Sermone: Chi è il capo?

Oggi dopo il culto si riunisce l’assemblea di chiesa. Per questo è forse opportuno domandarsi chi sia a prendere le decisioni in questa chiesa. Chi decida qui da noi? Chi definisce la linea generale?

Alcuni direbbero forse: non siamo noi, è la Tavola o l’OPCEMI a decidere. A noi qui, comunque, nessuno chiede niente. Qualcun altro direbbe che è il consiglio di chiesa che prende tutte le decisioni o la pastora che decide. Qualcun altro insiste sulla democrazia di base e ricorda che tutti i membri di chiesa prendono insieme le decisioni. – Chi decide alla fine? Chi è il capo di quel gruppo chiamato chiesa?

Dio ricorda al suo popolo: Io sono il SIGNORE, e non ce n’è alcun altro; fuori di me non c’è altro Dio! (Isaia 45,5a). E Gesù chiede ai suoi discepoli: «Perché mi chiamate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico? (Luca 6,46) – Chi è il capo? Chi decide?

Dio lo dice chiaramente: sono io! Chi mi chiama Signore, faccia anche ciò che dico.

Gesù ha la pretesa di essere il capo in quella casa che è la sua chiesa. Lui vuol essere il capo anche della nostra chiesa qui a Padova.

Nella lingua italiana è difficile fare distinzioni quando usiamo la parola ‘Signore’. Parliamo del Signor Guargena o del Signor Anziani e quasi quasi sembra che sia un po’ come se dicessimo il Signor Gesù. Non è così!

In inglese è più facile distinguere. Si parla di Mister e di Lord. Eppure anche il paragone con i vecchi Lord inglesi non ci avvicina molto all’idea della signoria di Dio.

Ciò che noi oggi traduciamo con la parola ‘Signore’ aveva ai tempi di Gesù un suono completamente diverso. Gli evangelisti davano a Gesù il titolo di kurios. Si può tradurre questa parola con Signore, ma anche con proprietario o padrone. Vedete che ciò che noi intendiamo quando parliamo del Signore Dio ha poco a che fare con ciò che sentivano le persone ai tempi di Gesù. Il kurios era la massima autorità, non c’era nessuno sopra di lui. Era chi poteva dare ordini agli schiavi.

Anche l’imperatore romano era chiamato kurios. E quando la gente s’incontrava per strada, si salutava dicendo: ’Cesare è Signore’ e l’altro rispondeva ‘Sì, il Signore è Cesare’.

Cogliete il problema che i cristiani avevano. Anche a loro la gente si rivolgeva dicendo: ‘Cesare è il Signore’. Che rispondere? – Sicuramente qualcuno taceva, qualcuno avrà mormorato qualcosa, altri hanno risposto ‘No, Gesù Cristo è il Signore’. – Potete immaginarvi che questo atteggiamento determinasse dei problemi a lungo andare e dagli scritti che raccontano dalle persecuzioni cristiane sappiamo che i vari imperatori non hanno accettato un comportamento del genere.

Il problema non era che i cristiani non volessero utilizzare una determinata parola. Anche un imperatore romano è in grado di chiudere le orecchie. Il problema sostanziale era il fatto di accettare che i cristiani non vedessero nell’imperatore l’autorità assoluta. Loro dicevano: l’imperatore si può fidare di noi, siamo cittadini onesti e cerchiamo il bene della nostra città, però se dobbiamo scegliere tra Cesare e il kurios, tra l’imperatore terrestre e il re del cielo e della terra, sappiamo chi scegliere. Abbiamo consacrato la nostra vita a Cristo, lui ha il primo posto, lui è il kurios, il nostro Signore.

Questo è il messaggio che possiamo leggere anche nei vangeli. Gesù Cristo ha il potere, lui sta al centro e la buona novella del regno di Dio è riferita alla sua persona.

Il grande peccato di questo mondo, col quale combattiamo anche noi, è quando cerchiamo di mettere Gesù accanto per prendere noi il posto centrale. Siamo fatti così. Siamo egoisti se non ci lasciamo cambiare da Dio. Quante volte siamo caduti nella trappola e abbiamo cercato di mettere noi stessi in quel centro. Noi con i nostri bisogni – dimenticando ciò che vuole Dio.

L’altra settimana ho terminato ricordandovi l’importanza della preghiera, se non vogliamo cedere alla tentazione di testimoniare noi stessi. Ora vi leggo una preghiera che viene formulata dalla chiesa di Gerusalemme in un momento di confusione e paura, perché le autorità del tempio avevano messo Giovanni e Pietro in prigione.

Leggo dal libro degli Atti, 4,24-31

Essi alzarono concordi la voce a Dio, e dissero: «Signore, tu sei colui che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che sono in essi;  25 colui che mediante lo Spirito Santo ha detto per bocca del tuo servo Davide, nostro padre: “Perché questo tumulto fra le nazioni, e i popoli meditano cose vane?  26 I re della terra si sono sollevati, i principi si sono riuniti insieme contro il Signore e contro il suo Cristo”.  27 Proprio in questa città, contro il tuo santo servitore Gesù, che tu hai unto, si sono radunati Erode e Ponzio Pilato, insieme con le nazioni e con tutto il popolo d’Israele,  28 per fare tutte le cose che la tua volontà e il tuo consiglio avevano prestabilito che avvenissero.  29 Adesso, Signore, considera le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunziare la tua Parola in tutta franchezza,  30 stendendo la tua mano per guarire, perché si facciano segni e prodigi mediante il nome del tuo santo servitore Gesù».  31 Dopo che ebbero pregato, il luogo dove erano riuniti, tremò; e tutti furono riempiti dello Spirito Santo, e annunziavano la Parola di Dio con franchezza.

Vi sembra una preghiera da esprimere in un momento tragico, quando i leader della chiesa sono stati messi in carcere? Uno non se lo aspetterebbe. Non sentiamo le grandi lamentele. Non cadono nella tentazione di mettere se stessi al centro dell’attenzione. Loro lasciano il centro a Cristo. Lodano Dio e chiedono, nelle minacce, di concedere loro che si definiscono come servi, di annunziare la Parola in tutta franchezza.

Questa preghiera dice: Gesù è il Signore. Lo è anche in questo momento di scombussolamento, lo è nelle nostre paure, lo è quando non sappiamo bene come proseguirà il tutto. Gesù è il capo della chiesa.

Noi oggi qui a Padova non viviamo né la persecuzione, né le grandi paure – ma anche per noi vale: Gesù è il Signore. Penso che sia importante ricordarci questo, oggi prima dell’assemblea ma in generale in questo periodo poco prima dei festeggiamenti per il 150enario. Gesù è il Signore. Lo è stato 150 anni fa quando ha dato vita a questa chiesa. Lo è stato nei momenti molto difficili della storia e lo sarà in futuro.

Noi non dobbiamo fare i piccoli capi, non dobbiamo trovare le soluzioni per tutti i problemi che ci verranno incontro. Non dipende da noi con le nostre piccole forze, di salvare la chiesa. Gesù è il Signore e salvatore.

Noi siamo esortati a fare ciò che facevano già i primi cristiani. Hanno pregato. Hanno lodato Dio anche e soprattutto nei momenti difficili. Hanno cercato di dare vita a ciò che hanno letto nelle Sacre scritture. Hanno cercato di vivere la loro fede con gioia e serenità, fidandosi di quel Dio che afferma: Sono io il Signore!

Questa atteggiamento sereno, gioioso e pieno di fiducia lo auguro anche a noi. Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Prima di partire: fermarsi davanti a Dio

L’altra settimana abbiamo parlato di quello che è un fondamento stabile per una comunità e per la fede personale. Oggi vi propongo un testo nel quale l’apostolo Paolo parla del fondamento della sua fede. Racconta alla chiesa di Gerusalemme, e oggi anche a noi, la sua famosa conversione e con essa i suoi primi passi nella fede.

Leggo dal libro degli Atti dei Apostoli 22,12-16

12 Un certo Anania, uomo pio secondo la legge, al quale tutti i Giudei che abitavano là rendevano buona testimonianza, 13 venne da me, e, accostatosi, mi disse: “Fratello Saulo, ricupera la vista”. E in quell’istante riebbi la vista e lo guardai.  14 Egli soggiunse: “Il Dio dei nostri padri ti ha destinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua bocca.  15 Perché tu gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai viste e udite.  16 E ora, perché indugi? Alzati, sii battezzato e lavato dei tuoi peccati, invocando il suo nome”.

Un proverbio cinese dice: “Anche il viaggio più lungo inizia col primo passo”. E per tutti i cinesi che s’incamminano da qualche parte, segue logicamente il secondo e terzo passo e tutti i passi che saranno necessari. Il viaggio di Paolo lo porterà in lungo e largo su tutta la terra allora conosciuta per annunciare la buona novella. Anche questo viaggio dell’apostolo inizia col primo passo – però prima di fare quel primo passo, Paolo si ferma già e per un po’ di tempo non si muove più. Verrebbe quasi da chiedersi: che succede? Perché sei fermo prima che il viaggio abbia avuto inizio?

Anania lo chiede a Paolo: perché indugi? Che cosa aspetti. – Davanti a dei compiti così grandi mi aspetterei che lui dicesse: Incamminati! Inizia il tuo camino, la strada sarà lunga, hai un compito grande. Forse potrebbe dire anche qualcosa sul tempo che stringe, sull’importanza dell’incarico affidato.

Invece, Anania non dice: «Perché indugi? Inizia a lavorare!» bensì: «Perché indugi? Alzati e fermati davanti a Dio». – I viaggi cinesi inizieranno anche col primo passo; i viaggi verso il regno di Dio iniziano, invece, fermandosi. Fermandosi davanti a Dio. Alzati per fermarti.

Abbiamo parlato l’altra settimana del fondamento della chiesa di Gerusalemme. Forse vi ricordate i tre grandi pilastri che erano l’insegnamento biblico, la comunione fraterna e la comunione con Dio che si manifestano nella preghiera e nella Santa Cena. Abbiamo anche detto che è importante individuare un fondamento stabile su quale si possa costruire. Questo ha fatto la prima chiesa a Gerusalemme prima di partire per tutto il mondo, questo hanno fatto i padri della nostra chiesa quando hanno dato inizio alla comunità di Padova e al metodismo in Italia, questo fa Paolo nel momento in cui si ferma invece di partire svelto.

È giusto fermarsi prima della grande avventura e trovare un legame a Dio. È giusto pregare che sia Dio a dirci che cosa lui si attenda. Questo vale per Paolo e la chiesa di Gerusalemme; questo vale per ognuno di noi e per la nostra chiesa. Poiché come Paolo, anche noi siamo esortati ad essere testimoni della nostra fede. Così come lui andava nel mondo per raccontare ciò che aveva vissuto con Cristo, anche noi siamo sollecitati a vivere la nostra fede nel mondo. Però per poter raccontare al mondo qualcosa della propria fede è importante vivere la fede, vivere la comunione con altri credenti, ma soprattutto la comunione con Dio.

La vita di Paolo ha assunto una piega totalmente diversa in quel famoso giorno sulla via verso Damasco. Lui era partito come accusatore e giudice ed è finito come testimone della controparte. Paolo era partito verso Damasco per stanare e perseguitare i cristiani. Si era fatto dare delle lettere con le quali poter esercitare a Damasco la ‘licence to kill’, il diritto di perseguitare, e aveva già fatto vedere a Gerusalemme che era disposto a sfruttare fino in fondo quel diritto. Aveva già pronto con sé l’atto di accusa, doveva solo interpretare il suo ruolo di giudice per sterminare quei cristiani che facevano tanta paura e problemi alle autorità del tempio. – In realtà, tutto è andato diversamente. Il giudice maggiore, quello in cielo, ha scombussolato le parti e così l’accusatore Palo è sceso dal seggio del giudice per prendere posto sulla sedia del testimone. La vita di Paolo ha preso una nuova direzione e Anania lo descrive dicendo: Tu gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai viste e udite.

Per noi qui nelle nostre vite personali e anche nella vita della nostra comunità, non mi aspetto un cambiamento radicale come è stato per Paolo. Però anche per noi vale: siamo chiamati a essere testimoni. Testimoni di ciò che abbiamo visto e udito da parte di Dio. Siamo chiamati a testimoniare le nostre esperienze con Dio e ciò che abbiamo imparato studiando la sua Parola. Siamo chiamati a testimoniare. Talvolta sarà una testimonianza in parole, talvolta sarà una testimonianza vissuta perché si vede se qualcuno fa delle scelte diverse nella propria vita.

Per Paolo questa nuova direzione è stato un cambiamento radicale. In primo luogo, è cambiato lo sguardo, e poi è cambiato anche il passo. E questo è sensato se ci pensate bene: chi vuole camminare in una nuova direzione deve prima di tutto girare la testa e guardare che cosa incontra sulla nuova via. Deve orientare gli occhi e il cuore verso questa nuova meta. Paolo doveva per primo staccare lo sguardo dalle sue vecchie abitudini e convinzioni, doveva indirizzarsi verso Dio.

Questo cambiamento dello sguardo, non più su me stesso ma verso Dio, deve avvenire una volta in modo fondante, ma poi sempre di nuovo. – Quando sono in giro per Padova con la macchina uso il navigatore. È un aggeggio molto utile per me. L’ho impostato una volta all’inizio, e per le prime settimane lavora sempre da favola, ma dopo un po’ non trova più bene il satellite e ti dice di girare quando sei già passato oltre rispetto alla strada che volevi prendere. Questo è il momento in cui è necessario riprogrammare il tutto. Devi fermarti con la macchina e dare al navigatore il tempo per trovare per bene il satellite e, quindi, la sua meta. – È uguale per la nostra vita. Di volta in volta uno si deve fermare e ricollegarsi con calma alla meta, cioè a Dio.

E questo vuol dire smettere un attimo di pensare a se stessi, smettere con le piccole e grandi preoccupazioni di questa vita, dimenticare per qualche istante le offese che dobbiamo subire e dimenticare i nostri piccoli obiettivi: insomma, smettere di essere intrappolati nel nostro piccolo mondo. Perché solo così abbiamo la possibilità di vedere e di riconoscere di nuovo la meta di Dio nella nostra vita e di capire che cosa ci impedisce di avvicinarci a questa meta.

Dio ci dà una meta che sta oltre la nostra vita e vuole che iniziamo già ora a dirigerci in quella direzione. Vuole che noi singoli credenti e tutti insieme come chiesa siamo testimoni di ciò che abbiamo vissuto con Dio e di ciò che abbiamo imparato da lui. Si testimonia con tutta la vita, non solo con le parole ma soprattutto con ciò che siamo e ciò che facciamo e per come stiamo con gli altri.

Qual è il compito di un testimone? Deve soprattutto testimoniare ciò che ha visto e udito. E questo è il punto. Un testimone deve voler sentire. Come si può sentire Dio? Nella sua parola e nella preghiera.

I testimoni sono persone di preghiera. I testimoni sono persone che sanno mantenere un legame con Dio, che gli raccontano ciò che hanno vissuto e cercano di vedere il mondo sullo sfondo della fede. I testimoni sono persone che adorano Dio, persone che cercano di mettersi alla sua presenza così come i fiori si dirigono verso il sole. Vi ricordo le parole dell’inno che abbiamo cantato prima: Da Te vita abbiamo: fa’ su noi brillare la tua bella e dolce luce. Fa’ che come i fiori si aprono felici a ricevere il tuo sole, io così lieto in me i tuoi raggi accolga sempre a Te mi volga. – I testimoni si mettono nella luce di Dio.

E tutti i veri testimoni devono prima fermarsi in questa luce di Dio, devono ascoltare, cogliere un messaggio valido da testimoniare. Così sono anche i testimoni di Gesù. Non sono prima di tutto gente che fa, ma gente che prega.

Questo è importante perché nel momento in cui non ascoltiamo più diventiamo facilmente falsi testimoni. Testimoniamo le nostre idee, le nostre tradizioni e abitudini ma non più quel Dio che parla fino ad oggi alla sua creazione. Dobbiamo sempre di nuovo ascoltare e vedere, concentrarci pienamente su Dio e cogliere ciò che ha da dire a noi oggi.

Questo è il punto fondamentale che ci preserva dal diventare testimoni di noi stessi. La preghiera ci tira fuori da quel ciclo chiuso e lo fa prima che ci manchino le forze. Nella preghiera riusciamo a cogliere i piccoli e grandi miracoli nella nostra vita e percepiamo qualcosa di quel grande piano di Dio, anche se dovesse essere solo il prossimo passo. Ricordatevi: Anania dice a Paolo: Alzati e mettiti nella presenza di Dio, invocando il suo nome.

Se noi pensiamo alla nostra vocazione come singoli credenti e come chiesa metodista di Padova è un buon consiglio di iniziare dalla preghiera. Alzarci, metterci alla presenza di Dio e invocare il suo nome. Solo dopo Anania dice anche a noi: E ora, perché indugi?

Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: L’albero della chiesa

Nelle ultime settimane mi sono preparata ai nostri studi biblici sul libro degli Atti. Ho riflettuto tanto su questa prima chiesa a Gerusalemme che ci viene descritta in quel libro. Poi ho pensato alla nostra chiesa qui. Noi siamo entrati nel periodo in cui ci prepariamo a festeggiare i 150anni della nostra chiesa a Padova e mi chiedo la stessa cosa. Abbiamo un grande passato, dove ci porterà il futuro? O meglio, dove vogliamo noi dirigerci? Su quale meta puntiamo? Che cosa vediamo come il nostro mandato?

Forse, posta così, la domanda sembra strana, ma sono convinta che tanti di voi hanno un’idea di come si immaginano la nostra chiesa fra qualche anno; forse non fra 150 ma fra 5 o 10 anni sì. Ho però anche l’impressione che non parliamo tanto di questi visioni personali, che non le condividiamo spesso, che ognuno va un po’ nella direzione che gli pare giusta, ma non c’è veramente un piano.

Vorrei riflettere oggi con voi su un racconto relativo alla prima comunità cristiana a Gerusalemme. L’evangelista Luca ci descrive quella chiesa negli Atti degli apostoli e vorrei vedere insieme con voi quali erano le basi di quella chiesa per cercare delle basi solide anche per la nostra chiesa oggi qui a Padova.

Leggo dagli Atti 2,41-47

41 Quelli che accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.  42 Ed erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.  43 Ognuno era preso da timore; e molti prodigi e segni erano fatti dagli apostoli.  44 Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune;  45 vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.  46 E ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore,  47 lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che venivano salvati.

Di quella prima chiesa a Gerusalemme ci viene raccontato da un lato qualcosa di molto speciale che si vede raramente: cioè 3000 persone si fanno battezzare in un giorno e si aggiungono alla chiesa. Può essere una conversione di massa dopo la predica a Pentecoste di Pietro. Un momento straordinario che vedono senz’altro poche chiese.

D’altro canto, si verificano in quella chiesa cose normali, quotidiane. Loro erano perseveranti. Non è che ogni settimana lì qualcuno portava un’altra idea e una volta si seguiva l’una e l’altra volta la successiva. No, loro erano certi delle loro fondamenta. Erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.

Insegnamento, Comunione, Santa Cena e Preghiera. Queste sono i pilastri della chiesa di Gerusalemme.

Quella comunità è cresciuta tanto, intendo numericamente ma soprattutto (e questo mi sembra tanto più importante dei numeri) sono cresciuti nella fede. Però immaginatevelo una volta come dev’essere stato dopo la prima Pentecoste. 3000 persone vogliono farsi battezzare, 3000 vogliono fare i primi passi di una vita cristiana. Avranno avuto parecchio da fare se volevano seguire almeno una parte di queste persone. Forse qualcuno di voi pensa: meno male che da noi predica Ulrike e non Pietro – così non c’è il rischio di una conversione in massa.

No, non credo che dobbiamo avere timore che troppe persone potrebbero convertirsi durante i nostri culti; però se almeno una o due conversioni ci farebbero piacere, dobbiamo essere in chiaro che crescita significa cambiamento. Chi vuole crescere sia nei numeri sia nella profondità della fede, deve rendersi conto che questo porta automaticamente dei cambiamenti con sé. E chi vuole crescere deve fare sì che qualcosa possa crescere. Purtroppo esistono tante chiese che dicono a parole di voler crescere ma i fatti sono ben diversi. Ciò è triste perché Dio ci ha proprio creati per la crescita, così che possiamo diventare grandi e portare frutti.

Pensate a un albero. Cresce semplicemente. Non pensa, non fa programmi, cresce. Gli serve della terra, luce e acqua ma poi non fa più nient’altro che crescere. Per noi è simile. Sì, dobbiamo assicurarci che vadano bene le condizioni generali, ma della crescita si occupa Dio.

Guardiamo ancora una volta nel testo: che cosa favorisce la crescita nella chiesa di Gerusalemme? Loro erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli. Ciò che è la buona terra per un albero è l’insegnamento per noi cristiani. La terra da stabilità e nutrimento alla pianta. E se pensiamo a una vigna, sappiamo che la terra influenza addirittura il sapore dell’uva e con questo del vino. – All’albero serve la terra, a noi serve l’insegnamento biblico per poter sviluppare una fede stabile e saporita. È il nostro lavoro di radicarci nelle parole bibliche e di tirare fuori dalla Bibbia tutto il nutrimento che serve per sviluppare il frutto. Le persone che si convertivano a Cristo in quella prima chiesa di Gerusalemme non sapevano tanto di Gesù o dello Spirito Santo. Serviva a loro dell’insegnamento per potersi radicare nella fede cristiana. Dovevano imparare che cosa vuol dire vivere da cristiani.

Questo è rimasto così fino a oggi. Chi non radica la propria fede nell’insegnamento biblico cadrà durante la prima tempesta. Chi vuole rimanere in piede deve per forza radicarsi nell’unico fondamento stabile, cioè nella Bibbia. Un albero può solo crescere fino al punto che permettono le sue radici. Anche noi potremmo crescere nella fede solo nella misura in cui ci siamo radicati nella parola di Dio. Se noi come chiesa vogliamo crescere dev’essere il nostro primo pensiero questo radicamento biblico. Perché Dio dovrebbe fare crescere una pianta sapendo che le radici non la reggono? Non lo fa. Così Dio fa crescere anche noi come chiesa solo in modo adeguato al nostro fondamento.

L’insegnamento da stabilità alla nostra vita di fede, ma solo questo non basta. Esistono alberi che sono giustamente radicati, ma le foglie sono comunque gialle e i frutti grinzosi. Solo l’insegnamento non può dare vita alla nostra fede. Ad una pianta serve anche la luce per poter vivere. Solo così funziona la fotosintesi che cambia l’anidride carbonica in ossigeno. È un dare e prendere tra la luce, l’aria e la pianta. E questo corrisponde al secondo pilastro della chiesa di Gerusalemme, cioè la comunione. Il cambio, l’esserci gli uni per gli altri, l’ascoltarsi, tutto ciò porta freschezza e nuovi pensieri nella vita. Quella chiesa a Gerusalemme ha vissuto la comunione. Hanno condiviso i loro bene per il bene di tutti. Hanno aperto le loro case. Hanno condiviso la propria vita e festeggiato insieme.

Possiamo imparare a memoria la bibbia e trovare una risposta a tutte le domande della fede, ma se non si fa vedere l’amore fraterno nella vita di una cristiano c’è qualcosa che non va. Sarebbe come un’albero ben radicato in terra, ma morto, solo più un ceppo. Chi vuole veramente crescere nella fede deve consentire l’amore nella propria vita, deve consentire la comunione. E automaticamente inizierà a servire gli altri e a mettere in secondo piano i propri bisogni.

L’ultimo pilastro della chiesa di Gerusalemme è il contatto con Dio. Luca scrive: erano perseveranti (…) nel rompere il pane e nelle preghiere. Cerchiamo di fare nuovamente il paragone con la pianta. Un albero si può radicare bene se la terra è buona; ha le foglie verdi se riceve abbastanza luce, però gli serve ancora l’acqua senno si seccherà. Quell’acqua deve venire da sopra. E la chiesa di Gerusalemme sapeva: chi non ha quel contatto in su, chi non cerca un contatto diretto con Dio non sopravvivrà a lungo nella fede. Loro hanno descritto il contatto con Dio nella preghiera e la Santa Cena. Però ci sono tanti canali per mettersi in contatto con Dio. Uno si sente vicino a Dio nel silenzio, un altro nel canto, un altro nel lavoro. Uno loda Dio guardando la bellezza della natura, un altro vendendo delle persone, un altro studiando dei testi. Ci sono tanti canali per mettersi in contatto con Dio, l’importante è che almeno uno viene utilizzato. Ad un albero serve la pioggia senno seccherà. Ad un cristiano serve il contatto regolare con Dio, se no la vita di fede si seccherà. E non possiamo produrre quell’acqua così come non se lo può produrre l’albero. L’acqua ci dev’essere donata e Dio vuole annaffiare la nostra fede.

Ancora una volta: un albero ha bisogno di tre cose per crescere: terra, sole e acqua. – Noi credenti abbiamo della buona terra, cioè la nostra Bibbia, la parola di Dio. Abbiamo anche la luce, cioè la comunione nella chiesa. E abbiamo accesso all’acqua, al contatto con Dio nella preghiera, nella Santa Cena, in tanti modi diversi ma sempre indirizzato a Dio.

Se un albero ha terra buona, sole e pioggia crescerà. Se anche da noi le condizioni sono giuste non dobbiamo preoccuparci della crescita.

Io mi auguro che la nostra chiesa si un luogo dove si può crescere e portare frutto. Mi auguro che anche delle persone nuove possano trovare qui un luogo che permette loro di crescere nella loro fede. E mi auguro che possiamo qui gioire insieme dei frutti che porta quella crescita. Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Libertà dalla paura, liberi dalle dipendenze

Romani 8,12-17

Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne; perché se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete; infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito di servitù per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo: «Abbà! Padre!» Lo Spirito stesso attesta insieme con il nostro spirito che siamo figli di Dio. Se siamo figli, siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui.

 

Cari fratelli e sorelle, nel testo di Paolo che abbiamo appena letto, compare un termine centrale che ritengo essere il cardine di questa riflessione: servitù. Un termine decisamente negativo e che richiama alla mente altrettante situazioni non certamente allegre. Soprattutto il suo sinonimo schiavitù. Ma non nel nostro caso. Qui la Parola di Dio è chiara: non siamo schiavi ma figli di un Dio al quale dobbiamo uno spirito di reverente servizio. Servizio filiale non quindi schiavitù. Noi soffriamo con Lui e verremo anche glorificati con Lui. In pratica, nella vita ci sono le sofferenze ma arrivano anche i momenti di gioia e serenità. Ma la parola servitù, nel testo biblico di oggi, non riguarda solo questo aspetto: essa va a toccare il nostro essere troppo legati alla materialità, alle cose di questo mondo, al desiderio di possedere e godere di quanti più beni possibili. Gli anglosassoni usano il termine addicted ovvero dipendente. E questa è la servitù legata alla paura: le dipendenze. Come ci insegna la psicologia, la dipendenza (la cui etimologia è assai significativa in quanto deriva dal latino dependere cioè pendere giù, tendere verso il basso) è una condizione in cui un individuo è coinvolto in una qualsiasi forma di comportamento ripetitivo basato sul bisogno psicologico o fisiologico di una persona, un oggetto, una sostanza o una determinata situazione. E la molla scatenante, insegnano sempre gli psicologi, è la paura: paura di perdere l’amore della propria donna o uomo o di non riuscire ad amare, di non sapere cosa fare per passare il tempo e quindi cercare dei riempitivi, paura di non essere popolari fra i nostri amici, di non essere all’altezza al lavoro, etc. Siamo un po’ tutti quanti vittime, chi più chi meno, di dipendenze. Ve ne sono di molto gravi, per esempio parliamo di dipendenza dalla droga, dalla pornografia, dall’alcool, dal gioco d’azzardo. Ma anche da internet o il bisogno compulsavo di usare il cellulare in qualsiasi momento della giornata. Magari anche quando stiamo parlando con qualcuno sentiamo l’impulso impellente di andare a vedere se abbiamo ricevuto messaggi o aggiornamenti sulla nostra pagina Facebook o su altri social network. Oppure anche la dipendenza legata al denaro, dalla voglia di fare soldi, anche in modo lecito sia chiaro. Ma talmente sfrenata dall’anteporle qualsiasi altra cosa. Anche la propria famiglia. A questo riguardo vorrei citare un fatto personale. Qualche tempo fa, ero andato ad un colloquio di lavoro per iniziare una collaborazione professionale con una importante società operante nel settore finanziario. Il manager, come solitamente insegnano i manuali e i protocolli per condurre un colloquio, iniziò a parlarmi di sé vantando il fatto di aver sempre lavorato duramente e di aver posto la carriera al di sopra di tutto e di essere arrivato a quella posizione, dove si trovava ora, lavorando non meno di dodici ore al giorno. La cosa che però più mi aveva fatto veramente rabbrividire fu quando mi disse che il figlio era stato allevato da sua moglie e che lui lo vedeva solo due volte al giorno: la mattina mentre dormiva e la sera quando dormiva. “Ma sono diventato così il responsabile del Veneto per la mia azienda! Il primo per risultati a livello nazionale!”. Quando gli feci notare che così facendo non aveva potuto vedere suo figlio crescere, ripeté nuovamente che così facendo ora poteva sedere su quella poltrona con tutti i vantaggi che quella posizione comportava. Inutile dire che non accettai la proposta di collaborare con una persona del genere. Tempo fa, in questa nostra Chiesa, durante un sermone dedicato proprio al tema dei soldi, si era detto che “i soldi devono essere un mezzo e non un fine”. Ecco, credo che questo sia proprio il modo per evitare di cadere nella trappola della dipendenza e che possa essere adattata anche ad altre nostre “passioni terrene” che possono arrivare anche a distruggerci (e a distruggere quanti ci sono attorno) se non adeguatamente comprese e controllate. Quello che il Signore vuole farci capire è che non dobbiamo trascurare le nostre attività umane, ci mancherebbe, ma non dobbiamo diventarne schiavi. Fai pure soldi e carriera ma ricordati anche degli altri e del fatto che il denaro deve essere un mezzo e non il fine assoluto della tua vita; beviti pure il tuo bicchiere di vino o anche due, ma non bruciarti la vita con l’alcool o con altre sostanze. Aggiorna la tua pagina sui social network ma non andare a guardarla in maniera compulsiva ogni cinque minuti. Noi siamo figli di Dio e quindi soffriamo con Lui ma veniamo anche glorificati con Lui. Se spostiamo almeno per un attimo la nostra attenzione a Lui, seguendo lo Spirito, comprendendo che noi e tutte le cose materiali sono solo di passaggio su questa Terra, allora possiamo entrare in un altro tempo: il tempo di Dio. E questo punto ricordo un bel sermone della nostra Febe di qualche tempo fa che ho letto in questa Chiesa. Non dobbiamo assolutamente diventare mistici, distaccati dalla realtà quotidiana: dobbiamo però capire che c’è dell’altro. C’è dell’altro oltre il successo personale, oltre la popolarità, oltre il numero di amici su Facebook. “Se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. Anche questa volta la lettura biblica è in linea con le scoperte umane, in questo caso nel campo della psicologia. Tutti gli psicologi sono infatti concordi che, per vincere le dipendenze, bisogna chiedere aiuto a qualcuno che ha la possibilità e le caratteristiche ottimali per aiutarci a vincere la dipendenza: un amico, il proprio partner, un professionista, un medico, lo psicologo, ecc. E quindi, visto che noi siamo credenti, perché non a Dio? “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio”. Aggiungo anche un altro passo biblico, tratto dall’Evangelo di Marco al capitolo 11, versetti dal 22 al 24: “Gesù rispose e disse loro: «Abbiate fede in Dio! In verità io vi dico che chi dirà a questo monte: “Togliti di là e gettati nel mare”, se non dubita in cuor suo, ma crede che quel che dice avverrà, gli sarà fatto. Perciò vi dico: tutte le cose che voi domanderete pregando, credete che le avete ricevute, e voi le otterrete”. Ma come fare quindi? Pregando e leggendo e rileggendo e meditando la Sua Parola. Ma con convinzione! Non dubitando ma credendo che quanto chiediamo si avveri o meglio si compia nel momento in cui lo chiediamo. Come del resto dice anche il famoso detto “aiutati che il ciel t’aiuta”. Se lo vogliamo con tutto il cuore, lo Spirito ci potrà sempre guidare e farci vincere le nostre paure che ci legano a terra e ci impediscono di andare oltre, di diventare pienamente figli di Dio. Amen.

 

Daniele Rampazzo