Sermone: FESTA DELLA RIFORMA – CINQUE “SOLA”

Cari fratelli e care sorelle,

Abbiamo fatto riferimento ai “cinque sola” e forse è il caso che per una nostra maggiore consapevolezza li ripassiamo insieme, anche se certamente li conosciamo:

  1. Sola Scriptura, cioè solo alla Bibbia va riconosciuta l’autorità; non alla chiesa, alle tradizioni e men che meno alle impressioni personali o ai sentimenti soggettivi. Certo vi sono autorità riconosciute anche dalla Bibbia, ma se una qualunque di esse si allontana dall’insegnamento biblico, deve essere rigettata.
  2. Solus Christus, perché la salvezza è stata già operata grazie all’opera di Cristo ed al suo sacrificio per l’espiazione del nostro peccato.
  3. Sola Gratia, che significa che l’uomo, anche il più probo, non può vantare alcun credito nei confronti di Dio, perché l’uomo non può contribuire con il Signore alla propria salvezza, già realizzata per Sua grazia.
  4. Sola Fide, cioè l’uomo diventa destinatario della grazia aderendo al messaggio evangelico con fede, affidandosi all’unico vero Signore.
  5. Soli Deo gloria, cioè solo a Dio la gloria. Il quinto punto nel quale convergono i primi quattro e che richiama chiaramente l’inizio dei dieci comandamenti, dove si dice che non v’è altro Dio al di fuori di Colui nel quale crediamo e solo a lui può andare la nostra preghiera e la nostra adorazione.

Questi principi hanno comportato una rottura con il pensiero religioso del tempo, hanno creato una vera e propria frattura, dando luogo ad una religiosità completamente diversa da prima, un modo di vivere la fede senza orpelli umani, ma soprattutto senza paura.

Leggiamo ora dal vangelo di Matteo 10:26-34.

“Non temete dunque; perché non c’è niente di nascosto che non debba essere scoperto, né di occulto che non debba essere conosciuto.

Quello che io vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce; e quello che udite dettovi all’orecchio, predicatelo sui tetti. E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna.

Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro.

Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri.

Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli. Ma chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io rinnegherò lui davanti al Padre mio che è nei cieli.

Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada”.

Non temete. Così inizia il nostro passo.

“Non temete” ha detto Gesù ai suoi discepoli di allora e lo ha detto per ben tre volte. E lo dice anche a noi oggi, qui riuniti per il nostro culto.

Gesù parla sapendo bene che il suo messaggio aveva creato problemi e li avrebbe creati ancora nel momento in cui fosse stato proclamato a gran voce “sui tetti”, ci viene detto. Gesù incoraggia i suoi discepoli, dando loro una consolazione: “Non temete!”

Ma temere cosa? Che cosa potevano temere? Ma soprattutto, che cosa possiamo temere?

Si può temere di essere banalizzati, di doversi giustificare per i propri principi, di essere derisi, di essere magari considerati “bigotti”, di sentirsi al di fuori della realtà dominante, così materialistica.

Molte le emozioni che ci fanno temere di non essere accettati e questo talvolta ci porta ad un eccesso di timidezza nell’affermare la nostra fede. Magari la professiamo con coloro che la condividono, magari preferiamo rinchiuderci per timore del giudizio degli altri e così è che non abbiamo il coraggio di “salire sui tetti” per proclamarla a gran voce.

Ma Gesù dice “non temete”. Un’espressione di amore e di incoraggiamento ma potremmo dire anche uno sprone, un ordine, un vigoroso invito per guardarci dentro e cercare di vincere i nostri problemi psicologici, perché essi possono influire pesantemente sulla nostra stessa etica di vita.

Come? Se ho timore di qualcosa o di qualcuno, se temo di non essere accettato perché io stesso non mi accetto, facilmente cercherò di cambiare il mio comportamento evitando le situazioni che mi creano ansia. Divento così succube di coloro che temo, ma anche di me stesso e quindi non solo non professerò ciò che sono e ciò in cui credo, ma mi adeguerò a coloro che non mi accettano per paura del loro rifiuto, perdendo così di vista la mia stessa libertà di essere come sono.

Ecco allora che quel “non temete” detto da Gesù riveste un’importanza fondamentale nella vita del credente e potrà portarlo a un’inversione di pensiero, una vera e propria conversione che gli permetterà di dire “sono in cuore a Dio” invece che “ho Dio nel mio cuore”.

Ma nel passo che abbiamo letto, oltre alla bella immagine, molto rassicurante del passero, c’è anche un altro aspetto assai rilevante. Gesù dice  “… non sono venuto a mettere pace, ma spada”.

È forse questa una minaccia?  Certo che no. Perché chi ama non minaccia, perché la fede in Dio proclamata da Gesù non si ottiene con le armi, né con la violenza.

E allora, che significato ha questa spada?

Ha il significato di “rottura”, di divisione da ciò che era vecchio. La venuta di Gesù ha aperto una nuova era. La realizzazione della promessa che era stata profetizzata ha cambiato il modo di approcciarsi al Signore. Una religiosità prevalentemente legalistica e rituale è stata soppiantata da un messaggio d’amore e di fratellanza, dalla consapevolezza profonda di essere tutti figli dello stesso Padre. Ed inoltre viene palesato quel grandissimo dono che è la grazia, una salvezza donata per puro amore, per la grande misericordia di Dio. È un vero e proprio stravolgimento di mentalità.

Ma anche Lutero con la sua riforma ha rotto con una chiesa ormai oppressa dalle norme degli uomini, una chiesa che si era adagiata sui bisogni materiali, una chiesa che strumentalizzava il messaggio evangelico per schiavizzare il popolo e tenerlo nell’ignoranza, una chiesa le cui direttive affossavano il grande messaggio d’amore e di perdono della Scrittura.

Lutero non ci sta e, forte della spada portata da Gesù, rompe con quella chiesa.

Ma non solo lui. Pensiamo anche a Wesley che ha rotto con una chiesa di stato, pensiamo anche ai missionari della nostra storia metodista che hanno avuto il coraggio di portare in Italia una chiesa di rottura, pensiamo anche ai vecchi valdesi che non hanno temuto di tornare al di qua delle Alpi sapendo cosa rischiavano nel giurare fedeltà all’evangelo, pensiamo a tutti coloro che nella storia passata e recente hanno sacrificato la loro vita per non rinnegare il loro credo. Grandi e piccoli personaggi di fede, alcuni martiri per la fede, ma certo non più meritevoli o santi degli altri, perché il messaggio di Cristo può essere certo di rottura, ma sicuramente non crea gerarchie di santità fra coloro che lo accolgono.

E noi, cristiani riformati, metodisti di Padova, come ci poniamo di fronte a tutto ciò? Siamo consapevoli della grande ricchezza che ci viene donata da Dio? Sappiamo noi salire sui tetti per proclamare la gloria del nostro Signore? Nutriamo il coraggio di essere noi stessi coloro che vogliono rompere gli schemi di una società ingiusta e materialista, di una religiosità spesso basata sul fare, sulle opere, invece che sulla completa fiducia che solo Dio salva? Siamo disposti a correre il rischio di essere derisi, di essere considerati fuori dal tempo, di essere interpretati come “bigotti” idealisti? Abbiamo la consapevolezza che perfino i capelli del nostro capo sono noti al Padre e sul serio, nel profondo del nostro cuore, siamo convinti di valere molto più di due passeri?

Se lo siamo veramente, non ci resta altro che coltivare la nostra fede e proclamarla al mondo, individualmente e come chiesa.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: IL GIOVANE RICCO

Marco 10,17-31

Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio. Tu sai i comandamenti: “Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre”».

Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».

Gesù, guardatolo, l’amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va’, vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».

Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.

Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»

I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile [per quelli che confidano nelle ricchezze] entrare nel regno di Dio!  È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».

Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»

Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».

Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».

Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo, il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.  Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

L’episodio del giovane ricco è riportato da tutti i tre vangeli sinottici, questo indica che per la chiesa primitiva vi era un profondo significato nella mancata vocazione del giovane e nelle domande successive dei discepoli.

Anche per la nostra chiesa del 2017 queste parole del vangelo risuonano familiari e rilevanti. Chi non ricorda il paradosso di Gesù: ” è più  facile a un cammello passare per la cruna di un ago che ad un ricco entrare nel regno di Dio”.

Uno dei versetti più citati nel parlare profano, una immagine usata per la polemica contro i potenti della terra, una indicazione che non lascia dubbi. Se leggiamo la bibbia in maniera letterale, se usiamo i versetti per abbattere chi la pensa diversamente da noi, abbiamo già finito il sermone. Oggi abbiamo imparato che: i ricchi non sono salvati, noi che seguiamo Gesù sì.  Anzi possiamo aggiungere alla citazione un altro versetto dello stesso brano: “se lasci casa e famiglia per seguire Gesù ne ricevi in questo tempo, cento volte tanto”. E quindi potremmo affermare: noi che non siamo ricchi e seguiamo la chiesa di Cristo, riceveremo cento volte quello che abbiamo lasciato.

Semplice diretto e anche gradito alle nostre orecchie!

Il messaggio di questo brano del vangelo di Marco però non è questo!

Certo queste affermazioni sono chiare e vengono dalla predicazione di Gesù, ma non possono rappresentare l’intero significato della vita cristiana a cui il Cristo chiama i suoi discepoli. Se leggiamo il vangelo così, cercando risposte letterali, meccaniche, quasi mercantili andiamo fuori strada; andiamo dove il nostro orgoglio umano ci porta.

Pensate di ricevere una foto sul vostro telefonino, per uno scherzo della trasmissione si vedono solo i piedi della persona ritratta, quelle scarpe non possono rappresentare tutta la persona. Appartengono alla foto, da esse si capisce qualche cosa, ma non saprete certo di chi si sta parlando nella vostra chat!

Raccogliere dal vangelo le indicazioni stringenti di un solo versetto, ci porta ad usare il vangelo come fosse un manuale di comportamento. Ma nel vangelo c’è molto di più!

Ragionate sulla storia del popolo scelto da Dio.

I dieci comandamenti appartenevano ad Israele da secoli, perché allora avrebbero dovuto seguire  questo maestro galileo?  Se è sufficiente avere un manuale etico, una legge, Gesù è morto per nulla, per nulla Dio si è fatto uomo.

Consideriamo allora tutto il passo, scorriamo i due quadri delle azioni di questo incontro e del chiarimento successivo, troviamo le domande poste e comprenderemo quali sono le risposte, anzi se c’è una risposta, la risposta di Gesù.

Nel primo quadro, vediamo il giovane ricco inginocchiato davanti a Gesù che lo apostrofa: Maestro.  Gesù risponde, rifiuta il rapporto di adorazione e guardandolo in viso lo ama, un termine che si può tradurre anche lo abbraccia. Dopo la vocazione a seguire Gesù, vediamo il giovane ricco allontanarsi con gli occhi bassi e la testa china.

Nel secondo quadro vediamo Gesù attorniato dai discepoli che lo hanno seguito. Gesù li scuote con le sue parole, essi reagiscono fintanto che Pietro sbotta, ma noi che ti abbiamo seguito avremo di più di chi ti rifiuta?

Due quadri vivaci con la stessa ansia che percorre chi ascolta Gesù: il regno di Dio, la salvezza, come la otterremo? Come ci sarà assicurata?

Sia il giovane ricco, sia Pietro riconoscono Gesù come il maestro. Sia il giovane ricco sia Pietro vogliono conoscere la via per avere la vita eterna.  Insomma ci viene da chiedere anche a noi: “quale è il prezzo del regno dei cieli?”

Gesù dà una risposta articolata in tre punti: 1) Prendi la tua croce e seguimi. 2) Quello che per noi è impossibile, per Dio, che è buono, è possibile. 3) Molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi.

Queste sono le tre risposte che indirizzano il lettore: seguire Gesù, accettare l’onnipotenza del Padre nei cieli, annunciare il Regno di Dio che rivoluziona la nostra esistenza.

Dio chiama ricchi e poveri e li raggiunge nel concreto del loro peccato, anche se le nostre umane contraddizioni sembrano insuperabili, la bontà di Dio, il Santo Spirito, sovrabbonda, alleggerendo le ansie economiche di chi ha un tesoro e dando speranza a chi non ne ha. Il regno che ci attira in maniera irresistibile, il regno che ci dona la vita eterna, si insinua nel tempo che viviamo con aspetti paradossali: fortuna materiale accompagnata da persecuzioni, primi che si comportano come ultimi e ultimi che hanno l’onore dei primi.

In questa prospettiva piena di paradossi anche un cammello può sperare di passare per la cruna di un ago!

Confrontando le domande del ricco e di Pietro con le risposte di Gesù comprendiamo cosa dobbiamo cambiare nel nostro dialogo con Dio, nella nostra lettura della Bibbia.

Davanti alla Parola del Signore, ascoltando il vangelo, purtroppo noi pensiamo di essere in un supermercato, andiamo e prendiamo quel che ci piace e ci domandiamo solo: quanto costa? Siamo interessati ad una salvezza che meccanicamente ci dà la certezza di entrare nel regno di Dio anzi di esserci già ora.  Vogliamo la salvezza e la prosperità subito e a basso prezzo.

Gesù non evita le domande concrete, entra in dialogo con chi chiede in preghiera, dà delle risposte che entrano nel pieno della nostra vita, ma il prezzo ci sembra troppo alto per quello che noi vogliamo spendere.

La vocazione di Cristo ci raggiunge nel pieno della nostra inadeguatezza, ci accorgiamo che non usciremo dal supermercato avendo sotto braccio un pacco con su scritto “regno dei cieli”. La conclusione allora è quella del ricco? Dopo l’abbraccio di Gesù ce ne andiamo ad occhi bassi, rifiutiamo la vocazione del Signore?  No, non facciamo questo errore, infatti dal passo emerge una via di uscita che possiamo percorrere, la risposta di Gesù.

Gesù ci invita a seguirlo, mostra le difficoltà di questa via, ma ricorda dal primo verso all’ultimo che Dio che è buono ed opera per noi, rende possibile quello che ci sembra impossibile, nella sua onnipotenza rovescia le nostre logiche umane: “molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi”.

A noi viene chiesto di seguirlo con una grande fiducia nella sua potenza che rovescia la nostra logica, che rovescia il nostro ordine personale, l’ordine sociale nel quale siamo cresciuti.

Che il Signore ci dia l’intelligenza per scorgere la sua volontà, l’amore fraterno per metterla in pratica.

AMEN

Ruggero Mica

Sermone: LA FIDUCIA DI DIO NELL’UOMO

Giobbe 15,1-16

Allora Elifaz di Teman rispose e disse: «Il saggio risponde forse con vana scienza? Si gonfia il petto di vento? Si difende con chiacchiere inutili e con parole che non giovano nulla? Tu, poi, distruggi il timor di Dio, sminuisci la preghiera che gli è dovuta. La tua iniquità ti detta le parole, e adoperi il linguaggio degli astuti. Non io, la tua bocca ti condanna; le tue labbra stesse depongono contro di te. Sei forse tu il primo uomo che nacque? Fosti tu formato prima dei monti? Hai forse sentito quanto si è detto nel Consiglio di Dio? Hai forse accaparrato la saggezza tutta quanta per te solo? Che sai tu che noi non sappiamo? Che conoscenza hai tu che non sia anche nostra? Ci sono fra noi uomini canuti e anche vecchi più attempati di tuo padre. Fai così poco caso delle consolazioni di Dio e delle dolci parole che ti abbiam rivolte? Dove ti trascina il cuore, e che vogliono dire codeste torve occhiate? Come! Tu volgi la tua collera contro Dio, e ti lasci uscir di bocca tali parole? Chi è mai l’uomo per esser puro, il nato di donna per esser giusto? Ecco, Dio non si fida nemmeno dei suoi santi, i cieli non sono puri ai suoi occhi; quanto meno quest’essere abominevole e corrotto, l’uomo, che tracanna iniquità come acqua!

 

Isaia 58,5-12

È forse questo il digiuno di cui mi compiaccio, il giorno in cui l’uomo si umilia?

Curvare la testa come un giunco, sdraiarsi sul sacco e sulla cenere, è dunque questo ciò che chiami digiuno, giorno gradito al SIGNORE?

Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo?

Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne?

Allora la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà, la gloria del SIGNORE sarà la tua retroguardia.

Allora chiamerai e il SIGNORE ti risponderà; griderai, ed egli dirà: Eccomi!

Se tu togli di mezzo a te il giogo, il dito accusatore e il parlare con menzogna; se tu supplisci ai bisogni dell’affamato, e sazi l’afflitto, la tua luce spunterà nelle tenebre, e la tua notte oscura sarà come il mezzogiorno; il SIGNORE ti guiderà sempre, ti sazierà nei luoghi aridi, darà vigore alle tue ossa; tu sarai come un giardino ben annaffiato, come una sorgente la cui acqua non manca mai.

I tuoi ricostruiranno sulle antiche rovine; tu rialzerai le fondamenta gettate da molte età e sarai chiamato il riparatore delle brecce, il restauratore dei sentieri per rendere abitabile il paese.

 

Cari fratelli e care sorelle,

Abbiamo letto dal libro di Giobbe quanto gli dice il suo amico Elifaz a fronte della profonda crisi che vive un uomo provato dal dolore e dalla sventura.  Forse un amico del genere è meglio perderlo che trovarlo, visto che certamente costui non dà a chi sta male consolazione e soprattutto rispetto per il sentire travagliato.

Il messaggio di Elifaz è pessimista, è colpevolizzante, certamente deprimente e poco o per nulla fiducioso. Arriva a dire, abbiamo sentito, che “Dio non si fida nemmeno dei suoi santi e che perfino i cieli ai Suoi occhi non sono puri”!

Ma questa è la visione del mondo di Elifaz, molto perbenista e punitiva e con un concetto che non possiamo condividere: ogni malanno e ogni sventura sono la punizione divina per qualcosa di male che l’uomo fa e per il fatto che l’uomo si senta scoraggiato e metta in discussione la propria fede.

Ma non è così. Questa visione lasciamola a Elifaz e lasciamola anche a coloro che, a fronte delle prove talvolta dure della vita dicono “Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”

Riflettiamo invece su quanto abbiamo letto in Isaia, dove possiamo dire che Dio ci crede capaci di tante cose!

Dio ci crede capaci di far spuntare la nostra luce come l’aurora!

Ci crede capaci di far spuntare la nostra luce nelle tenebre, affinché la nostra notte oscura sia come il mezzogiorno!  Dio ci crede capaci di essere come un giardino ben annaffiato, come una sorgente la cui acqua non manca mai.

Sì, Dio ci crede capaci di ricostruire, di riparare le brecce e di restaurare i sentieri!

Dio, allora, crede te e crede me veramente capaci di tante cose!

Come, però, potrà realizzarsi quello di cui Dio ci crede capaci?

Il testo di Isaia risponde a questa nostra domanda dandoci delle indicazioni concrete: “Che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo ….. Che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne”.

Noi riusciamo ad essere una luce in mezzo alle tenebre, siamo come un giardino ben annaffiato e una sorgente la cui acqua non manca, quando viviamo non solo per noi stessi ma anche per gli altri, quando abbiamo cura non solo del nostro benessere personale, ma anche del bene degli altri.

Queste affermazioni ci sembrano quasi scontate. Sì, sembrano proprio scontate e tuttavia così facili da rimuovere e facili da dimenticare.

Rimosse e quasi dimenticate le aveva anche il popolo d’Israele. Il profeta Isaia si rivolge al suo popolo che dopo lunghi anni di esilio in Babilonia era tornato a vivere nella propria terra.  Dopo l’esperienza concreta dell’esilio, dopo l’esperienza di essere stati trattati male, dovrebbe, allora, essere quasi naturale non fare del male ad altri, applicare il diritto e la giustizia e occuparsi dei “meno fortunati”.  La gente di allora, invece, stava attenta a tutt’altro. Si preoccupava di mantenere con grande rigore le pratiche religiose, i momenti di preghiera, le giornate di digiuno …. per essere certi di ricevere un atteggiamento di favore da parte del loro Dio.

Ma quello che Dio gradisce è proprio altro! Le parole del profeta non lasciano alcun dubbio.

All’Israele di allora doveva essere ricordato che per seguire la volontà di Dio non era sufficiente andare nel tempio a pregare e a digiunare, e poi non occuparsi di coloro che si erano dovuti vendere come schiavi o di altri ancora, che, magari erano liberi, ma costretti a lottare, giorno dopo giorno, per la propria sopravvivenza, contro la fame e la miseria.  All’Israele di allora veniva ricordato che un digiuno che Dio gradisce è quello che libera, che sazia e che apre le porte delle case a chi ha bisogno di essere sostenuto.

E a noi, che siamo riuniti qui stamattina in questa chiesa, che cosa vogliono dire queste parole del profeta? Come ci toccano le sue parole oggi?

Queste parole mi toccano, perché non mi lasciano tranquilla!  Mi propongono la domanda: dove io, come persona, mi impegno per altri e sostengo concretamente le persone che vivono nell’ombra della miseria e dell’ingiustizia?

Queste parole mi toccano, perché non mi lasciano tranquilla!

Infatti mi chiedono, sempre di nuovo: dove noi, come chiesa, siamo una chiesa per altri e non solo per noi stessi?

Queste parole del profeta ci toccano, perché ci ricordano il fatto che il culto che celebriamo la domenica perde quasi tutto il suo valore davanti a Dio, se questo nostro culto non ha niente a che fare con la nostra vita quotidiana, se questo nostro raduno domenicale è totalmente distaccato da ciò che facciamo durante la settimana.

Se la domenica lodiamo il Signore per la sua misericordia e per la sua giustizia, allora è nostro compito impegnarci nelle nostre relazioni interpersonali, ma anche nella società e nel mondo che ci circondano proprio per ottenere maggiore misericordia e giustizia.

Se la domenica chiediamo a Dio di darci la Sua pace, siamo chiamati a cercare di vivere la pace e la non-violenza fisica e verbale anche nelle nostre relazioni di tutti i giorni.

Se la domenica ringraziamo il Signore per la buona creazione e per tutto quello che è la base della nostra vita, siamo chiamati a salvaguardare il creato nella nostra vita di tutti i giorni con buone pratiche.

Siamo dunque continuamente chiamati a cercare di costruire un ponte dal culto domenicale al, potremmo chiamarlo così, culto feriale, affinché Dio gradisca i nostri culti.

Il bello è: Dio ci crede proprio capaci di fare questo!

Dio ci crede capaci di applicare la misericordia e la solidarietà nella nostra vita.  E ci promette che ne varrà la pena. Perché cosa si può dire di più bello di una persona se non che la sua luce spunterà come l’aurora?

Dio ci crede capaci di essere messaggeri e portatori della Sua speranza.  E com’è bello poter dire di una persona, che la sua luce spunterà nelle tenebre.

Dio, infatti, ci crede capaci di rendere più chiare situazioni di vita dominate dalle tenebre, di portare un po’ di gioia laddove regna la tristezza.

Com’è bello essere come un giardino ben annaffiato e come una sorgente la cui acqua non manca mai.  Dio ci crede anche capaci di dissetare, di dissetare la sete di pace e di giustizia, la sete di amore e di sicurezza.

E infine, com’è bello poter dire di una persona che ricostruisce e rialza, che ripara le brecce e restaura sentieri.

Dio ci crede capaci di rendere possibile la vita laddove fino ad ora era stata possibile solo la sopravvivenza. Egli ci crede capaci di vincere divisioni, di chiudere brecce che sono riuscite a separare gli uni dagli altri.

Dio ci crede capaci di fare veramente tante cose!

E non ci lascia soli con ciò che abbiamo da fare. Ci promette di essere con noi, di essere al nostro fianco. Ci promette di donarci la forza necessaria.

Dio ci crede veramente capaci di fare tante cose.

Fidiamoci di lui!

AMEN

past. Dorothee Mack – Liviana Maggiore

Sermone: CUORE E PAROLE

Romani 10, 9-17

Perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: «Chiunque crede in lui, non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato. Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunci? E come annunceranno se non sono mandati? Com’è scritto: «Quanto sono belli i piedi di quelli che annunciano buone notizie!» Ma non tutti hanno ubbidito alla buona notizia; Isaia infatti dice: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?» Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo.

Care sorelle e cari fratelli, sono parole appassionate quelle che abbiamo ascoltato! Paolo cerca di convincere i suoi fratelli ebrei e di portarli alla fede in Cristo; usa formule incisive e fa riferimenti continui alla Scrittura.

Il primo elemento sul quale egli insiste è proprio la fede in Cristo come nuovo paradigma della fede in Dio. Siamo in un contesto polemico. Infatti i capitoli 9, 10 e 11 della Lettera ai Romani affrontano il tema spinoso “Israele e la fede in Cristo”. L’ebreo Paolo, convertito all’Evangelo, cerca di convincere i suoi ascoltatori ebrei che, in Cristo, la giustizia di Dio si è compiuta. E lo fa con urgenza, sa che il suo messaggio deve entrare in ogni casa, nelle case degli ebrei come dei pagani, dei ricchi come dei poveri, dei greci come dei romani.

Ma come si può giungere alla fede, come nasce la nostra fede, se non è capacità umana ma dono di Dio? L’abbiamo ascoltato dall’evangelo di Marco: «Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità». Paolo ci fornisce una via per accedere alla fede, la sua via per accedere alla fede: credere con il cuore! “Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato.”

La bocca e il cuore. Da una parte la parola, la parola della confessione e della predicazione; dall’altra la sede delle emozioni, la casa delle emozioni, della gioia, dell’amore, del sostegno ricevuto da Dio, la casa della fede che crede nell’incredibile.

Mi viene in mente un pensiero di Blaise Pascal, riportato proprio in questi giorni dal lezionario “Un giorno una parola”: “Parlando delle realtà umane, bisogna conoscerle prima di poterle amare; parlando delle realtà divine, al contrario, bisogna prima amarle per poterle conoscere. Si entra infatti nella verità solo attraverso l’amore.”

Credere con il cuore, mettere al centro della nostra vita l’inspiegabile mistero di Pasqua, della resurrezione e della vita oltre questa vita; anche in un mondo che sa spiegare, curare, guarire, che indaga la complessità, il gigantesco e il minuscolo; anche in un mondo, il nostro, dove la fede ad alcuni sembra un controsenso, o un resto del passato.

La fede, scrive ancora Paolo, viene da ciò che si ascolta. Paolo ci mette di fronte alla nostra responsabilità come credenti: il primo veicolo dell’Evangelo sono io, sei tu, con le tue parole, con le tue esperienze, con la tua storia. Tu sei un testimone, non perché la chiesa ti ha confermato o consacrato, ma perché con la tua bocca hai confessato Cristo come Signore e con il cuore hai creduto che Dio l’ha risuscitato dai morti. Da te e da tutti noi nasce l’unica chiesa.

Che il Signore ci sia accanto nel cammino che abbiamo di fronte e ci renda in grado di accogliere questa Parola che ci chiama ad attivare il nostro cuore e la nostra bocca per essere, così, portatori di quella nuova vita che ci è riservata.

Amen

Paola Gonano

Sermone: AMORE, ACCETTAZIONE E PERDONO

Matteo 5: 38-48

Fra le persone che costellano la mia attuale vita ve ne sono due che hanno per me una valenza affettiva molto particolare, direi addirittura unica, tanto che sovente mi accade di pensare che non saprei cosa fare senza di loro.

Poiché le amicizie del cuore si sviluppano fra persone che hanno qualche similitudine, conoscendo me, potete ben pensare che anche questi due miei amici hanno un bel “caratterino”, pur con modalità espressive diverse.

A loro riconosco una grandissima carica umanitaria, una reale solidarietà verso chi soffre, una profonda sensibilità di pensiero.

Lei, la mia amica del cuore da più di 50 anni, non si sottrae mai al confronto con me, nei periodi gioiosi come nei momenti più bui ed ha una caratteristica che ci accomuna: è tenace e anche quando le nostre idee sono divergenti non rinuncia ad esprimerle.

Lui è una persona che definisco “troppo reattiva”, perché spesso cede agli impulsi del momento per esprimersi con parole talvolta eccessive, pena magari il fatto di pentirsene poco dopo.

Entrambi hanno più o meno la mia età, quindi ritengo che ormai i nostri caratteri siano ben lungi dal cambiare.

Talvolta il confronto con loro è per me assai impegnativo, se non addirittura doloroso; però l’amore profondo che mi lega a queste due persone ha sempre il sopravvento, perché probabilmente loro sanno di poter contare su di me e io sono certa di poter contare su di loro, in quanto ci accettiamo e stimiamo come persone, per quello che siamo, anche se talvolta i comportamenti sono discordi e quindi non possiamo far altro che perdonarci reciprocamente per le nostre intemperanze.

Perché, sorelle e fratelli, vi dico tutto ciò?  Perché nelle frequentazioni con la Scrittura mi sono recentemente imbattuta in questo passo di Matteo e l’associazione mi è venuta spontanea.

Leggiamo insieme dall’Evangelo di Matteo 5: 38-48

Voi avete udito che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra; e a chi vuol litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello.

Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te, non voltar le spalle. Voi avete udito che fu detto: “Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste.

 

Il passo che abbiamo letto fa parte del capitolo di Matteo in cui è riferito il Sermone sul monte e, a primo acchito, potrebbe sembrare un invito alla debolezza (e in questo senso è stato purtroppo talvolta interpretato).

Quello che invece voglio sottolineare oggi è che il porgere l’altra guancia qui è messo in contrasto con la legge del taglione (… occhio per occhio e dente per dente).

Premesso che la legge del taglione, riportata in Esodo 21, Levitico 24 e Deuteronomio 19 non era da intendersi come “vendetta”, con l’accezione negativa che questo detto ha assunto nel nostro parlare comune, bensì come “equilibrio di giustizia” a fronte di un danno, una malefatta, un’ingiustizia perpetrata, così che la reazione non dovesse essere sproporzionata all’azione negativa. Quindi sbaglia chi ritenesse la legge del taglione una forma primitiva di vendetta.

Ciò premesso, quindi pensando che Gesù si rivolgeva a persone che interpretavano la legge del taglione come una legge giusta ed equilibrata, lo sconvolgimento nel suo dire è a dir poco plateale.

Ma non è finita qui. Gesù dice ancora “… a chi vuol prenderti la tunica, lascia anche il mantello”. Ancora una volta non siamo di fronte ad un invito alla debolezza, alla inutile passività, a un vuoto buonismo, ma il riferimento è ancora alla legge, così come contenuta in Esodo 22, 26-27 “Se prendi in pegno il vestito del tuo prossimo, glielo restituirai prima che tramonti il sole; perché esso è l’unica sua coperta, è la veste con cui si avvolge il corpo. Con che dormirebbe? E se egli grida a me, io lo udrò; perché sono misericordioso.”, dove vengono date precise indicazioni contro l’usura.

Gesù quindi non vuole indurre in coloro che lo seguono un atteggiamento di arrendevolezza, ma vuole andare oltre. Vuole superare le leggi necessarie al vivere civile insinuando la legge dell’amore, dell’accettazione dell’altro, della partecipazione alla vita del prossimo (“Da’ a chi ti chiede e a chi desidera un prestito da te non voltare le spalle”), fino ad arrivare al saluto rivolto non solo ai fratelli, ma evidentemente anche agli sconosciuti.  Il paradosso infine è contenuto nell’invito all’amore per il nemico.

Orbene, o siamo convinti che Gesù fosse un grullo, oppure dobbiamo cercare di capire il perché di tutto ciò.  E il motivo sta nell’affermazione conclusiva del nostro passo: “Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste.”

Ecco il nodo della questione!

Nella sua perfezione, il Padre, che è padre di tutti, cosa fa? PERDONA, o meglio AMA E PERDONA.

Ci perdona costantemente per le nostre infedeltà e per il nostro peccato. Questo credono i cristiani e chi ha accolto la Parola di Dio non ha alcun dubbio in merito. Noi credenti non abbiamo dubbi sul fatto che il perdono ci viene donato per grazia e non per meriti. Certo, abbiamo il dovere di guardare la nostra vita e di valutare le nostre azioni per ciò che sostanzialmente sono. Abbiamo il dovere di riconoscere i nostri errori, la nostra situazione di peccato nella quale costantemente viviamo malgrado le migliori intenzioni. Abbiamo il dovere dell’umiltà di presentarci al nostro Signore per invocare il suo perdono, ma abbiamo anche la certezza che Egli ci conosce come un pastore conosce le proprie pecore, una ad una, e conosce il loro nome e per salvare solo una di esse è disposto a lasciare il gregge che non corre pericoli.

In altre parole, abbiamo il dovere, se credenti, dell’esercizio dell’amore e del perdono similmente a quanto Dio fa con noi, trattandoci in base all’amore che Egli nutre per i suoi figli e non in base ai singoli e temporanei comportamenti.

E se Lui con noi fa questo, chi siamo noi per non imitarlo, per non cercare di seguire le Sue orme?

Ma, per tornare al nostro passo, secondo questa interpretazione possiamo dire che il discorso di Gesù va ben oltre la legge. La strada indicata da Gesù è quella dell’amore, della fratellanza, della comprensione, della solidarietà verso il prossimo, tutto il prossimo, anche quello che non ci piace. E su questo anche la nostra umanità ha avuto fulgidi esempi; giusto per farne uno: Martin Luther King che predicava la non violenza.

Ma potreste dirmi: “Cosa c’entra questo con i riferimenti che hai fatto all’inizio ai tuoi due amici? Perché leggendo questo passo del vangelo ti è venuta l’associazione con queste due persone?”  Presto detto. Io amo molto costoro. Li amo profondamente per ciò che sono, anche se talvolta il loro comportamento è difforme dal mio, anche se talvolta vengo colta da atroce dolore perché non andiamo d’accordo. Li amo anche quando ho timore di perdere il loro amore e la loro amicizia perché magari litighiamo. Il mio amore per loro ha superato il limite dell’affetto per ciò che FANNO e si è situato nel sentimento positivo per ciò che costoro SONO.

E questo non è solo un modo di dire. Pensate, ad esempio, ad un grande amore che molti di noi hanno sperimentato per un figlio. Certamente ci sarà capitato di ricevere anche cocenti delusioni per il comportamento del figlio, quasi certamente il figlio non è come noi avremmo voluto che fosse. Eppure lo amiamo e continuiamo a farlo anche quando i suoi comportamenti ci inducono al litigio, alla mortificazione delle nostre aspettative, perfino al dolore profondo.

Potremmo essere delusi e amareggiati dal figlio, ma se lo amiamo veramente gli staremo sempre alle spalle, pronti ad aiutarlo e sorreggerlo, pronti a perdonarlo.

E se questo siamo disposti a farlo per un figlio, perché mai non può essere che siamo disposti a farlo per altri che amiamo a titolo diverso?

Se siamo credenti, se abbiamo accolto nel nostro cuore la Parola, non abbiamo altra scelta che cercare di proiettare verso i fratelli ciò che il Padre fa nei nostri riguardi: perdono e amore.

Potranno cambiare le situazioni, certo. Magari potrà accadere che la nostra vita non si intrecci più con la vita di coloro che amiamo, ma una cosa è certa: se di vero amore si tratta, esso non verrà mai meno e resterà scolpito nei nostri cuori.

E se siamo convinti che, secondo gli insegnamenti cristiani, è l’amore la vera forza della vita, il porgere l’altra guancia non è un segno di debolezza, bensì l’unica alternativa che abbiamo, perché la ragione è dalla nostra parte e l’amore ci obbliga talvolta anche alla sofferenza di ricevere un altro schiaffo, nella speranza che colui che ci percuote possa ravvedersi.  Come dire: “tu mi percuoti, ma io ho ragione per ché credo che la forza dell’amore non può essere negata e non posso fare altro che porgerti l’altra guancia per non disconoscere ciò in cui credo”.

In conclusione possiamo quindi dire che l’amore ci induce all’accettazione della persona per come è, essendo disponibili a perdonare ciò che talvolta dice o fa, nella speranza che anche gli altri facciano lo stesso nei nostri confronti e sappiano accettare le nostre scuse e il nostro autentico sentimento di ravvedimento per i nostri comportamenti.  Ecco qual è la proiezione nella nostra dimensione orizzontale di ciò che crediamo Dio faccia con noi.

Ma se noi non facciamo un’analisi in questo senso della nostra vita, del nostro condurci in questa esistenza, come possiamo presentarci al cospetto di Dio per chiedere che Lui faccia nei nostri confronti ciò che noi NON VOGLIAMO FARE nei confronti degli altri?

AMEN

Liviana Maggiore