Sermone: QUANDO SARA’ L’ORA?

Il brano scelto per la predicazione di questa domenica è tratto dall’evangelo secondo Luca, al cap. 12. E’ un testo un po’ particolare, ad una prima lettura, forse anche perché utilizza termini e riferimenti sociali non più così evidenti nel nostro vissuto. Si parla di amministratori, di servi e di padroni, di percosse e di punizioni. Troppo, forse, per le nostre orecchie. Però è anche un brano chiaro nel suo intento, anche se sconcerta un po’.  Proviamo a porci in ascolto della Parola, chiedendo a Dio che ci aiuti a cogliere il messaggio di speranza che contiene, speranza di cui abbiamo tanto bisogno in questo mondo così quotidianamente piatto e senza prospettive di senso.

Leggo dal cap. 12 dell’evangelo di Luca, i versetti dal 39 al 48: “Gesù disse: Sappiate questo, che se il padrone di casa conoscesse a che ora verrà il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi siate pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate». Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi, o anche per tutti?» Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fedele e prudente che il padrone costituirà sui suoi domestici per dar loro a suo tempo la loro porzione di viveri? Beato quel servo che il padrone, al suo arrivo, troverà intento a far così. In verità vi dico che lo costituirà su tutti i suoi beni. Ma se quel servo dice in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”; e comincia a battere i servi e le serve, a mangiare, bere e ubriacarsi, il padrone di quel servo verrà nel giorno che non se lo aspetta e nell’ora che non sa, e lo punirà severamente, e gli assegnerà la sorte degli infedeli. Quel servo che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere la sua volontà, riceverà molte percosse; ma colui che non l’ha conosciuta e ha fatto cose degne di castigo, ne riceverà poche. A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà”.

 

Il testo di fronte al quale ci troviamo oggi apre a prospettive a cui non siamo normalmente abituati. Luca lo situa verso la fine di un capitolo nel quale Gesù ha continuato a ripetere “Non abbiate paura”, esortando i suoi discepoli ad avere fiducia nella vicinanza e protezione del Padre, in ogni circostanza, e soprattutto nelle persecuzioni. Ora, alla fine della pericope, la minaccia di botte. E questo ci stupisce. Anche la similitudine iniziale con il ladro disorienta: qui non è sanzionato il comportamento da furfante del ladro, (fra l’altro nel paragone ad agire come un ladro è il Signore stesso), ma la condanna al contrario cade su chi si è lasciato sorprendere dal ladro e non era vigilante.

L’argomento che fa da filo conduttore di questo capitolo, e in cui si inserisce la parabola appena letta, è la venuta del Regno. E questo tema, quello della venuta del Regno, ha sempre due dimensioni: quella futura, legata alla speranza di essere pronti per qualcosa che avverrà nel futuro, che in qualche modo non ha a che fare con quello che noi possiamo fare adesso, ma che si fonda appunto nella speranza in colui che viene senza a volte neppure darci un preavviso; e nello stesso tempo in una dimensione presente e attualissima, come ci ricorda il testo appena letto, che ci invita con forza a riflettere su come il discepolo incaricato si è comportato nell’amministrare quelli di cui egli doveva aveva cura.

E’ la realtà ambivalente dell’uomo di fede, che vive questa realtà del “già e non ancora”, della realtà futura in cui speriamo e della realtà presente in cui fatichiamo a vedere la presenza del Signore. L’amministratore, infatti, decide di tradire la fiducia del suo padrone proprio perché lui oramai è lontano, non vede e non interviene, e proprio questa sua convinzione lo porterà, dice il testo, ad “essere posto fra gli infedeli”, cioè tra coloro che non hanno avuto fede nella sua presenza oggi e nel suo ritorno domani.

La fede, infatti, vive nell’oggi, noi siamo donne e uomini radicati nelle dinamiche, a volte così dolorose, del presente. Ma, ci dice Gesù, la fede non è solo per l’oggi; l’intento dell’insegnamento della Scrittura è quello di invitarci a vivere l’oggi per il domani, a cogliere i segni nascosti ma concreti del prossimo ritorno del Signore Gesù.  La logica del ritardo, del quotidiano sempre ugualmente monotono, ci pone in una condizione di rischio: il rischio di pensare che mai nulla cambia, che le logiche del mondo sono sempre le stesse, quelle che noi tutti conosciamo, fatte di “percosse date ai servi”, agli ultimi della Terra, di “mangiare, bere e ubriacarsi” da parte dei potenti, di pensare che il Signore non tornerà mai. L’evangelo di questa domenica intende invece essere una risposta di fede, di speranza e di servizio, contro la tentazione della “distruzione interiore”, come potrebbe essere tradotto dall’ebraico la “severa punizione” a cui va incontro l’amministratore al v. 46

Non è esattamente un problema di ordine etico, cioè di condotta morale. Si tratta invece dello statuto sostanziale del credente che viene posto in risalto: il cristiano è uno che “aspetta” il suo Signore che è, per definizione, “Colui che viene”, come dice l’ultimo versetto della Bibbia, al cap. 22 dell’Apocalisse: Colui che attesta queste cose, dice: «Sì, vengo presto!» Amen! Vieni, Signore Gesù!

La fede cristiana ha questa paradossale caratteristica: è una fede nell’“Assente”, nel “non-visibile”, eppure nel totalmente “Presente”, del tutto “visibile” sotto i “segni” della Parola e del prossimo che vive al nostro fianco.

Il messaggio centrale del nostro brano è una bella notizia, un evangelo. Gesù ci chiama infatti ad una beatitudine: “Beato quel servo che il padrone, al suo arrivo, troverà intento a far così”. Così come? Distribuendo a ciascuno, dice il testo, la sua porzione di cibo. Gesù ci chiama molto concretamente ad assumere le nostre responsabilità verso i nostri fratelli. Cosa vuol dire, in fondo, responsabilità? Nella Bibbia vuol dire principalmente “rispondere” (come infatti richiama l’etimologia della parola) alla chiamata di Dio, a Dio che ci cerca e ci costituisce suoi amministratori. Responsabile di che cosa? Si può rispondere in tanti modi a questa domanda; io ho risposto così: responsabile di Dio in mezzo agli uomini, e responsabile del nostro prossimo davanti a Dio. Cioè la responsabilità ha questa doppia valenza; responsabile di Dio, cioè testimone di Dio tra gli uomini, questa è la mia responsabilità, la responsabilità della testimonianza di Dio tra gli uomini, e di pari passo la responsabilità del prossimo davanti a Dio. Cioè nella Bibbia nessuno è solo responsabile di sé stesso, certo anche, ma non solo.  Ricordiamo tutti la famosa domanda di Dio a Caino: “Dov’è tuo fratello Abele?” e ricordiamo la risposta: “Sono forse io il guardiano – sono forse io il responsabile di mio fratello?” Si – dice il testo – sono responsabile di mio fratello, devo rispondere del mio prossimo.

Amministrare in modo “saggio e fedele”, rispondere alla chiamata di Dio è quindi dare da mangiare a tutti a tempo debito, cercare la giusta condivisione di ciò che ci è affidato. Ed essere vigilanti, essere fedeli e prudenti, significa accorgersi del bisogno del fratello ora, condividendo i beni di cui tutti siamo destinatari. La vigilanza ci obbliga a guardare al futuro, ma soprattutto all’oggi. Aspettare il Signore significa prendersi cura di ciò che ci è stato donato e affidato. I fratelli, la Terra, la pace. Il non avere a cuore tutto questo ci stabilisce come usurpatori e non vigilanti.

L’amministratore che si disinteressa di quante e quanti gli sono stati affidati, è considerato da Dio, come dicevo, come qualcuno che non crede. Credere non è tanto un atteggiamento mentale, una confessione puramente verbale, è invece molto concreto. Non «chi non dice», ma «chi non fa» non crede. Non crede nella possibilità e nella realtà di un Regno di equità, che Dio verrà sì ad instaurare ma che, prima ancora, chiede a noi di preparare attraverso la pratica della giustizia e della solidarietà.

Perché è così importante aspettare il Signore, al punto che Gesù proclama “beati” coloro che lo aspettano? E perché al contrario è così grave non aspettarlo, al punto che Gesù riserva a chi non lo aspetta “la sorte degli infedeli”?

È importante aspettare il Signore che è presente perché così si rende testimonianza che egli non è in nostro possesso, che Dio è con noi, ma noi non possiamo requisirlo, ma soltanto invocarlo. E non possiamo comandarlo, non abbiamo potere su di lui,  ma solo aspettarlo. La nostra attesa di Dio corrisponde alla libertà di Dio verso di noi.

Per questo è difficile attenderlo, perché significa dipendere totalmente da lui e riconoscere che siamo a mani vuote e tese. Il teologo Paul Tillich una volta ha detto: “Penso che buona parte della rivolta contro il cristianesimo, è dovuta alla pretesa esplicita o sottintesa dei cristiani di possedere Dio, e perciò anche alla perdita di questo elemento dell’attesa, così decisivo per i profeti e gli apostoli”.

Infine: la parabola dell’amministratore fedele e prudente narrata da Gesù viene provocata dalla domanda di Pietro che chiede se le cose dette fino a quel momento da Gesù siano da riferirsi a loro, o valgano anche per tutti. Tramite l’intervento di Pietro, l’evangelista Luca sembra quindi voler cercare di precisare chi siano i destinatari dell’insegnamento di Gesù, e quindi chi debbano essere identificati come i responsabili della comunità. La primitiva comunità post-pasquale, ci dicono gli esegeti, visto il prolungarsi dell’attesa del ritorno di Gesù, cercava infatti nelle parole del Maestro una indicazione che desse i criteri per individuare i soggetti in grado di essere gli “amministratori” della stessa.

La risposta di Gesù è una non-risposta. Difatti a questo interrogativo Gesù risponde ponendo a sua volta una domanda. “Chi è dunque …?”. La sua domanda retorica poneva certamente Pietro e gli altri discepoli a cercare di capire se potessero essere come quell’amministratore fedele e prudente”.  Ma in realtà Gesù non parla di una persona o gruppo di persone particolari che rivestano una funzione speciale. Questo è chiaro dalle sue parole che seguono: “Beato quel servo che il padrone, al suo arrivo, troverà intento a far così”. Poteva essere uno qualsiasi degli schiavi. L’unico requisito per essere dichiarato beato era di rimanere fedele. Non esiste quindi uno schiavo particolare o una classe particolare che è fedele e uno schiavo o classe particolare che è infedele. Ciascuno, ogni discepolo-schiavo, ha possibilità delle due condizioni. “Chi è dunque . . . ?”.

Gesù utilizza quindi un quesito che gli viene posto, come accade spesso nella narrazione evangelica, per sottolineare il criterio ultimo a cui l’uomo deve fare riferimento; nel caso specifico, ciò che “fa la differenza” non sono determinate persone poste in ruoli particolari, ma i criteri di verità, che Gesù rivela, come la disposizione del cuore (la fedeltà e la vigilanza) e la concretezza dei comportamenti (il farsi carico di quanti, non avendo ricevuto altrettanto, ci sono stati affidati).

Mi sembra questa bellissima intuizione di Gesù uno dei tratti caratteristici che le varie Chiese Protestanti hanno cercato di realizzare, pur con mille limiti, Difatti nella nostra Chiesa non vi sono ruoli ministeriali sacri, nessuno è chiamato a ruoli di amministrazione per elezione divina, ma ogni membro della comunità – secondo il criterio del sacerdozio universale dei fedeli – è chiamato, con i propri doni e i propri limiti, ad essere responsabile della propria sorella e del proprio fratello di fede. Nelle nostre chiese tutti i credenti sono eguali fra loro e nessuno nella chiesa è chiamato «maestro», o «padre», o «guida», perché uno solo è il maestro (come dice l’evangelo di Matteo). Non abbiamo «sacerdoti», nel senso di un ministero speciale e riservato ad alcuni appositamente ordinati a tal fine, e che abbiano in qualche modo il monopolio del rapporto con Dio, la celebrazione dei sacramenti, il governo della chiesa. Ministro vuol dire etimologicamente «servitore», e questo perché Gesù «è colui che serve», «è venuto per servire». Vi sono doni e servizi suscitati dallo Spirito che danno vita, senza dubbio, a delle diversità anche nelle nostre Chiese, ma sono diversità che devono servire a porre in essere le più svariate azioni della comunità, senza creare in essa delle gerarchie di dignità o di potere.

La riforma, di cui ricordiamo i 500 anni, ci ha lasciato in eredità questa intuizione, ribaltando una posizione, una convinzione teologica e una prassi ecclesiale più che millenaria (e, detto per inciso, è quella dalla quale le altre due Chiese cristiane, la Cattolica e la Ortodossa, dipendono): cioè la fine della differenza di natura tra uno “stato ecclesiastico o clericale” proprio dei cristiani che hanno ricevuto l’ordinazione, e lo “stato laicale” proprio dei cristiani non ordinati, cioè dei cosiddetti “semplici laici”. Scrive Lutero nella “La libertà del cristiano”: “Tutti appartengono allo stato ecclesiastico, e tra di loro non c’è alcuna distinzione se non unicamente quella della funzione; siamo tutti cristiani dello stesso tipo”.

La ragione teologica per la quale tutti i cristiani appartengono allo stato ecclesiastico, cioè sono tutti sacerdoti, è il battesimo, che è lo stesso per tutti ed è una vera ordinazione sacerdotale. Il “semplice laico” diventa così il personaggio principale della Chiesa, corresponsabile con i ministri della Chiesa, della sua predicazione, del suo insegnamento, della sua gestione. In questo modo la Riforma ha dato un contributo di prim’ordine alla emancipazione del laicato cristiano, alla sua crescita, all’avvento del cristiano adulto, maggiorenne, libero nella sua coscienza, responsabile delle sue scelte.

Gesù ci ricorda però che: “A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà”. La libertà che come cristiani rivendichiamo di fronte al mondo, e la nostra acquisita consapevolezza di persone adulte nella fede, non deve farci dimenticare che noi siamo liberi perché liberati da Cristo dal nostro peccato, e questo per poter essere oggi utili strumenti nelle mani di Dio.

AMEN

Fabio Barzon

Sermone: IL PANE QUOTIDIANO

Esodo 16,4-16

Allora il SIGNORE disse a Mosè: «Ecco, io farò piovere pane dal cielo per voi; il popolo uscirà e ne raccoglierà ogni giorno il necessario per la giornata; così lo metterò alla prova e vedrò se cammina o no secondo la mia legge. Ma il sesto giorno, quando prepareranno quello che hanno portato a casa, dovrà essere il doppio di quello che raccolgono ogni altro giorno».

Mosè e Aaronne dissero a tutti i figli d’Israele: «Questa sera voi conoscerete che il SIGNORE è colui che vi ha fatti uscire dal paese d’Egitto. Domattina vedrete la gloria del SIGNORE, poiché egli ha udito i vostri mormorii contro il SIGNORE. Quanto a noi, che cosa siamo perché mormoriate contro di noi?»

E Mosè disse: «Vedrete la gloria del SIGNORE quando stasera egli vi darà carne da mangiare e domattina pane a sazietà; perché il SIGNORE ha udito le lagnanze che voi mormorate contro di lui. Noi infatti, che cosa siamo? I vostri mormorii non sono contro di noi, ma contro il SIGNORE».

Poi Mosè disse ad Aaronne: «Di’ a tutta la comunità dei figli d’Israele: “Avvicinatevi alla presenza del SIGNORE, perché egli ha udito i vostri mormorii”».

Mentre Aaronne parlava a tutta la comunità dei figli d’Israele, questi volsero gli occhi verso il deserto, ed ecco la gloria del SIGNORE apparire nella nuvola.

E il SIGNORE disse a Mosè: «Io ho udito i mormorii dei figli d’Israele; parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e domattina sarete saziati di pane; e conoscerete che io sono il SIGNORE, il vostro Dio”».

La sera stessa arrivarono delle quaglie che ricoprirono il campo. La mattina c’era uno strato di rugiada intorno al campo; e quando lo strato di rugiada fu sparito, ecco sulla superficie del deserto una cosa minuta, tonda, minuta come brina sulla terra. I figli d’Israele, quando l’ebbero vista, si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?» perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «Questo è il pane che il SIGNORE vi dà da mangiare. Ecco quello che il SIGNORE ha comandato: “Ognuno ne raccolga quanto gli basta per il suo nutrimento: un omer a testa, secondo il numero delle persone che vivono con voi; ognuno ne prenda per quelli che sono nella sua tenda”».

 

Giov 6,32-35

Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che non Mosè vi ha dato il pane che viene dal cielo, ma il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo. Poiché il pane di Dio è quello che scende dal cielo, e dà vita al mondo».

Essi quindi gli dissero: «Signore, dacci sempre di codesto pane».

Gesù disse loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete».

 

«Camminare nel profondo di quel bosco o salire su quella cima mi fa sentire più vicino a Dio!» Non so se vi sia mai capitato personalmente di percepire le cose in questo modo o se abbiate sentito qualcuno dire parole di questo tipo; sembra però, proprio in questo nostro tempo, una cosa abbastanza diffusa.

C’è il bisogno di trovarsi in qualche luogo straordinariamente suggestivo per incontrare Dio, per fare esperienza del divino. Sembra molto più facile in questi contesti, quando ci si è lasciati alle spalle il rumore delle città, il rumore della vita quotidiana, percepire Dio o l’assoluto.

Chissà in quanti pensano che per vivere davvero e in profondità l’incontro con Dio, si deve in qualche modo uscire dal mondo, isolarsi, andare su una montagna solitaria o nel cuore di un deserto dimenticato oppure di fronte alla maestà del mare.

Certo, chi conosca almeno un po’ la storia della chiesa cristiana, potrebbe dire che questa tendenza non è così nuova, perché già nel corso dei primi secoli del cristianesimo, vi furono, con i cosiddetti Padri del deserto, delle esperienze di individui che decisero di vivere nell’isolamento del deserto la loro esperienza di fede.

La diversità forse maggiore è che oggi la maggior parte delle persone che crede di poter incontrare Dio sulla cima di un monte o nel silenzio del deserto o dove l’individuo si trova a contemplare romanticamente la natura, non crede che quella stessa esperienza abbia qualcosa a che fare con la vita quotidiana spesa nel formicolio e nel movimento delle nostre città. Allora l’animo si perde nella bellezza dell’ambiente e si può accettare una spruzzatina di religiosità, solamente se questa non diventa una costante della vita, almeno di quella vita che ha i suoi bisogni, le sue attese, le sue speranze, che non vogliono essere riposte in qualcun altro.

In Esodo abbiamo sentito che Israele sta camminando nel deserto, sta camminando nella libertà. Eppure il suo sguardo non è ancora rivolto in avanti, continua a rimanere ancorato al passato, un passato di sofferenza, ma al tempo stesso di garanzie.  Certamente in Egitto non si viveva nella libertà, ma almeno la pancia era piena. A che cosa serve la libertà se si si è costretti a morire di fame nel deserto?

La crisi di fede di Israele non nasce da una riflessione intellettuale, dal non riuscire ad affrontare o a dare risposta a determinati problemi generali; la crisi di fede di Israele non nasce neanche in legame a qualcosa di straordinario. La crisi di fede di Israele nasce dalla difficoltà concreta, la penuria di cibo. Ad una mancanza di cibo corrisponde una mancanza di fede. E lo sapevano bene anche alcuni padri fondatori delle nostre chiese riformate che comprendevano come sia difficile parlare di Dio a chi si trova nella miseria, nella malattia, nell’impossibilità di accettare un messaggio d’amore quando si è alla ricerca della sopravvivenza fisica.

A questo punto ci si potrebbe domandare: Israele ha capito chi sia a guidare il popolo, Israele conosce il Signore che l’ha condotto fuori dall’Egitto? Ci troviamo di fronte ad una crisi che si potrebbe definire una crisi di conoscenza (nel versetto 12 troviamo scritto: “conoscerete che io sono il Signore, il vostro Dio”). Non la conoscenza che definiremmo intellettuale, bensì quel tipo di conoscenza che costituisce la relazione di fede.

Un riformatore del XVI secolo, in una sua famosa pagina, scriveva: “Conoscere Cristo significa conoscere i suoi benefici”. Che, detto in altri termini, vuol dire che la vera conoscenza di Dio si ha sperimentando o riconoscendo ciò che di buono Dio realizza nei nostri confronti.

La benedizione di Dio non si sperimenta solamente nelle situazioni eccezionali o che possono apparire straordinarie; Dio non viene ad incontrare l’umanità solamente nella cornice straordinaria di un monte isolato, sul quale sembra che la sua presenza sia più completa. Al contrario, è nella concretezza piena di questo mondo, nell’ordinarietà del bisogno che trova una risposta, che lo si conosce e riconosce.  “Conoscere i suoi benefici”, cioè riconoscere che nelle strade tortuose della vita, proprio quando si può essere nel deserto e affrontare la fame e la sete, la povertà materiale o di prospettive, il Signore non ha smesso di ascoltare la nostra voce.

Questa pagina biblica ci invita a guardare a Dio come colui che nella quotidianità della nostra vita, nella nostra quotidiana “milizia” come la chiama il libro di Giobbe (7,1), cioè vivendo spesso in una sensazione di incertezza, è il Signore che ascolta il grido di aiuto, che provvede alle nostre necessità e che, al tempo stesso, ci chiama all’obbedienza.

Vorrei che riflettessimo un poco su queste tre dimensioni, che possono apparire scontate, spesso ripetute ma altrettanto in fretta messe da parte. Il primo aspetto è questo: Dio ascolta il grido, ascolta le voci di quanti mormorano contro di lui. E questo ascolto non è selettivo: Dio presta attenzione ad ogni preghiera, anche a quelle che si ricollegano alle cose di ogni giorno.  E questo lo vediamo anche nella preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli; nel Padre nostro si prega per il “pane quotidiano”, per ciò che è essenziale per la nostra vita.

Quante volte ci capita però di pensare che dopotutto il pane quotidiano sia frutto della nostra fatica e ben poco abbia a che fare con Dio; oppure, guardandoci intorno, abbiamo l’impressione che questo pane che Dio dovrebbe distribuire a tutti sia in realtà privilegio di pochi e ci viene da chiederci “dov’è la generosità di Dio o la sua pietà nei confronti di quanti non hanno da mangiare?”.  Forse, pensando in questo modo abbia già dimenticato l’essenziale di questa preghiera, cioè il fatto di riconoscere che anche quanto abbiamo per la nostra vita sia da considerare un dono e non un possesso esclusivo.

Non è Dio a dimenticarsi di essere il Padre di tutti e che il pane sia di tutti; spesso siamo noi a parlare del Padre nostro, ma al tempo stesso a guardare al pane come ad una cosa esclusivamente mia. Creando quel circolo vizioso che impedisce la condivisione e pensa invece al vantaggio personale.

Il secondo aspetto ci ricorda che Dio provvede ai bisogni di quanti lo invocano. Anche in questo caso, questo provvedere non si situa su un piano distaccato dalla realtà concreta del nostro quotidiano. Se noi siamo qui è perché nonostante tutte le contraddizioni della vita, nonostante tutte le prove, nonostante le nostre domande aperte e i nostri dubbi, nonostante tutto, la luce di questa promessa non è stata completamente oscurata: Dio ha provveduto e provvede al suo popolo.

Questo non è il nostro giudizio definitivo sulla storia, è il nostro riconoscimento, la nostra confessione di fede. Chi conosce questa risposta di Dio conosce i benefici del Signore nei confronti dei suoi figli, ha riconosciuto che il Signore non è un’idea o un’invenzione della mente umana, ma colui dal quale la vita dipende.

Il terzo aspetto ci rimanda alla chiamata all’obbedienza. Il Signore che ascolta le esigenze quotidiane e offre la sua risposta ci chiama anche alle nostre responsabilità nel quotidiano.  Obbedire a Dio non significa uscire dal mondo, ma restare pienamente fedeli a quello che noi viviamo nella nostra quotidianità e a cui siamo chiamati da Dio, esprimere fedeltà e ascolto a quella volontà di Dio che è data non per amore dell’obbedienza in quanto tale, ma per amore della pienezza di vita.

E la pienezza non si realizza nell’accumulo del superfluo, ma nel ricevere il necessario (il pane). Rimanere fedeli a quel quotidiano in cui la fede in Dio ci chiama a vivere significa anche riflettere su quanto noi per primi siamo capaci di uscire dalla logica del popolo che corre subito a far provviste oltre la misura indicata: che cos’è necessario, che cos’è superfluo nella nostra vita?

Siamo partiti considerando come, spesso, nel nostro tempo, si parta alla ricerca di Dio pensando di incontrarlo più facilmente lontano dalla quotidianità. In realtà, come abbiamo visto, il nostro testo biblico ci indica una strada diversa: ci chiede di saper esercitare il discernimento, per riconoscere la presenza di Dio nelle necessità quotidiane.

Non c’è condanna per il popolo che mormora, non c’è condanna per chi può apparire privato della sua fede, ma, al contrario, ascolto.  Dio ascolta ed è presente. Chi vive questa presenza, chi l’attende non sarà deluso. Chi vive questa presenza comprenderà, come il popolo d’Israele, la libertà alla quale è stato chiamato, quella libertà che toglie la fame e la sete.

E per noi, donne e uomini cristiani, cioè seguaci e fedeli di Dio che si è incarnato in Gesù, la promessa viene confermata con quella bella espressione che abbiamo trovato nel vangelo di Giovanni: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete».    AMEN

past. William Jourdan / Liviana Maggiore

Sermone: ECCOMI !

Esodo 2,23 – 3,8

Durante quel tempo, che fu lungo, il re d’Egitto morì. I figli d’Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe. Dio vide i figli d’Israele e ne ebbe compassione. Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. L’angelo del SIGNORE gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si consumava. Mosè disse: «Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il pruno non si consuma!» Il SIGNORE vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: «Mosè! Mosè!» Ed egli rispose: «Eccomi». Dio disse: «Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro». Poi aggiunse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe». Mosè allora si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio. Il SIGNORE disse: «Ho visto, ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele.

 

Dopo la rocambolesca fuga dall’Egitto, Mosé si era rifatto una vita a Madian, dove aveva sposato una delle figlie del sacerdote e aveva cominciato a condurre un’esistenza tranquilla con la famiglia e le greggi. Ma, improvvisamente, quando meno Mosè se lo aspetta, succede qualcosa, un evento straordinario, qualcosa che scompiglia le carte e distrugge il tranquillo tran tran di questo pastore di pecore. Sappiamo che mentre Mosè conduceva la sua pacifica esistenza, gli israeliti che vivevano in Egitto continuavano ad essere sottoposti alla schiavitù e “alzavano grida” di dolore e di angoscia, grida che giunsero fino a Dio. E il Signore, dice il nostro testo, ne provò compassione e decise di intervenire, anche perché non aveva dimenticato il patto che aveva fatto con Abramo, Isacco e Giacobbe.

Ed ecco la prima considerazione che voglio fare con voi stamattina: per quanto tempo gli israeliti erano rimasti in schiavitù? Perché Dio non è intervenuto prima? Quante volte nel corso della storia l’umanità o anche noi nelle nostre esistenze ci siamo trovati nella disperazione e abbiamo chiesto un intervento del Signore: rapido, forte, determinante, un intervento in grado di spezzare il dolore, di togliere l’ingiustizia, un intervento che ci permetta di vedere che viviamo in un mondo creato da Dio e non da Satana.

Ma talvolta questo intervento non avviene, o non avviene come noi ci aspetteremmo. Quante volte uomini e donne e bambini, perfino bambini, alzano le loro grida, ma il Signore sembra sordo, sembra essersi dimenticato del suo popolo?

Forse anche in Egitto, allora, questo intervento era sembrato tardare, era sembrato non abbastanza tempestivo.

Quando leggiamo la Bibbia, a distanza di tanti secoli, sembra tutto molto facile e molto netto, lineare: Dio ascolta e poi interviene e agisce e gli israeliti sembrano sentire fortemente la sua forza, e costruiscono intorno a questo evento, la fuga dall’Egitto, il cuore della loro storia.

Ma in realtà sappiamo che poi gli stessi israeliti finirono col comportarsi da ingrati, anche loro caddero nel dubbio e costruirono il vitello d’oro.

A questo dovremmo riflettere: siamo sicuri che non succeda anche a noi, qualche volta, di ricevere delle benedizioni e di non saperle riconoscere come tali? O di riconoscerle e poi dimenticarle? Di essere liberati e di rimpiangere la nostra schiavitù? Di guardare tutto quello che ci circonda solo dal nostro punto di vista senza interessarci ad altro? Di valutare i nostri tempi, i nostri desideri, i nostri bisogni come assoluti? E anche di dimenticare le nostre responsabilità nel susseguirsi delle cause e degli effetti? Certo a viste umane Dio avrebbe dovuto intervenire prima nella Shoa, ma noi cosa abbiamo fatto per impedire che quell’evento diabolico si concretizzasse?

Il testo di oggi mostra infatti anche un altro aspetto: Mosè stava pascolando il gregge quando vide di lontano una cosa che attirò la sua attenzione. Un albero, un pruno, brillava come se stesse bruciando, ma non sembrava consumarsi. Che cosa strana!

Non so se siate mai stati nel deserto, io ho avuto il dono di andarci una volta, in Tunisia. Un deserto di sabbia. E là ho visto un albero che avrebbe potuto essere proprio il pruno del nostro testo. Non dovete immaginare i nostri alberi, quando leggete questo racconto, ma pensare agli arbusti che crescono in territori aridi e desertici. Vi dico questo perché dovete immaginare che quello a cui stava assistendo Mosè era una visione strana, ma non impossibile. Mosè era incuriosito, infatti, ma non spaventato, non stralunato. Era incuriosito e andò a vedere. Avrebbe anche potuto non essere curioso. Dio non dà per scontato che lo sarà. Il Signore lo chiama, certamente, ma non lo fa attraverso un gesto fuori dalla esistenza di Mosè.

Interroghiamoci per un attimo su noi stessi: siamo aperti al Signore, ai suoi richiami? Qualora ci volesse, saremmo capaci di sentire la sua chiamata, la vocazione che ci è rivolta? Oppure tutto quello che abbiamo, il lavoro, la famiglia, l’impegno quotidiano, ci bastano e induriscono i nostri cuori e le nostre orecchie, la nostra intelligenza e i nostri occhi? Qualora venissimo chiamati sapremmo sentire e vedere? O cerchiamo di non ascoltare, di non vedere?

Probabilmente quando Dio si rivolge a noi non lo fa con gesti eclatanti, con azioni cinematografiche di stampo hollywoodiano e quindi potremmo anche non accorgercene, potremmo non dare importanza a quello che vediamo.

Quello che Mosè riceve non è un messaggio così dirompente che non si può evitare di vederlo e tenerlo in considerazione. Mosè non è costretto a rispondere, può anche tirare dritto e continuare a preoccuparsi del suo gregge. E Dio, il testo lo dice esplicitamente, aspetta.

E noi? Noi ascoltiamo e guardiamo i messaggi che ci potrebbero arrivare? Siamo attenti o siamo perennemente distratti e concentrati solo su noi stessi, sui nostri impegni, sui nostri traffici?

Mosè alza gli occhi e vede qualcosa che richiama la sua attenzione. Il Signore aspetta che Mosè si muova: non lo incalza, non lo spinge. Aspetta la risposta di Mosè e quando Mosè si muove, attratto dal pruno, allora e solo allora lo chiama. E Mosè cosa fa? Dice “Eccomi!”. Mosè è ricettivo, prima vede, poi ascolta e risponde e infine ha paura.

Quando sa di essere di fronte a Dio ha paura. Ha paura di guardare Dio. Paura.

E noi? Noi di fronte a Dio ci inchiniamo? Di fronte a Dio abbiamo paura e ci inginocchiamo? Di fronte a Dio sentiamo tutta la nostra piccolezza? Forse no. Forse abbiamo perso la capacità di vedere e sentire Dio. Forse siamo distratti da mille cose e mille rumori. Forse siamo diventati ormai troppo prosaici e troppo materialisti per prendere sul serio tutto ciò che va oltre il raggio di pochi metri dalla nostra visuale. Forse non sentiamo più il timore di Dio, il timore per la nostra piccolezza e fragilità.

Eppure, cari fratelli e sorelle, anche questo non è del tutto vero: perché anche noi abbiamo visto il pruno ardere altrimenti non saremmo venuti fin qui a vedere cosa c’era. Anche noi abbiamo sentito la voce del Signore che ci ha chiamati, altrimenti non saremmo usciti di casa solo per ascoltare un culto.

Perché, ed è questa la lieta novella di questa mattina, il Signore non si dimentica di noi, non ci abbandona alla nostra triste esistenza, continua a sentire i nostri gemiti, continua a ricordare il patto che ha fatto con noi: quello antico, con Abramo, Isacco e Giacobbe e quello nuovo, segnato dalla venuta di Gesù. Sì, il Signore ci vede, ci ascolta e ci conosce e non ci abbandona. Apriamo i nostri occhi, apriamo le nostre orecchie, apriamo i nostri cuori e accogliamo il Signore oggi e per sempre!

Amen

Erica Sfredda