Sermone: EPIFANIA: MANIFESTAZIONE DEL SIGNORE

Matteo 2:1-12   –   Luca 3,21-22

Abbiamo ascoltato il racconto della venuta dei Magi a Betlemme, tre sapienti che, ispirati dal Signore, intrapresero un lungo viaggio per conoscere e adorare il vero re, non solo il re dei giudei, ma colui che sarebbe stato il Re dei re. Un evento prodigioso, una stella “speciale”, una manifestazione eclatante, aveva condotto i tre saggi alla stalla di Betlemme. Il Signore si era palesato in modo assai particolare per costoro, tanto da indurli a intraprendere un lungo viaggio, alla ricerca di un bambino.

Dalle testimonianze contenute nella Bibbia vediamo che il Signore si è manifestato moltissime volte e in modi diversi per cercare di ricondurre l’uomo alla fede in lui, per farci comprendere come quel Gesù nato da una famiglia di Nazareth fosse Suo figlio, il Messia tanto atteso e non un semplice profeta. E questo avvenne anche sul fiume Giordano, quando Gesù si fece battezzare, come raccontano i tre vangeli di Marco, Matteo e Luca.

Ma ascoltiamo ora il racconto così come contenuto nell’evangelo di Luca al capitolo 3,21-22.

Ora, mentre tutto il popolo si faceva battezzare, anche Gesù fu battezzato; e, mentre pregava, si aprì il cielo, e lo Spirito Santo scese su di lui in forma corporea, come una colomba; e venne una voce dal cielo: «Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto».

A Natale e anche oggi abbiamo letto della venuta dei Magi d’Oriente alla stalla di Betlemme. Queste tre persone colte e ricche, che non fanno parte del popolo giudeo e quindi non nutrono l’attesa fideistica del Messia preannunciato dai profeti, affrontano un lungo viaggio per portare preziosi doni a un re, al re di un popolo cui essi non appartengono.

Negli evangeli solo Matteo ci presenta questo racconto e potremmo anche pensare che tutto ciò non sia veramente accaduto, però nella Scrittura nulla è messo per caso, per cui, ancorché questo episodio non si fosse realmente verificato, il suo inserimento nella narrazione di Matteo ci presenta sicuramente un significato simbolico.

Il racconto di Matteo dice che i tre saggi hanno intrapreso il loro viaggio guidati da un segno particolare (la stella) che hanno ritenuto essere la manifestazione di una speciale regalità del nuovo nato. Colui che è venuto al mondo deve essere un re “speciale”, decisamente più importante del re socialmente riconosciuto: Erode.

Trovato il bambino, in una situazione certamente per nulla regale, i Magi si prostrano per adorarlo (atteggiamento non consono a persone di rango superiore) e gli porgono i loro ricchi doni:

  • ORO, simbolo della regalità riconosciuta a questo infante povero;
  • INCENSO, per simboleggiare la sua divinità;
  • MIRRA, una resina ricavata da una pianta tipica dell’oriente, utilizzata per aromatizzare e conservare le mummie, simbolo e preannuncio della morte sacrificale di quel bambino.

Che l’evento sia o meno avvenuto, col suo racconto però Matteo intende affermare che il Signore si è manifestato con un astro a persone che non fanno parte del popolo eletto, al popolo dei credenti del Dio unico, a Israele; e questo astro, questa speciale stella, si è fermata sopra un’umile dimora alla quale anche altre persone (i pastori) andavano per adorare, guidati da un’altra manifestazione: il coro di voci angeliche.

Ma qual è il collegamento fra questo racconto e quello del battesimo di Gesù su fiume Giordano, episodio questo invece raccontato da tre evangelisti?

In realtà, al posto del battesimo di Gesù avremmo potuto leggere altri passi del Nuovo Testamento nei quali ci vengono riferiti episodi di “manifestazione” di Gesù come figlio di Dio, come Messia (es. Natanaele nel primo capitolo dell’evangelo di Giovanni, le inaspettate e cruente manifestazioni atmosferiche al momento della morte di Gesù, e molto altro ancora).

Ecco qual è il collegamento: il popolo tutto ha ricevuto numerosi segni della signoria di Gesù, segni che si sono palesati con simboli celesti (la stella, l’oscuramento del cielo alla morte, la voce dal cielo, i cori angelici) e con i numerosi miracoli raccontati nei vangeli, prodigi troppo numerosi per essere semplici e inventate costruzioni per indurre alla fede nel Messia.

Ecco perché l’Epifania del Signore è una grande festa. È la festa che ci ricorda che il SIGNORE SI È MANIFESTATO e lo ha fatto in molte occasioni, con segni diversi provenienti da Gesù stesso o dal Padre che lo riconosce come suo figlio prediletto, con quella bella immagine che abbiamo letto con la discesa della colomba su quell’uomo uscito dall’acqua del fiume, un uomo al quale Giovanni Battista dice di non essere degno nemmeno di legare i calzari.

Non possiamo dire di non aver ricevuto testimonianze sul fatto che colui in cui diciamo di credere è veramente il Cristo, il figlio di Dio fatto uomo, il Signore della storia che si è abbassato a diventare uomo fra gli uomini per riscattare ognuno dal peccato, per dare una volta di più l’opportunità di cambiare vita.

E questo farsi uomo lo ha fatto per tutti, per i ricchi e per i poveri, per i sapienti e per la gente non acculturata, per i fedeli e per gli increduli, per il popolo di Israele e per tutti gli altri popoli.

E noi, donne e uomini che ci professiamo cristiani, siamo convinti nel profondo del cuore e della mente di tutto ciò? Abbiamo saputo cogliere nella nostra vita l’epifania del Signore, il suo rendersi manifesto?  Oppure ci dichiariamo cristiani per tradizione, per abitudine, ma stentiamo a coltivare la nostra fede in Lui?

Siamo disposti a credere che il nostro Signore è vivente vicino a noi, è presente nella storia dell’umanità per tutti gli uomini e donne, senza distinzione di razza o di lingua, di cultura o abitudini sociali, perché tutti sono chiamati alla salvezza che è offerta gratuitamente a chiunque cerchi autenticamente la verità e consideri ogni essere umano suo fratello o sua sorella.

Certo, una volta di più vediamo che la manifestazione della signoria di Cristo comporta anche delle responsabilità da parte nostra, responsabilità esistenziali che non possono essere soddisfatte con precetti o dettami moralistici, ma con una reale conversione da parte nostra nell’esercizio della pazienza e del perdono, nel superamento dei nostri egoismi, nella condivisione e nella manifestazione d’amore a coloro che incrociano le loro strade con la nostra.

Voglia il Signore aiutarci nel riconoscere la sua manifestazione nella nostra vita.

AMEN

Liviana Maggiore

sermone: PREDICAZIONE IN CELEBRAZIONE ECUMENICA PER LA PACE 1.1.2019

Efesini 4:1-6

“Io dunque, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace.

Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. Vi è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti.”

Vanno fatte due premesse importanti sui versetti che abbiamo ascoltato:

  1. le esortazioni contenute non sono solamente per gli Efesini, ma anche per noi, cristiani di oggi. E questo è chiaro fin dal primo versetto dell’epistola, dove troviamo scritto: “Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, ai santi che sono in Efeso e ai fedeli in Cristo Gesù.”
  2. In Gesù Cristo non c’è differenza fra ebrei e pagani, fra circoncisi e incirconcisi, perché, come troviamo al cap. 2,14-16 “Lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia.”

Per questo oggi siamo qui, insieme, in una preghiera ecumenica nella quale certamente portiamo il peso delle nostre differenze, ma soprattutto portiamo la gioia di essere tutti fratelli e sorelle in Dio, tutti uniti in un unico corpo mediante la croce di Cristo, tutti consapevoli che in quest’epoca di muri che si moltiplicano e respingimenti che si inaspriscono, siamo chiamati alla reciproca accoglienza ed alla fraternità, senza distinzioni di razza, religione, sesso, età e quant’altro possa causare divisioni fra gli esseri umani.

Noi, donne e uomini di oggi, siamo chiamati a rispondere alla vocazione ricevuta operando per la pace, mettendo a frutto i doni ricevuti, facendo scelte talvolta difficili, correndo il rischio di essere derisi, ma sempre sostenuti da quel Signore in cui diciamo di credere che è pietra angolare della chiesa universale e che per tutti noi ha patito la croce. E tutto ciò senza delegare ad altri le nostre responsabilità, perché se una goccia d’acqua non può dissetare, un bicchiere d’acqua è pieno di molte gocce che, insieme, possono sollevare dall’arsura.

Ma come possiamo essere degni di questa vocazione, come tradurla in azione, in vita concreta? L’autore ci dà delle indicazioni, tratteggiando, con poche ma efficaci parole, le caratteristiche di un’etica cristiana. Siamo infatti esortate e esortati a comportarci con umiltà, mansuetudine, pazienza, sopportazione reciproca e, superati i nostri condizionamenti, di avviarci sul cammino di una vita nuova, costruttiva e pacifica, vissuta con la consapevolezza di essere radicati nell’appartenenza al corpo di Cristo e illuminati dal soffio dello Spirito, adoperandoci per conservare l’unità nel vincolo della pace, quella pace che è diritto di ogni uomo e donna che calpesti questa terra.

E l’unità nella pace, dono di Dio, può essere nutrita, preservata, rinforzata solo se i credenti vivono nell’amore e nella pace forgiata dall’opera riconciliatrice di Cristo.

Nei versetti da 4 a 6, con enfasi, viene analizzato il significato dell’unità dello Spirito:

  • un solo corpo: la chiesa,
  • un solo Spirito: attraverso il quale si professa Cristo,
  • una sola speranza: la redenzione,
  • un solo Signore: Cristo,
  • una sola fede: Cristo è il Signore,
  • un solo battesimo: in un unico Spirito per formare un unico corpo.

Una vera e propria confessione di fede, suggellata dal versetto 6, UN SOLO DIO:

  • al di sopra di tutti: il Padre,
  • fra tutti: il Figlio,
  • in tutti: lo Spirito Santo.

Ecco perché è importante che, seppure appartenenti a diverse confessioni, oggi abbiamo marciato insieme per la pace, con uno spirito ecumenico per cui incontrarsi non è per ricercare l’unità a tutti i costi, ma sicuramente per riconoscere ciò che ci accomuna.

Che il Signore ci illumini ed ispiri le nostre azioni affinché, individualmente e collettivamente, possiamo essere autentici costruttori di pace.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: NATALE – NOI DA CHE PARTE STIAMO?

Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all’epoca del re Erode. Dei magi d’Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo».

Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informò da loro dove il Cristo doveva nascere. Essi gli dissero: «In Betlemme di Giudea; poiché così è stato scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo Israele”».

Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s’informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparsa; e, mandandoli a Betlemme, disse loro: «Andate e chiedete informazioni precise sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, affinché anch’io vada ad adorarlo».

Essi dunque, udito il re, partirono; e la stella, che avevano vista in Oriente, andava davanti a loro finché, giunta al luogo dov’era il bambino, vi si fermò sopra. Quando videro la stella, si rallegrarono di grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria, sua madre; prostratisi, lo adorarono; e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra. Poi, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per un’altra via.  (Matteo 2,1-12)

 

Mentre si trovavano là, si compirono i giorni della sua gravidanza e partorì il suo figlio primogenito; lo avvolse in fasce e pose a giacere in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nella locanda.

In quella regione c’erano dei pastori che di notte stavano nei campi a fare la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, ed essi furono presi da grande paura.

L’angelo disse loro: «Non temete! Ecco, infatti, vi porto la buona notizia di una grande gioia che giungerà a tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un salvatore, e questi è il Cristo, il Signore. E questo vi farà da segno: troverete un neonato in fasce, adagiato in una mangiatoia».

Improvvisamente ci fu con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio dicendo: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi, e sulla terra pace tra le persone che egli ama».

Come gli angeli li ebbero lasciati per salire in cielo, i pastori dicevano tra loro: «Andiamo fino a Betlemme e vediamo questa cosa che è avvenuta e che il Signore ci ha fatto conoscere».  E in fretta andarono e trovarono Maria, Giuseppe e il neonato adagiato nella mangiatoia.  A questa vista divulgarono la parola che era stata detta loro su questo bambino.  Tutti coloro che udivano si meravigliavano delle cose dette loro dai pastori; ma Maria conservava in sé tutte queste parole, meditandole nel suo cuore.  I pastori tornarono indietro, glorificando e lodando Dio per tutto ciò che avevano udito e visto, proprio com’era stato detto loro. (Luca 2,6-20)

 

Nel preparare questo sermone ho a lungo riflettuto sui racconti di Matteo e Luca che abbiamo sentito; due passi ben conosciuti e, per questo, potremmo essere indotti a limitarci alla pura narrazione della nascita del nostro Signore, al fatto che il Re dei re nasce povero, al fatto che viene partorito in una stalla e non in una confortevole camera di casa o d’albergo.

Tutto questo lo sappiamo fin da quando eravamo piccoli.

Oggi però voglio attirare la vostra attenzione non tanto su questo, ma sulle figure che i due evangelisti ci propongono per raccontarci l’evento che ha cambiato la storia dell’umanità: la nascita di Gesù Cristo che noi diciamo essere il nostro Signore e Salvatore.

Dio si fa uomo da una donna, in un modo del tutto umano, consueto. Nessun segno mirabolante per l’entrata nel mondo di questo bambino, bensì una maniera che conosciamo bene: rottura delle acque, doglie, sangue, vagiti, lacrime di dolore e di gioia. Non ci sono miracoli o riflettori su questa nascita; c’è un bambino che nasce come molti altri sono nati e nasceranno. Tutto “normale” nella stalla.

Le cose straordinarie accadono fuori, se analizziamo i due racconti che sono così chiari e lineari da concederci perfino di immaginare le scene, quasi guardassimo due film o due quadri. E sono solo due, perché solo Matteo e Luca ci porgono il racconto della nascita di Gesù, ma lo fanno in modo alquanto diverso.

Matteo ci parla dei magi da Oriente, uomini ricchi e sapienti che studiano il cielo e hanno interpretato che un evento prodigioso sarebbe accaduto a Betlemme. Uomini di alto rango, perché possono accedere liberamente alla presenza del re Erode e con lui parlare di ciò che credono sia accaduto. E il loro parlare deve indubbiamente essere molto autorevole se riesce a turbare Erode, tanto da sentirsi minacciato e ordinare poi la strage degli innocenti.

Luca invece ci descrive ben altre persone: i pastori e gli angeli. Gli uni, povera gente che dorme all’aperto per proteggere tutto ciò che ha e che, ragionevolmente, passa la vita a faticare; gli altri che invece sono esseri di un altro mondo, di un’altra dimensione.

Attorno alla nascita di Gesù, quindi, sono molto diverse le figure che si presentano e ciascuna prende posizioni differenti: i magi lo onorano con doni costosi, Erode nutre il timore di essere detronizzato, i pastori vengono colti prima da paura e poi da voglia di comunicare quanto sta accadendo. Ciascuno prende in qualche modo posizione sulla scorta di quello che è e di quello che sa o che viene a sapere.

Ecco allora che mi sorge spontanea una domanda: noi da che parte stiamo?

Qualcuno potrà dirmi: “Ma cosa c’entriamo noi?”  Noi c’entriamo perché oggi è Natale, il giorno in cui celebriamo la nascita di colui che diciamo essere il nostro Signore e Salvatore. Ecco perché c’entriamo e siamo coinvolti perché nel nostro essere credenti sappiamo che con la nascita di Gesù nulla può essere più come prima, nulla è stato più come prima.

Ecco allora che vi ripropongo la domanda: NOI DA CHE PARTE STIAMO?

E la domanda non è così peregrina come potrebbe apparire, perché è un quesito che dobbiamo porci confrontandoci nel contempo con la nostra stessa vita, fatta certamente di conoscenza e studio, ma anche spesso di paure, così come di sospetti e angosce per timore di perdere il nostro ruolo.

Ciascuno di noi è un po’ pastore, un po’ sapiente, un po’ re sugli altri e su se stesso; ed è appunto per questo motivo che mi chiedo (e vi chiedo): noi come ci poniamo davanti alla mangiatoia di Betlemme? Siamo davvero pronti, intimamente e fattivamente, a riconoscere in quel neonato il nostro Signore, il Cristo, il Salvatore? Siamo capaci e disposti a seguire i suoi insegnamenti? Il fatto che diciamo che dopo la nascita di Betlemme nulla è più come prima è veramente ciò che crediamo?

Ecco allora che la nascita di Gesù, quell’evento che oggi ricordiamo con tanta solennità, diventa un’occasione per un giudizio su noi stessi, una sollecitazione in più per chiederci se siamo disposti a deporre ai piedi della mangiatoia i nostri egoismi, le nostre sopraffazioni, la nostra mancanza di carità e condivisione, i nostri dubbi e le nostre incapacità di amare e di manifestare agli altri il nostro amore, la nostra indisponibilità ad esercitare il perdono, le nostre piccinerie, i nostri rancori, le nostre invidie, per non parlare infine delle nostre paure.

Noi che ci dichiariamo credenti cristiani siamo dunque consapevoli che la nascita di Gesù manifesta la grande misericordia di Dio nei nostri confronti, quel Dio che si è fatto uomo per incontrarci e insegnarci una volta di più un nuovo modo di condursi nella vita.

E concludo questa riflessione ricordando ciò che cantano gli angeli: “Gloria a Dio nei cieli altissimi e pace in terra agli uomini che egli ama”.

Già …. gli uomini che egli ama (in altre traduzioni: gli uomini di buona volontà). E chi sono costoro? Qualcuno, forse un po’ troppo fondamentalista, ritiene che siano i soli “credenti nell’unico vero Dio”, destinati per ciò stesso alla salvezza.

Io non lo credo, ma ritengo piuttosto che, nella nostra dimensione terrena, gli uomini che Egli ama siano coloro che praticano la giustizia, si fanno domande sul vivere in armonia con gli altri e con il creato, cercano di attuare la solidarietà e la condivisione di ciò che hanno e di ciò che sono.

Nel bambino di Betlemme noi credenti cristiani siamo convinti di aver ricevuto un grande dono, che si compirà con il sacrificio della croce per il riscatto dal peccato. Certo, è un grandissimo dono, ma anche una responsabilità.

Ecco perché, assieme al mio più fraterno augurio di Buon Natale, vi rinnovo la domanda: noi da che parte stiamo? Una domanda importante, ma anche posta con tutta la gioia per la nascita del Salvatore.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: LA PRIMA CANDELA D’AVVENTO – DEL PROFETA

«Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò sorgere a Davide un germoglio giusto, il quale regnerà da re e prospererà; eserciterà il diritto e la giustizia nel paese. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora; questo sarà il nome con il quale sarà chiamato: SIGNORE nostra-giustizia. (Geremia 23,5-6)

All’inizio del nostro culto abbiamo acceso la prima candela della corona d’Avvento, quella che, nella tradizione, è detta “del Profeta”. Le altre candele poi saranno “di Betlemme”, “dei pastori”, “degli angeli”.

Ma oggi abbiamo acceso la prima ed è proprio sul significato di “essere profeta” che vorrei oggi riflettere in questa predicazione.

Etimologicamente “profeta” significa “colui che parla per, al posto di”, infatti, nella tradizione ebraica e cristiana i profeti sono stati coloro che hanno parlato perché ispirati da Dio, ma sappiamo bene che il loro parlare non si riferiva tanto alla predizione di avvenimenti futuri, bensì alle considerazioni e agli ammonimenti sugli avvenimenti loro presenti, esortando coloro che li ascoltavano a ravvedersi in vista della venuta di quel Signore che Israele attendeva con ansia.

E quel Signore poi venne, quel Messia tanto atteso e annunciato noi cristiani crediamo sia stato Gesù, un Dio fatto uomo semplice, un Signore che non si è palesato solcando il cielo con un carro infuocato o cavalcando un possente destriero, ma un semplice uomo povero fra i poveri, un uomo che ha passato la vita a spargere insegnamenti d’amore, di perdono, di uguaglianza, di compassione. Un signore senza eserciti e senza sudditi, certo non un potente della terra, bensì uno che non ha fatto alleanze coi potenti della terra, diventando perciò ancora più minaccioso, tanto da essere condannato a morte con un metodo riservato ai delinquenti.

Beh, un po’ strano per il Re dei re. Decisamente discutibile per coloro che si aspettavano ben altro, dopo secoli di attesa. E comprensibilmente discutibile anche per coloro che oggigiorno non credono. Inoltre, veramente strana come presentazione di uno che doveva essere il Messia, così strano da non essere compreso nemmeno da coloro che lo seguivano, da coloro che credevano in lui e, da lui, aspettavano il riscatto dalla schiavitù e dall’oppressione di Roma.

Sì, certo, i discepoli avevano potuto assistere ai suoi prodigi, ai miracoli, e questo aveva rafforzato in loro la fiducia per Gesù, ma una cosa è la fiducia in un leader, magari spinti dalle difficoltà della vita dalla quale si desidera il riscatto, altra cosa è credere che quella persona è Dio fatto uomo, un essere che non si limita a cambiare la vita terrena, in una dimensione puramente orizzontale, ma proietta la vita di ciascuno in una dimensione “totalmente altra”, nella dimensione che oggi anche noi non riusciamo ad apprezzare col semplice intelletto: il regno di Dio.

Nonostante la vicinanza per lungo tempo con Gesù, Giuda, deluso, lo ha venduto per trenta denari, Pietro ha rinnegato più volte di conoscerlo, Tommaso non lo ha riconosciuto perché si aspettava ben altro che un morto resuscitato, loro tutti rimanevano nascosti e impauriti dopo la sua morte. Insomma possiamo dire che era stato molto più facile per tutti loro (come per noi) riversare su quest’uomo le loro aspettative terrene, non guardando “oltre”.

Eppure i profeti non avevano parlato solo di un evento “terreno”. Leggiamo quindi di nuovo gli ultimi due versetti del passo di Isaia che abbiamo sentito prima:

Poiché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato, e il dominio riposerà sulle sue spalle; sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace, per dare incremento all’impero e una pace senza fine al trono di Davide e al suo regno, per stabilirlo fermamente e sostenerlo mediante il diritto e la giustizia, da ora e per sempre. (Isaia 9,5-6)

Ecco, fratelli e sorelle, cosa era stato annunciato e noi, se credenti, sappiamo che oggi inizia il periodo dell’Avvento, dell’attesa. Dovrebbe essere un periodo in cui aspettiamo il Natale non certo per le luci, la festa e i doni, ma un tempo in cui viene ricordata la nascita di colui che i profeti biblici avevano annunciato. Dovrebbe essere un periodo in cui spiritualmente noi stessi ci incamminiamo verso Betlemme con umiltà per accogliere un bimbo nato per noi, per la nostra salvezza e per donarci il perdono nel nome del Padre; un bimbo che è diventato il nostro Signore e per il ritorno del quale noi stessi siamo chiamati ad essere “profeti”, cioè coloro che parlano annunciando il suo messaggio, riproponendo la sua luce al mondo. Ma non solo parlano, non solo danno semplicemente fiato alla bocca, ma OPERANO annunciando il Signore che viene, quel Signore che ci vede tutti uguali, fratelli e sorelle in una terra della quale non siamo “padroni”.

Come profeti siamo chiamati a spargere la luce nel mondo, ma non possiamo dare luce se non l’abbiamo, per cui ravviviamo questa luce con la preghiera e con la frequentazione assidua della Bibbia, senza mai dimenticarci che facciamo parte di una chiesa riformata, nella quale la diaconia riveste una parte importante nel realizzare la fratellanza.  Una diaconia che, come ci siamo detti più volte, non può essere diretta solo a coloro che conosciamo e che ci sono vicini.  Una diaconia che trova modi di esprimersi diversi per porgere la nostra condivisione a chi ne ha bisogno.

Voglia il Signore aiutarci ad essere profeti, sapendo esporci contro le ingiustizie e le ipocrisie dei nostri tempi, senza timore di essere derisi perché annunciamo il regno che viene, senza soggiacere pavidamente ai potenti di turno.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: LE PASSIONI DI PAOLO

Sono sempre stato affascinato dalla figura dell’apostolo Paolo. Un uomo sempre al limite, al limite tra culture diverse (lui ebreo e romano), tra terre diverse (quanto ha vagato tra i paesi che oggi si chiamano Israele, Siria, Turchia, Grecia, Italia), con un carattere dolce ma anche impetuoso (quanta tenerezza si rivela nelle sue lettere per le comunità da lui fondate o visitate, e quante tensioni con Barnaba o con altri apostoli).

Ma più di tutto, di Paolo, mi ha sempre colpito la sua passione per Dio, o meglio le sue due diverse, anzi opposte passioni per Dio. È questa una delle caratteristiche maggiori dell’apostolo Paolo, il fatto che nella sua vita, nella sua esperienza, ci sono state due passioni per Dio: la passione del fariseo Saulo e la passione dell’apostolo Paolo.

Tra queste due passioni c’è l’evento decisivo e misterioso di Damasco, cioè la sua conversione. Riacquistata la vista dopo tre giorni di cecità, Paolo ha ora una nuova visione di Dio e dell’uomo: vede finalmente quello che non aveva visto prima. Praticamente questa conversione è una morte e una risurrezione: muore una passione per Dio, la passione del fariseo, e nasce una nuova passione, diversa, anzi opposta a quella precedente, che è la passione dell’apostolo.

Noi dobbiamo prendere coscienza di queste due passioni, sono tutte e due passioni per Dio, ma sono l’una il contrario dell’altra. Non è che una sia la passione per il mondo e l’altra la passione per Dio; no, sono entrambe passioni per Dio, ma l’una è il contrario dell’altra. E la conversione di Paolo è la conversione da una passione all’altra.

Paolo racconta nella Lettera ai Filippesi questa morte e questa risurrezione. Leggo Fil 3,2-13:

«Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare; perché i veri circoncisi siamo noi, che offriamo il nostro culto per mezzo dello Spirito di Dio, che ci vantiamo in Cristo Gesù, e non mettiamo la nostra fiducia nella carne; benché io avessi motivo di confidare anche nella carne. Se qualcun altro pensa di aver motivo di confidarsi nella carne, io posso farlo molto di più. Io, circonciso l’ottavo giorno, della razza d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio d’Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile. Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto. Io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti. Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù».

Che cosa apprendiamo subito di molto importante da questo fatto?

Apprendiamo che c’è una passione per Dio che Paolo ad un certo punto considera spazzatura, zavorra, cose da eliminare dalla sua vita. E c’è una nuova passione che sconvolge, sì, la sua vita, ma nello stesso tempo diventa una fonte inesauribile di benedizione e di tribolazione. Sì, anche di tribolazione, perché benedizione e tribolazione vanno insieme. Una passione per Dio nella quale quello che costituiva il suo vanto, cioè la sua giustizia, il suo zelo, la sua appartenenza alla tribù del popolo eletto, la sua stessa fede vissuta come completa sottomissione alla Legge, tutto ciò Paolo lo ha abbandonato, e lo ha sostituito con un nuovo vanto, che non è più qualcosa di suo, ma è la croce di Cristo, che ha acceso la sua nuova passione per Dio.

Avviciniamoci ora un po’ di più a queste due passioni. Quella del fariseo Saulo la descriverei così: è la passione per Dio inteso come Legge, mentre la passione dell’apostolo Paolo è la passione di Dio inteso come Grazia. La differenza sostanziale tra queste due passioni sta appunto in questo: che la prima concepisce e vive la realtà divina come Legge (con la L maiuscola), mentre la seconda concepisce e vive la realtà di Dio come Grazia.

La prima passione, Dio come Legge, è una passione che troviamo sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, ed una passione pericolosa, che condanna il peccatore assieme al peccato. Pensiamo alla Legge dell’interdetto che troviamo nel libro del Deuteronomio: «nelle città che Dio ti dà come eredità non conserverai in vita nulla che respiri, ma voterai a completo sterminio gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei, i Gebusei, come l’Eterno, il tuo Dio, ti ha comandato di fare». Dio come Legge! La Legge era questa: per eliminare l’idolatria bisogna eliminare l’idolatra.

Oppure pensiamo al grande profeta Elia, che era rimasto il solo a seguire fedelmente il Dio d’Israele, mentre tutti gli altri erano diventati profeti del dio pagano Baal. Elia, dunque, dopo aver vinto il confronto con i 450 profeti di Baal, li fece arrestare e al torrente Kison, «li scannò». Dio come Legge, e la Legge era questa: «Il profeta che parlerà in nome di altri dèi sarà punito di morte».

La passione per Dio come Legge è quella che induce gli scribi e i farisei a raccogliere pietre per gettarle sull’adultera; e lo avrebbero fatto, se Gesù non avesse fatto il discorso che conoscete e non avesse impedito questa lapidazione. Dio come Legge! E La legge era questa: «Quando si troverà un uomo a giacere con una donna maritata ambedue morranno, così toglierai il male da mezzo di Israele». La passione per Dio che diventa passione per la Legge, una passione che per eliminare il male non si ferma neppure di fronte alla vita umana; come dicevo prima, si condanna il peccatore assieme al peccato. Questa passione malata per Dio come Legge è in realtà una bestemmia, ma questa era la passione di Saulo per Dio prima della sua conversione.

Ora è vero che Dio ha dato una legge, ma è altrettanto vero che Gesù ha riassunto “tutta la Legge e tutti i profeti” nel doppio comandamento dell’amore (“Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente, e il secondo – simile a questo – Ama il tuo prossimo come te stesso”), dicendo quindi che non c’è altra legge divina che la legge dell’amore. Dio dà la legge, ma non è legge. Nella Bibbia ci sono molte leggi, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, ma mai dice che Dio è Legge! Perciò la passione per Dio non può degenerare in passione per la Legge, come se Dio fosse Legge! Dio non è Legge, è Libertà; Dio non è Legge, è Misericordia; Dio non è Legge, è Amore. La passione per la Legge non può mai venire prima della passione di Dio per l’uomo, anche e ancora di più se peccatore.

E’ a questa verità cristiana elementare, che tutti conosciamo, che dobbiamo fare riferimento nelle nostre relazioni, nei nostri affetti, al lavoro, in casa, nel nostro annuncio di fede. Quante volte ho/abbiamo presentato Dio come Legge, così da trasformare il cristianesimo in una religione di permessi e di divieti, e il volto di Dio non è quello del Padre, ma quello del legislatore. Ma la Legge che Dio ci pone davanti, e che Gesù ha realizzato nella propria vita e morte, è quella Legge che l’apostolo Giacomo chiama «la legge perfetta, cioè la legge della libertà» – della libertà responsabile. Non dunque la legge che inchioda l’uomo nella sua colpa, reale o presunta, e lo condanna, ma la Parola che libera, l’evangelo che include.

Poniamoci con sincerità queste domande: di quale Dio sono/siamo appassionati? Del Dio legislatore o del Dio Padre? Qual è la caratteristica principale, il tratto saliente del Dio nel quale crediamo: la Legge o la misericordia? Riflettiamoci bene prima di rispondere. Siamo sicuri che il nostro Dio sia proprio Dio, o piuttosto una sua caricatura, e cioè la mia idea di Dio, quella che più mi piace, cioè quella del Dio giusto che punisce i malvagi e premia i buoni? Qual è il Dio che ci ha afferrato e che ci afferra oggi ancora? Qual è il Dio che ci ha vinto e convinto? Ancora una volta: di quale Dio siamo appassionati?

Ritorno al percorso di conversione di Paolo, così affascinante. Paolo aveva conosciuto e praticato con totale convinzione e dedizione la passione per il Dio-Legge. Poi era stato convertito, quasi a forza, suo malgrado e contro tutti i suoi piani, al Dio-Grazia, cioè al Dio amore e libertà, misericordia e accoglienza. C’erano nella Chiesa delle origini anche altri evangeli, altri modi di intendere il Dio di Gesù Cristo. Contro questi altri evangeli, che cercavano di combinare Legge e Grazia, salvezza per fede e salvezza per opere, amore gratuito di Dio e merito dell’uomo, rendendo irriconoscibile il vero volto di Dio, Paolo ha combattuto tutta la vita.

«Dio ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per fare misericordia a tutti», dice Paolo ai cristiani di Roma. Misericordia di Dio non a qualcuno soltanto, o a molti ma non a tutti, come se qualcuno fosse fuori della misericordia di Dio. No, tutti stanno dentro questa misericordia, perché la misericordia di Dio è più grande della misericordia di tutti. E se è vero che tutti stanno dentro la misericordia di Dio, come posso io metterne fuori qualcuno? Tanto più che sono disubbidiente anch’io, come quelli che vorrei escludere: Dio ha infatti rinchiuso tutti «nella disubbidienza»! Anch’io lo sono, ed è soltanto perché io sono graziato che lo sei anche tu, soltanto perché lo sei tu che lo sono anch’io. La grazia è per me soltanto perché è anche per te, ed è per te soltanto perché è anche per me. Cioè Dio non vuole salvare me senza di te, e te senza di me.

Ecco perché la Chiesa non può essere altro che spazio di accoglienza e mai di esclusione. «Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi per la gloria di Dio», ci dice sempre Paolo. Che cosa vuoi dire accoglienza? Vuoi dire fare posto all’altro, qui, vicino a me e a te, «come Cristo ha accolto noi». E’ cioè accoglienza senza misura, come nell’Ultima Cena, celebrata con Giuda. Quello è il modello di ogni accoglienza. Come la misericordia abbraccia tutti e non solo qualcuno, così l’accoglienza di Cristo è aperta a tutti; come siamo tutti graziati, così siamo tutti accolti. Questa è la profondità delle cose di Dio. Di questo Dio, Paolo era appassionato.

Ma Paolo non era un ingenuo innamorato di Gesù, un sempliciotto senza fondamenta. La sua passione per Dio, che diventerà passione di evangelizzazione del mondo, sarà, come dicevo all’inizio, fonte inesauribile di benedizione ma anche di tribolazione.

Nella seconda Lettera ai Corinzi, al capitolo 6, Paolo scrive: «In ogni cosa raccomandiamo noi stessi come servitori di Dio, con grande costanza nelle afflizioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle percosse, nelle prigionie, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, con conoscenza, con pazienza, con bontà, con lo Spirito Santo, con amore sincero; con un parlare veritiero, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nell’umiliazione, nella buona e nella cattiva fama; considerati come impostori, eppure veritieri; come sconosciuti, eppure ben conosciuti; come moribondi, eppure eccoci viventi; come puniti, eppure non messi a morte; come afflitti, eppure sempre allegri; come poveri, eppure arricchendo molti; come non avendo nulla, eppure possedendo ogni cosa!».

Portare l’evangelo nel mondo è una cosa bellissima, ma faticosissima, perché il mondo non è ben disposto, non è amichevole, non accoglie volentieri la parola della croce. Come nella vita di Gesù, così anche in quella di Paolo, la passione per Dio è diventata un reale patire in mezzo ad una umanità, tutto sommato, ostile e refrattaria. Annunciare e vivere l’evangelo è fatica stupenda, ma costosa. Gesù è finito in croce, Paolo termina il suo ministero da solo, a Roma, abbandonato da tutti (anche dalla Chiesa, che cominciava a trovare eccessivo l’evangelo della grazia annunciato da Paolo), e in catene. La parola di Dio è vincente, ma crocifissa. Nella croce è la vittoria: è questo il paradosso della condizione cristiana in questo mondo. Ed è in questo modello di esistenza che si compie la passione per Dio di Paolo e di ogni cristiano.

Dio ci aiuti a coglier la sapienza di questa Parola, e ci aiuti a portare avanti, oggi, in questo nostro mondo, con i nostri limiti e la nostra passione per Lui, la sua volontà di amore per i suoi fedeli e per tutta l’umanità. Dio lo voglia per tutti noi.

Amen

Fabio Barzon

Sermone: LA RESURREZIONE DI LAZZARO

Appena Maria fu giunta dov’era Gesù e l’ebbe visto, gli si gettò ai piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto».

Quando Gesù la vide piangere, e vide piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, fremette nello spirito, si turbò e disse: «Dove l’avete deposto?» Essi gli dissero: «Signore, vieni a vedere!»

Gesù pianse. Perciò i Giudei dicevano: «Guarda come l’amava!»

Ma alcuni di loro dicevano: «Non poteva, lui che ha aperto gli occhi al cieco, far sì che questi non morisse?»  Gesù dunque, fremendo di nuovo in sé stesso, andò al sepolcro. Era una grotta, e una pietra era posta all’apertura.  Gesù disse: «Togliete la pietra!» Marta, la sorella del morto, gli disse: «Signore, egli puzza già, perché siamo al quarto giorno».  Gesù le disse: «Non ti ho detto che se credi, vedrai la gloria di Dio?»  Tolsero dunque la pietra. Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, ti ringrazio perché mi hai esaudito. Io sapevo bene che tu mi esaudisci sempre; ma ho detto questo a motivo della folla che mi circonda, affinché credano che tu mi hai mandato».  Detto questo, gridò ad alta voce: «Lazzaro, vieni fuori!»  Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti da fasce, e il viso coperto da un sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare».  Perciò molti Giudei, che erano venuti da Maria e avevano visto le cose fatte da Gesù, credettero in lui.  Ma alcuni di loro andarono dai farisei e raccontarono loro quello che Gesù aveva fatto. (Giovanni 11,32-46)

 

In questi giorni, passando davanti ai cimiteri, vediamo un gran brulicare di gente e se ci entriamo, vediamo una grande infiorata.

Certo, viviamo in un paese a maggioranza cattolica, una forma di cristianesimo nella quale è previsto e praticato il culto dei morti. Ma quello che mi colpisce è che a questa sorte di rito partecipano anche persone che magari si definiscono agnostiche e che non frequentano le chiese. Ma allora, perché un siffatto comportamento? Per tradizione e per abitudine, forse, ma forse non solo per questo.

Solo qualche giorno fa una persona si è stupita perché, chiedendomi quando sarei andata al cimitero così che lei avrebbe potuto venire con me ed accedere alla cappella della mia famiglia per portare dei fiori per i miei genitori e per mio marito, si è sentita rispondere che se proprio lo gradiva le avrei dato le chiavi, ma che io certamente non vado al cimitero se non molto raramente e solo per mantenere il decoro della tomba di famiglia, per dare una ripulita e magari togliere le erbacce, ma assolutamente mai per “andare a trovare” i miei familiari che sono trapassati. E lo stupore di costei è stato tanto più grande in quanto sa bene che io sono una persona di fede cristiana dichiarata.

Ma allora, perché, mi sono chiesta, in questi giorni tanto affanno intorno ai cimiteri?

Lascio intenzionalmente perdere il rispetto di una tradizione, perché sono ben felice anch’io di nutrire alcune tradizioni, purché abbiano un significato che riconosco come valido, che mi consente magari di rinnovare ricordi e riflessioni su fatti accaduti o su particolari significati. Ad esempio, per le nostre chiese valdesi e metodiste, il falò del 17 febbraio o il festeggiamento della giornata della Riforma. Oppure ancora l’accensione progressiva delle candele sulla corona d’Avvento.

Ma i morti nei cimiteri ci sono sempre e sempre dobbiamo confrontarci con il problema della morte, quella di coloro che ci sono stati cari, quella di coloro che non conosciamo, e anche la nostra. E non sono certo le infiorate che ci sollevano da una riflessione in merito, perché ciascuno di noi ha il dovere di porsi delle domande e di darsi delle risposte, anche sulla morte.

Fra i miei numerosi amici ce n’è uno che mi è molto caro, nonostante si professi assolutamente ateo. Parlo volentieri con lui e stimo molto la sua coerenza, soprattutto da quando mi ha detto che, proprio per il suo ateismo, ha formalizzato la richiesta di essere sbattezzato. Proprio da lui mi è arrivata una frase sulla morte che mi ha fatto riflettere: “Per chi ha fede è la vita, per un ateo è il paradiso del Nulla”.

Ma veniamo ora al nostro passo dell’evangelo di Giovanni, la resurrezione di Lazzaro.

Se ci pensiamo bene la resurrezione di Lazzaro è totalmente inutile (o almeno solo temporaneamente utile), ma potrebbe essere considerata anche ingiusta. Inutile perché Lazzaro, da essere umano, è comunque destinato a morire, come tutti noi. Ingiusta perché, con molto rispetto per il grande amico di Gesù, possiamo ritenere che nel medesimo periodo vi fossero altre buone persone che erano morte e non hanno avuto la medesima “fortuna” di Lazzaro di essere resuscitati.

Ma allora, che cosa vuol dirci Giovanni con questo episodio? Perché rappresentarci questa vittoria sulla morte? Certamente, come abbiamo sentito prima nella lettura di Matteo, Gesù è drastico sul concetto di morte corporale (“lascia che i morti seppelliscano i morti”). Quindi l’episodio della resurrezione di Lazzaro ha un’altra valenza.

Il fatto avviene a Betania, proprio nei pressi di Gerusalemme e Gesù coi discepoli non era lì quando è stato informato della morte dell’amico. Non era lì perché non solo non era ben accolto nella città santa, ma rischiava di essere vittima di lapidazione da parte dei Giudei. Insomma, andando verso Gerusalemme la sua sorte poteva dirsi segnata, come poi infatti è stato. E in proposito dobbiamo notare che Giovanni pone l’episodio di Lazzaro appena prima del racconto della congiura del sinedrio nei confronti di Gesù.

Notiamo anche che il racconto non ci riferisce di alcun culto del morto, non olii, non fiori, non preghiere sulla tomba di Lazzaro. Certo, parecchia gente e amici che si recavano a casa sua per portare consolazione alle sorelle, a coloro che vivevano quel momento di separazione, a coloro che erano ancora in vita!

Lazzaro sta nel sepolcro, un cadavere puzzolente, un corpo destinato a decomporsi, un inutile involucro dove non soffia più lo spirito della vita, non più una persona.

Gesù avrebbe potuto portare la propria consolazione a Marta e Maria. Oppure avrebbe potuto far resuscitare altre degne persone defunte. No, lo fa solo per Lazzaro. E lo fa non certo per lui, per il suo amico, bensì per coloro che sono ancora vivi, per coloro che, come spesso siamo noi, hanno bisogno di vedere un prodigio, un miracolo per credere. Gesù opera un segno prodigioso affinché coloro che sono con lui possano credere, infatti, una volta detto di liberarlo dai panni e dal sudario, non ci viene raccontato della gioia delle sorelle o della felicità del redivivo. No, cosa accade una volta operato il miracolo? Il focus del racconto si sposta, non più Marta, Maria e Lazzaro, bensì coloro che stanno attorno (compresi magari i discepoli di Gesù). Accade che alcuni si stupiscono e si convertono, credendo che Egli sia veramente il messia atteso, il figlio di Dio promesso, altri, seguendo il pensiero della loro incredulità e considerandolo quindi una minaccia per l’ordine costituito, corrono dai farisei, dai dotti della Scrittura e ligi alla stessa, per riferire del prodigio che, evidentemente, nel loro pensiero trova ragione in altro tipo di magia.

Credo quindi che il significato che noi dobbiamo trovare in questo episodio sia questo: Gesù che invoca il Padre per vincere la morte, ma non tanto la morte corporale (alla quale siamo condannati per il solo fatto di essere nati), bensì la vittoria sulla morte perché questo evento sia il momento della resurrezione a nuova vita e non sia il termine di un percorso in fondo al quale c’è solo il nulla. Ed è di questa vittoria sulla morte eterna che parliamo noi credenti, dandola forse talvolta per scontata, senza rifletterci troppo, magari per paura della morte stessa e per esorcizzare la realtà della fine.

Ma allora, sorelle e fratelli, chiediamoci: noi come ci poniamo di fronte a tutto ciò?

Non diamo quindi per scontato e non ripetiamo a memoria (oppure per tradizione religiosa) che dopo la morte c’è una nuova vita, ma riflettiamo seriamente e, pur nel travaglio del pensiero doloroso, chiediamo a noi stessi: “Credo io davvero che con la morte non termina tutto? Credo io che anche quel miracolo fa sì che la mia fede sia rinforzata, perché credo che Gesù sia il figlio di Dio, il Salvatore, oppure sarei fra coloro che corrono dai farisei? Credo io che il mio Signore, come abbiamo sentito nella lettura del profeta Osea, è colui che, nonostante le nostre infedeltà, ci ha riscattati dal soggiorno dei morti, perdonandoci prima che noi riusciamo a pentirci?”

Voglia il Signore che la nostra risposta individuale sia chiara e illuminata dalla fede.

Ma, se così non fosse, nell’assoluta nostra libertà, dobbiamo avere il coraggio e la coerenza di non professarci credenti, perché il CREDO recitato a memoria e per tradizione non ci pone su un piano di merito superiore a coloro che si professano atei e magari, con coerenza, hanno il coraggio di dirlo.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: SOLUS CHRISTUS – FESTA DELLA RIFORMA

Spesso mi sono sentita dire da persone non evangeliche che Lutero è stato un grande perché ha avuto il coraggio di opporsi al potere temporale della chiesa cattolica e al mercimonio che stava alla base del desiderio di continuo arricchimento della stessa. Tutto vero, ma noi evangelici sappiamo bene che la Riforma ha anche ben altre radici, perché ha riguardato non solo gli aspetti puramente “temporali” bensì, forse più importanti, aspetti squisitamente teologici.

Sulle vetrate della nostra chiesa abbiamo voluto testimoniare il nostro essere una chiesa riformata riportando i cinque “sola” di Lutero, in modo che coloro che magari li leggono, abbiano un assaggio di ciò in cui crediamo.

Ebbene, uno dei cinque “solas” dice “Solus Christus”, perché è solo lui il fulcro della nostra fede e perché la salvezza è stata già operata grazie all’opera sua e al suo sacrificio per l’espiazione del nostro peccato.

Ma questo profondo convincimento che abbiamo non deve rimanere un fatto nostro personale, perché, come chiesa e come singoli, siamo chiamati ad annunciare senza paura il suo messaggio, siamo chiamati ad essere profeti.

Se veramente Cristo è il centro della nostra fede siamo tutti chiamati ad essere suoi collaboratori, con i nostri limiti certo, con i nostri timori forse, ma, forti della sua grazia, dobbiamo essere costruttori del suo regno, come dice Paolo nel passo che andiamo a leggere da 1 Corinzi 3:9-13.

«Noi siamo infatti collaboratori di Dio, voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio.  Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come esperto architetto, ho posto il fondamento; un altro vi costruisce sopra. Ma ciascuno badi a come vi costruisce sopra; poiché nessuno può porre altro fondamento oltre a quello già posto, cioè Cristo Gesù. Ora, se uno costruisce su questo fondamento con oro, argento, pietre di valore, legno, fieno, paglia, l’opera di ognuno sarà messa in luce; perché il giorno di Cristo la renderà visibile; poiché quel giorno apparirà come un fuoco; e il fuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno».

Nella mia azienda ricevo sovente richieste di assunzione da parte di persone che cercano posto e che mi presentano un curriculum nel quale magari elencano in modo assai edulcorato precedenti esperienze di lavoro.

Ebbene, in tanti anni, coi capelli bianchi che mi ritrovo, posso garantirvi che non ho mai assunto un collaboratore per le esperienze precedenti che ha avuto. Ho sempre preferito fidarmi del mio istinto nell’impressione che mi dava al colloquio e quando per caso, durante il colloquio la persona riportava con enfasi la sua bravura nei lavori passati, gentilmente dicevo che non mi interessava, ma che più semplicemente, in caso di assunzione, avrei voluto vedere come lavorava e come si poneva di fronte a ciò che doveva fare. Insomma, l’avrei giudicato in base ai risultati, cioè “ai frutti” che avrebbe saputo dare.

Lo stesso approccio dobbiamo averlo nei confronti di noi stessi come credenti perché, in quanto tali, riteniamo di aver ricevuto un gran dono, fra gli altri: la fede.  La fede in Gesù Cristo che è nato, è vissuto ed infine è morto e risorto per riscattarci dal peccato.

Noi quindi ci definiamo “cristiani” perché solo Gesù è il fulcro del nostro credere, è la stella polare che ci indica il cammino. Appunto: “solus Christus”, perché siamo convinti che lui è Dio, è una delle tre manifestazioni di quel Signore in cui diciamo di credere.

A lui ci ispiriamo; sugli scritti del Nuovo Testamento che parlano di lui studiamo e preghiamo, sui testi dell’Antico Testamento che lo annunciano andiamo a dissetare il nostro bisogno di conoscenza sul volere di Dio.

Tutto giusto! Ma non basta!  E non bastava nemmeno al padre della Riforma.

Negli anni precedenti la Riforma vi era un vuoto di predicazione cristocentrica. Addirittura durante le funzioni, le messe, il più delle volte non venivano fatti i sermoni, così che gran parte della gente di fatto non conosceva la Bibbia e la religione veniva quindi percepita da molti come un imperio sui comportamenti da tenere che dovevano essere coerenti con quanto veniva comandato (o minacciato) dall’oratore di turno.

La fede assumeva così un ruolo di secondo piano, infatti era noto che il popolo doveva avere la fede del proprio principe, del signore territoriale. Se il principe cambiava religione, il popolo doveva seguirlo.

E ciò accadeva proprio perché la predicazione era latente, la conoscenza della sacra scrittura era riservata a pochi dotti, a una categoria di persone (il clero) spesso asservita al potere temporale della chiesa o del principe di turno.

In questa situazione il definire di Lutero “solus Christus” comporta una vera e propria rivoluzione di pensiero, perché cambia il fulcro dell’attenzione religiosa e spirituale. Solo Cristo è il Signore e solo Lui, con il sacrificio della croce, può riscattare l’uomo dal peccato e questo riscatto avviene per pura grazia! Non certo azioni devozionali più o meno economicamente onerose.

Cristo è la grazia, misericordia, giustizia, verità, sapienza, potenza, conforto e salvezza donateci da Dio senza alcun nostro merito.

La convinzione di Lutero era che tutta la Scrittura era stata data a motivo di Cristo, così che Egli potesse essere conosciuto e glorificato. In Cristo solo la Scrittura e l’adorazione trovano il loro significato. Cristo è la sostanza della Scrittura. Se Cristo è conosciuto, allora ogni altra cosa nelle Scritture diviene chiara e in grado di essere compresa. Lutero vedeva ogni passaggio nella Bibbia, che fosse nell’Antico o nel Nuovo Testamento, come un puntatore verso Cristo.

Cristo è la salvezza dell’uomo. Cristo è la salvezza della chiesa.

E proprio per questo il credente in Cristo non può esimersi dall’annuncio, dalla predicazione, perché la fede in quel Gesù figlio di Dio non può e non deve rimanere un fatto puramente individuale, intimistico, da coltivare nel segreto del proprio cuore senza alcun annuncio all’esterno.

Se il credente si sente rinnovato dal suo seguire Cristo non può vivere questa sua rigenerazione solo personalmente, magari delegando alla chiesa l’onere dell’annuncio, della predicazione.

Cristo deve non soltanto essere proclamato, ma Cristo deve essere udito attraverso la predicazione, quella predicazione che fa parte dei frutti del credente, di colui che Paolo dice essere un “collaboratore” di Dio.

Lutero mise la Bibbia a disposizione del popolo, nella sua lingua, affinché tutti potessero sentire nel loro idioma la parola di Dio.  Lutero utilizzò anche la musica popolare per avvicinare le genti alla Parola.  E tutto questo lo fece affinché ognuno potesse finalmente conoscere la Scrittura, magari anche solo parti di essa, perché così ciascuno poteva confrontarsi con quella figura straordinaria posta al centro della fede: Gesù Cristo.

Ma cosa ce ne facciamo di questa centralità di Gesù Cristo?

Certo, l’ispirazione che ci deriva dalla sua vita ci induce a comportamenti fraterni e solidali, ci spinge a vivere nella libertà dei figli di Dio, cioè di coloro che hanno chiara consapevolezza della costante situazione di peccato in cui si vive, ma hanno anche chiara la visione del perdono per grazia, della venuta del regno di Dio. E questo ci dà un respiro che ci porta a una dimensione verticale, alla speranza di far parte un giorno di un’altra realtà, di una vita che è ben più di quella che viviamo in questo scampolo di anni terreni.

E già fin qui possiamo dire che l’eredità della Riforma è ricca, ma fra i molti aspetti della Riforma degni di considerazione ce n’è un altro assai importante per l’epoca e anche ai giorni nostri: è il fatto che essa costituì un ritorno al primato della predicazione.

La Riforma fu un grande risveglio della predicazione, probabilmente il più grande nella storia della Chiesa Cristiana, perché proprio nel periodo del tardo Medioevo, i Riformatori espansero la predicazione, quasi a voler ravvivare e ritornare ai giorni della chiesa primitiva, quando la predicazione era al centro del servizio e quando il popolo di Dio si nutriva della Parola proclamata.

Pensiamo solo a quanti passi del Nuovo Testamento ci presentano persone che ben conoscevano le scritture (i farisei, per esempio).

La predicazione, la conoscenza della Bibbia, l’annuncio: questo è ciò che rende la Riforma così pertinente anche ai giorni nostri. Perché è specialmente questa eredità della pura predicazione della Parola che noi riteniamo così necessaria per la chiesa di tutte le epoche, e così preziosa per noi.

Ogni Cristiano veramente riformato vuole la predicazione della Parola, perché egli sa che è questo ciò che Dio ha ordinato ai suoi seguaci. In questo senso dobbiamo leggere l’invito di Paolo ai cristiani di Corinto.

E noi, davanti a tutto ciò, come reagiamo?  Noi, cristiani riformati del 21mo secolo, intendiamo coltivare la nostra fede solo nella nostra intimità personale o, al massimo, nelle nostre chiese?  No, non è questo ciò che ci viene comandato, non consiste in questo l’essere collaboratori di Dio, non possiamo nascondere i talenti che ci sono stati donati né nascondere la lampada sotto il moggio.

Siamo invece chiamati ad essere profeti, proprio come il Signore chiamò Geremia quand’era ancora un giovane che temeva di non saper parlare.

E allora, sorelle e fratelli in Cristo, noi tutti figli della Riforma non abbiamo altra scelta se non coltivare la nostra fede con la frequentazione della Scrittura e proclamarla al mondo, individualmente e come chiesa, annunciando il regno di Dio, nel nome di Gesù Cristo.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: PERDONO E’ PACE

Domenica 21 novembre si è tenuto presso il santuario antoniano dell’Arcella un incontro interreligioso che aveva come tema “Perdono è Pace”. La nostra chiesa vi ha partecipato e di seguito si riporta la meditazione tenuta.

Breve presentazione chiesa evangelica metodista come chiesa riformata (chiesa cristiana con sacerdozio universale, e “5 sola” di Lutero: sola scriptura, sola gratia, sola fide, solus Christus, soli Deo gloria).

Per l’incontro di oggi ho preparato una meditazione su base biblica che voglio condividere, però solo dopo un saluto a tutti voi con il v. 37 tratto dall’evangelo di Luca al cap. 6 “Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati”.

Il tema di quest’anno recita “PERDONO È PACE”. Ma di quale perdono stiamo parlando? Abbiamo noi veramente la capacità di esercitare il perdono?

Forse possiamo capirlo se prima comprendiamo che NOI SIAMO PERDONATI DA DIO, ma per comprendere questo dobbiamo riflettere sulla Bibbia, dobbiamo guardare dentro al nostro cuore per scovare dove abbiamo nascosto un grande dono che ci è stato fatto: la fede, la fiducia assoluta in quel Signore che sa ogni giorno perdonarci, quel Signore che più volte, come leggiamo in vari passi della Bibbia, dopo l’ira è tornato a rinnovare il suo patto con l’uomo.

Ed è quello stesso Signore che ci sollecita con le parole che troviamo scritte in 1 Pietro 3,8-9.  Siate tutti concordi, compassionevoli, pieni di amore fraterno, misericordiosi e umili; non rendete male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite; poiché a questo siete stati chiamati affinché ereditiate la benedizione.

Ma non solo. La sollecitazione al perdono, o quantomeno alla riflessione sul perdono che ci deriva da Dio, la troviamo in moltissimi passi della sacra scrittura e oggi ho scelto per voi Genesi 9:8-12,17 su cui riflettere.

Poi Dio parlò a Noè e ai suoi figli con lui dicendo: «Quanto a me, ecco, stabilisco il mio patto con voi, con i vostri discendenti dopo di voi e con tutti gli esseri viventi che sono con voi: uccelli, bestiame e tutti gli animali della terra con voi; da tutti quelli che sono usciti dall’arca, a tutti gli animali della terra. Io stabilisco il mio patto con voi; nessun essere vivente sarà più sterminato dalle acque del diluvio e non ci sarà più diluvio per distruggere la terra». Dio disse: «Ecco il segno del patto che io faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte le generazioni future».

…. e il segno fu l’arcobaleno

Dio disse a Noè: «Questo è il segno del patto che io ho stabilito fra me e ogni essere vivente che è sulla terra».

Nella lettura di Genesi abbiamo visto la costituzione del patto, dell’alleanza fra Dio e l’uomo. Dopo una terribile catastrofe (il diluvio), riferita come una punizione per la grande ira di Dio a causa dell’infedeltà dell’uomo, il Signore si ricrede, torna sui suoi passi, comprende bene che l’uomo è una sua creatura, una creatura che Egli ha lasciato libera di agire come crede, libera anche di ribellarsi a Lui e, con una descrizione favolistica e poetica, ristabilisce il rapporto con un segno: l’arcobaleno.

Pace fatta? Sì, temporaneamente, perché l’uomo non riesce a coltivare un cuore puro, non riesce a vivere in pace nella fedeltà al Signore, nemmeno quando il Signore lo soccorre e viene in suo aiuto.

L’uomo continua pervicacemente a vivere la propria esistenza, infischiandosene ampiamente del condursi nella vita in correttezza, rettitudine e fratellanza. L’uomo preferisce crearsi idoli vari.

L’uomo è fatto così, nella sua stessa indole è sempre presente la tendenza alla trasgressione, al peccato, all’oltraggio al Signore, il quale alternativamente si arrabbia furiosamente con la sua creatura e poi torna a perdonarlo, perché Egli sa bene solo un Suo riavvicinamento con l’uomo può portare quest’ultimo alla salvezza, alla redenzione.

Un riavvicinamento che, nel Nuovo Testamento, ci viene presentato come il dono più grande che il Signore fa, nel tentativo che il cuore umano finalmente si converta: la venuta di Gesù, Figlio di Dio, in terra. La venuta in terra non su un carro infuocato, ma con la semplice nascita di uomo fra gli uomini.

E quando l’uomo, il credente, si rende conto della propria infedeltà, del susseguirsi dei propri insuccessi nel seguire le vie del Signore cosa succede?

Può accadere una cosa assai negativa: interiorizzare il proprio senso di inadeguatezza, coltivando sensi di colpa e insoddisfazione costante, percorrendo una strada di costante frustrazione perché non si sente perdonato. Ma questo non è un problema di fede, bensì psicologico!

Ecco allora che, da fedeli, possiamo comprendere quanto sia stato grande l’amore di Dio per l’uomo che viene ad essere il destinatario di un grandissimo dono: il perdono. Quel perdono gratuito che ci dà la possibilità di rasserenarci, di cominciare da capo, di sentirci amati nonostante il nostro essere infedeli e peccatori.

Dio rinnova costantemente il suo patto con noi. E lo fa non certo togliendoci le nostre responsabilità, né tantomeno limitando la nostra libertà, ma lo fa concedendoci la grazia di essere suoi figli, accogliendoci così come siamo.

Gesù è l’incarnazione del rinnovato patto, della rinnovata alleanza fra Dio e l’uomo e, nonostante l’uomo, è colui che dice anche “Quando vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi”, come troviamo scritto in Giov. 14, dove leggiamo anche dell’insipienza di Tommaso, il quale, proprio come noi, non ha ben capito la portata della figura di Gesù. E la risposta di Gesù è chiara: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

È chiara questa risposta? Sembrerebbe di sì.

Ma noi ci crediamo a questa risposta? Come credenti dovremmo crederci e non dovremmo nutrire dubbio alcuno. Se invece non ci crediamo, nell’assoluta libertà che abbiamo, dovremmo essere intellettualmente onesti e non definirci cristiani (nonostante le tradizioni), non parlare del perdono.

Ma c’è anche un altro aspetto, un’idea costante che mi ha assillato nella riflessione durante la preparazione di questa testimonianza sul perdono, sul rinnovo del patto fra Dio e l’uomo: qual è la valenza particolare della conferma dell’alleanza con Dio?

Con la venuta di Gesù, col grande dono del perdono gratuito, Dio guarisce il nostro cuore di pietra e ci dà la possibilità di interpretare la legge dell’amore e della fratellanza non come una norma esteriore, esterna all’essere umano, ma come l’unico modo di condursi nella vita.

Con il perdono gratuito Dio ci vuol dire che la legge dell’amore è anni luce distante dai semplici comandamenti di Mosè, perché la legge dell’amore, dell’accettazione, del perdono, non è scritta su tavole di pietra, ma è incisa nel cuore di carne, nel nostro cuore, quel cuore che la fede fa cambiare e, una volta cambiato, induce al perdono anche tra noi, tra uomini e donne di fedi diverse, senza giudizi e senza precomprensioni.

Ecco allora, sorelle e fratelli, che ancora una volta possiamo solo innalzare al Signore la nostra preghiera di lode e ringraziamento perché il rinnovo del patto e il perdono sono per tutti noi, collettivamente e individualmente.

E se avremo accettato il perdono e se riusciremo a perdonare veramente noi stessi e gli altri, solo allora potrà diffondersi l’accettazione di chi è diverso da noi e solo allora cammineremo verso la pace.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: NELLA DISPERAZIONE

Lamentazioni 3,1-40

Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione sotto la verga del suo furore. Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Sì, contro di me di nuovo volge la sua mano tutto il giorno. Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha spezzato le mie ossa. Ha costruito contro di me e mi ha circondato di veleno e di affanno. Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come quelli che sono morti da lungo tempo. Mi ha circondato di un muro, perché non esca; mi ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido e chiamo aiuto, egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli mi ha sbarrato la via con blocchi di pietra, ha sconvolto i miei sentieri. È stato per me come un orso in agguato, come un leone in luoghi nascosti. Mi ha sviato dal mio cammino, e mi ha squarciato, mi ha reso desolato. Ha teso il suo arco, mi ha posto come bersaglio delle sue frecce. Mi ha fatto penetrare nelle reni le frecce della sua faretra. Io sono diventato lo scherno di tutto il mio popolo, la sua canzone di tutto il giorno. Egli mi ha saziato d’amarezza, mi ha abbeverato d’assenzio. Mi ha spezzato i denti con la ghiaia, mi ha affondato nella cenere. Tu mi hai allontanato dalla pace, io ho dimenticato il benessere. Io ho detto: «È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!»

Ricòrdati della mia afflizione, della mia vita raminga, dell’assenzio e del veleno! Io me ne ricordo sempre, e ne sono intimamente prostrato. Ecco ciò che voglio richiamare alla mente, ciò che mi fa sperare: è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite; si rinnovano ogni mattina.

Grande è la tua fedeltà! «Il Signore è la mia parte», io dico, «perciò spererò in lui». Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore. È bene per l’uomo portare il giogo della sua giovinezza. Si sieda solitario e stia in silenzio quando il Signore glielo impone! Metta la sua bocca nella polvere! Forse c’è ancora speranza. Porga la guancia a chi lo percuote, si sazi pure di offese! Il Signore infatti non respinge per sempre; ma, se affligge, ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà; poiché non è volentieri che egli umilia e affligge i figli dell’uomo.

Quando uno schiaccia sotto i piedi tutti i prigionieri della terra, quando uno vìola i diritti di un uomo in presenza dell’Altissimo, quando si fa torto a qualcuno nella sua causa, il Signore non lo vede forse? Chi mai dice una cosa che si avveri, se il Signore non l’ha comandato? Il male e il bene non procedono forse dalla bocca dell’Altissimo? Perché si rammarica la creatura vivente? L’uomo vive malgrado i suoi peccati!

Esaminiamo la nostra condotta, valutiamola, e torniamo al Signore!

 

Strano il libro delle Lamentazioni e forse poco frequentato. Eppure, se lo leggiamo, troviamo in esso molto di noi stessi, molte nostre emozioni, molti nostri pensieri. In questo passo mi sono sentita coinvolgere da sensazioni che spesso ho provato, sentimenti che forse non dovrebbero sfiorare la mente di un credente, ma che pure ci sono e che quindi devono essere presi in mano e fatti oggetto di riflessione.

Quella che abbiamo letto è la terza Lamentazione, diversa dalle altre quattro che compongono con lei il breve libro dell’antico testamento. Già la denominazione “Lamentazioni” ci fa capire che potremmo trovare in questo libro parole di sconforto, espressioni di dolore, infatti possiamo leggere tutto lo strazio dei sopravvissuti alla distruzione del tempio e alla devastazione di Gerusalemme.

Potremmo dire che quelle sono lamentazioni “pubbliche”, di tutto un popolo che soffre per la distruzione della città simbolo di Israele, mentre quella che abbiamo letto per la meditazione di oggi è invece “privata”, o meglio individuale.

Perché “privata”?  Abbiamo sentito che inizia con “Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione…”; è il lamento di una singola persona che guarda essenzialmente al proprio dolore.

Il lamento di un singolo inserito nel cuore della disperazione collettiva, infatti delle cinque lamentazioni questa è la terza, la centrale. E questo probabilmente non è un caso, perché denota che, anche nel cordoglio collettivo, nella sofferenza contemporanea di migliaia di persone, ognuno porta il peso del proprio dolore individuale, un dolore unico e diverso.

Ancor oggi facciamo questa esperienza, quando nei disastri collettivi oppure negli sconvolgimenti di intere popolazioni per guerre e fame, sentiamo il dolore dei singoli individui che parlano della loro individuale disperazione perché hanno perso tutto oppure perché raccontano le loro sofferenti esperienze di vita.

E nello strazio individuale noi che ascoltiamo scorgiamo la sofferenza di interi gruppi o di intere popolazioni, ben sapendo che non vale comunque a nulla il vecchio adagio “mal comune mezzo gaudio”, perché nello sgomento di un singolo individuo, nella sua sofferenza, possiamo vedere troppo spesso il dolore di interi gruppi o addirittura di intere popolazioni.

Allora, vediamo cosa dice del suo strazio personale (che è l’eco dello strazio del suo popolo) quest’ebreo di ventisette secoli fa.

L’avvio del passo biblico è subito incisivo e toccante: “Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione”. Un uomo, una persona che ha sofferto nel corpo e nello spirito, un uomo il cui dolore arriva alla disperazione, perché conosce anche troppo bene la causa della sua sofferenza, e il suo sgomento è grande perché l’afflizione è causata dalla “verga del suo furore”.

Il “suo” furore. Ma allora quest’uomo sa bene che c’è un responsabile per tanto dolore! E questo responsabile per l’uomo ha un nome ben preciso: è Dio!

Le immagini riportate nelle descrizioni di tanta sofferenza cercano di esprimere ciò che non è descrivibile perché il dolore è così immenso che qualsiasi parola non riesce a comunicarlo. Meglio quindi cercare di addossare la colpa dello strazio a questo Iddio che, nella visione del sofferente, è stato l’artefice di un simile disastro: “Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Sì, contro di me di nuovo volge la sua mano tutto il giorno. Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha spezzato le mie ossa. Ha costruito contro di me e mi ha circondato di veleno e di affanno. Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come quelli che sono morti da lungo tempo. Mi ha circondato di un muro, perché non esca; mi ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido e chiamo aiuto, egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli mi ha sbarrato la via con blocchi di pietra, ha sconvolto i miei sentieri. È stato per me come un orso in agguato, come un leone in luoghi nascosti. Mi ha sviato dal mio cammino, e mi ha squarciato, mi ha reso desolato. Ha teso il suo arco, mi ha posto come bersaglio delle sue frecce. Mi ha fatto penetrare nelle reni le frecce della sua faretra”.

A ben pensarci sono immagini cruente, che toccano il cuore, che danno l’idea che quest’uomo non sa più chi è e si sente come fosse strappato via da sé stesso, completamente smarrito, come fosse condannato a non vedere più alcuna luce e speranza nella propria vita, in un completo disfacimento spirituale e fisico.

Questa è la disperazione di un uomo che si sente preda di un nemico che lo assedia e lo insegue, proprio come coloro che in Gerusalemme si sentivano tutti preda dei Caldei, prigionieri in una città affamata e assediata dal nemico.

E tutto questo è opera di Dio! Di quel Dio che ha permesso che la sua città venga distrutta, che il suo tempio devastato, che il suo popolo affamato e ucciso.

Ed è un Dio che non puoi dimenticare, anche se lo vorresti, perché lui non ti lascia, non si dimentica di te, ma ti afferra, ti stringe, ti blocca rendendoti prigioniero addirittura costruendo un muro, lasciandoti solo nella tua disperazione, un Dio perfino sanguinario e feroce, come un “orso in agguato” e “un leone” che s’appiatta nei nascondigli, pronto a balzarti addosso per sbranarti.

E sei sempre più solo. Sei tu con la tua disperazione. Sei tu col tuo dolore. Sei tu con la tua incapacità di muoverti, perfino di scappare, di reagire.

Capiamo noi quest’uomo? Credo proprio di sì, perché sono convinta che ognuno di noi abbia provato nella vita dolori forti, sgomento totale, perdita di ogni speranza e incapacità di credere che qualcosa possa cambiare. Se non lo abbiamo provato, possiamo ritenerci soddisfatti oppure possiamo forse pensare di aver guardato ai nostri accadimenti di vita con una certa superficialità, forse.

Quando sei nell’assoluta disperazione, quando ti senti solo attanagliato dall’angoscia e dal dolore, ti coglie la solitudine esistenziale, credi che nessuno possa percepire ciò che provi e magari ti lasci andare, cadi nello sfinimento completo, in quella situazione dove perfino il lamento si fa sempre più fievole, dove il pianto prende il sopravvento, un pianto che diventa quasi un monologo triste appena sussurrato, rivolto solo a noi stessi.

Così accade anche al nostro protagonista che dice: “È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!”

Ed ecco che, proprio quando la fine è ormai solo ad un passo, d’improvviso tutto cambia. Quest’uomo per la prima volta pronuncia il nome di Dio, anche se lo pronuncia dicendo che non ha più fiducia in lui.

Ma così dicendo, gli capita come a chi ha deciso di lasciare una persona amata e che però poi guarda per caso una sua fotografia, e capisce che non la può lasciare, perché magari ne è ancora innamorato/a.

Non è un esempio banale, perché il nome, nella Bibbia, è veramente come la foto di chi lo porta: ci permette di coglierne i lineamenti, il sorriso, lo sguardo, la sua essenza.  E questo vale anche per il nome di Dio; per questo devi stare molto attento a pronunciarlo, a non dirlo invano, come sta scritto nella legge.

E il nostro autore della Lamentazione dice quel nome fino ad allora taciuto e si scopre ancora “innamorato perso” di colui che lo porta, “innamorato perso del suo Dio… e non soltanto questo: lui, in quel suo nome ancora amato nonostante tutto, coglie chi davvero sia il Signore, per il suo popolo ma soprattutto per lui: è il Dio sempre fedele e che c’è sempre, come colui che – sono le parole del profeta Osea, che forse a questo punto son risalite nella mente e nel cuore di questo antico figlio di Israele – “se ferisce, risana; se colpisce, anche guarisce” … colui che “ti ridà quella vita” che tu già pensavi di aver perso proprio per causa sua (cfr Osea 6,1 s.).

E allora veramente tutto cambia: quel Dio che prima era come un “orso” e un “leone”, adesso è nuovamente il Dio dell’Alleanza, è il tuo Dio, il Signore del dono e della grazia, che ha scelto Israele come suo, e che dentro Israele ha scelto te, ed è con te e per te, in ogni istante della tua esistenza.

Ecco allora la nuova “ripartenza”, la speranza che torna ad illuminarsi, la voce che s’innalza limpida e gioiosa: ”Ecco ciò che voglio richiamare alla mente, ciò che mi fa sperare: è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite; si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà! «Il Signore è la mia parte», io dico, «per questo spero in lui». Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca.”

E quando la voce torna a farsi limpida, anche la mente si fa di nuovo lucida ed ecco allora che l’uomo che ha scritto questo canto, va avanti ad indagare nel mistero della sofferenza, ne scopre tutti gli aspetti insospettati e, un poco, anche le cause. E sebbene abbia espresso, fino ad un momento prima, tutto il suo orrore per quello che soffriva e ancora soffre, ora non ha paura a penetrare più a fondo nell’abisso, perché sa che così – e soltanto così – potrà risentire in sé stesso la capacità di ritornare a Dio e riamarlo, nonostante le sue quotidiane percosse dolorose.

Guardiamo, sorelle e fratelli, con attenzione e disponibilità di comprensione alla vicenda personale dell’autore della terza Lamentazione, alla sua riscoperta di Dio nata dall’aver pronunciato il suo nome e notiamo come, nella seconda parte di questo canto, il nome del “Signore”, che nella prima parte non era mai stato nominato, torni continuamente, quasi che, riscoperto, l’autore s’incanti a pronunciarlo, per provare (ogni volta e ogni volta di nuovo) la gioia che ha sentito quella prima volta che se l’è trovato sulle labbra.

Per molti aspetti anche noi oggi siamo in crisi ed anche oggi abbiamo bisogno di riflettere su queste parole. Per rinnovare la nostra speranza, ma soprattutto, per riscoprire lui, per riscoprire chi davvero è il nostro Dio, nella sua grandezza e anche perfino nella sua fragilità, nella sua vulnerabilità.

Già, quella vulnerabilità di chi ama e per amore espone e mette in gioco tutto sé stesso. Quella vulnerabilità che abbiamo visto in Gesù, nella sua morte per la nostra salvezza, nella sua passione per il nostro riscatto, nella sua delusione per essere stato molte volte incompreso perfino dai suoi, nel suo sforzo di farsi sentire da noi, sordi e distratti, spesso chiusi nei nostri piccoli e grandi dolori che ci rendono sordi alla voce della speranza, ci fanno concentrare solo sui nostri problemi, dimenticando spesso che, se smettiamo di guardare al nostro ombelico, potremo forse vivere un po’ meglio anche nelle nostre sofferenze e potremo imparare a “com-patire” con il nostro prossimo.  E potremo allora esclamare tutti insieme, con meraviglia e con riconoscenza: ”Il Signore è dalla mia parte, per questo spero in lui”.

AMEN

Liviana Maggiore

 

Sermone: EDE E OPERE (ESSERE E FARE)

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno abiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro ciò che è necessario al corpo, a che serve? Allo stesso modo è la fede: se non ha opere, è per sé stessa morta.  Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».  Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demoni lo credono e tremano.  Insensato! Vuoi renderti conto che la fede senza le opere non ha valore?  (Giac 2,14-20)

Poco tempo fa un amico che ama leggere i miei numerosi scritti (quelli che definisco impietosamente i miei “sproloqui”) mi diceva che da essi traspare una chiara visione esistenzialista, un modo di approcciare la vita sulla fondamentale differenza tra “essere” e “avere” di frommiana memoria, potremmo anche dire più intuitivamente di una differenza tra “essere” e “fare”.

Su questo si è aperta una piacevolissima conversazione e ne sono scaturite alcune considerazioni che vorrei condividere con voi oggi, probabilmente, spero, trovando minori difficoltà a farmi comprendere rispetto al confronto con il mio amico il quale si palesa come un puro razionalista.

Se facciamo riferimento al passo di Giacomo che abbiamo sentito, potremmo assimilare la fede all’essere, in quanto la fede per la quale saremo salvati non è “visibile”. Eppure noi, da rigorosi riformati, diciamo a gran voce che la nostra giustificazione davanti a Dio avverrà per sola fede e non certo per il concorso delle nostre opere.

Ma cosa significa “giustificazione”? Cosa intendiamo quando diciamo che con la venuta del Signore Gesù, con il suo sacrificio per noi, siamo stati chiamati a giustificazione?

Significa che, a causa della nostra situazione di costante peccato nella quale viviamo, a prescindere dalle migliori intenzioni di condurci solidalmente e fraternamente nell’esistenza, siamo avvolti dai nostri piccoli e grandi egoismi, privilegiamo la nostra individualità, siamo poco o per nulla disponibili a dividere ciò che abbiamo e ciò che siamo con gli altri, con TUTTI gli altri (e non solo con coloro che ci piacciono); insomma, nonostante tutte le nostre migliori intenzioni, non siamo in grado di percorrere le vie dell’amore e così è che ci conduciamo nella vita in maniera assolutamente infedele agli insegnamenti di Dio, non riusciamo a rispettare la legge di Dio, la quale viene trasgredita in toto anche se non ne viene rispettata solo una parte.

Probabilmente fra noi non c’è chi ha ucciso, ma come ce la caviamo quando si parla di “non desiderare cosa alcuna del tuo prossimo”? Oppure come abbiamo risposto nella nostra vita a “onora il padre e la madre”? E ancora, come abbiamo risposto al comandamento “non rubare”, se per rubare non si intende soltanto rapinare un’altra persona delle sue cose, ma si intende anche ingannare l’altro per il proprio tornaconto, o trarre profitto dallo sfruttamento delle energie lavorative di altri? Ma ancora, come rispondiamo nella nostra vita al dettato “non avrai altri dei all’infuori di me” se facciamo una riflessione sui vari idoli che riusciamo a costruirci: denaro, carriera, prestigio? Non sono questi idoli del tutto simili al vitello d’oro?

Ecco allora che abbiamo assoluto bisogno della giustificazione per presentarci davanti al nostro Signore, perché, per quanto facciamo, la nostra vita testimonia contro di noi, trasgressori della legge divina.

È questa la giustificazione che noi diciamo si attua concretamente in una persona già nel momento in cui crede, cioè quando pone la sua fiducia in Cristo e nell’amore di Dio.

Una giustificazione del tutto incondizionata. L’uomo non deve fare nulla, deve “semplicemente” affidarsi a Dio, credere ciecamente in Lui, accettarne completamente l’opera sua, anche quando può diventare incomprensibile.

Su questo penso che, da credenti, possiamo essere d’accordo, però non possiamo certo relegare comodamente il tutto ad un sentimento, ad un convincimento sulla bontà dell’opera di Dio. Sarebbe troppo, troppo comodo!

Un approccio del genere giustificherebbe quanti magari possono dire “per voi protestanti è tutto più facile, perché basta avere fede e non tenete conto delle opere” (e vi garantisco che me lo sono sentita dire più di una volta).

Non è così, ovviamente.

Le opere sono molto importanti, sono assolutamente essenziali nella vita del cristiano.  E lo sono semplicemente perché il nostro operare testimonia ciò che siamo e ciò in cui crediamo. Giacomo è chiarissimo su questo: non ci può essere fede senza opere, perché il nostro “fare” discende da ciò noi siamo, dai convincimenti esistenziali che nutriamo, dall’idea di vita che abbiamo.

Le nostre opere testimoniano come noi intendiamo l’amore, come noi intendiamo la fratellanza, come noi interpretiamo i rapporti interpersonali, come noi vogliamo condurci nella vita.  Il nostro operare discende direttamente dal nostro essere, è lo specchio di ciò in cui diciamo di credere.

Ecco perché le opere sono importanti e lo sono soprattutto per coloro che dicono di credere nel Dio dell’amore.

Tutto ciò però nulla a che vedere con un nostro concorso in merito alla giustificazione, ma deve rimanerci come una costante spina nel fianco per interrogarci continuamente sul nostro modo di condurci nella vita.

Non c’è una bilancia sul piatto della quale al peso della fede si somma il peso delle opere per raggiugere l’obiettivo della salvezza al cospetto di Dio!  E, tra l’altro, ancorché questa bilancia esistesse, vorrei vedere come ce la caveremmo se, per equità, sull’altro piatto venissero pesate tutte le opere mancate, tutte le nostre trasgressioni, tutte le nostre infedeltà al messaggio dell’amore, tutte le nostre iniquità, tutte le nostre mancanze di carità. Una bilancia del genere, se esistesse, non ho dubbio da che parte penderebbe.

Ecco perché, nella nostra assoluta situazione di peccato, possiamo affidarci solamente alla benevolenza di Dio che, nel suo figliolo Gesù Cristo, ha già provveduto per noi, affinché possiamo presentarci al suo cospetto come esseri ingiusti quali siamo, ma giustificati per il sacrificio della croce.

Ciò non vuol dire che ci sia una taratura fra fede e opere, ma, più semplicemente c’è un unico peso: quello della fede, il dono che ci è stato fatto gratuitamente e che decidiamo di accogliere o rifiutare nella nostra assoluta libertà; ma una fede che deve essere palesata, deve trovare dimostrazione nelle nostre opere, in ciò che facciamo proprio in nome della fede che diciamo di avere.

Che il Signore ci aiuti a proclamare al mondo la buona novella anche mediante il nostro operare, affinché la nostra fede non rimanga uno sterile pronunciamento.

AMEN!

Liviana Maggiore