Sermone: Cantate!

In Germania c’è un detto “i vestiti fanno le persone”. È vero? – In un certo senso direi di sì. Anch’io mi metto la toga solo la domenica per il culto e non la porterei durante la settimana, di solito mi cambio addirittura ancora prima di salutarvi. La toga è il segno del dottore, vuole mostrare che non vi racconto qui dal pulpito solo i miei pensieri ma che dietro alla predicazione c’è lo studio. Forse la toga non la metto neanche per mostrare qualcosa a voi, piuttosto aiuta a me ad entrare in questo ruolo di pastora. È un discorso un po’ strano, ma quando indossiamo certi abiti, ci sentiamo anche diversi. Per questo abbiamo abiti da festa e abiti da lavoro.
Soprattutto quando vogliamo fare vedere a qualcuno chi siamo, o chi possiamo essere, diventa importante l’abito. Questo involucro è in un certo senso un simbolo per ciò che vogliamo presentare. Per questo i ragazzi si mettono dei vestiti belli quando vanno a presentarsi per un nuovo lavoro o quando si presentano la prima volta alla futura suocera.
Lo sappiamo anche bene, che un bell’abito non rende ancora una persona buona. Abbiamo tante, troppe persone attorno a noi che curano bene l’aspetto esteriore, ma ciò che è dentro va a male.
Come dovremmo vestirci noi? Noi cristiani, come dovremmo apparire? – Spero che non ci sia una grande differenza tra ciò che si vede fuori e ciò che Gesù vede nel nostro cuore. Spero che noi non dobbiamo recitare un ruolo cristiano che non si rispecchia nella nostra fede.
Paolo dà nella lettera ai Colossesi dei consigli riguardo all’aspetto delle persone nella comunità. Vi leggo Colossesi 3,12 a 17
Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. 13 Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. 14 Al di sopra di tutte queste cose rivestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione. 15 E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti. 16 La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente; istruitevi ed esortatevi gli uni gli altri con ogni sapienza; cantate di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali. 17 Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù ringraziando Dio Padre per mezzo di lui.
Quando Paolo dice ‘Rivestitevi’, non intende dei vestiti di stoffa che possono fare apparire una persona diversa dalla realtà. Paolo intende piuttosto delle caratteristiche che le persone nella comunità devono indossare per sempre come ‘gioielli’, come ‘abito da festa’.
Guardiamo con chi parla Paolo. – Non è un gruppo qualsiasi, ma sono gli eletti, i santi, gli amati da Dio. Così vede l’apostolo questa comunità a Colosse. Ma gli attributi sono validi anche per noi. Anche noi cristiani qui a Padova siamo eletti, santi e amati da Dio.
La comunità di Colosse era ancora molto giovane. Non avevano la lunga tradizione cristiana che noi abbiamo alle spalle. Per questo gli ammonimenti di Paolo servono per dare loro qualcosa come una bussola per la loro fede. E possiamo dire che Paolo rimane piuttosto concreto nei suoi consigli. Non lascia niente al caso.
Talvolta incontro persone che cercano proprio questo: uno che dice chiaramente che cosa devono fare e che cosa no. E visto che Paolo non formula neanche delle idee assurde potremmo dire: se tutti vivessero così, sarebbe una vita pacifica e piena di armonia per tutta l’umanità.
Quando guardiamo invece un po’ più a fondo nel testo, vediamo che Paolo descrive un’immagine ideale per farci vedere come tra di noi cristiani ci si dovrebbe comportare. Paolo non descrive la situazione come la vive lui o come la vede in qualche comunità, ma piuttosto la meta dove sarebbe bello arrivare seguendo Cristo. Contemporaneamente egli dà con le sue parole una mappatura per la via sulla quale possiamo raggiungere la meta, raggiungere Cristo.
Com’è questa via e la meta della sequela che Paolo descrive? Che cosa dicono le sue parole ai cristiani di Colosse e con questo a noi oggi, cristiani qui a Padova?
Paolo dice che il nostro carattere dovrebbe consistere in misericordia, benevolenza, umiltà, mansuetudine e pazienza. E l’amore deve essere l’elemento che lega tutto. L’amore è il vincolo della perfezione che tiene e porta tutto. Gesù Cristo è questo vincolo, quest’amore. E la pace di Cristo … regni nei nostri cuori ci porti alla riconciliazione e verso la gratitudine. E se La parola di Cristo abita in noi abbondantemente, ci porterà automaticamente alla sequela. Nella sua parola troviamo verità e sapienza che ci aiutano a trovare la via e a non perdere di vista la meta. Siamo esortati a cantare di cuore a Dio, …salmi, inni e cantici spirituali, tutta la nostra vita dev’essere piena di gratitudine per l’amore di Dio e per la sua misericordia. E tutte le nostre opere, tutto ciò che pensiamo, diciamo e facciamo deve avere il suo principio e compimento in Cristo.
Quando ricapitoliamo questo testo, potremmo dire: si dovrebbe riflettere su ogni singola frase. Si potrebbe addirittura scrivere una predicazione su ogni argomento. – Ma forse vi viene più da dire: Sappiamo bene, che non siamo le persone ideali come dovremmo essere di fronte a Dio. Anche se facciamo tanta fatica ad arrivarci, alla fine tutto lo sforzo rimane un lavoro imperfetto. E comunque Paolo ci chiama eletti di Dio, santi e amati. Come possono andare queste due cose insieme?
Paolo scrive nella lettera ai Romani di se stesso il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio (Rom 7,19). È purtroppo spesso così nella nostra vita, ma non dobbiamo rassegnarci, possiamo di nuovo con Paolo sperare in Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo (Fil 2,13). Alla fine sta tutto nelle mani di Dio, e abbiamo la promessa che egli ci vuole portare alla meta, cioè presso di sé.
Visto che questa domenica è intitolata ‘cantate’, vorrei riprendere alla fine un punto specifico di tutto l’elenco di Paolo. Egli dice cantate di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali. – Quale valore ha per voi il cantare nel culto? In che senso ci può portare il canto più vicino a Dio o al nostro prossimo?
Quando cantiamo al culto, i testi degli inni sono spesso preghiere cantate, sono spesso parole che si indirizzano direttamente a Dio, ma contemporaneamente queste parole mi legano anche con il resto della comunità, con gli altri che cantano le stesse parole con me. Così abbiamo da un lato l’asse verticale con Dio e dall’altro l’asse orizzontale con gli uomini. Quando ho la possibilità di pregare e cantare insieme con altre persone? Nel culto – e sono spesso gli inni nei quali la parola di Cristo abita abbondantemente.
Possiamo discutere tanto sullo stile della musica, e con qualcuno di voi l’ho già detto che io personalmente preferisco la musica più vivace di quanto la sento talvolta nella nostre chiese. Ma tutto ciò è secondario. L’importante sono i testi degli inni e che li cantiamo, non solo così perché si deve, ma di pieno cuore, consapevoli di stare di fronte al trono di Dio con il nostro canto.
Ricordo sempre volentieri la nostra tradizione metodista quando si parla di canti spirituali. Charles Wesley ha evangelizzato le masse con i suoi inni. Ha preso canzoni popolari che si cantavano nei pub e applicava a queste melodie un testo nuovo. Le predicazioni di suo fratello John erano buone, ma si sentivano una volta sola, gli inni invece rimanevano nella testa della gente e da lì le parole scendevano pian pianino nei cuori. Questo è il miracolo degli inni, che li portiamo con noi e nel momento giusto saltano fuori a confortarci o a darci parole di gioia.
Se cerchiamo di mettere in pratica ciò che dice Paolo, se cerchiamo di metterci questo nuovo vestito di cui parla, forse potremmo iniziare con un vestito da corista. Possiamo cantare la nostra fede per proclamarla davanti a Dio, davanti agli altri uomini e alla fine anche davanti a noi stessi. E se sentiamo bene che cosa dicono questi inni che cantiamo può cambiare qualcosa in noi e forse anche nel nostro mondo.
Martin Lutero ha scritto come prefazione a un innario dei suoi tempi: “Cantate al SIGNORE un cantico nuovo, cantate al SIGNORE, abitanti di tutta la terra! (Salmo 96,1) poiché Dio ha fatto gioire il nostro cuore tramite il suo figlio amato, che si è dato per noi per salvarci dal peccato, dalla morte e dal diavolo. Chi crede questo non può tacere. Deve cantarlo e proclamarlo con gioia, così che tutti lo sentano e si avvicinino.”
Amen
Ulrike Jourdan

Sermone: La vittoria dell’amore

Quando la sera torno da Padova a Vicenza ascolto spesso un programma radio nel quale la gente chiama per raccontare le sue avventure amorose. Spesso sono delle vicende che non sono finite bene e poi si scherza su come uno si potrebbe vendicare del partner che ha procurato tanto dolore. Sembra importante per il proprio ego potersi vendicare, poter vincere alla fine anche se l’amore è già perso.

Di questo vorrei riflettere oggi con voi delle vittorie e delle perdite nella vita.

Leggo dalla prima lettera di Giovanni 5,1-4

Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chiunque ama colui che ha generato, ama anche chi è stato da lui generato.  2 Da questo sappiamo che amiamo i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti.  3 Perché questo è l’amore di Dio: che osserviamo i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi.  4 Poiché tutto quello che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.

Questo testo finisce con un colpo di scena: la nostra fede è la vittoria che ha vinto il mondo. Il mondo è vinto, superato, non servono più le rivendicazioni, le logiche di questo mondo non hanno più valore. La fede vince sopra le leggi del mondo. Questo vuol dire: il mondo non si trasforma in una data precisa o legata a qualche evento, ma la fede, l’atteggiamento verso la vita cambiano il mondo.

La fede è più che un semplice atteggiamento, ma non abbiamo tante altre parole che possono descrivere che cos’è l’opera della fede in noi. La fede è una specie di fiducia che si innesta. Fiducia in se stessi, fiducia in Dio, fiducia nel prossimo. Questa fiducia viene dall’amore di Dio che i credenti in qualche modo hanno sperimentato.

Questa fede non si esaurisce né nell’interpretazione del mondo, né nel suo cambiamento. Però la fede si mette in relazione con il mondo. Detto concretamente: una fede vissuta e la rivendicazione non vanno insieme, di pari passo, anzi siamo esortati a benedire quelli che ci maledicono e a pregare per quelli che ci oltraggiano. (Luca 6,28) La fede fa i conti con una vittoria che è già avvenuta e trova in quel modo una nuova relazione verso il mondo. Le piccole vittorie personali non hanno più valore perché sono illuminate dall’una, grande vittoria della fede.

Chi ha una fede solida non deve proccurarsi delle piccole vittorie delle rivendicazioni, del mobbing, dello sparlare e di tanti altri metodi sottili con i quali andiamo alla guerra in questa vita. Non servono più per chi crede. Possiamo rilassarci, perché la battaglia è già vinta.

Forse c’è qualcuno tra di voi che pensa: bella teoria, la pratica è diversa. – So bene quanto profondamente in noi sono radicati i pensieri egoistici e negativi. Ho un vicino di casa che vorrei spedire sulla luna almeno due volte a settimana e mi vengono tante idee perfide su come potrei rendergli dura la vita. – Proprio perché non siamo dei santi, ma ci confrontiamo con questo mondo che può essere molto fastidioso, proprio per questo mi aiuta ascoltare quel versetto: questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.

Durante la prima guerra mondiale, questa frase è stata utilizzata per predicare la guerra. Si credeva di dover vincere, però in guerra si può solo perdere. – La vittoria della fede è già avvenuta, è la premessa e non la meta. La fede non è un programma per vincere, non opera con la forza bensì con amore.

Penso che tre passi ci possono portare verso questa vittoria: l’esperienza di Dio, l’esperienza della fede e l’esperienza della fraternità.

 

Esperienza di Dio

Quella donna in radio della quale vi ho raccontato aveva fatto delle esperienze brutte. Aveva un fidanzato, voleva fidarsi di lui, ma lui ha deluso questa fiducia. Nessuno può vivere senza fiducia e questa donna ne sente ora la mancanza. Quando stavano insieme, si poteva fidare e tutto andava bene, ora lei è arrabbiata, furiosa, malvagia.

Anche il nostro testo biblico parla di fiducia. È la fiducia verso Dio che si presenta come amico e padre. Però avere fiducia non è semplice quando abbiamo fatto esperienza di come le persone possono abusare della nostra fiducia. La ritroviamo solo confrontandoci con il messaggio di Gesù. Lui è la persona umana che ci può dare la fiducia che contemporaneamente diventa fiducia in Dio. Ascoltiamo ancora una volta il nostro testo: Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chiunque ama colui che ha generato, ama anche chi è stato da lui generato. La fiducia in Dio porta alla fiducia in Dio il creatore e con questo all’amore verso il creato e le creature.

Da questo sappiamo che amiamo i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. L’amore per Dio viene collegato con l’ubbidienza ai comandamenti. Quante volte sento ripetere che la chiesa deve occuparsi della chiesa e il mondo del mondo. Un’idea che condivido se si tratta di distinguere gli ambiti della chiesa e quelli dello stato. Non condivido però questo pensiero quando qualcuno pensa che la domenica si possa (o si debba) parlare di cose da chiesa mentre durante la settimana viviamo secondo le regole del mondo. No. Chi ama Dio osserva i suoi comandamenti in tutti gli ambiti della vita. (Esodo 20) Non uccidere – Neanche a distanza, facendo finta di non sapere.  Non rubare – Neanche le tasse che sono antipatiche a tutti. Non attestare il falso contro il tuo prossimo. – Neanche contro il vicino che ti fa uscire fuori di testa.

Chi fa esperienze con Dio ne trarrà anche delle conseguenze per la propria vita. Questa esperienza con Dio si mostra nell’amore, così descrive Giovanni la relazione con Dio. E vivendo quell’amore si sviluppa la forza che regge la nostra vita, la forza che porta la vittoria sul mondo e su tutto ciò che fa male.

A quella donna in radio Dio direbbe forse: Tu non devi combattere per la tua dignità e la tua autostima. Ho già vinto tutto io per te. – L’esperienza della fede non può annullare ciò che è successo a quella donna, ma può spostare quest’esperienza negativa in un contesto più ampio. Giovanni dice che nell’attenerci ai comandamenti possiamo sperimentare noi l’amore di Dio tramite il nostro agire. Così sperimentiamo la base della fiducia che viene sintetizzata nel doppio comandamento d’amore: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». (Luca 10,27)

Forse è importante sottolineare che non si tratta di un dovere. Non è che devo amare, però posso sperimentare l’amore verso di me, posso sperimentare di non dover vivere l’odio, posso sperimentare la vittoria che è già avvenuta.

 

Esperienza della fede

Quel processo di apprendimento è la fede. E il nostro testo ci dice che la fede e l’amore vanno insieme. Credere in Dio vuol dire vedere la vita come un dono, non come possesso. Forse anche questo è stato uno degli errori della donna in radio. Ha visto la sua relazione come una proprietà che le viene rubata. È certo che se mi viene sottratto qualcosa lo voglio in retro. Però la vita non è il mio possesso. Chi vede la vita come dominio proprio pensa anche che è in qualche modo merito proprio com’è questa vita. La fede ha un altro approccio. La fede non intende la vita come un avere, piuttosto come un essere. Quella donna tradita è però fissata sull’avere ciò che le è stato tolto e non percepisce che con la sua reazione distrugge anche l’essere della sua vita. La rivendicazione non vince il mondo ma cementa piuttosto il gioco delle tenebre, dell’odio e della guerra che in qualche modo sentiamo dentro di noi.

 

Esperienza di fraternità

La diffidenza nella propria capacità di amare e il sentimento di poter possedere altre persone porta in quel caso di perdita verso l’odio e la violenza. Come potrebbe essere diversamente?

Il nostro testo biblico mostra una via diversa attraverso la fede. E in questo la fede è un processo di apprendimento. Non possiamo ‘avere’ la fede, però possiamo cercare di viverla. Vivere la fede vuol dire fidarsi non solo di se stesso, ma anche di Dio e anche di altre persone. Una fede vissuta si fa vedere nella capacità di superare delusioni e vivere invece la riconciliazione e il perdono. Non è solo il pensiero che la vita va oltre, ma la vita va oltre con Dio al mio fianco. Fede vuol dire essere amato e amare altri. Amare altri ed essere amato. Amare Dio, amare il prossimo, amare se stesso. Questo è la nostra vittoria.

Amen

 

Ulrike Jourdan

Sermone: Di pastori e pecorelle

Ezechiele 34,1-2 . 10-16 . 31

La parola del SIGNORE mi fu rivolta in questi termini:  2 «Figlio d’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele; profetizza, e di’ a quei pastori: “Così parla DIO, il Signore: Guai ai pastori d’Israele che non hanno fatto altro che pascere sé stessi! Non è forse il gregge quello che i pastori debbono pascere? 

10 Così parla DIO, il Signore: Eccomi contro i pastori; io domanderò le mie pecore alle loro mani; li farò cessare dal pascere le pecore; i pastori non pasceranno più sé stessi; io strapperò le mie pecore dalla loro bocca ed esse non serviranno più loro di pasto.  11 «Infatti così dice DIO, il Signore: Eccomi! io stesso mi prenderò cura delle mie pecore e andrò in cerca di loro.  12 Come un pastore va in cerca del suo gregge il giorno che si trova in mezzo alle sue pecore disperse, così io andrò in cerca delle mie pecore e le ricondurrò da tutti i luoghi dove sono state disperse in un giorno di nuvole e di tenebre;  13 le farò uscire dai popoli, le radunerò dai diversi paesi e le ricondurrò sul loro suolo; le pascerò sui monti d’Israele, lungo i ruscelli e in tutti i luoghi abitati del paese.  14 Io le pascerò in buoni pascoli e i loro ovili saranno sugli alti monti d’Israele; esse riposeranno là in buoni ovili e pascoleranno in grassi pascoli sui monti d’Israele.  15 Io stesso pascerò le mie pecore, io stesso le farò riposare, dice DIO, il Signore.  16 Io cercherò la perduta, ricondurrò la smarrita, fascerò la ferita, rafforzerò la malata, ma distruggerò la grassa e la forte: io le pascerò con giustizia. 

31 Voi, pecore mie, pecore del mio pascolo, siete uomini. Io sono il vostro Dio, dice il SIGNORE”».

Caro Gregge,

non so se vi piace questo modo di essere chiamati. Non so se vi percepite come delle pecorelle anche se mi chiamate pastora e non so chi tra di noi potrebbe essere il montone alla guida del gregge. Forse nessuno di voi sarebbe fiero di essere chiamato così. Caro gregge, o meglio ancora, care pecorelle: questo modo di chiamarvi non mi fa pensare a dei membri di chiesa responsabili. Anche se talvolta ammetto di essermi già sentita in chiesa come in un gregge di pecore che belano tutte quante insieme. In queste situazioni mi chiedo sempre: di chi è la colpa, delle pecore indisciplinate o del pastore che non riesce a condurre la mandria?!

Nell’insieme mi piacciono le pecore. Non mi capita spesso di vedere un gregge ma quando passo davanti ad uno, mi fermo quasi sempre per guardare le pecore e gli agnellini. Da bambina volevo diventare pastora di pecore, almeno così ho scritto nei libri di poesia delle mie amiche. Un pastore può sempre essere nella natura, può muoversi liberamente, ha un cane e tutte queste belle pecorelle. Un pastore può godersi la solitudine e la tranquillità – che bella immaginazione per una ragazzina di 8 o 9 anni. Alla fine, comunque, ha funzionato e in qualche modo e sono diventata pastora, anche se le pecorelle sono diverse e manca il cane. Ascoltando bene il testo di Ezechiele, però, ci rendiamo conto che le cose non sono proprio così semplici per i pastori.

Ezechiele è tra i profeti di cui ci parla il primo testamento decisamente quello più sopra le righe. Lui accompagna il suo messaggio con delle immagini forti, talvolta macabre e sottolinea il tutto con delle performance. Per esempio si mette su una piazza per cucinare carne buona in una pentola vecchia e arrugginita. Cuoce il tutto fino a quando la carne è totalmente bruciata e si mischia con la ruggine della pentola. A quel punto inizia con la sua predicazione e spiega alle persone che la pentola sarebbe un immagine per Gerusalemme e la carne per gli abitanti di Gerusalemme, il fuoco invece rappresenterebbe Dio. Ezechiele predica con quell’immagine la purificazione per mezzo del fuoco divino.

Anche nel testo che abbiamo letto noi, Ezechiele non ha proprio peli sulla lingua. Il profeta dice: ‘Voi pastori vivete la bella vita. Vi godete il vostro potere che avete nei confronti delle pecore ma non le accudite.’ Con quest’immagine Ezechiele attacca tutti quelli che hanno del potere. Il re, ma anche i sacerdoti nel tempio e i profeti ingaggiati dal re. Ezechiele dice: guai ad un re che non si preoccupa del suo popolo come dovrebbe! Guai ai sacerdoti che portano il popolo verso false divinità! Guai, perché non è un popolo qualsiasi. È il popolo eletto da Dio. E Dio non scherza quando si tratta del suo popolo eletto. – Tutti quelli che hanno del potere corrono il rischio di usare male questo potere: questo vale per genitori e figli, superiori e sottoposti, per insegnanti e allievi e tanti altri. Il nostro passo biblico ci dice che Dio si mette sulla parte dei deboli.

Ma la Bibbia ci dà anche un criterio per giudicare i sovrani. Ci viene detto che non è importante che sappiano dimostrare la loro potenza. Chi è forte deve far vedere la sua forza in favore dei più deboli e deve abolire le condizioni di disagio. Il problema è che dai tempi di Ezechiele fino a oggi i forti tentano di approfittare dei più deboli e alla fine si dice che sarebbe colpa loro (…dei deboli). È molto radicato nell’essere umano il fatto di guardare a se stesso, di vivere in un grande egoismo e di chiedersi, di fronte alle decisioni a prendere: in che cosa giova a me? Quale vantaggio mi porta il mio agire? Queste sono domande radicate molto profondamente in noi. E in questo non dobbiamo guardare in alto ai superiori, ai capi economici o politici o alla dirigenza della chiesa, ma possiamo guardare a noi stessi.

Dio vuole essere il buon pastore. Presso di lui vale: chi si è perso viene cercato, che si è ferito viene curato, chi è debole viene sostenuto. E nonostante tutto ciò, Dio non è contro i forti. Anche i forti devono essere sostenuti e curati. Questo è importante. Anche quelli forti possono vivere la loro forza, solo non la devono vivere contro i più deboli. Così come Dio vuole curare i malati e offesi, parimenti vuole anche che non dobbiamo nascondere i nostri lati forti, anzi, vuole che incrementiamo ancora le nostre forze. – Martin Lutero ha detto una volta: ‘Un melo porta delle mele. Non cambia il suo frutto per una falsa umiltà o per vergogna di portare buon frutto in pere di legno’ Vuol dire: chi porta buon frutto può essere fiero di questo e può mostrarlo. Anche per questo servono i pastori: per individuare e favorire dei doni. Non solo i doni che piacciono ai pastori, ma tutti i doni che Dio ha dato devono essere sostenuti e incrementati. Anche nei nostri lati deboli si trova spesso tanto potenziale che non viene utilizzato. Non dobbiamo nascondere i nostri doni, ma utilizzarli.

Ma Ezechiele non parla alle pecore, quanto ai pastori. Perché loro trovano sempre, per tutto ciò che va male, una buona scusa. Il profeta, invece, addebita a loro questa situazione. Voi non avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito la malata, non avete fasciato quella che era ferita, non avete ricondotto la smarrita, non avete cercato la perduta, ma avete dominato su di loro con violenza e con asprezza. (Ezechiele 34,4) Esistono abbastanza esempi di abuso di potere. Quando il popolo non viene ascoltato o addirittura gli viene negato di esprimere una propria opinione. Dobbiamo solo aprire il giornale e subito abbiamo abbastanza esempi davanti agli occhi. Ezechiele punta il dito contro questa situazione e grida: guai a voi pastori.

Sarebbe facile dire: è giusto che quelli che hanno potere si prendano una ripassata! Hanno pensato per troppo tempo solo a se stessi. – Ma noi oggi viviamo in una democrazia, almeno in Europa. Il nostro stato è organizzato secondo principi democratici e la nostra chiesa è il massimo della democrazia. Per questo non è così facile oggi fare questo discorso del sotto e sopra. Se nella nostra società succedono delle ingiustizie siamo sempre anche noi in qualche modo coinvolti. Nessun politico nasce nella sua posizione e ci sarà sempre una prossima elezione. Nessun pastore ha ricevuto la consacrazione senza lettere di raccomandazione di varie chiese e dopo tante prove. Nessuno nella nostra chiesa fa fede di essere insostituibile o infallibile.

In questo discorso di Ezechiele, lui intende con i pastori i capotribù che regnano il popolo. Oggi le persone a cui si rivolge il messaggio di Ezechiele sarebbero tante, cioè tutti quelli che in qualche modo portano responsabilità, sia al lavoro o in politica o nella chiesa. In tutti noi si cela una parte di pecora e anche una parte di pastore. Tutti quanti dobbiamo sentire la predicazione di Ezechiele.

Questo vale per la sua condanna dei pastori ma anche per la promessa di Dio: Eccomi! io stesso mi prenderò cura delle mie pecore e andrò in cerca di loro. Dio stesso vuole intervenire. Il Signore vuole prendersi la responsabilità. E così dice concretamente: Io cercherò la perduta, ricondurrò la smarrita, fascerò la ferita, rafforzerò la malata. Così Dio fa vedere che è del tutto diverso da tanti altri regnanti. Egli fa ciò che gli altri non vogliono fare o forse non sono neanche in grado di farlo. Dio è un Dio per tutti quelli che ne hanno bisogno, per i deboli e per i forti.

E ancora un altro aspetto è importante. Dio dice che egli stesso vuole pascolare il suo gregge. Egli stesso cerca la relazione con gli uomini. Egli stesso si assume la responsabilità, si sporca le mani e non gli pesa di occuparsi di loro. Dio cerca una relazione con noi uomini e non smetterà di cercare tutte quelle persone singole e smarrite e perse finché abbia trovato tutti quanti.

Proprio perché noi siamo così importanti per Dio, lui controlla quelli che hanno delle responsabilità. Proprio per questo si immischia sempre di nuovo, e per questo manda degli uomini come Ezechiele per dare voce a ciò che non va in questo mondo. E sì, ci sono abbastanza cose che non vanno e che devono essere dette. Esistono parecchie persone di potere che non usano tanto bene il loro potere.  – Ma Dio non le stermina. L’eterno Iddio, il Signore dei Signori agisce diversamente. Cerca gli esseri umani, diventa uno di noi. E visto che ama in particolare i deboli, i persi, i feriti, per questo non viene come Signore in questo mondo, ma come debole bambino. Diventa povero per cercare i poveri. Diventa un senza tetto per essere vicino ai profughi, soffre per raggiungere i sofferenti. Egli è il vero pastore. Egli è il pastore che non cerca niente per se stesso ma da tutto per il gregge, da addirittura se stesso per il gregge.

Egli ci invita oggi ad affidarci a lui, il buon pastore. Egli che accompagna i forti e custodisce i deboli. Egli che conosce le acque fresche e i buoni pascoli. Egli che conosce la via. A lui possiamo affidarci e gioire insieme con il buon pastore. Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Trovare Pasqua nella quotidianità

È arrivata la settimana dopo Pasqua. La maggior parte delle uova sono mangiate e le colombe spariscono pian pianino dai supermercati; i ragazzi hanno ripreso la scuola e gli adulti sono tornati al lavoro. Ci siamo di nuovo immersi nella nostra vita quotidiana. Così è la situazione una settimana dopo Pasqua, oggi.

Una settimana dopo la prima Pasqua vediamo sette discepoli che riprendono anche la loro vita quotidiana. Erano presenti sotto la croce, hanno visto la morte di Gesù, almeno da lontano e sono caduti in un mare di ansie. Sono spariti dalla città nemica Gerusalemme per rifugiarsi in un luogo dov’era ancora tutto in ordine, in Galilea, al lago di Genezaret dove vivevano anche prima della loro avventura con Gesù. Sono ritornati al loro lavoro, perché che cosa gli rimane adesso senza il loro maestro? Sono ritornati a ciò che conoscono.

Ma anche lì non hanno successo. Lavorano senza avere fortuna, non pescano niente. Chi conosce la Bibbia si ricorda che così è già stato una volta. Così è iniziata la loro storia quando Gesù li chiamava a essere i suoi discepoli. Il cerchio si chiude. Ma come succede talvolta, non lo vedono. Sono come ciechi. Non si ricordano che hanno già vissuto una volta tutto ciò, percepiscono solo la loro debolezza in questo momento. Gli serve aiuto.

L’evangelista Giovanni ci racconta di questa strana prima settimana dopo Pasqua. Leggo Giovanni 21,1-14

Dopo queste cose, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli presso il mar di Tiberiade; e si manifestò in questa maniera.  2 Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e due altri dei suoi discepoli erano insieme.  3 Simon Pietro disse loro: «Vado a pescare». Essi gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Uscirono e salirono sulla barca; e quella notte non presero nulla.  4 Quando già era mattina, Gesù si presentò sulla riva; i discepoli però non sapevano che era Gesù.  5 Allora Gesù disse loro: «Figlioli, avete del pesce?» Gli risposero: «No».  6 Ed egli disse loro: «Gettate la rete dal lato destro della barca e ne troverete». Essi dunque la gettarono, e non potevano più tirarla su per il gran numero di pesci.  7 Allora il discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!» Simon Pietro, udito che era il Signore, si cinse la veste, perché era nudo, e si gettò in mare.  8 Ma gli altri discepoli vennero con la barca, perché non erano molto distanti da terra (circa duecento cubiti), trascinando la rete con i pesci.  9 Appena scesero a terra, videro là della brace e del pesce messovi su, e del pane.  10 Gesù disse loro: «Portate qua dei pesci che avete preso ora».  11 Simon Pietro allora salì sulla barca e tirò a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci; e benché ce ne fossero tanti, la rete non si strappò.  12 Gesù disse loro: «Venite a far colazione». E nessuno dei discepoli osava chiedergli: «Chi sei?» Sapendo che era il Signore.  13 Gesù venne, prese il pane e lo diede loro; e così anche il pesce.  14 Questa era già la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli, dopo esser risuscitato dai morti.

I discepoli sono arrivati al punto più basso, così come Gesù l’aveva già previsto dicendo loro: Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi coraggio, io ho vinto il mondo Giov 16,33. Sono scappati dalla croce, fuggono nel loro lavoro, hanno paura, manca loro il coraggio e la speranza. Non trovano più niente che li potrebbe tirare su, non trovano più un senso nella loro vita. Cercano il lavoro per non dover pensare, per immergersi nelle attività. – È un metodo molto comune e ben visto oggi quello di tuffarsi nel lavoro per non dover pensare o affrontare certi problemi. Oggi chiamiamo questa gente ‘Workoholic’. Ciò che loro non vogliono sentire è che il loro metodo di negare i problemi non è meglio del metodo di un alcolista che beve per non dover pensare, o di un giocatore che investe i suoi soldi per avere un po’ di speranza nel suo mondo di problemi. Fanno tutti quanti male questi metodi che ci permettono di non pensare e non sentire niente.

Per i discepoli si ripete nel loro lavoro una storia che noi abbiamo già sentito una volta, solo loro sono così immersi nel lavoro che non si ricordano più. Lavorano tutta la notte senza avere successo e poi quando c’è già la luce e i pesci spariscono nel profondo del lago, viene uno che li esorta a gettare le reti ancora una volta. Loro lo fanno e il successo è incredibile, è inverosimile.

Il discepolo più amato da Gesù  – oggi pensiamo che sia Giovanni con il nome del quale è scritto il vangelo e che non voleva essere chiamato col proprio nome – Giovanni capisce per primo e lo dice a Pietro: È il Signore! Pietro si sveglia come da un incubo, si veste subito e si butta in acqua per essere il primo che raggiunge Gesù, che nel frattempo ha acceso per loro un fuoco, per mangiare insieme. È già tutto pronto per loro, non servono neanche i loro pesci.

Ricordatevi che questa domenica si chiama Quasimodogeniti, come bambini appena nati; così sembrano i discepoli adesso. Adesso il Signore è proprio risorto anche per loro. Proprio Pietro che aveva negato di conoscere Gesù per tre volte ancora pochi giorni prima, percepisce adesso la resurrezione. E non intendo solo la resurrezione di Gesù, direi che Pietro ha vissuto la sua resurrezione: viveva nel peccato, combatteva con i sensi di colpa, doveva nascondersi nel suo lavoro per non dover pensare e adesso è tutto cambiato. Il peccato è stato perdonato e Pietro può ricominciare da capo come un bambino appena nato. Adesso può vestirsi per andare al lavoro, ma non ad un lavoro che gli faccia dimenticare tutto, ma un lavoro con uno scopo.

Pasqua rimane per noi un evento che possiamo solo percepire se abbiamo incontrato noi stessi il Signore risorto. Pasqua ci fa gioire solo se siamo morti e risorti anche noi con lui per vivere una nuova vita che non è più sotto il potere del peccato, ma fa parte del regno di Dio.

Possiamo paragonare questi sette discepoli nella loro barca, alla barca della chiesa. Loro lavorano duro, tutta la notte ma non hanno successo. Poi iniziano di nuovo a fare un lavoro che secondo le regole di questo mondo non dovrebbe per niente avere successo, ma lo fanno nella speranza e il miracolo succede.

Questa è una promessa che abbiamo noi come credenti, di trovare Gesù Cristo non solo nei momenti speciali, ma piuttosto nella nostra quotidianità. Non è importante il nostro successo. Se pensiamo di dover pescare con la nostra forza e le nostre capacità troviamo alla fine solo qualche pesciolino o gamberetto nelle reti, ma quando lavoriamo insieme con Gesù non valgono più le leggi di questo mondo.

Non importa se noi siamo in grado di riempire le nostre reti, perché c’è Gesù che ci aspetta già alla riva con tutto ciò di cui abbiamo bisogno. È già tutto pronto per noi così che possiamo gustare e vedere quanto l’Eterno è buono.

Se ci fa problemi credere veramente che Gesù si preoccupi di noi, se facciamo fatica a credere che egli possa proprio fare il miracolo e riempire le reti della nostra comunità e della nostra vita, allora siamo in buona compagnia con i discepoli che nemmeno potevano crederlo. Anche loro non hanno capito che quell’uomo che gli diceva di gettare un’altra volta le reti era Gesù, e non avevano neanche il coraggio di chiedergli chi sia.

Talvolta può essere duro affidarsi a Dio. Quando parliamo nel nostro consiglio di chiesa di questioni finanziarie o cerchiamo una persona che potrebbe prendere un determinato incarico nella comunità, può essere duro credere veramente che Dio abbia già previsto tutto per noi. Io faccio spesso fatica. Ma abbiamo la promessa che Dio ci guida e ci porta nel nostro lavoro.

Gesù si preoccupa per quelli che si affidano a lui. È vicino a noi quando facciamo il nostro lavoro nel suo nome. E ciò che ci manca lo vede e ce lo mette nelle nostre mani aperte.

Senza di me non potete far nulla dice Gesù. Questa è una buona cosa.

Amen

Ulrike Jourdan