Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 25 AGOSTO 2013 (Mat 5,43-48; Giov 15,1-11)

“Ascoltiamo la sua Parola e la perfezione del suo amore prenderà dimora in noi”

Giovanni racconta che molti dei discepoli di Gesù, dopo averlo ascoltato, dicevano: “Questo suo linguaggio è duro, chi può intenderlo?” (Giov.6,60). Se siamo persone che frequentano la sacra Scrittura con regolarità e metodo: se la leggiamo e meditiamo sentendo che in quel momento siamo sotto lo sguardo del nostro Signore, possiamo ammettere con sincerità che nella Bibbia troviamo molte parole che ci mettono in crisi e ci pongono forti interrogativi ai quali ci è difficile trovare risposta; soprattutto, alcune cose dette da Gesù ci turbano. Come si fa a prendere seriamente il comando di essere perfetti che Gesù dà ai suoi con tanta semplicità, e non provare un senso di smarrimento? Come possiamo credere possibile che Gesù chieda a noi – a noi che siamo qui, oggi, con il desiderio e la preghiera di essere suoi discepoli – di essere perfetti non in modo relativo, entro le misure che conosciamo, secondo le possibilità dei i nostri limiti e del nostro peccato, avendo come modello l’assoluto, la perfezione di Dio? Non è forse una richiesta irraggiungibile, quasi un assurdo? Per potere accogliere questa parola dura nella nostra vita la strada c’è: e non solo non è un assurdo ma addirittura è alla portata di ognuno. Prima di tutto è necessario distinguere e poi liberarci dai molti travisamenti e tradimenti che nel tempo hanno incrostato il significato di quella parola. Dopo potremo assaporarne bene il senso e troveremo al suo interno una tale ricchezza, una tale carica di vita che davvero sarà per noi una luce per tutto il nostro essere e una lampada al nostro piede, come dice il salmista (S. 119,115). Noi diciamo e consideriamo perfetto tutto ciò che è senza difetto, senza la più piccola macchia Passando al linguaggio religioso il pensiero va a uno stato di purezza e vorrei dire quasi di simbiosi con la dottrina di fede che una persona professa e che, in qualche modo, impersona. Purtroppo, questa idea alta della perfezione ha nel suo humus sottostante un elemento assai pericoloso: produce una immediata distinzione dagli altri; è un silenzioso giudizio morale su chi non è così. Che ne sarà, allora, di chi “non è così”? Cosa ne facciamo di tanti diversi che pure vorrebbero ma non ce la fanno o forse non osano neppure sperare di poter entrare in una condizione così elevata? Il pensiero teologico metodista ha completamente smantellato questa idea di perfezione che inesorabilmente reca un giudizio sul diverso e che nella storia delle religioni e della umanità ha creato danni terribili e ferite assai difficili da sanare. In aramaico, nell’ebraico dell’Antico Testamento come pure nel corrispondente termine greco, perfetto significa intero, non frammentato, indiviso; perfetto anche quando un elemento vitale sviluppa – nelle cose tangibili come in quelle dello spirito – l’energia dinamica riconoscibile nei risultati: di interezza, bellezza, vale a dire di perfezione. Il lievito è l’elemento vitale che fa di un po’ di farina e di acqua il pane che sazia. Anche noi abbiamo bisogno di un elemento che nel nostro impasto di singoli o di società produca umanità vera. Anche i nostri sentimenti e i nostri pensieri hanno bisogno di un elemento dinamico che dia loro pienezza di vita. Ebbene, sappiamo che l’elemento essenziale che dà senso alla nostra vita, che tutto può sanare e ricreare e mai potrà essere distrutto è l’amore. Ma qui, riguardo alla parola evangelica, quale amore intendiamo? Quello di cui noi siamo capaci, così difettoso, così possessivo e parziale che ci ritroviamo alla radice della nostra stessa natura? e come potremmo mai credere di poterlo cambiare in modo che seppur vagamente si avvicini all’assoluto di Dio? Perfetti come il Padre non può essere null’altro, non può significare altro che questo: perfetti dell’amore di Dio che immeritatamente vive in noi. Dentro la nostra vita, mal fatta com’è, come dono. Dal momento in cui abbiamo incontrato il Cristo, dal momento in cui abbiamo realizzato nel profondo dell’animo che nel Cristo siamo perdonati e riconciliati in Dio, il suo amore va a toccare la totalità della nostra persona nel tempo e oltre il tempo. Il suo amore perfetto prende dimora in noi. L’amore non si impara con lo studio o con l’esercizio eroico: è qualcosa che si scopre. Ci andiamo a inciampare, nostro malgrado ci compare davanti, e a un tratto ne siamo presi: ci abbraccia e noi liberamente lo abbracciamo. Solo allora sappiamo che per nulla al mondo lo vorremmo perdere. Così è quando scopriamo l’amore di Dio per noi, e lo scopriamo nel Cristo. Tuttavia, sarà bene fare attenzione: in tutto questo non c’è niente di sdolcinato. Non si tratta di un bel sentimento o di rare emozioni: è l’energia dinamica nell’universo dalla quale sgorga la vita. Che è esigente. L’amore di Dio rivelato nel Cristo per noi e in noi è esigente. Richiede che lo accogliamo sempre di nuovo, giorno dopo giorno, sapendoci nudi e poveri davanti a Dio. Esige che nel segreto come nella comunicazione con chi ci è prossimo siamo persone limpide, capaci di dire sì sì, no no. L’amore di Dio per noi e in noi chiede che noi lo rendiamo reale e presente: vuole verità e giustizia, in controcorrente con la mentalità del mondo. Non illudiamoci, non è una strada comoda: può essere ardua assai. Non è la strada larga di quelli che scambiano il male per bene e il bene per male come dice Isaia, o di chi con qualche compromesso mette a tacere la coscienza propria e altrui. Esige molto: pienezza di compassione e mano soccorrevole per quelli che non hanno di che nutrirsi e vestirsi, per ridare dignità a chi è oppresso dall’ingiustizia, per i sofferenti. Sa asciugare le lacrime di chi piange e gioire con chi ha allegrezza. Tutto questo è il dolce giogo al quale sottomettersi di cui ci parla Gesù: è la responsabilità posta su di noi dalla quale uomini donne attendono risposte nella concretezza della loro vita. Per infonderci coraggio Gesù offre di se stesso l’immagine della vite. Un ramo spezzato si secca e muore. Così siamo noi: perduti, inutili come un ramo secco, quando ci stacchiamo dalla realtà del Cristo. Ci smarriamo e siamo perduti se trascuriamo di invocare il soccorso dello Spirito santo che il Cristo ha promesso a chiunque ripone in lui la pienezza della sua fede. Se dimoriamo in lui l’amore perfetto di Dio ci cambia. Infatti, lo sappiamo nel minimo della nostra esperienza: l’amore cambia sempre la persona che lo accoglie e lo vive. Mentre lo vive, è già una persona diversa, nuova. Non scoraggiamoci se a volte ci sentiamo smarriti perché assaliti dal dubbio o dalle difficoltà che mettono a dura prova la nostra vita. Non scoraggiamoci di fronte agli orrori senza fine di questo mondo. La realtà del Figlio d’uomo che, nella pienezza della obbedienza al Padre ha fatto totale dono di sé, si è incuneato indelebile dentro la storia dell’umanità, è punto di crisi e di salvezza dentro la vita di ogni persona, qualsiasi sia la sua condizione e in qualsiasi luogo geografico o culturale si trovi. Ascoltiamo la sua Parola e la perfezione del suo amore prenderà dimora in noi; se anche noi lo amiamo davvero in sincerità di cuore, non potremo non innamorarci dei suoi comandamenti e in dono insperato ci verrà la forza dinamica perché siano messi in pratica per la salvezza di molti. Signore, noi ti invochiamo: rendi l’amore di Dio perfetto in noi e in tutti coloro che sulla terra ti invocano. Amen.

Sermone a cura della nostra Predicatrice Locale, Febe Cavazzutti Rossi

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 18 AGOSTO 2013 (Mt 5:5-7; Ap 21:1,5-6; testo di predicazione Is 42:3)

“Manifesterà la giustizia secondo verità”

Questo versetto del Deuteroisaia, uno dei testi biblici che il lezionario ci propone per questa domenica, appartiene al primo dei cosiddetti “canti del Servo”. Come è noto, non è possibile sapere chi sia questo Servo che Dio ha scelto per portare a compimento la sua missione. Si tratta di un personaggio non definito né definibile; quel che è certo è che si tratta di un eletto, di qualcuno che Dio, per ragioni inaccessibili alla ragione umana, ha scelto tra molti affidandogli un compito particolare. Inutile cercare chiarimenti che il testo non ci offre. Meglio concentrarsi su ciò che esso ci dice, e ci dice in modo molto preciso. Qual è la missione del Servo? “Manifesterà la giustizia alle nazioni”, leggiamo al v. 1; “manifesterà la giustizia secondo verità”, dice il v. 3, il nostro versetto. In che modo il Servo svolgerà questa missione? Ciò che a Isaia preme comunicarci è come il Servo non la svolgerà, la sua missione. “Non griderà, non alzerà la voce”, ci spiega il v. 2. Il v. 3 aggiunge che “non frantumerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante”; il v. 4 conclude che “non verrà meno e non si abbatterà” fino a che, appunto, la giustizia non sia stata ristabilita sulla terra. Chiunque sia questo misterioso Servo, dunque, una cosa è certa: è qualcuno il cui modo di agire, il cui stile di comportamento è l’esatto opposto dei criteri ai quali si ispira il mondo. Secondo le consuetudini del mondo, chi ha un progetto che gli sta molto a cuore – anche, e forse soprattutto, se si tratta di un progetto ritenuto conforme al disegno di Dio e benefico per l’umanità, o per la società, o per la chiesa – chiunque nutra un progetto del genere difficilmente resiste alla tentazione di “alzare la voce”, di imporsi, di soverchiare le mille voci degli avversari o degli indifferenti. Altrettanto facile – altrettanto umano, direi, appunto secondo i criteri umani, che non sono quelli di Dio – è cedere alla tentazione opposta, quella alla quale accenna il v. 4: deprimersi, abbattersi fino al punto di rinunciare, di “mollare tutto”, di ripiegare nel silenzio e nel nascondimento, allorché il progetto sembra scontrarsi con ostacoli difficili da superare, o addirittura sembra destinato a fallimento sicuro. E poi ecco la terza tentazione, quella sulla quale siamo invitati a riflettere oggi: quella di frantumare la canna rotta, di spegnere il lucignolo fumante. In altre parole: eliminare tutto ciò che può ostacolare il buon esito del progetto perché è (o appare) fragile, debole, in condizioni precarie. Anche questa è legge del mondo, una legge particolarmente dura e spietata. Potremmo assimilarla alla legge darwiniana dell’eliminazione degli inadatti. Chi non ce la fa da solo, chi ha bisogno del supporto e dell’aiuto dei forti e dei sani, non solo è inutile, ma è dannoso, perché intralcia lo spedito procedere degli altri, fa loro disperdere energie preziose. Di che si tratta poi, in fin dei conti? Di oggetti umilissimi: una canna, lo stoppino di una lucerna. Oggetti che al tempo di Isaia si potevano trovare dovunque, oggetti che certo non era difficile rimpiazzare quando erano malandati e inservibili. Perché mai bisognerebbe preoccuparsi di simili oggetti, risparmiarli, averne cura? Perché il Servo di Dio non assesta il colpo di grazia alla canna già rotta, al lucignolo già moribondo? Investito di una missione nobile e grandiosa come quella di “manifestare la giustizia alle nazioni”, perché lascia che il suo cammino sia rallentato da questi riguardi assurdi, ridicoli quasi, per realtà insignificanti e, secondo ogni apparenza già destinate a perire? In altre parole: perché tanta delicatezza per i falliti, i perdenti, gli sconfitti dalla vita? Appunto per questo: perché la logica del Servo di Dio, la legge che lo ispira, sono la logica e la legge di Dio, non la logica e la legge del mondo e degli esseri umani. Come dice il Signore per bocca dello stesso Deuteroisaia: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie” (Is 55: 8). Le vie che il Servo percorre per realizzare il compito che gli è stato affidato sono altra cosa dalle vie umane. Il procedere del Servo – cioè, il procedere di Dio per mezzo del suo Servo – è un procedere paradossale. Il Servo è potente della potenza datagli da Dio, il quale nel primo versetto di questo capitolo dice di lui “io lo sosterrò”, “io ho messo il mio spirito su di lui”. Ma anche questa potenza è una potenza altra rispetto alla potenza secondo le categorie umane. Secondo le apparenze, anche il Servo è uno sconfitto, un fallito come lo sono la canna rotta e il lucignolo fumante. La sua vittoria non si realizzerà, non completamente almeno, se non alla fine dei tempi. Sembra che il mondo abbia bisogno della sofferenza, abbia addirittura bisogno di crearla. Sembra che per sussistere non possa fare a meno di incrinare canne, di spegnere lucignoli, di soffocare speranze. Ebbene, compito del Servo è mantenere viva la speranza, a dispetto di tutto e di tutti, nel tempo della sofferenza, che è il tempo della nostra storia. Compito del Servo è mostrare che c’è sempre uno spiraglio, testimoniare che c’è sempre una possibilità aperta, anche se non è facile vederla. Nel Servo (e nel Servo, ricordiamolo, è Dio che si manifesta) possiamo riconoscere il modello esemplare di quei “mansueti” che, secondo Gesù, “erediteranno la terra”. La erediteranno quando l’umanità tutta sarà divenuta non violenta: una condizione ideale che, purtroppo, si profila ancora molto lontana. Nemmeno il cristianesimo, infatti, si è messo alla scuola del Servo, nemmeno il cristianesimo ha saputo costruire una civiltà non violenta: anzi, al contrario, la cosiddetta “civiltà cristiana” è una civiltà molto violenta. Ancora: il Servo è modello ideale di coloro “che sono affamati e assetati di giustizia”. Non si darà pace finché non sarà saziato, cioè finché non sarà stata appagata l’esigenza della realizzazione della giustizia, che è bisogno primario dell’umanità ed è – come ci dice Isaia ma, in fondo, tutta la Scrittura – la grande passione di Dio. Nella Bibbia ebraica Dio preferisce la giustizia e il diritto ai culti, ai canti e alle liturgie. Nulla gli è così caro come la giustizia. Quelli che hanno fame e sete di giustizia sono coloro che hanno conosciuto Dio e non hanno ricevuto giustizia, o coloro che fanno propria la fame e la sete di giustizia di altri esseri umani. Là dove c’è una lotta, una passione vissuta, praticata, per la giustizia, e per la causa di tutti coloro ai quali non è stata resa giustizia, là questa fame e questa sete sono saziate. E infine, il Servo è modello ideale di quei “beati” che sono i misericordiosi: perché la giustizia si fa vera solo nella misericordia e la misericordia, per essere tale, non può non perseguire la giustizia. Torniamo alla nostra canna rotta, al nostro lucignolo fumante; torniamo all’interrogativo che essi ci pongono, anzi che ci pone lo strano comportamento del Servo. Perché salvaguardare canna e lucignolo? Perché questo attaccamento a ciò che è irrecuperabile? Perché non buttare via questi che sono ormai praticamente dei rifiuti, buttarli via insieme a tutto ciò che è vecchio, consunto, logorato, e provvedersi di nuove canne e di nuovi lucignoli che ci siano veramente utili nel nostro cammino verso il futuro – un futuro che deve vederci impegnati nella testimonianza e nell’azione per la buona causa di Dio, del suo regno, della sua giustizia? Questa testimonianza, questa azione sono un debito che noi abbiamo nei confronti di un’umanità (quell’umanità alla quale Isaia si riferisce con i termini “nazioni”, “isole”) affamata di giustizia e di diritto. Via, dunque, le canne e i lucignoli che ormai hanno fatto il loro tempo. Via il passato, almeno quando si tratta di un passato ormai segnato dalla fragilità e dall’impotenza. Del resto, in tutta la Bibbia, Dio non presenta forse sé stesso come il Dio che invita a non voltarsi indietro, a non farsi più condizionare da ciò che è vecchio e passato, ma ad aprirsi al nuovo? È appunto una visione di “cose nuove” che si spalanca nel libro dell’Apocalisse, quello che conclude le Scritture. Attenzione, però. Che cosa dice, in Ap 21, “colui che siede sul trono”? Dice: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. Non si tratta di eliminare e di sostituire, come fa chi vuole rinnovare l’arredamento della propria casa; si tratta di rinnovare nel senso di trasfigurare, di ri-creare. È una nuova creazione, quella che sta compiendo l’Essere che siede sul trono. Che cosa significa? Significa dare nuovamente un significato a ciò che sembra ormai aver perso ogni significato. Significa dare nuovamente dignità a chi sembra ormai aver perso ogni dignità. Significa dare nuovamente un obiettivo e uno scopo a chi sembra ormai aver perso ogni obiettivo e ogni scopo. Significa, insomma, compiere ciò che prima dicevo essere la missione del Servo di Dio: dare nuovamente speranza a chi sembra ormai aver perso ogni speranza, a tutto ciò che sembra non contenere più alcun elemento di speranza. E questo in che modo? Agendo come agisce il Servo, cioè realizzando la beatitudine della misericordia, della misericordia unita alla giustizia. Questa unione di misericordia e di giustizia ha un nome che ci viene insegnato da tutta la Bibbia, ma in modo tutto particolare dal Nuovo Testamento. Il nome è “amore”, e si tratta di quella realtà che, come dice Paolo, non arretra dinanzi ad alcun ostacolo: “soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa” (1 Cor 13: 7). Un amore così, certamente, potrà trovare la sua compiuta realizzazione non nella storia, ma solo alla fine dei tempi; e non per opera degli esseri umani, ma solo di Colui che siederà sul trono alla fine dei tempi, Colui nel quale i cristiani riconoscono il Servo di cui parla Isaia. Questa consapevolezza, tuttavia, non deve costituire una comoda giustificazione per rinunciare a ogni tentativo di seguire la via paradossale indicata dal Servo. Guardiamoci intorno, troviamo occhi per vedere le canne incrinate e i lucignoli fumanti intorno a noi: i vecchi abbandonati e maltrattati negli ospizi, per esempio, o i carcerati detenuti in condizioni indegne di un Paese civile, o, sì, anche certe nostre comunità, certe chiese in difficoltà che sbrigativamente vengono date per morenti e gentilmente aiutate a morire del tutto: frantumate, spente. Non è di azioni di morte che la società e la chiesa hanno bisogno; hanno bisogno di azioni di speranza e di vita, perché solo così si potrà “manifestare la giustizia alle nazioni”.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 11 AGOSTO 2013 (Giona 3:1-5,10; 4:1-4,10-11; Col 3:11-15 testo di predicazione: Lc 18:9-14)

Non esiste alcun “giusto” nel quale identificarci, né alcun “peccatore” dal quale prendere le distanze

In questa parabola, certamente una tra le più note e le più citate dei vangeli, Gesù si conferma profondo conoscitore della psicologia umana. Se ci pensiamo, infatti, ci rendiamo facilmente conto che uno dei nostri giochi preferiti consiste nel paragonare persone, cose, esperienze. Questa logica del confronto a due termini finisce sempre per portare a una valutazione, a un giudizio, positivo o negativo che sia. Ecco, in questa parabola Gesù utilizza appunto questa logica. Chi sono le due persone poste a confronto? Un fariseo e un pubblicano. Sono termini che ovviamente ci sono familiari, dei quali conosciamo il significato grazie alla nostra formazione religiosa e alla nostra familiarità con la Bibbia, ma che ci dicono qualcosa solo se li collochiamo in un determinato ambiente e in un determinato periodo storico; dal punto di vista della nostra esperienza personale questi termini non sono gran che significativi. Non è difficile, tuttavia, sostituirli con altre espressioni, indicative di altri tipi umani: potremmo parlare, per esempio, di un membro di chiesa fervido e osservante e di un credente che in chiesa si fa vedere poco; al di fuori dell’ambito religioso, potremmo parlare di una persona per bene e di una persona dalla reputazione e dalla moralità discutibile, e così via. La parabola ci presenta, comunque, due persone che sono una l’antitesi dell’altra quanto a rigore di comportamenti e a stile di vita. Da una parte c’è il fariseo osservante, sicuro della purezza dei suoi riti e delle sue pratiche religiose. Indubbiamente non è un personaggio simpatico: ci colpisce subito, sgradevolmente, per la sua arroganza spirituale, per il suo autocompiacimento. Ma non abbiamo alcun motivo, né alcun diritto, di dubitare della sincerità della sua fede e del fatto che risponda a verità ciò che egli dice di sé stesso in quella preghiera che è la modifica di una comune preghiera rabbinica (“Ti ringrazio, Signore, perché io non sono come…”); non abbiamo diritto di dubitare, cioè, che le pratiche di devozione del fariseo vadano addirittura al di là di ciò che impone la legge. Dunque: da una parte, un uomo antipatico ma integerrimo. Dall’altra parte il pubblicano, l’incaricato della raccolta delle tasse. Ricordate? era il mestiere esercitato da Levi quando, come raccontano tutti e tre i sinottici, ebbe la sorpresa di sentirsi chiamato da Gesù. Anche Levi, come tutti gli esattori delle tasse, era considerato persona moralmente riprovevole: persona da evitare in quanto impura dal punto di vista religioso, collaborazionista con un governo straniero dal punto di vista politico. Due personaggi antitetici, si diceva. Sarebbe quindi facile prendere partito per l’uno o per l’altro. Sarebbe facile dire: io sono come il fariseo perché vado al culto, leggo la Bibbia, verso le contribuzioni, svolgo anche qualche incarico all’interno della chiesa. Sarebbe altrettanto facile dire: io sono come il pubblicano perché vado in chiesa non nei giorni destinati al culto, ma quando ne sento l’esigenza; certo, mi sento peccatrice e inadeguata, ma confido profondamente nella misericordia del Signore. Istintivamente, anzi, direi che tutti noi tendiamo a sentirci più vicini all’umanissimo pubblicano, consapevole dei propri limiti e delle proprie inadempienze, piuttosto che all’inappuntabile fariseo. Istintivamente, dunque, tendiamo a trovare in questa parabola una conferma del tipo di fede “disinvolta” che a tanti, forse a tutti noi in fondo in fondo piacerebbe tanto poter praticare: basta con il ritualismo e le regole rigide, evviva il perdono dei peccati per tutti i credenti. In altre parole: “O Dio, ti ringrazio perché io non sono come altri cristiani, come quel cattolico là, per esempio, vincolato ai dogmi e alle imposizioni di una chiesa intransigente; ti ringrazio perché sono protestante, e quindi libero dalle norme, dalle restrizioni, dall’osservanza”. Certo, è sempre possibile leggere i testi biblici in questo modo, cioè cercandovi l’indicazione di un modello di vita da condurre, di via da seguire, di scelte da compiere. Eppure una tale lettura che privilegia un modello contro un altro rimane abbastanza sterile. Una volta che abbiamo detto “Questo atteggiamento è corretto, quest’altro è sbagliato”, non abbiamo arricchito né la nostra fede né la nostra spiritualità. A lungo andare la terra del nostro essere credenti diventerà secca, arida. incapace di dare nuovi frutti. Sono convinta, in realtà, che questo testo biblico ci dia l’opportunità di superare una lettura basata solo sul confronto e sul giudizio. Partirò dalla fine, là dove Gesù dichiara: “chiunque si innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato” (v. 14). Un’evidenza: Gesù condanna l’arroganza del fariseo e invece loda l’umiltà del pubblicano. Eppure credo che con questa espressione Gesù non proponga un’antitesi tra un comportamento da condannare e un comportamento da riscattare; perché sono convinta che la logica di Gesù è altra cosa dalla logica nostra. E’ assolutamente vero, il nostro testo biblico gioca su varie antitesi: il fariseo/il pubblicano, innalzare/abbassare, parlare dentro di sé/parlare ad alta voce, ecc. Accanto a queste antitesi, ci sono anche delle azioni comuni ai due protagonisti: tutti e due salgono al Tempio di Gerusalemme per pregare; tutti e due si rivolgono a Dio nello stesso modo anche se la loro preghiera è diversa. Eppure, Gesù non è più di tanto interessato al contrasto tra i due uomini; cerca, piuttosto, di chiarire qualcos’altro. In sostanza Gesù dice, certo, che anche il pubblicano avrà accesso alla salvezza, non solo lui però, anche il fariseo. La parabola apre la prospettiva del regno a tutti: perché non c’è un solo modo di vivere la fede e la relazione a Dio, le modalità sono varie quanto sono varie le persone. Questa è una realtà che fa parte, se ci pensiamo, della nostra quotidiana esperienza dell’essere chiesa, del fare chiesa, del costruire la chiesa. È una realtà nota a tutti noi, ma alla quale talvolta non prestiamo sufficiente attenzione. Che cosa voglio dire, in sostanza, sulla scorta di questa parabola? Voglio dire che la fede è personale e quindi estremamente variegata. La comunità, la chiesa, la famiglia dei credenti si può paragonare a un grande mosaico. Nel testo di Luca questa diversità si esprime nel movimento. I due protagonisti salgono al Tempio e dopo aver pregato scendono di nuovo alla “pianura” della loro vita quotidiana. Ma la fede si esprime, prende forma, sia nel salire sia nel discendere, la fede si trova nel movimento incessante, nella varietà dei ritmi, nell’alternanza del fervore e della freddezza. Il fatto che il fariseo e il pubblicano, così diversi dal punto di vista della loro spiritualità, debbano salire e scendere indica che, al di là delle differenze pur profonde, c’è innanzitutto un movimento della fede, cioè cammini e velocità diversi per raggiungere una meta comune. Oggi, come spesso in passato, le nostre chiese si trovano di fronte alla stessa situazione. Sono sempre in agguato il rischio di divisione, la tentazione di stare solo con coloro che la pensano come noi. Credo che il testo di oggi ci inviti invece a condividere le differenze, a vivere una vera comunione in Cristo, una comunione che rispecchi la complessità della vita e dell’essere umano. Credo che voglia invitarci a vedere la chiesa – a costruire la chiesa – come una comunità gioiosa di credenti molto diversi che hanno voglia di vivere insieme la fede e le sue promesse. Come una comunità che cerca di vivere secondo la grazia di Dio e non secondo le regole del mondo Come una comunità che parla, dialoga, ascolta e si astiene dal criticare, giudicare e sparlare degli altri. Come una comunità, insomma, che cerca di conformarsi al modello tratteggiato nella lettera ai Colossesi, una comunità nella quale convivono, in spirito di reciproca accoglienta, credenti tanto diversi quali il greco e il giudeo, il barbaro e lo scita, lo schiavo e il libero. Una comunità che sa condividere i momenti gioiosi e i momenti tristi, e anche gli interrogativi e i dubbi, in uno spirito che supera le divisioni e invita tutti al tavolo della grazia e della libertà. Grazia e libertà. Ecco, questo mi sembra il punto centrale di questa parabola che certamente, quando Gesù la raccontò, costituì uno shock per i suoi ascoltatori: nell’ambito della comunità giudaica, se qualcuno dal Tempio non doveva tornare a casa giustificato, questo qualcuno poteva essere solo un esattore delle tasse. Ma anche per noi – se, come si diceva, i due protagonisti della parabola sono visti come normali membri di una normale comunità, senza etichette né pregiudizi – la parabola costituisce uno shock, un trauma che insieme ferisce e benedice. Perché questo racconto di null’altro parla se non della giustificazione divina dei peccatori e del fallimento finale di ogni autogiustificazione. La dottrina della gratuita e libera giustificazione del peccatore da parte di Dio: è la dottrina al centro del nostro modo protestante di vivere il cristianesimo, certamente, ma a ben guardare è una dottrina che percorre tutta la Scrittura. È il nucleo, tra l’altro, di quel racconto delizioso che è la missione di Giona a Ninive. Anche nel caso di Giona, la grazia che Dio riversa sui peccatori è uno shock, una sorpresa scandalosa. Sorelle e fratelli: che nessuno lasci questo luogo di culto pensando “Ti ringrazio, o Dio, che non sono come il fariseo”. Accettiamo questa realtà: non esiste alcun “giusto” nel quale identificarci, né alcun “peccatore” dal quale prendere le distanze. Siamo tutti un po’ Giona, un po’abitanti di Ninive. Siamo tutti un po’ fariseo e un po’ pubblicano. E nessuno è un essere spregevole: né Giona né i niniviti, né il fariseo né il pubblicano. Ma, al tempo stesso, nessuno è un eroe della fede. Per ciascuno di noi, ciò che veramente conta non è più la nostra salita verso il Tempio, ma l’avvicinarsi di Dio che ci rimanda a casa come donne e uomini liberi, resi liberi dal dono della sua grazia e dalla promessa del suo perdono. Che la nostra vita quotidiana, una volta usciti dal Tempio, si svolga nel segno di questa certezza. Amen

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 4 AGOSTO 2013 (Gv 18:33-38; testi di predicazione Ef 2:19; Eb 13:14)

“Dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione”

Accingendomi a preparare questa predicazione ho aperto, come faccio di solito, il lezionario Un giorno una parola alla data di oggi, per vedere quali fossero i testi indicati per il culto. Come sapete, però, il lezionario oltre ai testi espressamente intesi per il culto propone anche altri versetti biblici. Ebbene, da uno di questi versetti sono stata particolarmente colpita: è quello tratto dalla lettera agli Efesini, che ricorda come i cristiani non siano “più né stranieri né ospiti”, quindi gente di passaggio, in uno stato provvisorio e precario, bensì persone che hanno trovato una residenza stabile, sicura, eterna, la migliore che si possa desiderare, perché sono diventati “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”. Un’unica grande famiglia, come spiega Paolo nei versetti precedenti; una famiglia “allargata”, potremmo dire usando un termine di attualità, e meravigliosamente allargata in quanto, “mediante il sangue di Cristo”, giudei e stranieri sono diventati un unico popolo; anzi, lo “straniero” proprio non esiste più, è una qualifica che a nessuno può essere più attribuita, dopo che Gesù Cristo “dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione” (Ef 2: 11 sgg.). Si tratta di un versetto bellissimo, anche in considerazione del contesto al quale fa riferimento, e già questo potrebbe spiegare il fatto che abbia attirato la mia attenzione. Ma c’era una ragione in più, una ragione che non mi è risultata immediatamente chiarissima: questo versetto me ne richiamava un altro, ma quale? Alla fine, la risposta è arrivata quando il mio sguardo è caduto sul segnalibro del lezionario, segnalibro sul quale la Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha fatto stampare il “versetto dell’anno” 2013. Questo versetto, tratto dalla lettera agli Ebrei, dice: “Perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura”. Ecco, era questo il versetto che mi era venuto istintivo collegare nella mia mente a quello della lettera agli Efesini. I due versetti, a prima vista, sembrerebbero quasi dire l’opposto. Scrivendo agli Efesini, Paolo mette l’accento sulla fine del pellegrinare, sulla meta finalmente raggiunta, sulla città che spalanca le sue porte, una città che è al tempo stesso cerchia familiare, grembo accogliente, comunità che trasmette un senso di appartenenza, di stabilità, di calore – che dona, soprattutto, un’identità a chi non l’ha mai avuta. Per l’autore della lettera agli Ebrei, invece, il viaggio è ancora in pieno svolgimento, l’itinerario è tutt’altro che concluso, la città è tuttora oggetto di ricerca, una ricerca piena di desiderio, illuminata dalla speranza, ma che si prevede ancora molto, molto lunga. Ho pensato, allora, che sarebbe stato interessante prendere entrambi questi versetti a base della riflessione che vi propongo oggi, e cercare di capire che cosa essi vogliono veramente dirci – o, meglio, che cosa essi vogliono veramente dire non tanto a noi, quanto di noi. Chi siamo – chi siamo chiamati ad essere? Come ci vuole il Signore: cittadini o pellegrini? Stanziali o viandanti? Come ci vuole il Signore? È questa, certo, la domanda fondamentale che dobbiamo porci e alla quale dobbiamo cercare di rispondere. Ma domandiamoci, intanto: noi, che cosa vogliamo essere, che cosa ci sentiamo? Entrambe le cose, direi: cittadini e pellegrini, stanziali e viandanti. La nostra civiltà è certamente di matrice sedentaria, tant’è vero che tende istintivamente a respingere, a rifiutare i nomadi che si accampano ai bordi delle nostre città. D’altra parte, mai come in questi tempi l’umanità si è fatta frenetica nel voler viaggiare, migrare, cercare; in senso fisico, materiale, ma anche in senso spirituale. Spesso questa irrequietezza interiore è solo segno di scontentezza, di insoddisfazione, di un’attesa frustrata; ma può anche essere un sintomo positivo, il segno della nostra incapacità di appiattirci su un’esistenza opaca e banale e il nostro continuo bisogno di cercare qualcosa di altro, di diverso, la nostra esigenza di metterci in movimento verso una meta che forse non abbiamo del tutto chiara nella mente, ma dalla quale ci attendiamo che dia un senso al nostro vivere. In questo caso – nel caso cioè in cui la nostra irrequietezza deriva dal fatto che non ci sentiamo appagati da ciò che ci circonda e, soprattutto, da ciò che noi stessi siamo – direi che ci troviamo in piena sintonia con quanto leggiamo nel versetto della lettera agli Ebrei. Tra parentesi, un’esortazione analoga la troviamo attribuita a Gesù in un vangelo apocrifo, quello che va sotto il nome dell’apostolo Tommaso: “Siate gente di passaggio”. Mi piace molto questa esortazione così straordinariamente incisiva e suggestiva, e mi sembra del tutto in linea con la predicazione di Gesù quale ci viene tramandata dai testi canonici. Il cristiano è viandante e pellegrino, dunque. Eppure, al tempo stesso, ci dice la lettera agli Efesini, il cristiano ha già concluso il suo viaggio, è già entrato nella città. Contraddizione, dunque? No, nessuna contraddizione. Due diverse angolature, piuttosto, di un’unica realtà: la realtà del regno, quel regno che Gesù è venuto ad annunciare. Il regno è una realtà che ha molti volti, ma che si caratterizza soprattutto per un tratto: è un regno che proviene da “altrove”. Così è solito parlarne Gesù. Così ne parla, in particolare, nel passo di Giovanni che abbiamo ascoltato, un passo drammatico che tutti noi conosciamo bene ma sul quale sarà il caso di soffermarci ancora una volta, perché ci può essere di aiuto nel nostro tentativo di comprendere che cosa significa essere viandanti e, al tempo stesso, stabili residenti. Il regno del quale Gesù è Signore è un regno che non segue le regole dei regni di questo mondo, né è ispirato dallo spirito che domina in essi. A Pilato, che rappresenta il regno di questo mondo, Gesù intende dire: “Il mio regno non è di questo mondo, ma è in questo mondo, e io sono nato per questo, per testimoniare in questo mondo di un regno che non è di questo mondo. Ma io lo testimonio davanti a te, lo porto di fronte a te, Pilato”. Gesù dice, in sostanza: “C’è un altro modo di essere re, è possibile un altro regno. E io sono nato per testimoniarlo, per portarlo, per introdurlo nella storia del mondo, che finora è andata invece in una maniera completamente diversa”. È come se ci fossero due regni contrapposti, in questo mondo: uno è quello del potere, l’altro quello della croce. Per Pilato, questa dichiarazione di Gesù, se solo avesse voluto e saputo ascoltarla davvero, avrebbe potuto aprire prospettive insospettate: dunque esiste un altro modo di regnare, il modo di Gesù; esiste un altro modello di regno, un regno dalle dimensioni inedite, “nuove” perché rispecchiano un “nuovo” criterio di regalità. Pilato, almeno per quanto ne sappiamo, non fu toccato dalle parole di Gesù, non fu nemmeno sfiorato dal sospetto che questo “nuovo” criterio di regalità, questo criterio di regalità “altro” potesse davvero esistere; ma, insieme a Pilato e dopo Pilato, ogni successiva generazione è chiamata (e, quindi, anche noi lo siamo) a confrontarsi con questa rivelazione: esiste un “nuovo”, un diverso modo di regnare, e si tratta di un “regnare” che significa dare la propria vita su una croce. Pilato siede su un trono; Gesù regnerà dalla croce, e prima sarà flagellato, insultato, oltraggiato. In fin dei conti, la parola chiave che contrappone i due regni è questa: verità. Pilato non sa che cos’è la verità; Gesù sì. L’antitesi, dunque, non è soltanto tra un regno del potere e un regno della croce; è anche tra un regno del potere e un regno della verità. E questa verità è “straniera” nel regno del potere, così come Gesù è “straniero” al potere in quanto ne rappresenta l’esatto opposto: non solo in questo momento in cui è “legato” (cfr. Gv 18: 24), impossibilitato a difendersi, a opporre la minima resistenza, ma in tutta la sua vita. Gesù non ha, non ha mai avuto nulla in comune con l’uomo di potere. Lo conferma anche qui, dinanzi a Pilato, allorché afferma: “per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità”. Per testimoniare: non per comandare, per imporre. Questa è una grande differenza dai regni e dai regnanti di questo mondo, che comandano, ordinano, impongono, mentre Gesù testimonia. Testimonia che cosa? La verità, appunto, ma non la sua verità, bensì la verità di Dio. Una verità di cui Gesù non si appropria, una verità alla quale Gesù non mette, per così dire, le mani addosso, proprio in quanto vuol essere e presentarsi come testimone, non come padrone della verità. Pensiamo soltanto a che cosa sarebbe stata la storia cristiana di questi duemila anni se si fosse svolta secondo il paradigma che qui Gesù indica, quello di essere semplicemente testimoni della verità e non di imporla. Pensiamo a che cosa sarebbe la nostra vita di cristiani ora, se noi sapessimo “testimoniare” la verità nel senso di viverla, di lasciarci abitare dalla verità, di diventare donne e uomini che la verità guida, ispira, fa vivere. Senza mai dimenticare che la nostra parola “martire” deriva da un vocabolo greco che significa “testimone”, e che la testimonianza può quindi talvolta identificarsi con quello che noi chiamiamo martirio. Anche questa possibilità fa parte del regno “altro”, del regno della verità che si identifica con il regno della croce. Dunque, alla domanda: chi siamo? Cittadini o pellegrini? Stanziali o viandanti?, sulla scorta di questo passo di Giovanni potremmo forse rispondere così: siamo entrambe le cose, abbiamo una doppia appartenenza, una provvisoria e una definitiva, e questo comporta una sfida che Gesù ci chiede di raccogliere. Viandanti nel regno del potere, siamo chiamati a vivere in questo regno da stranieri, in quanto (“mediante il sangue di Cristo”) siamo cittadini del regno “altro”, quello della croce e della verità. Impariamo dunque una buona volta, sorelle e fratelli, a essere stranieri – stranieri a ogni logica di potere, di sopraffazione, di intolleranza – per diventare davvero cittadini, per riscoprire la nostra vera identità di “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”. Che il Signore ci guidi.  Amen

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

News: ARRIVEDERCI ANTONELLA

 

Se n’è andata in una serena giornata di fine luglio. Eppure tutto era cominciato solo pochi mesi prima, quando le prime avvisaglie del suo male non lasciavano certo presagire il triste epilogo a soli 57 anni.

Antonella era una donna energica, decisa e al tempo stesso estremamente disponibile. Nella nostra Chiesa ricopriva da tempo la carica di responsabile dell’Unione Femminile e la ricordiamo mentre, indaffarata, preparava bazar e riunioni.

Proveniva da altre esperienze del variegato mondo protestante nella nostra città di Padova: dai Pentecostali ai Battisti Riformati fino a noi Metodisti. Un percorso, il suo, accompagnata dal fedele compagno di una vita, Giorgio, durato circa vent’anni e partito, come molti di noi, dall’appartenenza alla Chiesa Cattolica.

Dicevo che il suo calvario è stato breve, ma sicuramente intenso. Dai primi sintomi, ad aprile di quest’anno, fino al ricovero al reparto di Oncologia dell’Ospedale Sant’Antonio di Padova dapprima e poi, con l’aggravarsi delle sue condizioni, al reparto di Lungodegenza presso l’Opera Immacolata Concezione alla Mandria di Padova.

Ciò non le ha però impedito di essere presente ai nostri culti e di dare una mano, per quanto possibile, alle nostre attività. La ricordiamo infatti presente, per l’ultima volta nella sua Chiesa, in occasione dell’ingresso del nuovo membro di Chiesa, Daniele, alla Pentecoste di quest’anno. Anche in questo caso, organizzatrice e disponibile fino all’ultimo.

Ci stringiamo ora quindi, con affetto e nella comune speranza della Resurrezione, a Gianni, ai figli Greta e Diego, nonché a tutti i suoi familiari.

Lo facciamo riportando quanto scritto dalle sorelle di Chiesa Mary Waite e Sophia de Lange Ruaro, della nostra Unione Femminile, a ricordo della loro Presidente ed amica e letto ai funerali, oltre ad un ricordo della nostra Predicatrice Locale, Febe Cavazzutti Rossi, per anni punto di riferimento per Antonella nella nostra comunità.

Antonella! Una persona allegra, gioiosa. Eppure, nei suoi non molti anni ne aveva avute di difficoltà, pene, e dolori da superare. Antonella! Una donna operosa: operosa in mille modi, con le sue mani, con la fantasia e l’intelligenza; sempre in cerca di soluzioni utili per il bene di ognuno della sua famiglia. Un donna vivace, curiosa del mondo e della vita. Ma queste sue doti naturali sono diventate vive, forti e vere il giorno in cui per fede ha conosciuto il suo Signore: quando ha incontrato il Cristo come esperienza di vita sul suo cammino quotidiano. Allora il suo cuore ha provato una grande festa, ed è stato ricolmo di gratitudine a Dio. Aveva voglia di dirlo a chiunque fosse disposto ad ascoltarla: guardate quanto è grande il nostro Dio che nel suo Figlio ci salva! Adesso che il Signore l’ha chiamata più in su, non lascia né oro né argento. Lascia invece una eredità più preziosa dell’oro finissimo: l’invito a riporre fede e speranza nel Cristo, ad ascoltarlo nella sua Parola e a seguirlo nelle difficili strade della nostra vita. Lascia questa preziosa eredità di speranza alla sua amata famiglia e anche a noi, piccola chiesa di Padova, che per brevi anni siamo stati la sua famiglia nella fede”.

Febe

Antonella ci portò il suo sorriso, la sua presenza solare, in un momento di cambiamento nella nostra chiesa, un periodo nel quale avevamo grande bisogno di novità, di nuove energie. Le saremo sempre grati per questo dono. Presto da noi si è sentita come se fosse a casa sua, dopo anni in un’altra chiesa evangelica con la quale ormai non andava più d’accordo. Aveva molta energia da spendere, e volentieri il gruppo di donne che frequentavano l’Unione Femminile l’hanno votata Presidente, un incarico rimasto suo. Questa era una speciale dote di Antonella, che lavorava nella comunità, ma teneva contatti con varie organizzazioni nell’ambito della Chiesa Valdese e Metodista: era la nostra ambasciatrice presso la Federazione femminile evangelica nazionale, e ha partecipato diverse volte alla conferenza distrettuale che si tiene ogni anno a giugno. Contribuiva inoltre a tessere rapporti con il gruppo femminile della Chiesa Avventista di Padova, e con il gruppo di cattoliche di Limena che frequentano il nostro Studio biblico interconfessionale. Grande organizzatrice, lavorava instancabilmente per l’allestimento annuale del Bazar e Lotteria; e non mancava mai alle Agapi organizzate durante l’anno, che coronano momenti importanti nella vita della nostra chiesa – con il graditissimo aiuto anche del marito Giorgio nella preparazione di piatti deliziosi”.

Mary e Sophia

Alleghiamo infine anche il sermone, preparato dalla nostra Pastora, Caterina Griffante, tenuto in occasione dei funerali di Antonella. Anzi, dell’annuncio dell’Evangelo della Resurrezione, come preferiamo dire noi protestanti.

Antonella è stata accompagnata all’estrema dimora nella chiesa parrocchiale del suo paese, Tombelle di Saonara, con una cerimonia squisitamente ecumenica, come raramente se ne vedono. Un parroco cattolico (estremamente disponibile) e un pastore protestante assieme nella celebrazione, non è una costante nel nostro Veneto.

La legge del peccato e della morte”, dice Paolo. È così. Per una legge inesorabile, noi tutti ci portiamo dietro una condanna a morte; è scritto all’interno di ogni essere vivente; è cifrato nel codice della vita. Ma solo noi tra tutti i viventi, solo noi esseri umani, abbiamo consapevolezza di questo: la consapevolezza di essere, secondo le parole di Paolo, “corpi mortali”. Solo noi sappiamo di dover morire, senza sapere dove, né come, né quando. E questo ci fa paura. Fa paura a voi che mi ascoltate, fa paura a me che vi parlo. Perché ci fa paura l’ignoto; e ci fa paura quell’abisso di sofferenza e di dolore che la morte e il morire portano con sé. Un abisso del quale tutti, purtroppo, abbiamo esperienza, perché tutti noi abbiamo subìto la perdita di persone care; ora ne avete fatto esperienza diretta voi, Giorgio, Greta e .Diego, accompagnando Antonella, giorno dopo giorno, fino alla conclusione del suo viaggio terreno. Sì, la morte fa paura a tutti, anche a noi che crediamo all’annuncio di Paolo: “colui che ha risuscitato Cristo Gesù dai morti vivificherà anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”. È un annuncio che la chiesa ha fatto proprio e che, nei secoli, ha continuato e continua a proclamare: non a caso, nella tradizione protestante la celebrazione di un funerale viene comunemente chiamata “annuncio dell’evangelo della risurrezione”, appunto perché in ogni liturgia funebre risuona potente la confessione di fede cristiana, una confessione di fede che dice in sostanza: “noi poniamo la nostra fiducia nel Dio che risuscita i morti, perché è quello stesso Dio che ha risuscitato Gesù dai morti”.

Ma questa confessione di fede non è facile da pronunciare. Non lo è per nessuno di noi; non lo è, a maggior ragione, per chi come voi, familiari di Antonella, porta la ferita di un lutto recentissimo. Quello che è davanti ai vostri, ai nostri occhi in questo momento è un crudo dato di fatto: noi siamo “corpi mortali”. Sì: ha ragione Paolo. Siamo polvere che ha preso vita attraverso il soffio di Dio, ma che resta polvere. La morte ci fa paura, ci appare inaccettabile, perché è qualcosa che distrugge tutto il nostro essere. Questa è una realtà, e sarebbe assurdo volercela nascondere, volerla negare. Gesù stesso ha patito la morte come qualcosa di scandaloso: si è turbato e ha pianto di fronte alla morte dell’amico Lazzaro, e di fronte alla propria morte ha tremato di paura, e ha desiderato di sfuggirle. Eppure, quello stesso Paolo che ci mette davanti agli occhi la nostra realtà di “corpi mortali” ci annuncia che questa realtà è una realtà penultima, non ultima, perché Dio ha risuscitato Gesù dai morti, e che allo stesso modo “vivificherà i nostri corpi mortali”. Vivificherà il corpo mortale di Antonella, del quale voi familiari e tutti noi sentiamo così crudelmente l’assenza; come vivificherà il corpo mortale di tutti coloro che l’hanno preceduta, e di tutti coloro che la seguiranno. Perché agli occhi di Dio, e non solo ai nostri, il nostro povero corpo umano con tutte le sue miserie è qualcosa di prezioso, qualcosa che merita di essere salvaguardato, e credere la risurrezione significa anche questo: affermare che il nostro corpo, la nostra realtà materiale, ha una dimensione che non esiterei a chiamare “sacra”.

Ma che cosa significa esattamente, per noi, “risurrezione”? Ci è impossibile spiegarci questa parola esattamente. È l’unica parola della Bibbia che non appartiene al nostro linguaggio, perché non appartiene alla nostra esperienza; non è parola nostra, è parola di Dio, perché soltanto Dio risuscita. Possiamo parlare di risurrezione soltanto per indizi, per intuizioni, per barlumi, proprio perché è una realtà che non appartiene al nostro orizzonte. Più facile, semmai, dire che cosa la risurrezione non è. Per esempio, la “risurrezione” di Lazzaro della quale ci parla Giovanni in un passo che pure non finisce mai di coinvolgerci e di emozionarci, non è la vera risurrezione, la risurrezione promessa ad Antonella e a tutti noi. In questo passo si racconta, piuttosto, una “rianimazione”, dato che Lazzaro è destinato a morire di nuovo, e definitivamente. Come tutti i miracoli di Gesù, la “risurrezione” di Lazzaro è un segno che rimanda ad altro; è una forte illustrazione della vera risurrezione, del vero passaggio dalla morte alla vita, che è la fede in Gesù. Chi risuscita in questo testo di Giovanni è, piuttosto, Marta: la “risurrezione” sta nella fede, nella speranza che rinascono nel cuore di Marta; la risurrezione, Marta la incontra nel momento in cui parla con Gesù.

Ecco, dunque, un primo spunto su che cosa sia da intendere per risurrezione. Risurrezione e fede non sono la stessa cosa, ma si assomigliano. “Fede” è il nome del ponte che unisce risurrezione e vita; chi crede entra già, fin d’ora, nel mondo della risurrezione. Una fede che viene richiesta oggi a noi tutti e in modo particolare a voi, Giorgio, Greta e Diego . Una fede che non deve essere fraintesa come fede consolatoria, quel tipo di fede rassegnata che vede il dolore, la sofferenza, la morte come espressione della volontà di Dio, e la risurrezione come la vaga promessa di un conforto nell’aldilà. Su questo voglio essere molto chiara: fede nella risurrezione equivale a fede in un Dio che ama la vita, che promuove la vita. Quindi, un Dio ben diverso da quel Dio che purtroppo appartiene ancora all’immaginario di tanti cristiani: un Dio che condanna per l’eternità delle persone che non chiederebbero di meglio che andare verso di lui, un Dio che si vendica, che fa del male, che manda la malattia, la morte… Sorelle e fratelli, che non ci passi mai per la testa di usare quel linguaggio in apparenza devoto, in realtà addirittura blasfemo, che dinanzi a una morte dice: “E’ piaciuto a Dio chiamare a sé la nostra sorella, il nostro fratello…”. No, come cristiani ci rifiutiamo di credere che Dio abbia piacere a uccidere qualcuno, a separare, come nel caso di Antonella, una madre dai suoi figli, una moglie dal marito. Il Dio di Gesù Cristo è un Dio che non vuole il male, che non permette il male. La verità è, piuttosto, che Dio soffre talmente del nostro male che non ha saputo resistere ed è venuto a soffrire insieme a noi. Dio non permette il male. Lotta con tutte le sue forze contro il male; Dio ispira tutti quelli che lottano contro il male, che cercano di lenire il male, di liberare l’umanità dal male.

Alla luce di questa consapevolezza, avere fede nella risurrezione significa affermare che Dio avrà l’ultima parola, che il tiranno non può vincere, che Dio risveglierà chi dorme e risolleverà chi è caduto. La risurrezione si afferma proprio davanti alla morte: Dio protesta davanti alla morte, a ciascuna morte, soprattutto alle più assurde. La risurrezione è opera della memoria di Dio, che darà forma compiuta ai frammenti di bellezza, di bontà, di verità presenti nella nostra vita. “Risurrezione”, a ben guardare, è sinonimo di “Dio”. Perché risurrezione è ri-creazione, è trasformazione, è memoria che vive nell’eternità. È la vita di Antonella, la vita di ciascuna singola persona che Dio accoglie e custodisce (chiamandola teneramente per nome, come dice Isaia) per portarla poi a pienezza e a compimento. Non so molto della risurrezione, non so come avverrà la nostra, ma credo che la risurrezione di Cristo sia il segreto delle nostre storie personali, che i morti riposino nella memoria di Dio, che Dio tenga nel palmo della mano il senso della vita di ciascuno di noi.

La morte è solitudine estrema, perché rappresenta la fine di ogni possibilità di relazione: ce lo dice la nostra esperienza, lo sapete voi, familiari di Antonella, che vedete crudelmente troncata qualsiasi relazione con lei; ma ce lo dice anche la Bibbia. Ebbene: “risurrezione” significa non essere più soli, nonostante la morte, a dispetto della morte. Il Catechismo di Heidelberg si apre con la domanda: “Qual è la tua unica consolazione in vita e in morte?”, domanda che riceve una risposta memorabile: “Che col corpo e con l’anima, in vita e in morte, non sono mio, ma appartengo al mio fedele Salvatore Gesù Cristo, che col suo sangue prezioso ha pagato pienamente per tutti i miei peccati … Pertanto egli mi assicura anche la vita eterna per mezzo del suo Spirito Santo”. Un altro significato di “risurrezione” potrebbe allora essere: “venire accompagnati”. Noi abbiamo questa certezza: ovunque il nostro viaggio ci condurrà, noi saremo là dove c’è Gesù, e Gesù sarà là dove saremo noi, per dire a ciascuno di noi “tu sei mio”. E se noi siamo vissuti in comunione con Gesù, come è vissuta Antonella, in questa comunione con lui noi riceveremo qualcosa che la morte non potrà mai distruggere. Questo “qualcosa” sfugge completamente ai nostri concetti e alle nostre rappresentazioni, ma ha un nome: si chiama Spirito Santo.

Sorelle e fratelli, purtroppo in noi, che pure abbiamo ricevuto lo Spirito di adozione, è rimasto ancora qualcosa di quello “spirito di servitù” che, come dice Paolo, ci fa sempre di nuovo “ricadere nella paura” dinanzi alla morte. Tanto più, dunque, affermare la risurrezione che in Cristo aspetta Antonella, aspetta tutti noi, è un dovere davanti alla protervia, all’ingiustizia della morte dinanzi alla quale Gesù stesso si ribellava. Affermare la risurrezione significa affermare la nostra fiducia nella giustizia di Dio, significa richiamare Dio alla sua promessa, perché qui è in gioco l’onore di Dio. Lo Spirito di adozione non ci ha ancora fatti completamente suoi, perché allora non avremmo più paura; e tuttavia crediamo che il muro della morte, dell’incredulità, della paura è stato abbattuto una volta per tutte con la risurrezione di Gesù. E penso che il modo migliore di onorare la memoria della nostra Antonella sia appunto quello che stiamo facendo adesso, quello che spero continueremo a fare anche in futuro: trovarci a parlare di risurrezione insieme. A parlare con le nostre povere, balbettanti, incerte parole; ma a parlarne, per ricordare a noi stessi e al mondo che alla morte non spetta l’ultima parola. Amen.”

Is 43:1; Gv 11:20-44; Rm 8:1-2,11,15-17 (testo di predicazione)