siamo costruiti a nostra immagine; quindi, un Dio insignificante, inconcludente, magari anche un po’ pasticcione. Un Dio nel quale possiamo, al più, riporre una tiepida speranza di salvezza personale nell’aldilà (qualunque cosa poi intendiamo con questa espressione). Ma che non riusciamo a riconoscere come Colui che nel nostro passato è stato fattore di salvezza, è stato la salvezza. E quando mai lo sarebbe stato? Credo che ciascuno di noi abbia la sua collezione privata di delusioni, di fallimenti, di lutti, di abbandoni, di malattie dalle quali Dio non lo ha salvato. In questo settore, l’operazione memoria funziona sempre benissimo: abbiamo registrato tutto, e tutto viene conservato nel nostro archivio mentale. Perché sono queste, e queste soltanto, le situazioni dolorose, pericolose, comunque sgradevoli dalle quali ci saremmo attesi salvezza e liberazione. Per il resto – non siamo mai stati salvati dalla schiavitù attraverso le acque di un mare, né siamo mai stati ricondotti in patria dopo un lungo esilio in terra straniera. Non che ci risulti, quanto meno. Eccolo qui il nostro problema: non sappiamo riconoscerci come schiavi liberati, né come esuli rimpatriati. E questo avviene perché l’esercizio di memoria di cui siamo capaci è un esercizio molto grossolano, che tiene fedelmente nota di tutti i fatti più esteriori, in fondo i più superficiali, e non sa scavare nelle pieghe più profonde della nostra esistenza. Siamo incapaci, in altre parole, di leggere i tanti segni che Dio ha lasciato di sé lungo la nostra strada perché in realtà siamo ciechi, incapaci di vedere, di vedere ciò che effettivamente Dio ha operato e continua a operare nella nostra vita. E questa cecità è dovuta a null’altro che a insufficienza di fede. Ecco perché ci riesce così difficile seguire quelle semplicissime indicazioni di cammino cristiano che ci vengono offerte dalla lettera ai Colossesi: un cammino che culmina nel ringraziamento, che “abbonda nel ringraziamento”, nello stesso spirito di lode riconoscente che anima i versetti di Isaia e che, nel vangelo di Matteo, muove Gesù a lodare il Padre. Una lode, notiamo, che fa seguito a un insuccesso pastorale di Gesù in tre cittadine di Galilea, che all’inizio sembravano interessate alla sua predicazione. Lodare Dio per un insuccesso? Uno di noi, al più, pregherebbe dicendo “Signore, dammi la forza di non avvilirmi per questo fallimento”. Ma Gesù è dotato di una capacità di discernimento profonda, che gli consente di riconoscere l’azione del Padre anche là dove noi non riusciremmo a vederla. Quante volte una sconfitta si è risolta per noi, forse quasi inavvertitamente, in un nuovo progetto di vita? Quante volte la mano del Signore è silenziosamente intervenuta a tirarci fuori da un nostro personale Egitto, a farci ritornare da un nostro personale esilio? Impariamo, dunque, ad affinare il nostro sguardo interiore e la nostra memoria, e a riconoscere quei momenti in cui il Signore è stato la nostra salvezza. Ma riusciremo a farlo soltanto se sapremo diventare come quei “piccoli” di cui parla Gesù: là dove “piccoli” non sta certo a indicare “sempliciotti”, e nemmeno “ostentatamente umili”, bensì persone che in Dio e in Dio soltanto trovano la loro forza e la loro ragione di vivere e di sperare.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

 


 

 

Eventi: PROSEGUONO I NOSTRI STUDI BIBLICI

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Avete sempre desiderato leggere e studiare la Bibbia con la guida di un esperto e all’interno di un gruppo che vi sostenga?

Avete tentato di farlo da soli e sentite che vi manca qualcosa?

Avete avuto esperienze negative in passato?

Nessun problema! Da noi, tutto quello che avete sempre voluto chiedere sulla Sacra Bibbia e non avete mai osato chiedere!

La nostra Chiesa organizza, da un bel po’ di tempo e (a Dio piacendo) continua e continuerà a farlo, i seguenti Studi Biblici:

– Studio Biblico Interconfessionale: con la collaborazione di Mons. G. Brusegan, responsabile per l’Ecumenismo della Diocesi di Padova, questo momento di studio è aperto a tutti i fratelli cristiani, siano essi Cattolici, Ortodossi o Protestanti di altre denominazioni. E, naturalmente, anche a chi non ha ancora incontrato il Risorto lungo il suo personale cammino;

– Studio Biblico della Comunità: non fatevi ingannare dal nome, siamo aperti a chiunque. Avvisiamo però che il metodo interpretativo è quello storico-critico.

I prossimi incontri sono quindi:

– Venerdì 27 Aprile alle ore 17.00 presso la famiglia *** in pieno Centro Storico a Padova. Tema: la Lettera ai Galati dell’Apostolo Paolo;

– Venerdì 3 Maggio alle ore 21.00 presso i locali sociali (sopra la nostra sala di culto) in Corso Milano 6 (naturalmente a Padova).

Per partecipare, vi chiediamo cortesemente di contattare la nostra Pastora ai seguenti recapiti:

cgriffante@chiesavaldese.org

Telefono    049.650718

Cellulare    347.1720957

http://www.facebook.com/caterina.griffante

https://twitter.com/MetodistiaPadova

Se invece desiderate un contatto personale (one to one) ricordiamo anche che la nostra Pastora è sempre disponibile e felice di incontrarvi (naturalmente contattatela!).

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 20 APRILE 2013 (Gv 3:19; Ap 21:1-2, 22-26; Gn 1:1-5 testo di predicazione)

IN PRINCIPIO

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 Quello che il lezionario ci propone oggi. è un testo vertiginoso, un testo che ci fa affacciare su un abisso: è il bereshit, il racconto di come tutto ebbe inizio. Come avvenne l’inizio? Con la creazione del cielo e della terra, ci dice il primo versetto; ma in realtà il vero inizio ha origine con l’affermazione della volontà di Dio di mettere ordine nel caos, di dare un’armonia, un senso, uno scopo a ciò che nel primo momento della creazione si presentava come massa informe e vuota, come voragine tenebrosa, come qualcosa, di inerte, oscuro, confuso, qualcosa che certamente non presentava nulla di amabile, nulla di gioioso e quindi che ben difficilmente si sarebbe potuto definire “creatura di Dio”. Questi “cieli” e questa “terra” non erano tali da rallegrare il cuore di Dio: al punto che sarei quasi tentata di leggere un’inquietudine, un’insoddisfazione in quell’aleggiare dello Spirito di Dio “sulla superficie delle acque”. Come se Dio fosse un bravo artigiano che si aggira nel suo laboratorio non appagato da quanto ha fin allora prodotto. Ed ecco, allora, venire al mondo la vera prima creatura di Dio: la luce. Si tratta di una creatura uscita dalla voce di Dio, prodotta dal dabar, la Parola di Dio che, come sappiamo, nel linguaggio biblico è parola-azione, parola produttrice di effetti concreti, parola creatrice; e qui la vediamo appunto come la Parola creatrice per eccellenza, la Parola che viene pronunciata “nel principio” e dalla quale scaturisce l’intera attività creatrice di Dio. A cominciare, appunto, dalla luce.

Questa prima creatura, la luce, è una luce primordiale, perché creata prima del sole, della luna e delle stelle che scandiscono il tempo e le stagioni; ma il suo compito essenziale è quello di mettere ordine nel caos contrastando la notte, bucando l’assoluto di quelle tenebre che “coprivano la faccia dell’abisso”. Le tenebre sono negatività totale, e si prestano a scopi negativi come nascondere l’esistente, o confondere i contorni della realtà rendendola indecifrabile. La luce, invece, Dio vide che “era buona”, “buona” e anche “bella”, perché questo è il duplice significato dell’aggettivo ebraico tov; mentre le tenebre non sono né buone né belle. La luce è qualcosa di cui Dio può compiacersi, appunto come l’artista che è riuscito a dar forma a un’opera esattamente come l’aveva ideata. E, come la luce, tov appariranno via via agli occhi di Dio tutte le sue successive creature: il cielo, la terra, i mari, la vegetazione, il sole, la luna, le stelle, gli animali dell’acqua, dell’aria e della terra. Addirittura “molto tov” apparirà a Dio l’assetto finale da lui dato alla terra, una terra affidata all’ultima in ordine di tempo delle creature, l’essere umano. Dio contempla la propria creazione, e quello che vede gli dà un’immensa gioia: “vide tutto quello che aveva fatto: ecco, era molto buono” (Gn 1: 31a). Sembra quasi di vederlo ridere e battere le mani, e prepararsi a giocare tra le onde con il Leviatano, il mostro marino che – come dice il salmo 104 – Dio ha creato non per qualche scopo utilitaristico, ma proprio “perché si diverta” nel mare (Sal 104: 26).

Ma le tenebre non sono sconfitte con la creazione della luce. Sono soltanto “separate” dalla luce. La luce è cosa buona, ma il suo rincorrersi e avvicendarsi con la notte, segnando l’inizio del tempo (“Fu sera, poi fu mattina: primo giorno”) segna anche l’inizio del difficile rapporto di Dio con il suo creato. Certo, al caos primordiale è subentrato l’ordine, e un alternarsi ordinato è appunto quello tra giorno e notte, tra luce e tenebre; ma questo alternarsi conserva sempre qualcosa della competizione, della lotta. La luce è ben lontana dall’aver vinto; al contrario, spesso appare sempre più debole, più fioca, incapace di affermarsi, mentre altrettanto spesso le tenebre appaiono sempre più vicine e più agguerrite, minacciosamente pronte a ingoiare la creazione e a riportarla al caos dal quale Dio l’ha fatta emergere – starei per dire, l’ha fatta faticosamente e amorosamente emergere, questa creazione, con quei suoi sei giorni di lavoro che parlano di cura delicata e meticolosa, di infinita attenzione, di rispetto, anche, per quella molteplicità e varietà di vite con le quali ha voluto animare il mondo perché sia più buono e più bello, più vario e più ricco.

Eppure l’essere umano, questo coronamento della creazione, fatica a entrare in sintonia con tanta bellezza, tanta bontà, tanta ricchezza; fatica a riconoscersi parte di questo meraviglioso creato sul quale splende la luce di Dio – luce che significa amore, grazia, libertà. Lo riconosce amaramente Gesù, nel vangelo di Giovanni, allorché afferma: “la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce”. “Gli uomini hanno preferito”. Si è trattato dunque di una libera scelta. Al male si potrebbe resistere, se si volesse. È una volontà precisa, non una legge ineluttabile, che inclina l’umanità al male. Gli esseri umani avrebbero potuto una volta, se avessero voluto, accogliere la luce che “splende nelle tenebre”, “la vera luce che illumina ogni uomo” (Gv 1: 5, 9a). Ma “hanno preferito” le tenebre, “hanno preferito” non accogliere la luce. E si sono orientati verso questa scelta fin dall’inizio della storia umana. È la scelta che noi siamo soliti indicare, in mancanza di meglio, con la formula “peccato originale”.

Se solo ci guardiamo intorno, non avremo difficoltà a riconoscere quanto sia vero che gli esseri umani preferiscono le tenebre. Nel mondo, è il male che sembra aver ottenuto una vittoria schiacciante, che sembra prevalere intorno a noi e dentro di noi, nel nostro cuore invidioso, avido e ostile, nelle nostre relazioni opache quando non violente, nei fallimenti in cui anneghiamo la giustizia e la pacificazione, la fratellanza e la liberazione. Ma perché questo? Perché, da sempre, gli esseri umani “hanno preferito” – e continuano a preferire – le tenebre invece che la luce? Gesù dice a Nicodemo: “gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage”. Può darsi che con queste parole Gesù voglia indicare nelle “opere malvage” la causa, l’ostacolo che induce gli esseri umani a preferire le tenebre: un radicato abito mentale, l’assuefazione alle “opere malvage”, impedisce loro di scegliere la luce. Come pure può darsi che Gesù intenda dire: gli esseri umani preferiscono le tenebre perché queste si addicono ai loro obiettivi malvagi, perché lì, nelle tenebre, è facile per loro occultare l’incapacità di comprendere, le pigrizie del cuore, il desiderio di non cambiare. La luce fa paura perché smaschera la realtà, scopre i contorni delle cose, e anche le luci e le ombre dell’animo umano, dove le ombre – lo sappiamo bene – sono sempre più delle luci.

Il significato dell’osservazione di Gesù, comunque, è evidente: la fede nella luce richiede un gesto solo, ma quello costa la fatica di credere che vi sia speranza e che vi sarà salvezza. E a questa fatica, quale che ne sia la ragione, gli esseri umani sono da sempre refrattari. E questa refrattarietà è tutt’uno con il giudizio. Non è che gli esseri umani divengano oggetto di giudizio perché hanno preferito le tenebre alla luce; no, è il fatto in sé di preferire le tenebre alla luce che costituisce il giudizio. Gesù lo afferma esplicitamente: “il giudizio è questo”. La scelta di affidarsi alle tenebre piuttosto che alla luce giudica l’essere umano: il che vuol dire, lo rivela per ciò che veramente è. In questa prospettiva, tutti noi, nessuno escluso, siamo oggetto di un giudizio al quale non possiamo sfuggire. Perché tutti siamo orientati verso le tenebre piuttosto che verso la luce. Questo non vuol dire che siamo sempre e in ogni caso “malvagi”. Può significare, più semplicemente, che il nostro sguardo è offuscato, che siamo incapaci di discernere, cioè di distinguere, di separare: di separare la luce dalle tenebre, cioè di riprodurre l’atto compiuto da Dio quando “nel principio […] separò la luce dalle tenebre”. Per noi, non sempre le distinzioni sono così chiare, non sempre i confini fra i due ambiti opposti sono così netti. Tante volte ci capita di scambiare le tenebre per luce, e la luce per tenebre. Anche questa mancanza di una nitida visuale fa parte della condizione umana.

Ma allora, se questa è la condizione umana, che cosa possiamo fare – che cosa pretende Dio da noi, poveri esseri umani? In fin dei conti, non è la Scrittura stessa, là dove l’autore dell’Apocalisse tenta di descrivere la sua visione della nuova Gerusalemme, a rivelarci che solo alla fine dei tempi potrà realizzarsi quella condizione ideale in cui “la notte non vi sarà più”, e nemmeno ci sarà più bisogno delle “due grandi luci” create da Dio “nel principio”, il sole e la luna, perché ci sarà un’unica luce, quella emanata dall’Agnello? Ciò significa che fino a quel momento non cesserà la lotta tra tenebre e luce, e che in questa lotta l’essere umano continuerà a schierarsi dalla parte sbagliata: perché questo comporta la sua natura, una natura, per usare ancora una volta il linguaggio tradizionale, rovinosamente “decaduta”. Dunque, in questo tempo intermedio, davvero noi esseri umani non possiamo far nulla per sfuggire al giudizio, per liberarci da questa congenita attrazione verso le tenebre?

Qualcosa, credo, possiamo fare. Possiamo esercitarci, innanzitutto, ad affinare la nostra capacità di discernimento cercando di sottrarci a ciò che è opinione corrente, cercando di problematizzare ciò che appare ovvio. Possiamo provare a “separare la luce dalle tenebre” chiudendo gli occhi alle tante luci che sfolgorano invitanti tutto intorno a noi, e che altro non sono che tenebre travestite da luci. E possiamo tentare di creare dentro di noi il silenzio, per fare spazio all’unica Parola degna di questo nome, quella di Gesù. Allora, forse, questa Parola non andrà a vuoto. Il vangelo di Giovanni non ci riferisce che cosa sia avvenuto nell’animo di Nicodemo dopo il suo colloquio con Gesù; ma noi lo ritroveremo, Nicodemo, durante la festa delle Capanne, a cercare di difendere Gesù dai suoi accusatori (Gv 7: 50-51) e poi, ancora, dopo la crocifissione, a prendersi cura del corpo di Gesù (Gv 19: 39-42). Lo troviamo insomma, Nicodemo, dalla parte giusta. Una scintilla della vera luce lo aveva toccato, e gli stava insegnando a separare la luce dalle tenebre. Era la “nuova nascita” di cui gli aveva parlato Gesù. Una “nuova nascita” possibile anche per noi se saremo, come Nicodemo, desiderosi della luce e pronti a ricevere a quella Parola che crea la luce. Amen.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Eventi: PARLIAMO DI LAICITA’: GIOVEDI’ 18 APRILE CON LORENZA CARLASSARE

PARLIAMO DI LAICITÀ

La Chiesa Evangelica Metodista di Padova, in collaborazione con la libreria IBS, da febbraio a maggio, presenta una serie di volumi sulla laicità dello Stato. I metodisti di Padova, proprio per il fatto di essere una chiesa cristiana, dicono:

SI’ alla libertà di ricerca

SI’ al testamento biologico

SI’ alla libertà di religione, di pensiero e coscienza

SI’ alla libertà nelle scelte procreative

SI’ all’autodeterminazione delle persone

NO all’omofobia

Insomma, la Chiesa Evangelica Metodista di Padova ritiene fermamente che lo Stato debba essere, necessariamente, laico. Con questa rassegna, i metodisti di Padova desiderano sensibilizzare l’opinione pubblica perché, anche a Padova, si costituisca, come in altre città italiane, Milano in primis, una “Consulta per la laicità dello Stato”.

 Prossimo appuntamento:

GIOVEDì 18 APRILE ORE 18

LIBRERIA IBS (ex MELBOOKS)
VIA MARTIRI DELLA LIBERTÀ, 1/A (angolo Piazza Insurrezione) – PADOVA

 LA PROF. SSA LORENZA CARLASSARE* presenta il
volume: Costituzione, laicità, democrazia. Torino,
Claudiana, 2010. Quaderni di laicità.

Carlassare

Per contatti ed informazioni:

Past. Caterina Griffante
Chiesa Evangelica Metodista Corso Milano, 6 35139 Padova
Tel. 049650718 – Cell. 3471720957
E-mail: cgriffante@chiesavaldese.org
http://www.facebook.com/caterina.griffante
https://twitter.com/MetodistiaPadova
 

* https://it.wikipedia.org/wiki/Lorenza_Carlassare

 

IL Sermone: REV. SOL JACOB DAL SUDAFRICA A PADOVA: PREDICAZIONE DI DOMENICA 14 APRILE 2013

Una voce metodista che viene da lontano

Domenica 14 aprile 2013 è stata, per la comunità metodista e valdese di Padova, una giornata particolare (anche se ci saremmo aspettati ben più dei 15 presenti al culto). Ci ha infatti onorati della sua presenza, il Reverendo Sol Jacob proveniente dalla Repubblica Sudafricana. Ma chi è costui? E’ un pastore della Chiesa Metodista del Sud Africa (Methodist Church of Southern Africa). Ha servito il Consiglio ecumenico delle Chiese del Sud Africa (South Africa Council of Churches) come direttore, collaborando nel peggior periodo dell’apartheid con il premio Nobel per la Pace Desmond Tutu. E’ stato incarcerato (senza che gli fosse formulata alcuna accusa) e tenuto in isolamento del carcere duro. Si è poi occupato di rifugiati anche con incarico dall’ONU.Negli ultimi anni ha ideato e organizzato un progetto per la cura e la lotta all’HIV/AIDS; sua moglie Isobel dirige la scuola materna da lui fondata nel 1976, interreligiosa e interrazziale, a Pietermaritzburg, nella Repubblica Sudafricana.

Il Rev. Jacob ha tenuto il sermone domenicale, gentilmente tradotto dalla nostra Mary Waite in collaborazione con Febe Cavazzutti Rossi.

Ecco il testo:

Mentre mi preparavo per lasciare il Sud Africa e venire in Europa sono stato raggiunto da due mail di persone amiche che mi descrivevano la pesante crisi che attraversa il vostro paese con i suoi aspetti tragici. Non ripeto qui le statistiche e i numeri che conoscete bene. Due cose mi hanno colpito particolarmente: che l’ultimo rapporto della Caritas definisce le migliaia che hanno perso il lavoro e sono i nuovi poveri come “i Ripartenti”, quelli che devono cominciare tutto da capo. Il mio amico chiudeva il suo scritto con queste parole: soprattutto manca la speranza! Secondo il calendario cristiano questi sono i giorni che seguono la resurrezione. Solo poche domeniche fa abbiamo cantato gli inni gioiosi della Pasqua. Siamo stati partecipi della gioia della resurrezione come l’hanno vissuta gli apostoli. Abbiamo provato con loro lo sgomento di fronte alla morte di Gesù e poi abbiamo ritrovato quella che è stata la loro felicità ed euforia quando hanno visto il loro Signore risorto. La lettera di Paolo agli Efesini di questa mattina è una delle più profonde ed esaltanti che siano mai state scritte. Paolo viveva giorni in cui nel mondo molte cose andavano male; tanti erano i preoccupati, i disillusi, disgustati e senza speranza: si trovavano in una situazione di disperazione (proprio come noi). Per quell’epoca oscura Paolo aveva un messaggio di buone notizie e di nuova speranza. La vita non è solo senza scopo, faticosa e priva di senso; la storia non è solo un riprodursi di cose in sé futili e prive di obiettivo. Vi è un segno che mostra qual è la finalità: il Cristo; l’elemento costituente di quel fine è Cristo che opera per mezzo della sua chiesa. Per tutto il corso della vita e della storia Dio ha sempre agito, tessendo un progetto e un fine preciso; quel fine è riassunto in una parola sola: il Cristo. Dio ci ha mostrato qual è l’adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio … attuato in Cristo Gesù nostro Signore.  Oggi ci sono milioni di persone che hanno bisogno di conoscere la felice verità della Pasqua: che la perenne presenza del Signore vivente è con noi, nelle vostre pene e nel vostro dolore; nelle nostre paure e ansietà, nelle nostre delusioni, nella vostra solitudine come nelle nostre gioie.  In situazioni di assoluta disperazione quanti di noi cercano Gesù fra i morti? Quando la vita si fa difficile e dobbiamo affrontare l’ansietà; quando tutto sembra che vada storto; quando l’economia, il governo sono in crisi e la fede crolla; quando ci sono conflitti familiari e viviamo dolorosi rapporti di parentela; quando ci troviamo di fronte a difficoltà finanziarie, alla fame, alla povertà; quando siamo in lotta con i nostri figli per i loro atteggiamenti e le loro esigenze; quando perdiamo il lavoro e affrontiamo l’incertezza del vivere; quando la morte ci toglie un nostro caro o siamo costretti a separarci dai nostri cari – non ci domandiamo forse: – dove sei Gesù? Sei morto Gesù?  Nel Vangelo secondo Luca al capitolo 24, Luca prosegue nel raccontarci che, quello stesso pomeriggio, due discepoli erano in cammino da Gerusalemme verso un villaggio chiamato Emmaus. Andando per via parlavano con tristezza di ciò che era accaduto qualche giorno prima. Avevano le spalle curve. Camminavano come se avessero una palla di piombo ai piedi. È morto! Aveva promesso di essere il Messia che ci avrebbe salvato. “Ma adesso è morto: – così, come qualsiasi altro uomo” – esclamòil discepolo più giovane. “Ebbene, è morto. Aveva detto che avrebbe portato a compimento tutto ciò che i profeti hanno detto e che sarebbe risorto il terzo giorno. Ma adesso è morto” – gli rispose il discepolo più anziano di nome Cleopa. Mentre andavano così parlando uno straniero si unì a loro e domandò perché erano così tristi. Non si accorsero che era Gesù e gli dissero: “Sei uno straniero a Gerusalemme? Non sai cos’è successo in questi giorni? Quindi gli narrarono tutto ciò che avvenuto di Gesù di Nazareth: del processo, della crocifissione e della morte. Lo straniero disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore alle parole dei profeti. Non sapevate che bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” Essi non credevano: perché non vedevano con gli occhi della fede.  Si faceva scuro quando arrivarono a Emmaus ed essi invitarono lo straniero a restare con loro. Si sedettero per mangiare ed egli ruppe il pane, lo benedisse e lo diede loro. In quel momento i loro occhi si aprirono e riconobbero Gesù. Poi Egli scomparve dalla loro vista. Allora i discepoli decisero di tornare a Gerusalemme per dire agli altri che avevano visto Gesù e che era vivente.  La storia che Luca ci racconta nel Vangelo ci dice due cose. La prima, quale fosse la capacità di Gesù di dare senso alle cose. A questi discepoli l’intera situazione pareva priva di senso. Le loro speranze e i loro sogni si erano infranti. Dicevano: credevamo che avrebbe riscattato Israele; quelle erano le parole di persone la cui speranza era ormai morta e sepolta. Allora Gesù è andato da loro, ha parlato con loro e la loro tenebra si è tramutata in luce. Luca ci racconta questa scoperta sconvolgente: i loro occhi si aprirono e lo riconobbero.  Con gli occhi della fede i due discepoli sulla via di Emmaus poterono guardare Gesù negli occhi e riconoscerlo. Quando guardate negli occhi di Gesù anche voi scoprirete il senso della vita nel mezzo della crisi economica, della povertà, della fame e del non avere una dimora, dei fallimenti della politica, delle delusioni e dello smarrimento della fede. In secondo luogo, questo racconto ci dice anche in che modo si è fatto conoscere ai discepoli: rompendo il pane. Questo non era il sacramento. Era un comune pasto in una casa comune. Luca ci dice che mentre Gesù rompeva il pane, i loro occhi si aprirono e lo riconobbero. Cosa ha fatto sì che i loro occhi lo riconoscessero? Sono state le sue mani. Avevano visto Gesù rompere il pane tante volte quando era con loro. Secondo la tradizione della chiesa antica i due discepoli erano presenti quando Gesù moltiplicò i pani per dare cibo ai cinquemila. Quando Gesù rompeva il pane nella loro dimora vedevano le sue mani e lo riconoscevano. Avevano già visto le sue mani; erano le mani che toccavano i malati, gli zoppi e i ciechi: le mani che avevano lavato i piedi dei discepoli. Le mani che avevano rotto il pane alla festa annuale della pasqua ebraica la notte prima della sua morte. Vorrei chiudere con due storie personali che mi sono state di grande aiuto nel mio pellegrinaggio spirituale.  Agli inizi degli anni ’80 quando ero direttore del Consiglio delle Chiese del Sud Africa, ho visitato una baraccopoli nella regione orientale del Capo insieme ad un operatore per una indagine sulla povertà delle condizioni di vita degli africani neri sotto l’apartheid – condizioni di povertà le più deplorevoli in tutta l’Africa. In una di queste baracche una vecchia nonna (Gogo), che viveva con tre nipotini orfani, ci disse delle loro condizioni di vita, della povertà e di come lottasse per dare da mangiare e far crescere i bambini di cui si prendeva cura. Era l’ora di pranzo. Mentre ci preparavamo a pregare per poi dirle addio, ci disse: vi prego, condividete il pasto con noi. Ci siamo accorti che aveva mezzo filone di pane nero e una brocca d’acqua indolcita con un po’ di zucchero che aveva preparato per sé e per i bambini. Ci siamo guardati ed io, cortesemente, ho rifiutato. Allora la vecchia Gogo ha insistito: “è nostro costume africano che i nostri ospiti condividano il pasto con noi!. Abbiamo accettato. Eravamo in piedi, in cerchio. Abbiamo pregato. Lei ruppe il pane e a ciascuno di noi sei ne dette un pezzetto. Per me, quello è stato “il Sacramento”. Mi sono ricordato di un nostro inno metodista che dice così: “il Pane del cielo è dato in sacramento di vita”. Cristo rotto per noi in sacramento di vita. Nel condividere la povertà e la loro ospitalità, i poveri donano a noi la speranza nella disperazione. Nel 1983 ero al lavoro in un campo di re insediamento dove venivano sistemati i neri cacciati dalle loro case e dai loro villaggi, nella regione orientale del Capo. Il regime dell’apartheid trasferiva le comunità nere dalle città e dai luoghi dei bianchi in campi di re insediamento. Venivano costruite della case di una sola stanza, con il tetto di lamiera, per accogliere una famiglia intera. Non c’erano servizi igienici, niente acqua, niente negozi, cliniche o ospedali; niente scuole o chiese: la gente pregava nel culto sotto gli alberi e sul fianco della collina; dovevano coltivarsi un po’ di cibo nel piccolissimo terreno intorno alla casa. C’erano povertà, fame e sofferenza dappertutto. Ricordo di quando ero in piedi sotto un albero e parlavo con gli uomini del campo: si lamentavano di tutto: del governo dell’apartheid, dei loro capi africani, degli uomini disoccupati; dei bambini che non volevano andare a scuola perché la scuola più vicina era a cinquanta kilometri di distanza. Ma ciò di cui si lamentavano di più era che, anche avendo un po’ di suolo, mancavano di qualsiasi strumento per coltivare o far crescere l’erba per il pascolo di una mucca per avere latte e carne. Nel mezzo di tutte queste generali lamentele, un vecchio, che aveva circa 90 anni, disse: “Perché vi lamentate? Perché siete così abbattuti? Dio ci promette la pioggia per i nostri raccolti. Ci promette il sole per far maturare il raccolto. Ci dà la vita e la forza per piantare e raccogliere. Vediamo un po’ cosa siamo capaci noi di fare, avendo Dio al nostro fianco!” Il vecchio ricordò a tutti noi che, per passare dalla disperazione alla speranza, eravamo noi stessi che dovevamo fare qualcosa per cambiare la situazione o la crisi della nostra vita. Dobbiamo agire; abbiamo bisogno di cominciare con il poco che abbiamo e quando facciamo anche quel poco, Cristo agisce con noi e le peggiori situazioni cominciano a cambiare. La missione di Gesù è proclamare la buona notizia ai poveri (Mat.11,5; Lc.4,18). E’ ai poveri che il Regno dei cieli è proclamato. Il Regno dei cieli è loro. I poveri sono i disprezzati della società. Quando Gesù dice “benedetti siete voi poveri” (Lc. 6,20) parla di povertà materiale. Sono i poveri e gli oppressi del mondo che confessano la propria povertà e che si pongono davanti a Dio come poveri. I poveri sono affamati e assetati, sono nudi, malati e incarcerati. I poveri della Bibbia sono gli indifesi, gli oppressi, gli umiliati ed emarginati. Non è la natura che li ha messi in questa condizione, sono stati ingiustamente spogliati e impoveriti dai potenti: i poveri sono quelli che soffrono qualche genere di reale oppressione. Portano il peso del disprezzo pubblico e dell’aver perso la speranza della salvezza di Dio. Gesù denuncia i ricchi a causa del loro peccato contro il Regno di Dio (Lc. 6,24; 12,16; 12,31). Gesù considera un’ingiustizia che vi siano dei poveri e dei ricchi. Denuncia la situazione sociale di ingiustizia. Egli dice: dallo ai poveri (Mat. 19,21; Mc. 10,21; Lc.18,22). Oggi Gesù viene a noi: per toccarci nelle nostre gioie e nei nostri dispiaceri, nelle nostre solitudini e nel vostro dolore; nella nostra crisi economica e politica, nella nostra disperazione e mancanza di speranza. Prendiamo la sua mano e lasciamo che egli ci sollevi dal nostro abbattimento e ci doni la speranza. Il buio e il grigiore dell’inverno sono sempre seguiti dalla nuova vita della primavera. In Europa vi sono luoghi dove si conosce il freddo più pungente, Ma nella neve ci sono fiori che lottano per mostrarci la bellezza dei colori primaverili. Grazie alla fedeltà di Dio la primavera segue sempre l’inverno. La Pasqua viene dopo il venerdì santo. La SPERANZA segue la disperazione. Noi siamo il popolo dei ripartenti, quelli che cercano una nuova occasione: cogliamola, per non essere lasciati indietro nel nostro viaggio di fede e, come cristiani, abbandoniamo la disperazione e muoviamoci verso la speranza. Così come il Cristo si protende verso di noi con amore, anche noi protendiamoci verso di lui con fede. Che i nostri occhi si aprano alla sua risorta presenza, e così sia dei poveri e sofferenti in Africa come in tutto il mondo. Accogliamo con cuore grato i beni che ci vengono dal suo amore che ci redime. AMEN

Si ringraziano Mary Waite per la “traduzione simultanea” e la nostra predicatrice locale Febe Cavazzutti Rossi per la traduzione “su carta” del sermone.

Eventi: PARLIAMO DI LAICITA’: VENERDI’ 12 APRILE ORE 18 ALLA LIBRERIA IBS (EX MELBOOKS) A PADOVA

VENERDI’ 12 APRILE – ORE 18

 

LIBRERIA IBS

 

VIA MARTIRI DELLA LIBERTA’ 1/A – PADOVA

 

DANIELE GARRONE  *

Professore di Antico Testamento

Facoltà Valdese di Teologia

 

PRESENTA

 

CHIESA E POTERE – Claudiana Editrice 2013 

Continua la collaborazione tra la Chiesa Metodista di Padova e la libreria IBS.

Iniziata a febbraio 2013, terminerà a maggio e consiste nella presentazione di una serie di volumi sulla laicità dello Stato.

La Chiesa Metodista di Padova, proprio per il fatto di essere una chiesa cristiana, con questi incontri, ribadisce con forza il suo:

– SI’ alla libertà di ricerca

– SI’ al testamento biologico

– SI’ alla libertà di religione, di pensiero e coscienza

– SI’ alla libertà nelle scelte procreative e all’autodeterminazione delle persone

– NO all’omofobia.

La Chiesa Metodista di Padova, ritiene insomma che lo Stato debba essere, necessariamente, laico.

Con questa rassegna la chiesa metodista di Padova desidera infine sensibilizzare l’opinione pubblica perché, anche a Padova, si costituisca una “Consulta per la laicità dello Stato”.

* http://it.wikipedia.org/wiki/Daniele_Garrone

Eventi: STUDIO BIBLICO DELLA COMUNITA’

Siamo lieti di informarvi che continuano gli Studi Biblici della nostra Comunità.

SABATO  13 APRILE  ALLE ORE 17 continueremo lo studio della lettera ai Galati.

Saremo ospiti di *** a Padova.

Per ogni informazione contattare la Pastora (vedi pagina contatti)

Studio Biblico

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 7 APRILE 2013 (Is 41: 8-10, 14 Lc 24: 45-48, At 1: 1-3, 8 testo di predicazione)

Sarete miei testimoni

Lo abbiamo visto domenica scorsa, domenica di Pasqua: “Pasqua” in senso cristiano significa “fare esperienza personale di Gesù come Risorto”. Un’esperienza che consiste sempre, sebbene in forme sempre nuove e varie, in un incontro e in un dialogo. Ogni esperienza di fede cristiana è basata sull’ “aver incontrato Gesù”. A confermare la realtà di questo evento fondante, costitutivo della nostra fede, che è la risurrezione, ci sono proprio queste molteplici esperienze delle quali ci è stata tramandata testimonianza. “Voi siete testimoni di queste cose”, è la parola che il Risorto rivolge ai suoi, così come viene registrata alla fine del vangelo di Luca. E sappiamo che questa testimonianza è continuata, ininterrotta, da allora fino ai giorni nostri. Una catena di incontri con il Risorto, incontri che sono avvenuti e avvengono secondo le modalità più svariate: può trattarsi di rivelazioni fulminee, traumatiche, che ti piombano tra capo e collo e ribaltano completamente le tue convinzioni, le tue abitudini, la tua scala di valori, ti sovvertono l’esistenza, come avvenne a colui che sarebbe diventato l’apostolo Paolo; può trattarsi invece di inviti insistenti ma sussurrati, di quel “bussare alla porta” tenace ma discreto di cui parla l’Apocalisse (3: 20), e in questo caso bisogna che il nostro animo sia attento e pronto a coglierli, questi segnali. Segnali di che cosa? Della volontà del Risorto di continuare a stare con noi, a camminare con noi. È una volontà ostinata, questa del Risorto; una volontà di stare con noi nonostante tutto, nonostante ciò che noi siamo: “vermiciattoli”, “povere larve”, per dirla con Isaia. Ma il nostro Dio è un Dio che, in Gesù, ha manifestato la sua determinazione a essere Dio-con-noi, a non abbandonarci mai. “Tu, non temere, perché io sono con te”, dice il Signore al suo popolo, Israele. Il Risorto è il Dio che è con noi per sempre, il Dio che non dobbiamo mai piangere credendolo lontano, credendolo assente, credendolo addirittura morto. “Perché piangi?” hanno domandato dapprima gli angeli, poi il Risorto a Maria di Magdala. Come a sottintendere: “che motivo hai di piangere? Non c’è motivo di piangere”. Nel giorno di Pasqua ha avuto inizio un tempo nuovo, un tempo nel quale non c’è più posto per le lacrime. Certo, le lacrime per noi, per tutti, ci saranno ancora, fino alla fine dei tempi; ma il cristiano sa che queste lacrime sono ormai solo una realtà penultima, perché la realtà ultima è un’altra: è la certezza che, al di là di tutte le lacrime che potremo versare, Dio sarà sempre vicino a noi nella persona del suo Figlio, e che questo Figlio è qualcuno che desidera incontrarci, e farsi incontrare da noi. E ogni incontro con il Risorto implica un mandato missionario. In Giovanni, Maria di Magdala viene incaricata di evangelizzare gli altri discepoli (“… va’ dai miei fratelli, e di’ loro…”, Gv 20: 17). In questi versetti iniziali del libro degli Atti, leggiamo che Gesù “si presentò vivente” ai discepoli, “facendosi vedere da loro”, “parlando delle cose relative al regno di Dio”, per spalancare loro, infine, gli orizzonti di una vocazione missionaria che li porterà “fino all’estremità della terra”. “Mandato missionario”: un’espressione altisonante, che un po’ forse intimidisce, un po’ forse, addirittura, infastidisce, in quanto sembra riferirsi ad ambiti di esperienza che non sono di tutti, che sembrano, anzi, riservati a una stretta e selezionata minoranza all’interno delle nostre chiese. A evangelizzare sono deputati i pastori, i predicatori locali; alcuni di questi “specialisti” potranno forse spingersi in qualche particolare occasione “fino all’estremità della terra” o giù di lì, ma il loro raggio d’azione, per lo più, è geograficamente molto limitato: vada per Gerusalemme, mettiamoci pure la Giudea e Samaria (potremmo tradurre, nel nostro caso: Padova, Venezia, qualche puntata fino a Udine a est, fino a Vicenza a ovest…), ma poi…? Poi? Non spetta a noi dirlo. Non spetta a noi valutare fino a dove possa espandersi una testimonianza. Pensiamo, sorelle e fratelli, alle nostre esperienze più personali di incontro con il Risorto. Nessuna di queste esperienze – credo di poterlo affermare senza timore di essere contraddetta – si è generata dal nulla. L’incontro non nasce mai dal nulla. Nessuno si dà la propria fede da sé. In altre parole: nessuno di noi scrive il primo capitolo. C’è un primo libro, quello che Dio ha scritto per noi in Gesù Cristo, e noi siamo il secondo. Teofilo (nome che significa “amico di Dio”, che forse designa un personaggio reale e forse, invece, è un nome fittizio, che simboleggia tutti coloro che hanno amore per Dio), Teofilo, dicevo, riceve la testimonianza della fede da Luca. Ciascuno di noi è un Teofilo che necessita di un suo Luca per arrivare alla fede, e ciascuno di noi può essere Luca per un altro Teofilo. Direi che anche l’incontro più “immediato”, quello cioè senza alcuna mediazione apparente, tra noi e il Signore, ha sempre alle spalle un altro incontro in cui la mediazione è stata decisiva. E non è detto che debba sempre trattarsi di un “addetto ai lavori”: del pastore, del monitore della scuola domenicale, che un giorno ci hanno spiegato qualcosa in un modo che ci ha coinvolti, ci ha interpellati. Può trattarsi anche di testimonianze quasi inconsapevoli: quella, per esempio, della nonna che ha scelto a guida e orientamento della sua vita un determinato versetto della Bibbia, e quel versetto lo ha fatto incorniciare, lo ha appeso a una parete dove noi fin da bambini abbiamo avuto occasione di vederlo, e abbiamo cominciato a far domande, e a farci domande. O, ancora, la testimonianza di chi, senza parlarci mai di cose di fede, si è comportato con noi in modo tale da farci sentire che aveva incontrato il Signore risorto e vivente, un Signore pieno di interesse per noi e al quale, dunque, vale la pena che anche noi ci interessiamo. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: esempi di testimonianze che partono da lontano e che possono davvero trasmettersi, di Teofilo in Teofilo, “fino all’estremità della terra”. Dunque, un punto deve essere chiaro: l’“essere testimoni” di cui si parla in questo passo degli Atti non equivale a proclamare ad alta voce e in modo pubblico le proprie convinzioni, precisando che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa bisogna credere e che cosa non bisogna credere. Guardiamo a come si comporta Gesù: raramente indica soluzioni ai problemi dei suoi interlocutori, quasi sempre sposta l’ottica, chiama a una conversione dello sguardo e del cuore. Non siamo chiamati – e inviati – a testimoniare una soluzione, un’ideologia, starei per dire un prodotto a scapito di un altro. Siamo chiamati – e inviati – a testimoniare che ciò che è accaduto a noi – dal momento che Dio è grande – non può non accadere anche a te. Dio ha benedetto la nostra vita, l’ha fatta fiorire e – che tu ci creda o no, che tu ci speri o no, che tu lo sappia o no –, poiché Dio è buono e grande, ciò che è accaduto a me, non si vede perché non dovrebbe accadere anche a te. Essere testimoni significa rimanere lì a far fiducia sulla possibilità di fioritura della vita di un altro, soprattutto quando lui stesso non ci crede più. Non è una faccenda da poco. Eppure, le cose stanno proprio così. Ce lo indica anche quell’espressione molto particolare di Luca che dice come Gesù “dopo che ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove”. Un’espressione che a me sembra bellissima. Qui la parola chiave è “vivente” e la questione è ovviamente la vita, ma è interessante in che senso è intesa questa espressione. Non si dice “vivente dopo la morte”, ma “vivente dopo che ebbe sofferto”. Luca sta dicendo che è possibile essere “vivente dopo aver sofferto”: è possibile, perché tale si mostra il Risorto dai morti prima di ascendere al cielo. Gesù, dunque, ha sofferto, è morto ed è risorto. Appare agli apostoli, e di che cosa parla loro? Del regno di Dio. Non parla di sé, di quanto ha sofferto, della propria morte, e nemmeno della risurrezione. Parla, in sostanza, della nuova creazione, del nuovo mondo che da questo momento inizia. Quello che Luca ci vuol dire è: c’è molto da fare, per i discepoli di Gesù, e si tratta di un “fare” che deve corrispondere alla vita così com’è, al mondo come dovrebbe essere secondo il regno di Dio. Gesù non parla di sé, non focalizza l’attenzione su ciò che è successo. Invita a guardare oltre. Tutto questo ci invita a riflettere sul fatto che se uno ha incontrato il Signore non è detto che si mostri molto più pio o religioso di prima. Può accadere, ma non è l’elemento decisivo. Chi ha incontrato il Signore, piuttosto, è qualcuno che riesce a essere e a mostrarsi “vivente” anche “dopo che ebbe sofferto”, o addirittura vivente dentro il proprio soffrire, durante il proprio soffrire: perché è qualcuno che ha lo sguardo fisso oltre a sé stesso, ha lo sguardo fisso al regno di Dio. E tutto questo ci suggerisce anche di considerare sotto una diversa angolatura la questione della testimonianza “fino all’estremità della terra”. Questo riferimento geografico può alludere, in realtà, a un viaggio molto più difficile e al tempo stesso semplice: la testimonianza deve raggiungere la totalità di ogni vita, nella sua effettiva lunghezza, nella sua maestosa larghezza e nella sua sconfinata profondità, confidando che può avere ogni fioritura possibile. Sì, i confini della terra stanno a indicare la necessità di testimoniare – riprendo quanto accennavo prima – la fiducia che Dio farà fiorire qualsiasi pezzo di qualsiasi vita. Quando? Non spetta a noi conoscere i tempi. Spetta a noi, piuttosto, esercitare la forza che ci è data da Dio per tenere duro, per tenere i piedi piantati nella vita in cui siamo, continuando a rispondere a quella che è la nostra vocazione terrena: lavorare, mangiare, parlare, aver cura, ascoltare, ospitare, visitare… Saldi, senza arretrare, cercando di manifestare nella nostra vita la felicità, la fioritura, la benedizione e la misericordia che sono i segni del regno di Dio. E cercando di testimoniare a tutti coloro che incontriamo che, se per noi questo è possibile, se abbiamo la forza di non arretrare e di benedire, questo accadrà a chiunque, perché Dio non fa distinzione di persone. Amen

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 31 MARZO 2013 (PASQUA DI RESURREZIONE) (Lc 24:33-34; 1 Cor 15:12-20; Gv 20: 11-18 testo di predicazione)

“Il Signore è veramente risorto

Credo sia accaduto a molti di noi di sentirsi dire da un familiare, da un amico, da un conoscente: sì, Gesù è un personaggio degno del massimo rispetto e della massima ammirazione nella sua qualità di maestro di vita; sì, il suo messaggio è un sublime insegnamento morale; ma non puoi pretendere di farmi credere che davvero sia risorto dai morti, perché “non c’è risurrezione dei morti”. Sappiamo tutti che dubbi di questo genere – dubbi che, come giustamente osserva l’apostolo Paolo, di fatto svuotano di ogni significato la nostra fede – serpeggiano anche all’interno delle comunità cristiane: accadeva ai tempi di Paolo, e accade ai giorni nostri. E allora può capitare che a questi dubbiosi e scettici interlocutori noi, con eccesso di zelo, ribattiamo che della risurrezione di Gesù esistono prove, che è un fatto dimostrabile, perchè è narrata da tutti e quattro i vangeli. In realtà, non è così. La risurrezione non è descritta in alcun testo appartenente al canone biblico, perché non ha avuto testimoni che potessero descriverla. Non avendo avuto testimoni, non è un fatto che possa essere dimostrato come storicamente avvenuto. I discepoli furono, sì, testimoni: non però della risurrezione, bensì del Risorto. Non di un fatto, ma di una serie di incontri, che li indussero ad affermare “il Signore è veramente risorto – è veramente risorto ed è apparso”. Incontri con una persona che tutti sanno essere morta e che pure ora si fa incontrare come inequivocabilmente vivente perché è una persona che si può vedere, si può toccare, è una persona che vive la quotidianità più concreta, che prende cibo. Soprattutto, i discepoli incontrano nel Gesù risorto una persona con cui si può nuovamente comunicare. A ben guardare, gli incontri dei discepoli con il Risorto, anche e innanzitutto lo straordinario incontro del quale ci parlano questi versetti di Giovanni, sono essenzialmente dei dialoghi. Se dunque la risurrezione è qualcosa che non può avere testimoni, perché accade nel silenzio, ecco che cosa invece ci viene inequivocabilmente testimoniato: che la risurrezione prende subito la parola, si comunica nella parola. Se la morte è il grande, eterno silenzio, il primo miracolo pasquale è la risurrezione della parola: la parola che risuona di nuovo, che riprende a vivere. Il silenzio introdotto dalla morte nei rapporti umani viene definitivamente infranto. Ecco il senso dell vittoria di Pasqua: essere vittoria della parola sul silenzio, sul silenzio della morte. Un primo suggerimento che può venire offerto dai racconti degli incontri con il Risorto è dunque questo: celebrare davvero la Pasqua significa riprendere i dialoghi interrotti. Nella vita di ciascuno di noi ce ne sono molti. Forse il più grande può essere proprio il dialogo con Dio. Allora, celebrare la Pasqua può significare in primo luogo riprendere o ricominciare il dialogo con Dio, un dialogo sul quale forse abbiamo steso una pietra tombale sostituendolo con la ripetizione distratta di formule stereotipate, o con letture della Bibbia che coinvolgono e stimolano la nostra mente ma non il nostro cuore, cioè la totalità della nostra persona. Ma poi anche nel piccolo, con le persone vicine, ci sono dialoghi interrotti che devono essere riaperti; e ci sono, per contro, dei silenzi mortali che devono essere rotti. Ecco: Pasqua significa rompere il silenzio e riprendere il dialogo interrotto, esattamente come è accaduto tra Gesù ed i discepoli. Si rimuove una pietra tutte le volte che si riprende un dialogo rimasto chiuso; tutte le volte che si vince l’incomunicabilità e si ricomincia a parlare, ecco che si rimuove quella pietra. Nel vangelo di Giovanni il primo di questi dialoghi pasquali è quello con Maria, una donna originaria di Magdala, una cittadina sulla costa occidentale del mare di Galilea. La tradizione ha identificato Maria di Magdala con la “peccatrice”, la donna di cattiva reputazione che, nel vangelo di Luca, silenziosamente entra in casa di Simone, si mette a piangere, bagna con le sue lacrime i piedi di Gesù e li unge con un olio preziosissimo. L’identificazione di queste due donne non ha alcun fondamento sui testi, è un equivoco; ma possiamo intuire come questo equivoco si è generato. Entrambe queste due donne piangono su Gesù; e piangono su Gesù perché hanno un forte sentimento di amore nei suoi confronti. Se Maria di Magdala corre al sepolcro prima di tutti gli altri discepoli, “la mattina presto, mentre era ancora buio”, è per poter godere ancora della presenza di quest’uomo per il quale provava un sentimento certamente ricco e complesso: gratitudine perché l’aveva guarita, devozione perché ne era diventata discepola, ma forse anche proprio l’amore che una donna sente per un uomo. Non ci sarebbe nulla di scandaloso in questo, perché non c’è nulla di scandaloso nell’amore umano. Proprio questo grande amore fa sì che Maria di Magdala voglia stare vicina a Gesù anche se lui è morto, perché la presenza, lo stare accanto, è il segno più grande e più autentico dell’amore. Ecco perché, secondo Giovanni, Maria è la prima ad arrivare al sepolcro, assolutamente la prima. Non deve stupirci questo primato che le viene attribuito, e che fa di lei in certo modo la prima tra i discepoli, la colloca in una posizione di superiorità rispetto ai maschi, a Pietro, a Giovanni; non deve stupirci, se teniamo presente il comportamento di Gesù nei confronti delle donne, caratterizzato da una libertà e da una novità assolutamente eccezionali. Per il diritto ebraico, le donne non potevano testimoniare nei tribunali; la loro voce non contava, non aveva peso. Le donne vicine a Gesù, invece, sono testimoni della più grande opera di Dio, del più grande evento che in tutta la storia della salvezza sia accaduto, la risurrezione. Proprio l’annuncio di questo evento unico viene affidato a una donna: perché in Maria di Magdala è riconoscibile non soltano il modello del discepolo, ma anche la prima donna apostolo. Gesù, infatti, fa di lei l’apostola inviata agli apostoli. Maria, però, sulle prime non riconosce Gesù. Questo fatto può avere diversi significati, ma direi che vuol dirci, innanzitutto, che Gesù non è un miraggio di Maria, che non è lei a risuscitare Gesù nella sua immaginazione, che la figura che le sta davanti non è un prodotto della sua fantasia. Quando Gesù le si presenta, Maria viene colta assolutamente di sorpresa: è lontanissimo da ogni suo pensiero che quello possa essere Gesù risorto. E qui appare la doppia valenza della risurrezione. Da un lato si tratta sempre, come accennavo all’inizio, di quell’uomo Gesù che percorreva le strade della Palestina, come nel vangelo di Giovanni sarà sottolineato molto concretamente nel successivo incontro di Gesù risorto, quello con Tommaso. Eppure si tratta, al tempo stesso, di un Gesù che è, per così dire, “in altro modo”. Ricorrendo a un’espressione cara alle chiese ortodosse, potremmo parlare di un Gesù trasfigurato: perché il Gesù risuscitato non è un corpo rianimato, riportato alla vita, è una “cosa nuova”, un Gesù diverso da quello che Maria era abituata a conoscere, perché si trova in un nuovo modo di essere. “Risurrezione”, infatti, equivale in certo senso a una nuova creazione: non è un semplice tornare allo stato precedente, è un essere “ri-creati”. E a noi che festeggiamo la Pasqua oggi, questo ricorda che in Cristo anche noi siamo stati ri-creati, che anche in noi è stato introdotto il germe, l’embrione di una vita nuova. Noi possiamo partecipare alla risurrezione di Gesù perché siamo stati chiamati da lui, perché – potremmo dire usando questa volta un’espressione cara alla tradizione protestante – Gesù a ciascuno di noi ha “rivolto vocazione” proprio come ha fatto con Maria di Magdala. Maria, che non ha riconosciuto Gesù dall’aspetto, lo riconosce dalla parola – da quella parola, dal suo nome pronunciato da Gesù. E chiamare qualcuno per nome, lo sappiamo, significa stabilire la più intima delle relazioni. È una cosa meravigliosa, questa, proprio perché ci fa capire come, in fondo, la Parola di Dio si concentra nel nostro nome, come nome di colei o di colui che è stato chiamato sia alla vita sia alla fede. E quando Maria sente il proprio nome, allora capisce che quell’uomo è Gesù. Il riconoscimento di Lui come risorto non avviene dunque attraverso la visione della figura, ma attraverso l’ascolto della Parola. Poi c’è quell’ordine misterioso di Gesù, quello che nella Vulgata viene tradotto come “Noli me tangere”. Ma, piuttosto che “non toccarmi”, il verbo greco sarà da rendere come “non trattenermi”. Evidentemente Maria vuole abbracciare Gesù; questo è naturale, ma lui pone un freno, un limite. Dice: non è il momento della piena comunione, questo; non ancora. Perché la piena comunione richiede che, prima, io salga al Padre, per preparare a voi un posto. Ma in questo “non trattenermi” c’è anche qualcos’altro. Gesù vuole ricordare a Maria, e a noi con lei, che lui, sì, si dona a noi, ma non si mette a nostra disposizione; noi non possiamo impossessarcene, tenerlo nelle nostre mani, considerarlo nostra proprietà. E, ancora: Gesù non vuole che Maria si aggrappi a lui, che resti ferma, aggrappata a lui. Maria deve mettersi in movimento, deve andare dagli altri apostoli, a comunicare loro che Gesù sta per ascendere a Colui che egli chiama “Padre mio e Padre vostro”. Di qui l’espressione che Gesù usa nell’investire Maria del mandato missionario: “Va’ dai miei fratelli”. È la prima volta che nel vangelo di Giovanni risuona questa parola, “fratelli”; prima, i suoi discepoli li chiamava “amici”, mentre ora vuole ribadire che la paternità di Dio si estende a comprendere anche i discepoli. Certo, secondo modalità diverse: Gesù infatti non parla di “Padre nostro”, parla di “Padre mio e Padre vostro”, a sottolineare che egli è Figlio di Dio “per natura”, i discepoli lo sono “per vocazione”. Eppure resta questa parola, “i miei fratelli”. Ed è con questa parola che nasce la comunità cristiana. Questa parola è lì, a ricordarci – nella nostra vita comunitaria spesso difficile, travagliata – che la categoria della “fraternità” e della “sororità” affonda le sue radici nella Pasqua, nella risurrezione; che la comunità cristiana è la comunità di coloro che Gesù risorto chiama fratelli e sorelle.

 Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante