Sermone: IL RINNOVO DEL PATTO

Carissimi,

Il culto di oggi ha come argomento il rinnovo del patto, quell’alleanza che Dio ha contratto con l’uomo, quella promessa che ci è stata confermata più volte dai profeti.

Tradizionalmente, nelle nostre chiese si festeggia il rinnovo del patto con l’inizio dell’anno nuovo, ma da qualche tempo nella nostra comunità viene ricordato nella domenica più vicina al primo gennaio.

Oltre alla lettura di Genesi 9:8-17 che abbiamo appena sentito, leggiamo il passo sul quale oggi rifletteremo, tratto dall’evangelo di Giovanni al capitolo 14:1-6.

«Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me! Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che io vado a prepararvi un luogo? Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi; e del luogo dove io vado, sapete anche la via».

Tommaso gli disse: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo sapere la via?»

Gesù gli disse: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.»

Nella prima lettura, quella di Genesi, abbiamo visto la costituzione del patto, dell’alleanza fra Dio e l’uomo. Dopo una terribile catastrofe (il diluvio), riferita come una punizione per la grande ira di Dio a causa dell’infedeltà dell’uomo, il Signore si ricrede, torna sui suoi passi, comprende bene che l’uomo è una sua creatura, una creatura che Egli ha lasciato libera di agire come crede, libera perfino di ribellarsi alla Sua legge e, con una descrizione favolistica e poetica, ristabilisce il rapporto con un segno: l’arcobaleno.

Pace fatta? Sì, temporaneamente, perché l’uomo non riesce a coltivare un cuore puro, non riesce a vivere in pace nella fedeltà al Signore, nemmeno quando il Signore lo soccorre e viene in suo aiuto per farlo uscire dal paese d’Egitto. In Esodo ci viene detto che l’uomo è di memoria labile e facilmente si converte ad altri idoli. E il Signore si fa sentire attraverso Mosè, dando semplici regole, i comandamenti.

Ma l’uomo continua pervicacemente a vivere la propria vita, infischiandosene ampiamente del condursi nella vita in correttezza, rettitudine e fratellanza.

Certo, magari riconosce a parole l’autorità di Dio e la sua benevolenza, ma rimane ancorato a comportamenti egoistici, prevaricatori, ingiusti e talvolta sceglie altri idoli.

Nello svolgersi delle scritture dell’Antico Testamento noi vediamo che questo schema si ripete, nonostante le esortazioni e le raccomandazioni dei profeti.

Ma l’uomo è fatto così, nella sua stessa indole c’è sempre presente la tendenza alla trasgressione, al peccato, all’oltraggio al Signore, il quale alternativamente si arrabbia furiosamente con la sua creatura e poi torna a perdonarlo, perché Egli sa bene che solo un Suo riavvicinamento con l’uomo può portare quest’ultimo alla salvezza, alla redenzione.

Un riavvicinamento che, nel Nuovo Testamento, ci viene presentato come il dono più grande che il Signore fa all’uomo, nel tentativo che il cuore umano finalmente si converta: la venuta di Gesù, Figlio di Dio, in terra. La venuta in terra non su un carro infuocato, ma con la semplice nascita di uomo fra gli uomini, perché il genere umano è fatto da esseri stolti e limitati, che hanno bisogno di sentirsi dire e ripetere quale sia la volontà del Signore.

E quando l’uomo, il credente, si rende conto della propria infedeltà, del susseguirsi dei propri insuccessi nel seguire le vie del Signore cosa succede?

Può accadere una cosa assai negativa: interiorizza il proprio senso di inadeguatezza, coltivando sensi di colpa e insoddisfazione costante, fino ad arrivare alla mancata accettazione di se stesso.

Ma può accadere anche che, per autodifesa, si neghi la presenza di Dio nella propria vita, passando a gestire l’esistenza come se Lui non ci fosse, come se il messaggio che magari abbiamo un tempo ricevuto sia stato dimenticato o nascosto al nostro pensiero, dando così la preferenza ad una vita più utilitaristica e meno solidale, oppure addirittura negando Iddio, risolvendo tutto ad una dimensione puramente orizzontale e non prendendo in considerazione che questo scampolo di anni di vita terrena può non essere il tutto della nostra stessa esistenza.

Ecco allora che, da fedeli, possiamo comprendere quanto sia stato grande l’amore di Dio per l’uomo che viene ad essere il destinatario di un grandissimo dono: il perdono. Quel perdono gratuito che ci dà la possibilità di rasserenarci, di cominciare da capo, di sentirci amati nonostante il nostro essere infedeli e peccatori. Quel perdono segno di grande amore per ciò che siamo, di infinita accettazione del nostro essere.

Proprio così, Dio ci conosce e ci ama e ci accetta per come siamo. E su questo dovremmo forse fare una riflessione: perché spesso noi non ci accettiamo? Forse perché siamo più concentrati ad osservare la differenza fra ciò che siamo e ciò che avremmo voluto essere? Ma quello che avremmo voluto essere non è forse un modello, direi quasi un fantasma, che ci siamo costruiti nella giovinezza, ma che in realtà non ci appartiene? Impariamo dunque ad accettarci! Certo dobbiamo rimanere vigili per limitare i nostri comportamenti negativi, ma dobbiamo anche riconoscere ciò che di buono c’è in noi, in ciascuno di noi e forse così eviteremo di proiettare sul prossimo le nostre insoddisfazioni e impareremo a coltivare la pazienza e la tolleranza.

Dio rinnova costantemente il suo patto con noi. E lo fa non certo togliendoci le nostre responsabilità, né tantomeno limitando la nostra libertà, ma lo fa concedendoci la grazia di essere suoi figli, accogliendoci così come siamo, proprio come il padre misericordioso accoglie e fa festa per il figliol prodigo.

E se questo non bastasse, ci viene data anche rassicurazione, come abbiamo letto nelle parole di Gesù: “Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”.

Con queste parole Gesù ci invita a dissipare il nostro turbamento, a guardarci dentro e, ripeto, provare ad accettare noi stessi, così come il Signore ci accetta per ciò che siamo, sollecitandoci magari ad una conversione, ad ammorbidire il nostro cuore di pietra perché da Lui viene la forza per tornare ad un cuore di carne.

Gesù è l’incarnazione del rinnovato patto, della rinnovata alleanza fra Dio e l’uomo e, nonostante l’uomo, è colui che dice anche “Quando vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi”.

Non solo, ma anche la risposta all’insipienza di Tommaso è come se fosse dedicata a noi. Tommaso, proprio come noi, non ha ben capito la portata della figura di Gesù. Tommaso non ha capito, noi non abbiamo capito, oppure spesso la nostra mente e il nostro cuore sono altalenanti fra comprensione e incredulità, fra accettazione e rifiuto di Dio nella nostra vita.

La risposta di Gesù è chiara: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

È chiara questa risposta? Direi di sì.

Ci crediamo a questa risposta? Come credenti dovremmo crederci e non dovremmo nutrire dubbio alcuno. Se invece non ci crediamo, nell’assoluta libertà che abbiamo, dovremmo essere intellettualmente onesti e non definirci cristiani.

Ma c’è anche un altro aspetto, un’idea costante che mi ha assillato nella riflessione durante la preparazione di questo culto per il rinnovo del patto.

Qual è la valenza particolare della conferma dell’alleanza fra Dio e l’uomo manifestata e proclamata da Gesù Cristo. In effetti nell’Antico Testamento più volte il Signore ha rinnovato il suo patto, più volte ha dovuto Lui riavvicinarsi all’uomo (es. Giosuè, Geremia).

Credo sia una lettura corretta e ve la propongo in tutta umiltà: con la venuta di Gesù, col grande dono del perdono gratuito, Dio guarisce il nostro cuore di pietra e ci dà la possibilità di interpretare la legge dell’amore e della fratellanza non come una norma esteriore, esterna all’essere umano, talvolta forse oppressiva. Con il perdono gratuito Dio ci vuol dire che la legge dell’amore è anni luce distante dai semplici comandamenti di Mosè, perché la legge dell’amore, dell’accettazione, del perdono, non è scritta su tavole di pietra, ma è incisa nel cuore di carne, nel nostro cuore, quel cuore che la fede fa cambiare.

Ecco allora, sorelle e fratelli, che ancora una volta possiamo solo innalzare al Signore la nostra preghiera di lode e ringraziamento perché il rinnovo del patto, la conferma dell’alleanza è per tutti noi, collettivamente e individualmente.

Con questo spirito quindi, possiamo augurarci fraternamente buon anno nuovo nel Signore.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: IL DONO DI NATALE

Questo è un periodo particolare dell’anno. Le nostre città, i negozi, le nostre stesse abitazioni sono addobbate per l’evento, il più delle volte in una strana commistione fra il sacro e il profano. L’aria delle feste si sparge sulla nostra distratta e materialistica civiltà, facendo magari in modo che il Natale diventi una festa anche per coloro che non sono credenti.

Una consuetudine ormai radicata è quella di scambiarsi doni (almeno per chi ne ha le possibilità) e magari siamo portati a interpretare i doni solo come “cose” da regalare e non ci fermiamo a riflettere sul fatto che il dono può essere anche il nostro tempo condiviso per stare insieme, fossilizzati come siamo nel fare anziché nell’essere.

Io ritengo di essere una persona fortunata perché ho avuto l’abitudine fin da giovane a considerare un grande dono la vicinanza di persone che amo e dalle quali mi sento riamata. E questo è accaduto anche in questo Natale, il cui preludio è stato veder realizzato un grande desiderio: passare ore insieme con una persona che ha condiviso con me l’ascolto di musica, le chiacchiere, la condivisione dei pasti, l’allegria così come la tristezza. Molto, molto più di un regalo materiale.

E proprio riflettendo sul significato del “dono” assume una particolare valenza il passo della prima Epistola di Giovanni, un passo per me pregno di gioia e speranza, un passo nel quale veniamo sollecitati a riflettere sul grande dono che ci è stato fatto con la nascita del Bambinello a Betlemme.

Leggo da 1 Giovanni 3:1-6

Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio! E tali siamo. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.

Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è. E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica com’egli è puro.

Chiunque commette il peccato trasgredisce la legge: il peccato è la violazione della legge. Ma voi sapete che egli è stato manifestato per togliere i peccati; e in lui non c’è peccato.

Chiunque rimane in lui non persiste nel peccare; chiunque persiste nel peccare non l’ha visto, né conosciuto.

Ho detto che in questi versetti traspare la gioia e in tal senso cerco di spiegarmi.

Questa lettera è attribuita da molti all’autore del quarto vangelo, altri invece ritengono che non lo sia. Tuttavia per la nostra riflessione questa disputa non riveste particolare importanza perché oggi è meglio concentrare la nostra attenzione sul significato dei versetti che abbiamo letto.

L’epistola non inizia con una dedica di apertura in cui siano indicati i destinatari, però alcuni studiosi ritengono che Giovanni volesse scrivere alle chiese dell’Asia minore, nelle quali era ben conosciuta la radice ebraica derivante dall’Antico Testamento.

In questo senso quindi possiamo leggere il versetto 5, nel quale Giovanni dice che “chi commette peccato trasgredisce la legge”, perché così era interpretato il peccato: fare qualcosa che va contro la legge, contro le regole imposte.

Ma Giovanni ci parla anche di amore, di un amore immenso che noi cristiani sappiamo essersi manifestato con la venuta di Gesù sulla terra. Un amore che ci dà la speranza, anzi la certezza del perdono per il peccato, perché noi sappiamo bene che anche la persona più retta e più proba vive comunque in una situazione di peccato e necessita quindi del perdono.

Nonostante nella cultura cattolica dominante il peccato sia spesso letto come il “fare qualcosa che non va bene”, se ci soffermiamo a riflettere comprenderemo bene che il peccato è qualcosa che va bene al di là delle nostre azioni. Il peccato non è solo non ledere gli altri, non rubare, non uccidere, non maltrattare. E tantomeno il peccato non è certo commettere “atti impuri”, magari assimilandoli a comportamenti sessuali che risentono per lo più dalla civiltà in cui siamo inseriti.

Spesso le azioni che consideriamo “peccato” risentono più dei nostri sensi di colpa e poco hanno a che fare con azioni realmente peccaminose.

Il peccato è altro. È la situazione nella quale costantemente viviamo perché il nostro condurci nella vita in realtà non è fraterno, non è amorevole nei confronti degli altri, non è realmente solidale, non ci fa uscire dal nostro guscio per condividere ciò che siamo e ciò che abbiamo, quasi che tutto ciò che ci viene messo a disposizione in termini materiali e non materiali sia una nostra proprietà, della quale possiamo disporre totalmente, lasciando agli altri le briciole.

Così inteso il peccato è qualcosa di più grande, più coinvolgente, sempre presente nel nostro agire e nel nostro essere, perché in realtà siamo … esseri piccoli e meschini, che non riescono a vedere più in là del loro naso e che hanno bisogno di norme e leggi per definire il buon condursi nella vita o la trasgressione. Direi una visione decisamente veterotestamentaria.

Ma oggi è Natale. Ricordiamo la nascita di Gesù, quindi dobbiamo chiederci quale sia la relazione fra quanto abbiamo fin qui detto e questa grande festa della cristianità.

Giovanni ci dice che il Padre ci ha manifestato un grande Amore, un Amore con la A maiuscola. Il Padre ci ha fatto un grandissimo dono “dandoci di essere chiamati figli di Dio”. E questo dono ci è stato fatto proprio con Gesù, uomo fra gli uomini, Dio incarnato per solo e puro amore di un Signore che continua ad amarci nonostante le nostre infedeltà e che, lungi dall’essere solo il Dio degli eserciti, ci concede il perdono attraverso suo figlio, Dio egli stesso, ma non un altro Dio, bensì una diversa manifestazione dell’Eterno.

Ecco allora che la venuta di Gesù è una rottura completa con il passato. La venuta di Gesù produce una “anastrofe” una completa inversione di termini, una anteposizione rispetto a ciò che prima era, ma senza cancellare ciò che prima esisteva. Non è quindi una “catastrofe” che azzera il passato, ma una nuova visione del mondo e della vita basata sul perdono e sulla grazia gratuitamente elargita.

Ecco dove sta la gioia che deve inondare i nostri cuori.

Quel bambino di Betlemme nasce ancor oggi per ciascuno di noi, viene per farsi conoscere da noi, viene per donarci la consapevolezza che siamo figli di Dio, che siamo destinatari di un amore puro e infinito, che siamo coloro che riconoscono nel Signore l’unica vera fonte di grazia, quella grazia che ci riscatta dal peccato, dalla situazione di infedeltà che costantemente ci attanaglia.

Quindi, sorelle e fratelli, gioiamo oggi nel ricordo di un grande evento che ha cambiato i tempi. Gioiamo nel profondo dei nostri cuori perché Qualcuno ha già provveduto alla nostra salvezza.

Tuttavia, consapevoli di questo grandissimo dono, certo non materiale, realizziamo nella nostra vita un pezzetto di quella anastrofe, cambiando talvolta il nostro modo di essere e di porci nei confronti degli altri, non relegando i nostri pensieri solo nelle nostre esperienze passate, nei comportamenti legati alla nostra storia personale, a quella limitata vita finora vissuta.

Concentriamoci invece sul fatto che tutti noi, ciascuno col proprio nome (tu Francesco, tu Valdo, tu Mary, tu Sophia, tu Federico …), siamo in cuore a Dio che fa piovere sul nostro capo il perdono grazie alla presenza sul mondo di Gesù, un bimbo nato povero fra i poveri per la salvezza del mondo.

Con questo spirito gioioso, sapendo che come canteremo nel prossimo inno “una nuova alba sorge”, auguriamoci vicendevolmente “Buon Natale”.

AMEN

Liviana Maggiore

 

Sermone: MARANATHA’ – VIENI, SIGNORE, VIENI.

Cari fratelli e sorelle, per questa domenica, terza di Avvento, il testo di predicazione proposto da “Un giorno una parola” è tratto dalla Lettera ai Romani 15,4-13

“Poiché tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione, affinché mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza.

Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di aver tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, affinché di un solo animo e d’una stessa bocca glorifichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio. Infatti io dico che Cristo è diventato servitore dei circoncisi a dimostrazione della veracità di Dio per confermare le promesse fatte ai padri; mentre gli stranieri onorano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti celebrerò tra le nazioni e canterò le lodi al tuo nome». E ancora: «Rallegratevi, o nazioni, con il suo popolo». E altrove: «Nazioni, lodate tutte il Signore; tutti i popoli lo celebrino». Di nuovo Isaia dice: «Spunterà la radice di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni; in lui spereranno le nazioni». Ora il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza, per la potenza dello Spirito Santo.”

Il testo che abbiamo appena ascoltato sembra, a prima vista, voler toccare più punti, voler offrire più spunti e tematiche diverse per la riflessione personale o comunitaria. Se lo mettiamo però a confronto con le altre letture neotestamentarie di oggi, ecco che un filo conduttore unico inizia a comparire. Siamo nel periodo dell’Avvento: fra una settimana, lunedì prossimo, sarà Natale. Ancora una volta Cristo nasce per noi e si fa uomo: carne per noi e come noi. Nell’Evangelo di Giovanni, la nostra prima lettura, vediamo Gesù che ribadisce con forza, di fronte ad un Giovanni Battista dubbioso o quanto meno incerto su chi fosse realmente colui che aveva battezzato tempo prima nelle acque del fiume Giordano.  «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?».  Anche nella Seconda Lettura l’Apostolo Paolo parla della venuta del Signore. Questa volta però si tratta della seconda e definitiva venuta: “quando Egli metterà in luce quello che è nascosto nelle tenebre e manifesterà i pensieri dei cuori”. Alla fine dei tempi quindi, quando Gesù giudicherà noi tutti: “colui che mi giudica è il Signore. Perciò non giudicate nulla prima del tempo, finché sia venuto il Signore”.

Si comprende ora meglio il messaggio che ci viene oggi dal passo della Lettera ai Romani: Gesù Cristo è l’inviato di Dio. Dio ha mantenuto la sua promessa e ha mandato il liberatore. “A dimostrazione della veracità di Dio per confermare le promesse fatte ai padri”. Del resto anche Isaia, nell’Antico Testamento, dice chiaramente: “Spunterà la radice di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni; in lui spereranno le nazioni».

Ma Dio non ha mandato un inviato in vesti regali: ha mandato un “servitore dei circoncisi” ovvero del popolo ebraico. Ma attenzione, ora siamo nel Nuovo Patto per cui Gesù non è il liberatore solo e soltanto del popolo ebraico ma lo è per tutte le nazioni: “Rallegratevi, o nazioni, con il suo popolo”. Pertanto “nazioni lodate tutte il Signore; tutti i popoli lo celebrino”.

Ecco quindi cosa ci apprestiamo a fare in queste settimane di Avvento. Dove questo termine, come sappiamo, indica, appunto “venuta”.  Una venuta che è speranza, speranza che ci riempie di gioia e di pace nella fede, affinché possiamo abbondare, prosperare, stare meglio grazie alla potenza dello Spirito Santo. Spirito Santo che, ricordiamolo ancora, è quella persona della Trinità che è sempre presente qui sulla Terra fin da quando Gesù è asceso al cielo.

Egli non ci ha lasciato soli: con noi è rimasto il suo Spirito. Lo abbiamo sentito prima nell’invocazione iniziale: “Dio, che è per noi come un padre” (vedi quindi l’Antico Testamento) “Dio, che è diventato nostro fratello in Gesù Cristo (e qui siamo nel Nuovo Testamento) “Dio, che è adesso qui presente nello Spirito Santo.” Spirito di speranza, di consolazione ed anche di potenza, nell’attesa della seconda e, lo ripeto, definitiva venuta di Cristo per “giudicare i vivi e i morti” come dice il nostro Credo.

Le parole chiave quindi, cari fratelli e sorelle, di questo passo di Paolo che ci viene proposto alla riflessione in questa domenica, iniziano a crescere: venuta, speranza, e adesso Fede: “vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede”.

Ma cos’è la Fede? Fede vuol dire fiducia, vuol dire affidarsi totalmente a qualcuno. Sì, mio Signore, mi fido ciecamente ed assolutamente di Te, portami dove vuoi. La tua mano paterna mi guida sicuramente verso il bene. E abbiamo sentito prima le parole del Salmo 23: “Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza”. Tu sei con me, tu mi dai sicurezza. La sicurezza che nasce dalla fiducia, dall’affidarsi totalmente a Colui che è già venuto e che so che tornerà. Ma che comunque è già qui presente, in mezzo a noi, in Spirito.

Lo abbiamo anche invocato nel primo inno: “Vieni in mezzo a noi, Dio liberatore”. Ecco di nuovo il liberatore. Anche l’inno 70 “Un’alba nuova” ce lo ricorda: “Un’alba nuova sorger vediam per liberarci viene il Signor”. Colui che ha liberato il popolo ebraico dalla schiavitù materiale, fisica, in Egitto, colui che ci ha liberato dalla schiavitù spirituale del peccato, colui che tornerà per salvare ancora una volta chi ha avuto fiducia in lui, chi ha creduto, chi si è affidato.

Come vedete, cari fratelli e sorelle, tutto il culto di questa domenica converge, tutto torna. E allora, non possiamo fare altro che pronunciare, con vera fede, l’ultima parola della Bibbia: Maranathà, vieni Signore vieni. Il tuo popolo ti aspetta.

Amen

Daniele Rampazzo

Sermone: NON SI COSTRUISCE SENZA PRIMA AVER ABBATTUTO

Geremia 1,4-10

4 La parola del SIGNORE mi fu rivolta in questi termini: 5 «Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni». 6 Io risposi: «Ahimè, Signore, DIO, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo». 7 Ma il SIGNORE mi disse: «Non dire: “Sono un ragazzo”, perché tu andrai da tutti quelli ai quali ti manderò, e dirai tutto quello che io ti comanderò. 8 Non li temere, perché io sono con te per liberarti», dice il SIGNORE. 9 Poi il SIGNORE stese la mano e mi toccò la bocca; e il SIGNORE mi disse: «Ecco, io ho messo le mie parole nella tua bocca. 10 Vedi, io ti stabilisco oggi sulle nazioni e sopra i regni, per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare».

In questa seconda domenica d’avvento ci arriva dai testi che abbiamo letto, una richiesta importante: metterci in ascolto obbediente, perché siamo conosciuti dal Signore, siamo conosciuti sin dal grembo materno, ed Egli ha un incarico da affidarci, un compito, ci indica una strada da seguire e forse si tratta di un percorso molto facile, oppure molto impegnativo o addirittura pericoloso, come quello che è toccato a Geremia, ma non dobbiamo temere. Anche se ci sentiamo troppo minuscoli per affrontare il nostro compito, il Signore è con noi e non ci abbandona.

Cerchiamo dunque di capire quale rapporto possa esserci tra la nostra storia personale, di uomini e donne del XXI secolo, e quella di Geremia, un profeta antico, la cui vicenda può sembrarci epica, qualcosa che oggi non ha più nulla da dirci, se non in termini molto simbolici. Così come presto, tra un paio di settimane, saremo chiamati a metterci in discussione di fronte alla storia di un piccolo bambino nato in una grotta, o in una stalla, alla periferia di Betlemme.

Tutti i profeti hanno vissuto in situazioni difficili, ma Geremia ha dovuto svolgere il suo ministero profetico in un periodo storico particolarmente drammatico. Il regno settentrionale d’Israele non esisteva già più da parecchio e la sua capitale, Samaria, era occupata dagli Assiri. Ma anche il regno del Sud aveva perso la sua autonomia diventando stato vassallo dell’Assiria. Gli assiri erano stati presto sostituiti dai babilonesi, guidati dal famoso Nabucodonosor che era entrato in Gerusalemme e aveva operato una prima deportazione. Nonostante i ripetuti inviti di Geremia, che aveva iniziato il suo ministero poco prima, Gerusalemme si era ribellata ai babilonesi. Nabucodonosor era quindi tornato e dopo un lungo assedio era entrato a Gerusalemme e l’aveva distrutta. Gli israeliti vennero deportati in massa in Babilonia. Gerusalemme e il tempio furono distrutti, la terra promessa occupata e martoriata, nulla sembrava più essere come avrebbe dovuto. Già prima della disfatta il popolo aveva cominciato ad allontanarsi dalla propria fede e si era lasciato contaminare da altri culti più facili. Sì, più facili, perché si trattava di culti che promettevano ricchezza, bellezza, fertilità… Culti che in cambio della devozione sembravano dare agli uomini e alle donne quello che maggiormente essi desiderano: la facile felicità. Chi di noi non la vorrebbe? Chi di noi in fondo non sarebbe disposto a rinunciare alla propria spiritualità, alla propria fede, se gli venisse promessa la felicità? Il raggiungimento dei propri sogni? Non facciamo un pochino anche noi la stessa cosa? Non abdichiamo alla nostra fede mille volte anche noi? o forse solo cento, o dieci o solo qualche volta per opportunismo, per quieto vivere, per il cosiddetto buonsenso? O anche, semplicemente, perché in fondo abbiamo perso il senso stesso di ciò che è bene e ciò che è male?

E poi, guardiamoci intorno: non pensiamo spesso che a viste umane non c’è più nulla da sperare? Che nel mondo tutto è sotto il segno del peccato, tutto è perduto e quindi a che vale che solo noi resistiamo? Non è più facile farsi portare dalla corrente? E non succede quindi anche a noi di abbandonarci agli idoli? Di chiedere aiuto agli idoli che ci circondano? In questo contesto Geremia è chiamato ad andare per annunciare che tutto ciò va sradicato. Anzi che va sradicato, demolito, abbattuto e distrutto. Non si tratta di sinonimi, ma di verbi che ci restituiscono il senso del tremendo potere che Dio dà a Geremia perché conduca a termine la sua missione.

Geremia sapeva, perché lo sentiva dentro di sé, ne aveva la consapevolezza, di essere predestinato al difficile compito di essere profeta, e profeta di sventura, oltretutto! Sentiva che era nato per questo, ma sentiva anche che gli mancava la forza e forse il coraggio per esserlo. Non capita lo stesso anche a noi? Quante volte succede che ci tiriamo indietro, che non sappiamo percorrere fino in fondo la strada che pur intuiamo essere la nostra? Quante volte la visione delle difficoltà ci blocca, ci paralizza e ci impedisce di andare avanti? Quante volte ci siamo accontentati di fermarci al primo bivio? Ci siamo detti che era sufficiente questo? Geremia si sente troppo giovane, noi forse ci sentiamo troppo vecchi, ma a noi come a lui sembra mancare la forza sufficiente per fare quello a cui eravamo destinati fin dal grembo delle nostre madri. Predicare, lavorare per la nostra comunità, ma anche essere adeguati a quello che il nostro ruolo comporta in famiglia, nei luoghi di lavoro, nella società, ma soprattutto essere e rimanere consapevoli sempre che siamo figli di Dio e che i nostri vicini, amici e conoscenti, avranno o non avranno il dono della fede anche a causa nostra, a causa della nostra testimonianza.

E a questo proposito vorrei che rifletteste un momento su cosa significhi profezia, perché non credo che dobbiamo pensare che sia qualcosa che non ci riguarda, un’attività del passato, anzi da credenti del passato, perché al contrario la profezia è qualcosa che riguarda, o può riguardare, ognuno e ognuna di noi. Cosa significa, cosa può significare oggi, in un’epoca in cui tutto sembra molto prosaico e materiale, dove la tecnologia domina le nostre esistenze, parlare del dono profetico? Al giorno d’oggi sembra ci siano parecchi guaritori, indovini, mistici dediti all’esoterismo, e ne troviamo all’interno delle chiese cristiane, ma anche nelle sinagoghe, nelle moschee, nei templi laici e atei della modernità. Ma a tutti questi personaggi mancano due caratteristiche che accomunano i profeti dell’Antico Testamento: la prima è il parlare con un’autorevolezza che non proviene da loro stessi, che li trascende. Il profeta non annuncia se stesso, non mette in mostra i propri doni, ma è sempre e solo colui che comunica la volontà di Dio, che è mandato da Dio ed operante solo grazie alla potenza di Dio. L’altra caratteristica è che il profeta è colui che è inviato per chiamare uomini e donne a convertirsi, cioè a tornare alla loro vocazione più profonda. Non è un mestiere facile, perché il profeta arriva là dove ci si è allontanati e questo provoca sempre delle reazioni di rifiuto, quando non aggressive. Il profeta biblico non è tanto colui che predice il futuro, ma colui che ti aiuta a discernere la volontà di Dio, ma anche, laicamente, a discernere il bene, a costo di mettere in pericolo la propria stessa vita.

Infine vorrei sottolineare stamattina che Geremia è inviato “per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare». Ci vuole un bel coraggio! Anche per costruire e piantare, se chi ci sta attorno non è d’accordo, figuriamoci per sradicare, demolire, abbattere e distruggere!

Pensiamo per un attimo a cosa c’è dentro di noi che potremmo sradicare per diventare persone migliori. Non necessariamente persone con una fede in Dio, o una fede maggiore, o più coerente, ma semplicemente persone migliori. Ognuno e ognuna di noi potrebbe pensare, adesso, a un aspetto di sé che andrebbe sradicato: la presunzione? la vigliaccheria? la falsità? l’ipocrisia? Pensiamoci per un attimo. E dopo che avremo visto questa parte, piccola o grande, di noi, dopo che l’avremo identificata, potremo cercare di demolirla. Pensiamo allora a una azione che potremmo fare per demolire questa parte di noi che si nutre del nostro sangue, della nostra stessa vita, ma che andrebbe sradicata. E ora pensiamo a cosa potremmo fare per distruggere questa parte, in modo che non rientri in noi, in modo che non torni ed abbia nuovamente il sopravvento. Solo dopo aver fatto questo, cioè sradicato, demolito, abbattuto e distrutto quello che dentro di noi ci allontana dalla nostra vocazione, sarà arrivato il momento per costruire e per piantare. Sì perché spesso non c’è più posto dentro di noi, spesso siamo talmente pieni di noi stessi e di quella che crediamo la nostra ricchezza, ma che spesso è invece la nostra povertà, che nulla può più essere piantato e costruito. Quando ci rinchiudiamo nella gabbia di una vita, nella quale idolatriamo il denaro, o il potere, o i nostri doveri o, perfino, dove idolatriamo la nostra bontà, la nostra capacità di essere presenti nel modo e nel tempo giusto, in questo tipo di vita non c’è spazio per altro, non c’è spazio per Dio.

Ecco dunque un compito per queste giornate in cui ci prepariamo a ricordare l’avvento di Gesù: possiamo cercare cosa ci allontana dalla nostra vocazione e provare a demolirlo per fare spazio al Signore che arriva. La buona novella di stamattina è che nel fare questo lavoro, lungo, difficile, doloroso, talvolta perfino pericoloso dal punto di vista relazionale e sociale, non dobbiamo temere perché non siamo soli, il Signore infatti dice a Geremia e a tutti noi: “Non temere, perché io sono con te per liberarti»

Amen!

Erica Sfredda

Sermone: CANTICO DI ZACCARIA – 1^ DOMENICA D’AVVENTO

Luca 1,68-79

Preparando il culto per questa prima domenica di Avvento il mio pensiero è andato prepotentemente ad un amico molto caro che avevo. Era uno stimatissimo primario di neuropsichiatria nella capitale, esponente politico e uomo di grande cultura. Nonostante tutto ciò era anche uomo che sapeva relazionarsi con estrema semplicità con chiunque, infatti ancor oggi so per certo che molte persone, di qualsiasi levatura, come me piangono la sua repentina e prematura morte.

Con lui ho passato ore al telefono, nel cuore della notte quando finalmente si fa silenzio. Parlavamo di tutto con “Nik il sognatore” (così lo chiamavo e gli piaceva il nomignolo che gli avevo appioppato), e molto spesso il nostro confronto verteva sul fatto che lui era agnostico ed io credente. Gli piaceva stuzzicarmi chiedendomi come mai una persona come me, con i piedi piantati per terra, possa credere in ciò che non vede.

Proprio con lui ho parlato a lungo l’anno scorso sul significato dell’Avvento, spiegandogli il significato delle quattro candele della corona, della quale oggi abbiamo acceso il primo cero, quello detto anche “del profeta” (gli altri simboleggiano “Betlemme”, “i Pastori”, “gli Angeli”).

Ebbene, oggi la nostra candela ci ricorda i profeti, coloro che parlavano alle genti e parlavano predicendo eventi futuri ispirati da un’entità superiore.

Non erano certo singolari nel mondo antico coloro che venivano interpellati per cercare di conoscere il futuro e questo non solo nella storia del popolo ebraico.

Ma noi siamo “il popolo del Libro”, siamo coloro che, forti della conoscenza degli eventi successivi, riconoscono negli scritti profetici l’annuncio della venuta del nostro Signore, di Colui che ha riscattato l’umanità, Colui che ha confermato la sua immensa misericordia nonostante le infedeltà umane, Colui che ci ha riscattati dal peccato donandoci gratuitamente il perdono.

Nei nostri studi e nelle nostre letture abbiamo certo frequentato i libri profetici dell’antico testamento, ma allora perché oggi, parlando di profeti ho scelto il passo di Luca 1,68-79 chiamato il “Cantico di Zaccaria” in cui leggiamo:

«Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo, e ci ha suscitato un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo, come aveva promesso da tempo per bocca dei suoi profeti; uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto,del giuramento che fece ad Abraamo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita. E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, perché andrai davanti al Signore per preparare le sue vie, per dare al suo popolo conoscenza della salvezzamediante il perdono dei loro peccati, grazie ai sentimenti di misericordia del nostro Dio; per i quali l’Aurora dall’alto ci visiterà per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte, per guidare i nostri passi verso la via della pace».

Questo Zaccaria non è certo lo stesso che compare come profeta nell’Antico Testamento, ma è il padre di Giovanni il Battista.

Luca ci dice che Maria ha ricevuto l’annuncio dell’angelo, il quale, tra l’altro, le ha anche detto che Elisabetta, sua parente, è rimasta incinta nonostante l’età avanzata. Maria si reca a casa di Elisabetta e Zaccaria e nel salutarla ci viene detto che Elisabetta, riempita di Spirito Santo, riconosce in lei colei che metterà al mondo il suo Signore.

Il passo che abbiamo letto, il cantico di Zaccaria, viene declamato dopo la nascita di Giovanni, quando il bambino viene circonciso.

Luca dice che “Zaccaria … fu pieno di Spirito Santo e profetizzò” dicendo le parole che abbiamo letto. Ma allora, forse che le sue parole si riferivano al figlio Giovanni? Non credo, perché già Elisabetta (piena di Spirito Santo) aveva salutato Maria come abbiamo detto e, dopo Zaccaria, anche il figlio Giovanni profetizzava sulla venuta di uno a cui lui non sarebbe stato degno nemmeno di legare i calzari.

Ecco allora che anche questo Zaccaria è profeta, cioè, ispirato da Dio, annuncia la realizzazione della promessa antica sulla venuta di un potente Salvatore, segno della grande misericordia del Signore che non si dimentica del suo santo patto e che è venuto per preparare le vie dell’Eterno e per annunciare al popolo la salvezza mediante il perdono dei peccati.

È vero, tutto ciò potrebbe essere una bella favola. Certamente questo scritto è frutto di tradizioni orali e di interpretazioni. È vero che gli scritti profetici (compreso il passo che stiamo commentando) non ci danno la prova dell’esistenza di Dio, perché NON C’È ALCUNA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO.

In questo il mio amico “Nik il sognatore”, da uomo di scienza, aveva perfettamente ragione, ma noi sappiamo che di fede si tratta e non di scienza.

Le nostre storie personali, il nostro scoprire la presenza di Dio nella nostra vita, il nostro credere che Gesù è il figlio di Dio, venuto in fattezze umane sulla terra per riscattarci dal peccato, hanno origine molto diverse.

Il nostro percepire la presenza del Signore nella nostra vita personale non ci deriva certo da un contatto telefonico dell’Altissimo, né tantomeno dal riconoscere la Sua presenza in un roveto ardente nel deserto. Ciascuno di noi, ciascuno dei credenti, ha una storia individuale che l’ha portato a credere senza vedere, senza avere alcuna prova tangibile. Tutto vero, ma è vero anche che, almeno alcuni, hanno sentito e continuano a sentire la presenza di Dio nella propria vita e vivono nell’attesa che i tempi si compiano e che si realizzi quanto oggi si crede per fede, una smisurata fiducia che ci fa elevare il cuore al cielo, senza accontentarci della sola dimensione razionale e orizzontale.

Una volta il mio amico mi ha chiesto: “E se poi un giorno ti accorgerai che era tutta una sovrastruttura culturale e non trovi nessuno che ti accolga in quello che chiami il Regno?”

La mia risposta è stata così repentina da stupire anche me stessa: “Nik, io non ci perdo nulla se non troverò niente, tanto, se così fosse, io non ci sarò perché tutto finirebbe con la morte. Ma se invece fosse vero? Se invece fossi tu quello che si sbaglia e trova la realizzazione di quella che io chiamo la Promessa?”

Sto facendo questo discorso in una chiesa, quindi, almeno in linea teorica, sto parlando con dei credenti, ma credo che sia utile lo stesso, perché spesso nella tradizione di proclamarsi credenti molti di noi non si chiedono se la presenza di Dio nella propria vita è veramente percepita. Molto spesso la nostra fede non viene sufficientemente analizzata e ravvivata ed è così che rischiamo di relegare il nostro sentire, il nostro credere in una dimensione tiepida, dove privilegiamo il fare, per buono che sia, dove la fede viene vissuta in maniera intimistica per timore di essere magari derisi, dove la preghiera non trova spazio, dove scarseggia la fiducia che Qualcuno ha già disegni per noi, anche se il più delle volte non li comprendiamo.

Accade così che il nostro spirito giaccia di fatto nelle tenebre e non ce ne accorgiamo, non ci accorgiamo nemmeno di aver bisogno dell’Aurora che le venga a dissipare.

Io da questo pulpito non ho certo ricette da dare, se non quella di riflettere e tornare col pensiero ai momenti in cui abbiamo sentito la presenza di Dio nella nostra vita, ai momenti in cui, con sicurezza e fiducia ci siamo detti: “Dio c’è e io sono suo figlio, sua figlia”.

La nostra mente è quotidianamente travolta da cose da fare, da notizie che ci addolorano, come da eventi che ci danno gioia, da avvenimenti dei quali non comprendiamo la logica e la giustizia, ma non possiamo accettare che queste dimensioni orizzontali offuschino la grande luce che un giorno ci ha illuminati.

E per tornare alla figura del profeta, permettetemi di aggiungere che, con estremo rispetto per i profeti “canonici”, come possiamo considerare Zaccaria un profeta, siamo anche noi chiamati ad essere profeti nel nostro piccolo, affermando la nostra fede e proclamando il Regno che viene. Siamo anche noi chiamati ad essere luce nel mondo.

Ma non possiamo dare luce se non l’abbiamo, per cui ravviviamo questa luce con la preghiera e con la frequentazione assidua della Bibbia, senza mai dimenticarci che facciamo parte di una chiesa riformata, nella quale la diaconia riveste una parte importante nel realizzare la fratellanza, ma nella quale proclamiamo anche il sacerdozio universale, in forza del quale ciascuno è impegnato a proclamare l’evangelo, ciascuno può essere “profeta”.

Oggi inizia il periodo dell’Avvento, dell’attesa. Dovrebbe essere un periodo in cui aspettiamo il Natale non certo per le luci, la festa e i doni, ma un tempo in cui viene stimolato il ricordo dell’attesa di colui che i profeti biblici avevano annunciato. Dovrebbe essere un periodo in cui spiritualmente noi stessi ci incamminiamo verso Betlemme con umiltà per accogliere un bimbo nato per noi, per la nostra salvezza e per donarci il perdono nel nome del Padre.

E se così facendo scoprissimo che in realtà non siamo credenti, se scoprissimo che la nostra dimensione è puramente orizzontale e non proiettata verso Dio incarnato in Gesù Cristo e che ci ha dato il dono dello Spirito Santo, coerenza vuole che non ci definiamo cristiani, perché anche fra coloro che si definiscono agnostici ci sono persone di grande spessore morale ed etico.

AMEN

Liviana Maggiore