Sermone: NELLA DISPERAZIONE

Lamentazioni 3,1-40

Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione sotto la verga del suo furore. Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Sì, contro di me di nuovo volge la sua mano tutto il giorno. Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha spezzato le mie ossa. Ha costruito contro di me e mi ha circondato di veleno e di affanno. Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come quelli che sono morti da lungo tempo. Mi ha circondato di un muro, perché non esca; mi ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido e chiamo aiuto, egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli mi ha sbarrato la via con blocchi di pietra, ha sconvolto i miei sentieri. È stato per me come un orso in agguato, come un leone in luoghi nascosti. Mi ha sviato dal mio cammino, e mi ha squarciato, mi ha reso desolato. Ha teso il suo arco, mi ha posto come bersaglio delle sue frecce. Mi ha fatto penetrare nelle reni le frecce della sua faretra. Io sono diventato lo scherno di tutto il mio popolo, la sua canzone di tutto il giorno. Egli mi ha saziato d’amarezza, mi ha abbeverato d’assenzio. Mi ha spezzato i denti con la ghiaia, mi ha affondato nella cenere. Tu mi hai allontanato dalla pace, io ho dimenticato il benessere. Io ho detto: «È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!»

Ricòrdati della mia afflizione, della mia vita raminga, dell’assenzio e del veleno! Io me ne ricordo sempre, e ne sono intimamente prostrato. Ecco ciò che voglio richiamare alla mente, ciò che mi fa sperare: è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite; si rinnovano ogni mattina.

Grande è la tua fedeltà! «Il Signore è la mia parte», io dico, «perciò spererò in lui». Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore. È bene per l’uomo portare il giogo della sua giovinezza. Si sieda solitario e stia in silenzio quando il Signore glielo impone! Metta la sua bocca nella polvere! Forse c’è ancora speranza. Porga la guancia a chi lo percuote, si sazi pure di offese! Il Signore infatti non respinge per sempre; ma, se affligge, ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà; poiché non è volentieri che egli umilia e affligge i figli dell’uomo.

Quando uno schiaccia sotto i piedi tutti i prigionieri della terra, quando uno vìola i diritti di un uomo in presenza dell’Altissimo, quando si fa torto a qualcuno nella sua causa, il Signore non lo vede forse? Chi mai dice una cosa che si avveri, se il Signore non l’ha comandato? Il male e il bene non procedono forse dalla bocca dell’Altissimo? Perché si rammarica la creatura vivente? L’uomo vive malgrado i suoi peccati!

Esaminiamo la nostra condotta, valutiamola, e torniamo al Signore!

 

Strano il libro delle Lamentazioni e forse poco frequentato. Eppure, se lo leggiamo, troviamo in esso molto di noi stessi, molte nostre emozioni, molti nostri pensieri. In questo passo mi sono sentita coinvolgere da sensazioni che spesso ho provato, sentimenti che forse non dovrebbero sfiorare la mente di un credente, ma che pure ci sono e che quindi devono essere presi in mano e fatti oggetto di riflessione.

Quella che abbiamo letto è la terza Lamentazione, diversa dalle altre quattro che compongono con lei il breve libro dell’antico testamento. Già la denominazione “Lamentazioni” ci fa capire che potremmo trovare in questo libro parole di sconforto, espressioni di dolore, infatti possiamo leggere tutto lo strazio dei sopravvissuti alla distruzione del tempio e alla devastazione di Gerusalemme.

Potremmo dire che quelle sono lamentazioni “pubbliche”, di tutto un popolo che soffre per la distruzione della città simbolo di Israele, mentre quella che abbiamo letto per la meditazione di oggi è invece “privata”, o meglio individuale.

Perché “privata”?  Abbiamo sentito che inizia con “Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione…”; è il lamento di una singola persona che guarda essenzialmente al proprio dolore.

Il lamento di un singolo inserito nel cuore della disperazione collettiva, infatti delle cinque lamentazioni questa è la terza, la centrale. E questo probabilmente non è un caso, perché denota che, anche nel cordoglio collettivo, nella sofferenza contemporanea di migliaia di persone, ognuno porta il peso del proprio dolore individuale, un dolore unico e diverso.

Ancor oggi facciamo questa esperienza, quando nei disastri collettivi oppure negli sconvolgimenti di intere popolazioni per guerre e fame, sentiamo il dolore dei singoli individui che parlano della loro individuale disperazione perché hanno perso tutto oppure perché raccontano le loro sofferenti esperienze di vita.

E nello strazio individuale noi che ascoltiamo scorgiamo la sofferenza di interi gruppi o di intere popolazioni, ben sapendo che non vale comunque a nulla il vecchio adagio “mal comune mezzo gaudio”, perché nello sgomento di un singolo individuo, nella sua sofferenza, possiamo vedere troppo spesso il dolore di interi gruppi o addirittura di intere popolazioni.

Allora, vediamo cosa dice del suo strazio personale (che è l’eco dello strazio del suo popolo) quest’ebreo di ventisette secoli fa.

L’avvio del passo biblico è subito incisivo e toccante: “Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione”. Un uomo, una persona che ha sofferto nel corpo e nello spirito, un uomo il cui dolore arriva alla disperazione, perché conosce anche troppo bene la causa della sua sofferenza, e il suo sgomento è grande perché l’afflizione è causata dalla “verga del suo furore”.

Il “suo” furore. Ma allora quest’uomo sa bene che c’è un responsabile per tanto dolore! E questo responsabile per l’uomo ha un nome ben preciso: è Dio!

Le immagini riportate nelle descrizioni di tanta sofferenza cercano di esprimere ciò che non è descrivibile perché il dolore è così immenso che qualsiasi parola non riesce a comunicarlo. Meglio quindi cercare di addossare la colpa dello strazio a questo Iddio che, nella visione del sofferente, è stato l’artefice di un simile disastro: “Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Sì, contro di me di nuovo volge la sua mano tutto il giorno. Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha spezzato le mie ossa. Ha costruito contro di me e mi ha circondato di veleno e di affanno. Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come quelli che sono morti da lungo tempo. Mi ha circondato di un muro, perché non esca; mi ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido e chiamo aiuto, egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli mi ha sbarrato la via con blocchi di pietra, ha sconvolto i miei sentieri. È stato per me come un orso in agguato, come un leone in luoghi nascosti. Mi ha sviato dal mio cammino, e mi ha squarciato, mi ha reso desolato. Ha teso il suo arco, mi ha posto come bersaglio delle sue frecce. Mi ha fatto penetrare nelle reni le frecce della sua faretra”.

A ben pensarci sono immagini cruente, che toccano il cuore, che danno l’idea che quest’uomo non sa più chi è e si sente come fosse strappato via da sé stesso, completamente smarrito, come fosse condannato a non vedere più alcuna luce e speranza nella propria vita, in un completo disfacimento spirituale e fisico.

Questa è la disperazione di un uomo che si sente preda di un nemico che lo assedia e lo insegue, proprio come coloro che in Gerusalemme si sentivano tutti preda dei Caldei, prigionieri in una città affamata e assediata dal nemico.

E tutto questo è opera di Dio! Di quel Dio che ha permesso che la sua città venga distrutta, che il suo tempio devastato, che il suo popolo affamato e ucciso.

Ed è un Dio che non puoi dimenticare, anche se lo vorresti, perché lui non ti lascia, non si dimentica di te, ma ti afferra, ti stringe, ti blocca rendendoti prigioniero addirittura costruendo un muro, lasciandoti solo nella tua disperazione, un Dio perfino sanguinario e feroce, come un “orso in agguato” e “un leone” che s’appiatta nei nascondigli, pronto a balzarti addosso per sbranarti.

E sei sempre più solo. Sei tu con la tua disperazione. Sei tu col tuo dolore. Sei tu con la tua incapacità di muoverti, perfino di scappare, di reagire.

Capiamo noi quest’uomo? Credo proprio di sì, perché sono convinta che ognuno di noi abbia provato nella vita dolori forti, sgomento totale, perdita di ogni speranza e incapacità di credere che qualcosa possa cambiare. Se non lo abbiamo provato, possiamo ritenerci soddisfatti oppure possiamo forse pensare di aver guardato ai nostri accadimenti di vita con una certa superficialità, forse.

Quando sei nell’assoluta disperazione, quando ti senti solo attanagliato dall’angoscia e dal dolore, ti coglie la solitudine esistenziale, credi che nessuno possa percepire ciò che provi e magari ti lasci andare, cadi nello sfinimento completo, in quella situazione dove perfino il lamento si fa sempre più fievole, dove il pianto prende il sopravvento, un pianto che diventa quasi un monologo triste appena sussurrato, rivolto solo a noi stessi.

Così accade anche al nostro protagonista che dice: “È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!”

Ed ecco che, proprio quando la fine è ormai solo ad un passo, d’improvviso tutto cambia. Quest’uomo per la prima volta pronuncia il nome di Dio, anche se lo pronuncia dicendo che non ha più fiducia in lui.

Ma così dicendo, gli capita come a chi ha deciso di lasciare una persona amata e che però poi guarda per caso una sua fotografia, e capisce che non la può lasciare, perché magari ne è ancora innamorato/a.

Non è un esempio banale, perché il nome, nella Bibbia, è veramente come la foto di chi lo porta: ci permette di coglierne i lineamenti, il sorriso, lo sguardo, la sua essenza.  E questo vale anche per il nome di Dio; per questo devi stare molto attento a pronunciarlo, a non dirlo invano, come sta scritto nella legge.

E il nostro autore della Lamentazione dice quel nome fino ad allora taciuto e si scopre ancora “innamorato perso” di colui che lo porta, “innamorato perso del suo Dio… e non soltanto questo: lui, in quel suo nome ancora amato nonostante tutto, coglie chi davvero sia il Signore, per il suo popolo ma soprattutto per lui: è il Dio sempre fedele e che c’è sempre, come colui che – sono le parole del profeta Osea, che forse a questo punto son risalite nella mente e nel cuore di questo antico figlio di Israele – “se ferisce, risana; se colpisce, anche guarisce” … colui che “ti ridà quella vita” che tu già pensavi di aver perso proprio per causa sua (cfr Osea 6,1 s.).

E allora veramente tutto cambia: quel Dio che prima era come un “orso” e un “leone”, adesso è nuovamente il Dio dell’Alleanza, è il tuo Dio, il Signore del dono e della grazia, che ha scelto Israele come suo, e che dentro Israele ha scelto te, ed è con te e per te, in ogni istante della tua esistenza.

Ecco allora la nuova “ripartenza”, la speranza che torna ad illuminarsi, la voce che s’innalza limpida e gioiosa: ”Ecco ciò che voglio richiamare alla mente, ciò che mi fa sperare: è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite; si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà! «Il Signore è la mia parte», io dico, «per questo spero in lui». Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca.”

E quando la voce torna a farsi limpida, anche la mente si fa di nuovo lucida ed ecco allora che l’uomo che ha scritto questo canto, va avanti ad indagare nel mistero della sofferenza, ne scopre tutti gli aspetti insospettati e, un poco, anche le cause. E sebbene abbia espresso, fino ad un momento prima, tutto il suo orrore per quello che soffriva e ancora soffre, ora non ha paura a penetrare più a fondo nell’abisso, perché sa che così – e soltanto così – potrà risentire in sé stesso la capacità di ritornare a Dio e riamarlo, nonostante le sue quotidiane percosse dolorose.

Guardiamo, sorelle e fratelli, con attenzione e disponibilità di comprensione alla vicenda personale dell’autore della terza Lamentazione, alla sua riscoperta di Dio nata dall’aver pronunciato il suo nome e notiamo come, nella seconda parte di questo canto, il nome del “Signore”, che nella prima parte non era mai stato nominato, torni continuamente, quasi che, riscoperto, l’autore s’incanti a pronunciarlo, per provare (ogni volta e ogni volta di nuovo) la gioia che ha sentito quella prima volta che se l’è trovato sulle labbra.

Per molti aspetti anche noi oggi siamo in crisi ed anche oggi abbiamo bisogno di riflettere su queste parole. Per rinnovare la nostra speranza, ma soprattutto, per riscoprire lui, per riscoprire chi davvero è il nostro Dio, nella sua grandezza e anche perfino nella sua fragilità, nella sua vulnerabilità.

Già, quella vulnerabilità di chi ama e per amore espone e mette in gioco tutto sé stesso. Quella vulnerabilità che abbiamo visto in Gesù, nella sua morte per la nostra salvezza, nella sua passione per il nostro riscatto, nella sua delusione per essere stato molte volte incompreso perfino dai suoi, nel suo sforzo di farsi sentire da noi, sordi e distratti, spesso chiusi nei nostri piccoli e grandi dolori che ci rendono sordi alla voce della speranza, ci fanno concentrare solo sui nostri problemi, dimenticando spesso che, se smettiamo di guardare al nostro ombelico, potremo forse vivere un po’ meglio anche nelle nostre sofferenze e potremo imparare a “com-patire” con il nostro prossimo.  E potremo allora esclamare tutti insieme, con meraviglia e con riconoscenza: ”Il Signore è dalla mia parte, per questo spero in lui”.

AMEN

Liviana Maggiore

 

Sermone: EDE E OPERE (ESSERE E FARE)

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno abiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro ciò che è necessario al corpo, a che serve? Allo stesso modo è la fede: se non ha opere, è per sé stessa morta.  Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».  Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demoni lo credono e tremano.  Insensato! Vuoi renderti conto che la fede senza le opere non ha valore?  (Giac 2,14-20)

Poco tempo fa un amico che ama leggere i miei numerosi scritti (quelli che definisco impietosamente i miei “sproloqui”) mi diceva che da essi traspare una chiara visione esistenzialista, un modo di approcciare la vita sulla fondamentale differenza tra “essere” e “avere” di frommiana memoria, potremmo anche dire più intuitivamente di una differenza tra “essere” e “fare”.

Su questo si è aperta una piacevolissima conversazione e ne sono scaturite alcune considerazioni che vorrei condividere con voi oggi, probabilmente, spero, trovando minori difficoltà a farmi comprendere rispetto al confronto con il mio amico il quale si palesa come un puro razionalista.

Se facciamo riferimento al passo di Giacomo che abbiamo sentito, potremmo assimilare la fede all’essere, in quanto la fede per la quale saremo salvati non è “visibile”. Eppure noi, da rigorosi riformati, diciamo a gran voce che la nostra giustificazione davanti a Dio avverrà per sola fede e non certo per il concorso delle nostre opere.

Ma cosa significa “giustificazione”? Cosa intendiamo quando diciamo che con la venuta del Signore Gesù, con il suo sacrificio per noi, siamo stati chiamati a giustificazione?

Significa che, a causa della nostra situazione di costante peccato nella quale viviamo, a prescindere dalle migliori intenzioni di condurci solidalmente e fraternamente nell’esistenza, siamo avvolti dai nostri piccoli e grandi egoismi, privilegiamo la nostra individualità, siamo poco o per nulla disponibili a dividere ciò che abbiamo e ciò che siamo con gli altri, con TUTTI gli altri (e non solo con coloro che ci piacciono); insomma, nonostante tutte le nostre migliori intenzioni, non siamo in grado di percorrere le vie dell’amore e così è che ci conduciamo nella vita in maniera assolutamente infedele agli insegnamenti di Dio, non riusciamo a rispettare la legge di Dio, la quale viene trasgredita in toto anche se non ne viene rispettata solo una parte.

Probabilmente fra noi non c’è chi ha ucciso, ma come ce la caviamo quando si parla di “non desiderare cosa alcuna del tuo prossimo”? Oppure come abbiamo risposto nella nostra vita a “onora il padre e la madre”? E ancora, come abbiamo risposto al comandamento “non rubare”, se per rubare non si intende soltanto rapinare un’altra persona delle sue cose, ma si intende anche ingannare l’altro per il proprio tornaconto, o trarre profitto dallo sfruttamento delle energie lavorative di altri? Ma ancora, come rispondiamo nella nostra vita al dettato “non avrai altri dei all’infuori di me” se facciamo una riflessione sui vari idoli che riusciamo a costruirci: denaro, carriera, prestigio? Non sono questi idoli del tutto simili al vitello d’oro?

Ecco allora che abbiamo assoluto bisogno della giustificazione per presentarci davanti al nostro Signore, perché, per quanto facciamo, la nostra vita testimonia contro di noi, trasgressori della legge divina.

È questa la giustificazione che noi diciamo si attua concretamente in una persona già nel momento in cui crede, cioè quando pone la sua fiducia in Cristo e nell’amore di Dio.

Una giustificazione del tutto incondizionata. L’uomo non deve fare nulla, deve “semplicemente” affidarsi a Dio, credere ciecamente in Lui, accettarne completamente l’opera sua, anche quando può diventare incomprensibile.

Su questo penso che, da credenti, possiamo essere d’accordo, però non possiamo certo relegare comodamente il tutto ad un sentimento, ad un convincimento sulla bontà dell’opera di Dio. Sarebbe troppo, troppo comodo!

Un approccio del genere giustificherebbe quanti magari possono dire “per voi protestanti è tutto più facile, perché basta avere fede e non tenete conto delle opere” (e vi garantisco che me lo sono sentita dire più di una volta).

Non è così, ovviamente.

Le opere sono molto importanti, sono assolutamente essenziali nella vita del cristiano.  E lo sono semplicemente perché il nostro operare testimonia ciò che siamo e ciò in cui crediamo. Giacomo è chiarissimo su questo: non ci può essere fede senza opere, perché il nostro “fare” discende da ciò noi siamo, dai convincimenti esistenziali che nutriamo, dall’idea di vita che abbiamo.

Le nostre opere testimoniano come noi intendiamo l’amore, come noi intendiamo la fratellanza, come noi interpretiamo i rapporti interpersonali, come noi vogliamo condurci nella vita.  Il nostro operare discende direttamente dal nostro essere, è lo specchio di ciò in cui diciamo di credere.

Ecco perché le opere sono importanti e lo sono soprattutto per coloro che dicono di credere nel Dio dell’amore.

Tutto ciò però nulla a che vedere con un nostro concorso in merito alla giustificazione, ma deve rimanerci come una costante spina nel fianco per interrogarci continuamente sul nostro modo di condurci nella vita.

Non c’è una bilancia sul piatto della quale al peso della fede si somma il peso delle opere per raggiugere l’obiettivo della salvezza al cospetto di Dio!  E, tra l’altro, ancorché questa bilancia esistesse, vorrei vedere come ce la caveremmo se, per equità, sull’altro piatto venissero pesate tutte le opere mancate, tutte le nostre trasgressioni, tutte le nostre infedeltà al messaggio dell’amore, tutte le nostre iniquità, tutte le nostre mancanze di carità. Una bilancia del genere, se esistesse, non ho dubbio da che parte penderebbe.

Ecco perché, nella nostra assoluta situazione di peccato, possiamo affidarci solamente alla benevolenza di Dio che, nel suo figliolo Gesù Cristo, ha già provveduto per noi, affinché possiamo presentarci al suo cospetto come esseri ingiusti quali siamo, ma giustificati per il sacrificio della croce.

Ciò non vuol dire che ci sia una taratura fra fede e opere, ma, più semplicemente c’è un unico peso: quello della fede, il dono che ci è stato fatto gratuitamente e che decidiamo di accogliere o rifiutare nella nostra assoluta libertà; ma una fede che deve essere palesata, deve trovare dimostrazione nelle nostre opere, in ciò che facciamo proprio in nome della fede che diciamo di avere.

Che il Signore ci aiuti a proclamare al mondo la buona novella anche mediante il nostro operare, affinché la nostra fede non rimanga uno sterile pronunciamento.

AMEN!

Liviana Maggiore

Sermone: LA CONVERSIONE DI SAULO

La conversione di Saulo è così importante per Luca che la racconta tre volte nel libro degli Atti: al capitolo 9, che adesso leggerò, e con lievi differenze, al capitolo 22 e poi al capitolo 26.

Leggo al capitolo 9, i versetti dal 1 al 22:

“Saulo, sempre spirante minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote, e gli chiese delle lettere per le sinagoghe di Damasco affinché, se avesse trovato dei seguaci della Via, uomini e donne, li potesse condurre legati a Gerusalemme. E durante il viaggio, mentre si avvicinava a Damasco, avvenne che, d’improvviso, sfolgorò intorno a lui una luce dal cielo e, caduto in terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Egli domandò: «Chi sei, Signore?» E il Signore: «Io sono Gesù, che tu perseguiti. Àlzati, entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il viaggio con lui rimasero stupiti, perché udivano la voce, ma non vedevano nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla; e quelli, conducendolo per mano, lo portarono a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda. Or a Damasco c’era un discepolo di nome Anania; e il Signore gli disse in visione: «Anania!» Egli rispose: «Eccomi, Signore». E il Signore a lui: «Àlzati, va’ nella strada chiamata Diritta, e cerca in casa di Giuda uno di Tarso chiamato Saulo; poiché ecco, egli è in preghiera, e ha visto in visione un uomo, chiamato Anania, entrare e imporgli le mani perché ricuperi la vista». Ma Anania rispose: «Signore, ho sentito dire da molti di quest’uomo quanto male abbia fatto ai tuoi santi in Gerusalemme. E qui ha ricevuto autorità dai capi dei sacerdoti per incatenare tutti coloro che invocano il tuo nome». Ma il Signore gli disse: «Va’, perché egli è uno strumento che ho scelto per portare il mio nome davanti ai popoli, ai re, e ai figli d’Israele; perché io gli mostrerò quanto debba soffrire per il mio nome». Allora Anania andò, entrò in quella casa, gli impose le mani e disse: «Fratello Saulo, il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada per la quale venivi, mi ha mandato perché tu riacquisti la vista e sia riempito di Spirito Santo». In quell’istante gli caddero dagli occhi come delle squame, e ricuperò la vista; poi, alzatosi, fu battezzato. E, dopo aver preso cibo, gli ritornarono le forze. Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, e si mise subito a predicare nelle sinagoghe che Gesù è il Figlio di Dio. Tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua con lo scopo di condurli incatenati ai capi dei sacerdoti?» Ma Saulo si fortificava sempre di più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo”.

Perché è così importante la conversione di Paolo? Essenzialmente per due motivi. Il primo è che, con questa conversione il più accanito avversario di Gesù diventa il suo più zelante missionario. Per questo Lutero chiama questa conversione “il capolavoro di Dio”. Se infatti Dio è riuscito a convertire questo suo acerrimo nemico, chi potrà resistere alla sua chiamata? Se neanche Saulo ha potuto resistere – lui che era così agguerrito – vuol dire che Dio, alla fine, vince ogni resistenza. Il secondo motivo per cui Luca racconta tre volte questa conversione è naturalmente l’importanza di questo 13° apostolo il quale, benché probabilmente non abbia mai incontrato il Gesù storico e si consideri il “minimo degli apostoli”, è stato in realtà il più grande di tutti, sia come teologo, sia come missionario. Paolo è stato il discepolo più fedele di Gesù, quello che lo ha capito e servito meglio degli altri.

Vale la pena di notare che il racconto della conversione di Paolo è di Luca – anche quando lo mette in bocca a Paolo, come accade in Atti 22 e 26, che non ho letto – e non di Paolo. Paolo non parla mai, nelle sue lettere, dell’esperienza di Damasco e allude alla sua conversione, che ha coinciso con la sua chiamata, in termini molto sobri, quasi con pudore. Nel primo capitolo della lettera ai Galati, al capitolo 1, Paolo dice che Dio, che lo aveva prescelto fin dal seno di sua madre, “si compiacque di rivelare in me il Figlio suo”. Non parla dunque di una apparizione, ma di una rivelazione interiore (“in me”). Al capitolo 4 della lettera ai Corinzi c’è un altro possibile riferimento all’esperienza di Damasco, ma anche qui in termini di rivelazione interiore più che di apparizione esteriore: “Il Dio che disse: “Splenda la luce nelle tenebre” è quello che risplende nei nostri cuori, affinché noi facessimo brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio, che rifulge nel volto di Gesù Cristo”. Paolo comunque non sbandiera la sua esperienza, non la esibisce. C’è qualche volta nella chiesa un certo esibizionismo spirituale, che Paolo non pratica. Egli si limita a dire l’essenziale: Dio, o Cristo, sono entrati nella sua vita portandovi una luce che prima non c’era.

La cosa più bella di tutto il racconto è che Dio non fulmina questo nemico suo e della chiesa, non lo punisce, non lo condanna, non lo scomunica, ma al contrario gli parla, lo chiama per nome, lo converte e convertendolo, lo arruola al suo servizio. A ben guardare, questo modo di procedere di Dio è un paradigma di tutta la sua azione verso l’umanità. Siamo un po’ tutti come Saulo, forse non così accaniti e violenti come lui, ma anche noi, sotto sotto, siamo per natura nemici, increduli e ribelli; e invece, di fronte a questa durezza, giunge dal cielo una voce che ci chiama per nome e ci invita a cambiare vita, a scoprire che se siamo nemici di Dio, Dio non è nostro nemico, e che se siamo indifferenti verso Dio, egli non è indifferente verso di noi; al contrario non si stanca di cercarci e di parlarci. Così questa conversione di Saulo è, da un lato, un evento assolutamente unico ed eccezionale (e la sua eccezionalità appare dal fatto che Gesù in persona entra in scena – questo non accade per nessun’altra conversione nel Nuovo Testamento), ma dall’altro è uno specchio del modo normale, abituale, quotidiano di procedere di Dio nei nostri confronti. Ogni giorno egli usa misericordia verso di noi, ogni giorno egli ci aspetta sulla via di Damasco, ogni giorno si rivolge a noi con infinita pazienza chiamandoci per nome, fiducioso che, se abbiamo fatto orecchio da mercanti, un giorno risponderemo.

La conversione è al tempo stesso chiamata al servizio di Dio: nessuna conversione è mai fine a sé stessa, ma è in funzione di una missione. Dio ci vuole convertire per affidarci un incarico, cioè in fin dei conti la conversione non è finalizzata a noi stessi, ma gli altri. Nel racconto che abbiamo letto la conversione avviene attraverso una luce ed una voce. Paolo vede la luce e ode la voce, coloro che lo accompagnano odono la voce ma non vedono la luce. Perché? Io penso perché la conversione è qualcosa di assolutamente personale: solo Paolo vede la luce perché solo Paolo viene convertito. La luce è naturalmente la classica metafora per Dio, che è luce – come si dice nella prima lettera di Giovanni; vedere la luce significa trovarsi improvvisamente, inaspettatamente, alla presenza di Dio, che qui è rappresentata da Gesù, che si rivela per quello che è: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. In effetti era così: Saulo, perseguitando i cristiani, voleva in realtà perseguitare Gesù, nel senso di cancellare il suo nome e la sua memoria. Chi perseguita il popolo di Dio, in realtà ce l’ha con Dio, non con chi crede in lui. Così si spiega (sempre che sia “spiegabile”) anche la Shoah: i nazisti volevano annientare gli ebrei perché volevano annientare il Dio biblico per sostituirlo con il loro: il Dio della razza ariana, del sangue e del suolo tedesco. Quelli che accompagnano Saulo, odono la voce, ma non la capiscono. Sono anch’essi alla presenza di Dio, ma non lo sanno. E quindi a loro non succede nulla, non sono accecati – perché non vedono la luce – non capiscono la voce – odono soltanto il suono, e non si convertono. Saulo invece sa di essere alla presenza di Dio, perciò vede la luce, non solo ode la voce, ma la capisce, e viene convertito. È questo un messaggio anche per noi? Siamo attenti la vedere la luce di Dio tra le mille luci di questo modo? Siamo attenti a cogliere la sua voce, a riconoscerla e a capirla, tra le mille voci di questo mondo?

La conversione è sempre un trauma. Una morte e una risurrezione. Nel racconto questa esperienza è simboleggiata da due segni. Il primo è l’atterramento di Saulo: Saulo cade, e in un certo senso Saulo muore; ma appunto: c’è una caduta che può essere anche un rialzamento, c’è una morte che può essere una nascita, c’è una fine che può essere un inizio. È quanto accaduto a Saulo: c’è Saulo che muore, e c’è Paolo (nome latino dell’ebraico Saulo) che nasce. Come dicevo prima, Paolo descrive così – nella lettera ai Galati – la sua ri-nascita: “«Dio mi chiamò con la sua grazia, mi scelse fin dal seno di mia madre». Prima di ogni tua scelta, tu sei la mia scelta, io ho scelto te. Prima che tu fossi, Io sono: sono con te, sono per te, sono in te. C’è una passione più grande della nostra, anche della nostra passione per Dio, e cioè la passione del Dio che fa grazia per noi. Più grande della passione dell’uomo per Dio, è la passione di Dio per l’uomo.

Il secondo segno che evidenzia questo trauma di Paolo è la cecità. Si compie la parola di Gesù, che Giovanni riporta al capitolo 9 del suo vangelo: “Io sono venuto in questo mondo per fare un giudizio, affinché quelli che non vedono, vedano, e quelli che vedono diventino ciechi”. Risultato: l’onnipotente Saulo diventa cieco, non è più in grado nemmeno di orientarsi, non vede più la via per Damasco, deve essere condotto per mano come un bambino. Così sconvolgente è l’irruzione di Dio nella nostra vita. Tutto cambia anche se apparentemente tutto continua come prima. In realtà nulla continua come prima. Cambiano i pensieri, cambiano gli amori, cambiano i sentimenti, cambiano i rapporti, cambia il linguaggio, si imparano nuove parole, se ne abbandonano delle altre. Paolo parlerà di “spazzatura” di cui si è dovuto liberare “al fine di guadagnare Cristo”, l’unica sua e nostra ricchezza.

Tre veloci osservazioni ancora sulla conversione. La prima è questa: essa dura tutta la vita. Non si finisce mai di convertirsi. Sul letto di morte il riformatore Giovanni Calvino diceva: “Ora che cominciamo a convertirci …”. La conversione è iniziare un viaggio con Dio, iniziare una sequela di Cristo che ci condurrà forse dove non volevamo e non vorremmo andare. Paolo e tanti altri come lui saranno condotti al martirio e a un destino di sofferenza, come quello di Gesù.

La seconda è che la conversione è contagiosa: in questo racconto alla conversione di Saulo fa seguito quella che possiamo chiamare la conversione di Anania. E anch’egli si converte, nel senso che diventa fratello di colui che fino a quel momento considerava (ed effettivamente era) suo irriducibile nemico. La seconda grande luce del racconto si trova quindi al versetto 17, quando Anania si rivolge a Saulo chiamandolo fratello: “Allora Anania andò, entrò in quella casa, gli impose le mani e disse: «Fratello Saulo, il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada per la quale venivi, mi ha mandato perché tu riacquisti la vista e sia riempito di Spirito Santo». Quale grande conversione c’è dietro questa parola: fratello! Quanto profondamente ci si deve convertire per chiamare “fratello” colui che prima era il grande nemico!

La terza osservazione è questa: dietro tutte le conversioni sulla terra, su tutte le vie di Damasco di questo mondo, c’è la grande conversione in cielo, quella di Dio verso di noi. È perché Dio in Cristo si è convertito a noi, ci cerca e ci chiama, che ogni tanto, su questa dura terra, accade il miracolo assoluto di una conversione dell’uomo.

Dio ci aspetta nella sua misericordia. Dio minaccia, Dio avverte, Dio chiama, Dio prega. Così con Paolo, come abbiamo letto al versetto 4: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Spesso penso che siamo noi a pregare Dio: ma quante volte è Lui che ci prega nella Bibbia! Provate a leggerla per vedere quante volte Dio prega noi: prega più Lui noi, che noi Lui. La realtà più profonda è questa: conversione di fronte a un Dio che è sempre pronto a convertirsi, mentre noi no.

E’ per questo che nei Salmi del dopo esilio, si ha la coscienza che se è vero che l’uomo è capace di conversione, prima di tutto Dio è capace di conversione, Dio si converte dal male che ha minacciato di fare. Ricordate il libretto di Giona: “Dio si convertì dal male che aveva minacciato su Ninive”.

Oppure il Salmo 126, che al versetto 4, recita: “Convertiti Signore e noi ci convertiremo”, cioè “ritorna e noi ritorneremo”. Non è solo che Dio debba convertirci, ma in un certo senso è Lui che deve cambiare, e nella misura in cui desiste dal castigo, desiste dal male, ecco allora che Lui si converte.

In tutto questo i rabbini ebrei hanno detto, con il loro modo arguto, che in Dio che c’è una grande incoerenza: Dio minaccia il male e non lo fa mai. E’ il paradosso misterioso della fede ebraica e ce lo dice il messaggio dei profeti: colui che è onnipotente e onnisciente, poi cambia in una parola quello che ormai ha deciso. Insomma la conversione diventa davvero una forza potente, efficace, sia la conversione di Dio che la conversione del peccatore. Dio abbandona la collera, dimentica la giustizia punitiva, incoraggia il peccatore a pentirsi e a tornare; e analogamente il peccatore interrompe il cammino del male, va verso Dio e ha la forza in qualche modo di chiedere a Dio a fargli misericordia.

Io credo che in fondo Gesù sia venuto ad insegnarci questo, con le sue parole e le sue azioni: Dio si è convertito, ci ha fatto grazia, e in questa conversione ci mostra il suo amore. A noi, che accogliamo questo dono, spetta incamminarci verso di Lui e convertirci alla sua chiamata. Dio lo voglia per tutti noi.  AMEN

Fabio Barzon

News: IN RICORDO DI PAOLO TEOFILO ANGELERI

Martedì 18 settembre abbiamo dato l’ultimo saluto al fratello Paolo Teofilo Angeleri. Nel corso del servizio funebre il nipote Alberto Bragaglia lo ha ricordato con parole che hanno coinvolto tutti e che meritano di essere pubblicate per coloro che non erano presenti al culto.

Ciao Paolo: e ora che si fa? Era diventato difficile comunicare con te da tempo. Ma la memoria, quella continua ad aiutarci nel ricordo di quanto ci ha donato e di quanto abbiamo fatto insieme.

Paolo di Lidia (così lo distinguevamo in famiglia, dall’altro Paolo Angeleri, il cognato) ha avuto non una, ma tante vite: vivaci, ricche, anche complicate. Io ringrazio il Signore per averne potute incrociare più di qualcuna in questi anni.

Un toscano anomalo, nato in provincia di Potenza, cresciuto ad Arezzo, città che lo ha formato e che sentiva come propria, pur con il distacco di chi, in ogni parte del mondo sia stato, ha sempre cercato di coglierne le caratteristiche positive e negative con mente aperta e di stabilire relazioni fruttuose. Brillante e anticonformista, membro di una famiglia molto stimolante, anche dal punto di vista religioso, con la sua appartenenza all’alveo della chiesa dei Fratelli, anche se poi c’era stato un progressivo distacco. E poi gli inizi come insegnante, le esperienze all’estero fino alla definitiva scelta della carriera che lo ha portato letteralmente a girare il mondo e a farlo girare ai suoi famigliari.

Episodi, esperienze di cui lui mi aveva parlato in modo diretto, ma anche indiretto, per aneddoti e indizi, soprattutto quando il riferimento era a situazioni complicate. Perché Paolo amava raccontare, ma amava anche lasciare indizi, tracce da ricostruire o smontare per ricominciare a raccontare, scegliendo un’altra angolazione. Lettore instancabile, era sempre disponibile a capire se ci potesse essere un punto di vista diverso per riprendere a filosofare sulle cose; ovvero a trovare nuovi fili per il discorso, nuove ragioni per guardare avanti, dopo aver raccontato quel che era già alle nostre spalle. Caparbio ed estroso, a volte era faticoso seguirlo nei suoi pensieri. A volte però era lineare in modo disarmante. Spesso sorprendente, mai banale. Aperto al nuovo, tanto da accogliere in modo entusiastico, le prime macchine dedicate alla scrittura digitale, chiamate ironicamente “abulafia”, citando Umberto Eco, conosciuto e frequentato a lungo.

Questo è il Paolo che credo fosse ben conosciuto anche in questa comunità. Arrivato nella seconda metà degli anni Ottanta, quando decise di stabilirsi a Padova con Lidia da fresco pensionato, entrò a far parte anche della locale chiesa metodista. Formazione classica, grande cultura, decise di rimettersi in gioco, iscrivendosi al diploma di teologia. Un passatempo, per lui, che noi abbiamo potuto apprezzare nelle sue prediche e nei suoi studi biblici, trascinanti, originali, coinvolgenti. Per me erano anni particolari: anni in cui cercavo di trovare la mia strada, decidere la direzione da prendere. Paolo era uno stimolo continuo, un appoggio che non voleva essere ingombrante, ma voleva essere soprattutto presente.

Fu anche cassiere in questa chiesa, con pazienza e passione. E poi collaboratore a lungo con il nostro settimanale Riforma, come qualcuno ricorderà, firmandosi Paolo T (che sta per Teofilo) Angeleri. E ad un certo punto decise anche di scrivere la storia di questa comunità: un racconto, e non una pubblicazione accademica. Paolo voleva soprattutto realizzare una narrazione di fatti e di persone controcorrente, capaci di mantenere viva e vitale una piccola testimonianza in circostanze quasi sempre ostili o comunque difficili. Una storia in cui la mia famiglia è stata immersa per varie generazioni.

Eccolo ritornare sotto un’altra angolazione, Paolo: controcorrente, allergico ad ogni dogmatismo, ma fortemente legato ad uno spiccato senso del dovere, che spesso si è accompagnato ad una tendenza eccessiva a colpevolizzarsi, come ben sa Lidia. Nel caso specifico, la storia di questa piccola minoranza era segno e monito, per uno che in gioventù aveva fatto in tempo ad unirsi alla lotta partigiana e che aveva anche avuto una breve esperienza politica. Segno e monito che aiutava a mettere in guardia dal dimenticare la coscienza per abbracciare soluzioni sin troppo facili e rassicuranti. Segno e monito per chi voleva, con umiltà e semplicità, continuare a farsi interrogare dalla Parola del Signore per dare un senso alla propria vita.

Ed ecco la capacità di ragionare, affinata per una vita e la capacità di comunicare come si fa a “ragionare”. Un altro Paolo che molti di noi hanno conosciuto era proprio quello che sapeva insegnare coinvolgendo chi lo ascoltava, con una trascinante passione nello spiegare e nell’argomentare. Ma capace di conquistare il rispetto degli interlocutori anche grazie alla capacità di ascoltare. Caratteristiche apprezzata dagli studenti, ma anche da chi è entrato in contatto con lui nel corso della sua vita professionale: scrittori, studiosi, personaggi di diversa provenienza. Non trasmetteva solo nozioni, Paolo, ma anche metodo, percorsi, tracce, indizi da collegare per poter formare ragionamenti autonomi.

E infine ecco Paolo capace di grandi entusiasmi, a volte eccessivi, che rischiavano di portarlo (e a volte lo portavano sul serio) ad altrettanto grandi delusioni. Che non sempre riusciva a esorcizzare con la consueta ironia i problemi, soprattutto fisici. Ma io voglio ricordare, perché di certo sarà una cosa che porterò sempre con me, la breve e giocosa stagione dei viaggi fatti insieme con il camper. Il camper fu una grande, seppur breve, passione di Paolo e Lidia. E dei viaggi fatti insieme a Paolo e Daniele suo figlio, io conservo un ricordo molto affettuoso. Anche perché Paolo, in quel girovagare riscopriva luoghi e situazioni già conosciuti con rinnovata curiosità e stupore.

Curiosità e voglia di scoprire, sempre in compagnia, prima di tutto di Lidia. Sempre pronto a raccogliere stimoli e indicazioni. Paolo era uomo di relazioni, di rapporti umani, di condivisione. Uomo che accoglieva con grande affetto anche gli ultimi arrivati, in famiglia o in altri contesti. Cultore di una memoria da conservare e da trasmettere, come fece fermando in vivaci racconti su carta storie di famiglia e storie raccolte in conversazioni con persone diverse. Storie di grande umanità. Storie che trovo assai coerenti con quella che credo sia una delle ultime annotazioni di Paolo sulla sua Bibbia. Aveva trascritto il versetto 7 del Salmo 121: “Il SIGNORE ti preserverà da ogni male; egli proteggerà l’anima tua”, che porta al versetto successivo: “Il SIGNORE ti proteggerà, quando esci e quando entri, ora e sempre”. Sì, il Signore ci ha protetto e ci proteggerà sempre, Paolo. A ben pensarci, questo può essere un buon punto da cui ricominciare insieme i nostri studi biblici. Che dici?

Sermone: IL CRISTIANO NON HA PAURA

Atti 12, 1-11 – Giov 11,1-3 17-27 – 2Tim 1,7-10

Cari fratelli e sorelle, i testi biblici che abbiamo appena ascoltato, ci presentano tre figure, Marta, Paolo e Pietro. Tutti sono accomunati da un’unica parola chiave: FEDE. La fede, la fiducia in Cristo Gesù nostro Signore. “Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo” dice Marta. “Ora so di sicuro che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha liberato dalla mano di Erode” dice l’apostolo Pietro. Entrambi sono forti nella loro fede perché “Dio infatti ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d’amore e di autocontrollo” ribadisce l’apostolo Paolo.

Il cristiano, quindi, cari fratelli e sorelle, non deve essere una persona timida, che si fa mettere i piedi in testa, che sta in silenzio, che subisce passivamente perché tanto è scritto “porgi l’altra guancia”. Come molta letteratura superficiale e interpretazioni, altrettanto superficiali o fuorvianti, di chi, evidentemente, non ha ben letto o compreso la Bibbia, o comunque la distorce a proprio uso e consumo, ci propone.

Il cristiano, cari fratelli e sorelle, è colui che è stato fornito da nostro Signore Gesù Cristo di uno spirito di forza, di autocontrollo. Non è un debole! Egli non ha paura della morte perché, come Marta, sa che chi crede in Gesù Cristo, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in Lui, non morirà mai. Quello stesso Gesù Cristo che, come ci ricorda l’apostolo Paolo, “ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo”.

Il cristiano non ha paura, come non ha avuto paura l’apostolo Pietro quando, svegliato dall’angelo del Signore venuto a liberarlo dalla prigione, non si è messo ad urlare terrorizzato correndo come un pazzo per la cella dove era tenuto rinchiuso, ma ha avuto fede e ha fatto, tranquillamente, ciò che l’angelo gli ordinava di fare.

Cari fratelli e sorelle, dobbiamo quindi far nostra l’esortazione di Paolo a Timoteo, rileggendo e meditando bene questa seconda lettera di cui abbiamo letto oggi alcuni versetti. Questa lettera è e deve essere uno dei manifesti della nostra fede, di quello che il Signore, se ci dichiariamo veramente cristiani, lo ripeto, se ci dichiariamo con convinzione di essere cristiani, ci chiama ad essere. Non dobbiamo vergognarci di testimoniare nostro Signore, non dobbiamo aver paura di parlare di Lui, di farlo conoscere: “non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore”. Certo, possiamo avere dei fastidi, delle noie, dobbiamo affrontare prese in giro o reazioni più o meno dure, magari non ci metteranno in carcere come gli apostoli Pietro e Paolo ma, come ho detto prima, “Dio ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d’amore e di autocontrollo”. Ne dobbiamo però essere convinti, fortemente ed intimamente convinti. Se crediamo in Lui, egli sarà con noi. In qualunque momento e situazione. E questa è parola di Dio, espressa per bocca di Suo Figlio Gesù, come riportato chiaramente nell’Evangelo di Matteo al capitolo 17, versetto 20: “In verità io vi dico: se avete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: “Passa da qui a là”, e passerà; e niente vi sarà impossibile”.

Fede, fratelli e sorelle, quella stessa fede che, da sola, ci salva. Fede che da granello di senape, deve crescere dentro di noi, deve germogliare fino a diventare pianta. Fede, questa la via per la salvezza. L’unica via per quella salvezza che ci viene non a motivo delle nostre opere, ma per volontà di Dio nostro Padre e per la grazia che ci è stata fatta in Cristo, come, per l’appunto, Paolo ricorda a Timoteo.

Ma cosa vuol dire veramente fede? Vuol dire fiducia. Ma una fiducia assoluta, senza se e senza ma. Non in una persona qualsiasi. Ma in Gesù Cristo, il figlio di Dio, mandato sulla Terra affinché la nostra salvezza fosse compiuta. Marta, la sorella di Lazzaro, non ha avuto timori: sapeva che Gesù avrebbe sicuramente resuscitato suo fratello. Neanche lei, come Pietro, si è messa a piangere e ad urlare appena lo ha visto entrare, chiedendo disperatamente a Gesù il miracolo. Sapeva bene che suo fratello sarebbe resuscitato dalla morte nell’ultimo giorno e che per qualunque cosa ella si fosse rivolta a Dio, tramite Gesù, l’avrebbe ottenuta. Neanche Paolo aveva paura quando, dal carcere, scriveva a Timoteo. Non aveva paura perché, parole sue, era “sorretto dalla potenza di Dio”. Anche Pietro, come abbiamo visto prima, era in carcere, e anche lui non ha avuto paura, non ha perso la fede. E il Signore lo ha premiato con la libertà.

Fratelli e sorelle, la parola del Signore non è facile. O meglio, è facile leggerla o ascoltarla la domenica, ma capirla e viverla veramente in tutti i momenti della nostra vita, non è assolutamente né facile né semplice. Anzi, diventa a volte imbarazzante. Diventa “pietra di scandalo”. Chi fra noi non ha mai perso la fede? Chi fra noi non ha mai avuto attimi di disperazione o si è sentito perso difronte agli avvenimenti, a volte estremamente duri e difficili, che la vita ci pone davanti? Chi non si è mai chiesto “Dio ma dove sei?”.

Dio, fratelli e sorelle, non è un padrone. E non è nemmeno un distributore automatico dove basta far entrare una monetina, schiacciare il pulsante e ritirare quello che avevamo richiesto perché ci piace. Dio è un padre. Un padre che ama profondamente i suoi figli. Tanto da incarnarsi e scendere sulla Terra in mezzo a loro per farsi crocifiggere, per soffrire con loro e per loro. Certo non lo vediamo ma Egli è qui.  Dio è qui presente. È Spirito Santo. E lo ha detto chiaramente: “io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 18.20). L’ultimo versetto dell’evangelista Matteo. Gesù lascia questo mondo, diventa puro spirito, ma ci tiene particolarmente a rassicurare i suoi discepoli e quindi anche noi. Non possiamo pertanto dirci cristiani se non gli crediamo: Egli è e sarà sempre con noi.

Abbiamo quindi fede, fidiamoci ciecamente di lui e tutto andrà per il meglio. Speranza, fratelli e sorelle. Speranza. Perché, come diceva il grande riformatore Giovanni Calvino “La speranza non è se non l’attesa delle cose che la fede ha creduto essere state veramente promesse da Dio. Così la fede crede che Dio è verace, la speranza attende che al momento opportuno egli dimostri la sua veracità. La fede crede che Dio è nostro Padre, la speranza attende che una volta sia rivelata. La fede è il fondamento sul quale la speranza s’appoggia, la speranza nutre e mantiene la fede. Infatti, come nessuno può attendere e sperar nulla da Dio, se non colui che prima di tutto avrà creduto alle sue promesse, così d’altro lato è necessario che la nostra debole fede sia sostenuta e conservata da uno sperare e attendere pazientemente”.

Lode al Signore.  AMEN

Daniele Rampazzo

News: Paolo T. Angeleri

Sabato 15 settembre ci ha lasciati per tornare fra le braccia del Padre il fratello

PAOLO T. ANGELERI

Alla moglie Lidia e a tutta la famiglia va il solidale abbraccio della comunità con la preghiera al Signore di concedere loro la forza per lenire il dolore del distacco ricordando i momenti belli passati insieme.

Il servizio funebre avrà luogo martedì 18 settembre

alle ore 11 presso la chiesa metodista di Padova – Corso Milano 6.

Sermone; LA VIA PER LA SALVEZZA

Ci sono alcuni versetti nella Bibbia che, non so per quale motivo, mi sono molto cari. Hanno per me un fascino particolare, non solo perché a volte sono poetici, o esprimono la bontà di Dio per l’uomo, per me, o per mille altri motivi. Sono frasi, come quelle che costituiscono la cosiddetta dichiarazione di fede di Simeone che fra poco leggerò, che mi accompagnano, come “lampada ai miei piedi”, mi danno pace, e mi aiutano a crescere nella fede.

Il brano si trova al capitolo 2 dell’evangelo di Luca e viene letto in chiesa, di solito, nel periodo post-natalizio. Io però ve lo propongo oggi, perché l’ho trovato di ispirazione per il tema che vorrei affrontare in questa predicazione: cosa si intende per Salvezza, che cosa è la salvezza in Cristo Gesù.

Leggo dai 25 al 32: Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest’uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d’Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto il Cristo del Signore. Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo: «Ora, o mio Signore, lascia andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».

 

Simeone ha visto la salvezza; può andare in pace, la sua speranza è stata esaudita. Ma cos’è questa salvezza, questa luce che illumina, questa gloria del suo popolo? Il tema della salvezza, così centrale nella tradizione biblica, è stato affrontato in tanti modi nella storia del protestantesimo, da Lutero ai nostri giorni. Per Lutero la salvezza si identifica con l’esperienza del perdono dei peccati e della giustificazione gratuita, immeritata e incondizionata del peccatore. Per i Puritani del Seicento la salvezza si identifica con la presa di coscienza della propria vocazione a plasmare la società secondo la volontà di Dio. Per i Metodisti del Settecento la salvezza si identifica con l’esperienza della conversione e di una consacrazione totale a Dio, con la santificazione della vita e la manifestazione di un uomo nuovo, rigenerato dalla parola di Dio. Ma salvezza è stata intesa anche come vivere con Gesù e come lui, perché Gesù è essenzialmente un Maestro, oppure, per un verso più moderno e storicizzato, la salvezza è stata intesa come la concretizzazione del regno di Dio, il suo progetto di sviluppo e crescita umana che si compie nella storia e di cui si ravvisano i segni nelle scoperte, nel progresso scientifico e nelle scienze.

Dopo le due guerre mondiali e gli orrendi crimini del Novecento, delusi da questa idea ottimistica e ingenua di progresso, l’esperienza della salvezza è tornata ad essere un concetto in cui si sottolinea la trascendenza e l’alterità di Dio, una realtà escatologica, una realtà ultima, che ci è destinata – ma che resta esterna a noi, esclusiva opera di Dio.

Per un protestante, parlare dell’idea di salvezza non può essere altro che fare un discorso biblico sulla salvezza, perché il protestantesimo non ha altro da dire e da offrire che quello che dice e offre la Bibbia.

Nella Bibbia sono molte, e molto diverse, le esperienze presentate e vissute come salvezza.

Per Abramo, e forse anche per noi, salvezza significa partire, abbandonare le proprie certezze, le proprie divinità, uscire dall’idolatria e mettersi in viaggio verso l’ignoto. Salvezza è abbandonare il noto per l’ignoto, ciò che è posseduto per ciò che è promesso, abbandonare l’idolo per cercare Dio. Una salvezza come viaggio, come itinerario, come cammino che terminerà solo in Dio; “Tu ci hai creati per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (dice Agostino).

Ma questo è solo uno dei nomi biblici della salvezza. Un altro è quello, ad esempio, che descrive l’evento fondante della coscienza religiosa di Israele: l’Esodo, la fuoriuscita non dalla propria casa, come per Abramo, ma dalla casa straniera, dall’Egitto, casa di servitù. Ed ecco allora l’altro nome, il grande nome biblico della salvezza: liberazione! Dalla terra straniera alla terra promessa, dalla dipendenza alla indipendenza, dalla alienazione alla autonomia, dalla servitù alla libertà. “Non sei più servo ma figlio, e se sei figlio sei anche erede” (scrive Paolo ai Galati), e se sei erede, sei libero! Ecco che cosa significa salvezza: significa accedere alla libertà, diventare liberi, che nella Bibbia va di pari passo con il diventare figli e figlie di Dio, tanto che – al capitolo 8 della lettera ai Romani – si parla della “gloriosa libertà dei figli di Dio”. Ma anche questo – liberazione, libertà – è solo uno dei nomi biblico della salvezza.

Nei profeti ne troviamo un altro, anch’esso fondamentale e ricorrente nella storia del popolo di Dio non solo nella Bibbia, ma anche dopo fino ai nostri giorni: questo nome è “conversione, volgersi a Dio, tornare a lui”. “Volgetevi a me e sarete salvi, paesi tutti della terra” (dice in Isaia al capitolo 45).  “O Israele, torna all’Eterno, al tuo Dio. Perché tu sei caduto per la tua iniquità. Prendete con voi delle parole e tornate all’Eterno” (dice Osea al capitolo 14). Per Abramo, salvezza significa partire, per i profeti salvezza significa tornare a Dio, guardare di nuovo nella sua direzione, volgersi a lui. Tornare a Dio, perché ce ne allontaniamo continuamente, senza neppure accorgercene, lo dimentichiamo, dimentichiamo i suoi comandamenti e le sue promesse. Tornare a Dio, perché improvvisamente ci accorgiamo di essere soli, di averlo perso di vista, ritrovare lui per ritrovare noi stessi, tornare a lui per ritrovare anche il prossimo che avevamo perso, trascurato, dimenticato. Tornare a Dio: ecco un altro grande nome biblico per indicare la salvezza.

Ed anche nel Nuovo Testamento troviamo la stessa pluralità di nomi per descrivere la salvezza. Lo stesso nome di Gesù, come sapete, significa “Dio salva”, il nome stesso lo identifica come Salvatore. Gesù è il salvatore e il racconto della sua vita è la descrizione di questa salvezza in atto, ma appunto, essa assume molti nomi diversi, proprio come nella storia e nella esperienza del popolo di Israele. Così salvezza significa per uno guarigione del corpo, per un altro guarigione della mente, per un altro è perdono dei peccati e liberazione dell’anima, per un altro è abbandonare ogni cosa e seguire Gesù, per un altro è risurrezione dei morti, per un altro è non essere lontani dal regno di Dio. Una salvezza unica, che però è espressa e vissuta in molti modi diversi. Per il pubblicano salvezza significava essere liberato dai propri peccati, per il fariseo significava essere liberato dalla propria giustizia. Un unico Salvatore, un’unica salvezza, che però assume molti nomi diversi all’interno della stessa rivelazione biblica e ancora di più all’interno dell’esperienza religiosa, tanto variegata, dell’umanità. Ma i nomi della salvezza non contraddicono la sua unicità, né contraddicono l’unicità del Salvatore. La salvezza è un nome che ne contiene molti altri.

Una delle caratteristiche salienti del ministero di Gesù è stata quella di allargare gli spazi della salvezza. Egli ha incluso tra i salvati coloro che le autorità religiose del tempo avevano escluso dalla comunità. Esempio tipico Zaccheo, il pubblicano, nella cui casa Gesù entra e dice: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”. Zaccheo era un escluso, Gesù lo include. Gli spazi della salvezza sono più ampi. Lo stesso accadrà più tardi con Paolo e le autorità di Gerusalemme che dicevano: “Per essere salvati occorre essere circoncisi”. E Paolo replica: “No, si è salvati anche senza circoncisione”. Lo stesso apostolo Pietro pensava che lo Spirito santo non sarebbe stato dato ai pagani, e invece – dopo il famoso incontro con Cornelio al capitolo 10 degli Atti degli Apostoli – ha dovuto lui stesso convertirsi e ammettere che gli spazi della salvezza sono più ampi di quelli che lui pensava. Dio è più ecumenico della Chiesa, il suo cuore è più grande di quello della chiesa.

Ma non sono solo gli spazi più ampi di quello che pensiamo; essi sono anche diversi da quello che pensiamo. La salvezza nella Bibbia è accompagnata da diverse sorprese. Molti primi saranno ultimi, molti ultimi, primi. C’é più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede che per 99 giusti che non hanno bisogno di ravvedimento. Di un pagano, un centurione romano, Gesù dice: “In nessuno in Israele ho trovato tanta fede come in questo pagano. Ora io vi dico che molti verranno da Oriente e da Occidente e si metteranno a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli”. In verità, gli spazi della salvezza sono diversi da quelli che pensiamo.

Quindi la salvezza si può esprimere in tanti modi, è oltre i nostri limitati confini e le nostre logiche. Ma la via è una: per Gesù non ci sono molte vie di salvezza, ce ne è una sola: fare la volontà di Dio. “Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. E questa volontà di Dio è ben manifestata nella predicazione e nelle opere di Gesù, per esempio nel Sermone sul monte, nelle parabole, nei miracoli, nella sua passione, morte e risurrezione. Il criterio fondamentale della salvezza, secondo Gesù, non è l’appartenenza ecclesiastica o religiosa, ma è la volontà di Dio fatta o non fatta.

E’ volontà di Dio che non si uccida, non solo con la spada, ma neppure con la parola: è volontà di Dio che si pratichi la non-violenza, che non si facciano giuramenti, che si amino persino i nemici, che non si accumulino ricchezze e non si serva Mammona anziché Dio; è volontà di Dio che si viva l’oggi con serenità, senza l’incubo per il domani; è volontà di Dio non giudicare il prossimo, non criticare la pagliuzza che c’è nell’occhio del prossimo senza scorgere la trave che c’è nel proprio; è volontà di Dio vivere secondo le Beatitudini, nutrire chi ha fame, visitare i malati e i carcerati, accogliere gli stranieri. Chi fa la volontà di Dio sarà salvato, cristiano o non cristiano che sia. Chi non fa la volontà di Dio, non sarà salvato, cristiano o non cristiano che sia.

Allora è inutile essere cristiani?

SI, se non si fa la volontà di Dio è inutile esserlo. Ma se sei cristiano e la farai, dice Gesù, sarai perfetto come è perfetto il Padre nei cieli. Ma ricordiamoci: la salvezza di Dio è più ampia, più ecumenica, diversa da come la si pensa comunemente, perché si rivolge all’uomo in quanto tale, aldilà di ogni appartenenza.

Infine: “Noi siamo salvati in speranza” dice l’apostolo Paolo, come per dire che la salvezza è data, è perfettamente compiuta per quanto riguarda l’opera di Dio, ma non ancora per quanto riguarda l’opera nostra. Difatti Paolo esorta gli abitanti di Filippi a “adoperarsi al compimento della loro salvezza con timore e tremore”; non abbiamo ancora raggiunto la “meta”, sempre per usare il vocabolario di Paolo, che dice: “Proseguo il percorso, se mai io possa afferrare il premio”. La salvezza è un cammino, un pellegrinaggio, un viaggio; noi siamo un progetto ancora incompiuto, ma siamo un progetto di Dio, per questo sappiamo che sarà portato a compimento.

“Non è ancora reso manifesto quel che saremo”, non lo sappiamo neppure noi. La salvezza è un segreto, un segreto da scoprire: io sono salvato, tu sei salvata, questo è il segreto della nostra vita. Questa certezza non è una bandiera da agitare, o un prodotto da vendere, e neppure una verità da propagandare e quasi imporre all’accettazione di tutti; no, piuttosto è una continua scoperta, un affidamento sereno, una fiducia ed un coraggio inattesi.

Nel libro dell’Apocalisse, al capitolo 2, si legge: “A chi vince io darò della manna nascosta e una piccola pietra bianca, sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve”. La salvezza è un segreto, il segreto della vita di ogni creatura umana. E questo segreto è tutto racchiuso in un nome, scritto su una piccola pietra bianca. E quando verrà l’ora della rivelazione, quando sarà tolto il velo che copre i nostri occhi e vedremo faccia a faccia, quando saranno svelati tutti i misteri e tutti i segreti, allora tutte le creature umane prenderanno in mano la loro piccola pietra bianca, e leggeranno il nome che c’è scritto sopra, e si rallegreranno perché su ogni pietra c’è scritto lo stesso nome. La salvezza è un segreto – il segreto di un nome – da scoprire e custodire per l’eternità. Dio lo voglia per tutti noi. AMEN.

Fabio Barzon

Sermone: LA LEGGE DELL’AMORE

1 Corinzi 6,9-14;18-20

Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio?

Non v’illudete: né fornicatori, né idolatri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriachi, né oltraggiatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio. Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da nulla. Le vivande sono per il ventre e il ventre è per le vivande; ma Dio distruggerà queste e quello. Il corpo però non è per la fornicazione, ma è per il Signore, e il Signore è per il corpo; Dio, come ha risuscitato il Signore, così risusciterà anche noi mediante la sua potenza. Fuggite la fornicazione. Ogni altro peccato che l’uomo commetta è fuori del corpo, ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo

 

Cari fratelli e sorelle, il testo che questa domenica “Un giorno una parola”, il nostro testo di letture bibliche quotidiane, ci propone, è un brano sicuramente non facile. Un brano che oserei definire “scomodo”, un brano che necessita di un’accurata riflessione in quanto può prestare il fianco a diverse interpretazioni. Anche molto discordanti fra loro.

Esaminiamone intanto il suo significato generale, globale. Non fermiamoci alle singole parole, per il momento. L’apostolo Paolo apre questo passo con un richiamo a quanto già mirabilmente espresso nell’Epistola ai Romani. Un richiamo ad un concetto cardine del nostro essere cristiani e cristiani protestanti nello specifico: la giustificazione per fede.

“Siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio”. Paolo quindi si ricollega, si connette ai primi versetti del quinto capitolo dell’Epistola ai Romani: “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”. Siamo stati peccatori, e lo siamo ancora (simul peccator et justus) diceva Lutero, ma ora siamo stati lavati, santificati, giustificati.

E l’apostolo Paolo inizia questo brano biblico elencando, per l’appunto, tutta una serie di peccati per arrivare alla conclusione, sempre annunciata precedentemente nella già citata Epistola ai Romani, che “essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira”. La famosa “ira di Dio” viene da aggiungere. Ed è proprio questo il punto sul quale dobbiamo soffermarci: il perdono di Dio. Hai fede, fratello o sorella? Ebbene, il Signore Iddio ti salva. Credi in Gesù Cristo e i tuoi peccati ti saranno perdonati.

Vediamo ora invece la frase centrale del passo biblico oggetto della nostra riflessione odierna: “Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da nulla”. Ovvero, posso fare ciò che voglio ma non è detto che faccia bene a me o agli altri. “La mia libertà finisce dove comincia la vostra” diceva il pastore Martin Luther King. L’invito è quindi quello di ponderare bene le nostre azioni, cari fratelli e sorelle: prima di fare qualcosa pensiamo bene alle sue conseguenze. Sia nei nostri che nei confronti altrui. E stiamo bene attenti a non cadere preda delle dipendenze, ovvero del reiterato uso di comportamenti ed azioni che, al momento ci danno gioia e soddisfazione ma che poi, nel lungo termine, ci portano sofferenza e dolore. Dipendenze che possono assumere molte forme. Tali da distogliere lo sguardo dalla nostra salute, da quella degli altri e, soprattutto dalla ricerca di Dio.

Possiamo usare un vecchio detto popolare: “Quello che fai ti torna indietro” e aggiungiamoci anche “sia nel bene che nel male”. E di salute del corpo parla proprio l’apostolo Paolo nella parte finale di questo nostro brano odierno: “Il corpo … non è per la fornicazione, ma è per il Signore, e il Signore è per il corpo… Fuggite la fornicazione. Ogni altro peccato che l’uomo commetta è fuori del corpo, ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo… il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio”. Più chiaro di così! Dove per fornicazione, la pornèia, dobbiamo intendere la tentazione all’immoralità in senso generale. Il fare del male al nostro corpo, il cedere alle dipendenze. Non dobbiamo quindi intendere la fornicazione in senso stretto come molte letture integraliste fanno, limitandosi ai soli rapporti sessuali. Ma sulla questione della corretta interpretazione dei termini biblici tornerò più avanti.

Il nostro corpo, fratelli e sorelle, è il tempio del Signore. Dobbiamo averne cura come della nostra anima: mens sana in corpore sano dicevano giustamente i latini. Un discorso psicosomatico, potremmo ben dire usando un linguaggio odierno.

Ma torniamo ora indietro agli inizi del brano biblico. Fra le varie persone elencate da Paolo tra coloro che non erediteranno il regno di Dio, troviamo gli effeminati e i sodomiti. Questo è un punto controverso, portato sempre ad esempio da tutte quelle chiese o persone fondamentaliste che vedono nell’omosessualità un gravissimo peccato contro natura. Chiese e persone che, tramite una lettura letterale, scusate il gioco di parole, dicono che è chiaro, è scritto palesemente nella Bibbia che gli omosessuali sono condannati da nostro Signore. Quelle stesse chiese e persone che dimenticano però che se applichiamo lo stesso metodo di lettura biblica, dovremmo applicare anche quanto scritto nel libro del Deuteronomio ai versetti 18-21: Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita e diranno agli anziani della città: questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore. Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà; così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore”. Oppure quanto espresso sempre nel libro del Deuteronomio al successivo versetto 22: “Quando un uomo verrà colto in fallo con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l’uomo che ha peccato con la donna e la donna. Così toglierai il male da Israele”. Tempi duri quindi per i figli disobbedienti e per le scappatelle coniugali.

Per non parlare poi di tutto l’elenco di divieti alimentari riferito agli animali cosiddetti “impuri” che troviamo in Levitico al capitolo 11 e che mangiamo tranquillamente tutti i giorni. O quasi, visto che nell’elenco sono comprese anche le aragoste. Una lettura quindi integralista e fondamentalista che viene spesso utilizzata solo quando fa comodo, lo ripeto, solo quando fa comodo, per determinati versetti e non per altri. Una lettura che cozza violentemente con il metodo storico-critico che noi, chiese metodiste e valdesi, utilizziamo, calando frasi e situazioni nel loro contesto storico e soprattutto collegando fra loro i vari versetti e capitoli e non leggendoli isolati.

Soprattutto, chi prende la Bibbia alla lettera, dimentica il fondamentale problema della traduzione: come sappiamo, l’Antico Testamento è stato scritto in ebraico e il Nuovo in greco. Ricordo, a tale proposito, quanto scritto qualche tempo fa da uno di questi integralisti su un social network: “La Bibbia è stata scritta in italiano” ovvero, se la leggo in italiano vuol dire che è stata scritta in italiano. Questo, più o meno, il tenore del post. Ecco questo, un caso limite per carità, ma che pone un problema di difficile comprensione e di scontro. L’ebraico, e questo ve lo posso assicurare personalmente, dato che sto cercando di studiarlo da un po’ di tempo ma ahimè con scarso risultato, è una lingua assolutamente diversa dal nostro modo di parlare, scrivere e ragionare, linguisticamente parlando.

L’ebraico non aveva le vocali fino al Medioevo, quando si iniziarono ad usare proprio per evitare fraintendimenti e confusioni. Per non parlare di altre particolarità che rendono difficile distinguere una parola dall’altra. Addirittura un puntino a destra o a sinistra può cambiare il significato di una parola. E magari è stato solo un errore di stampa o una svista nel passaggio dal testo manoscritto a quello a stampa. È quindi complesso comprendere correttamente il significato di ogni singola parola e quindi di intere frasi. E questo vale anche per il greco, la lingua del Nuovo Testamento, dove le parole possono avere più significati. Una ricchezza lessicale che mette in crisi il lavoro dei traduttori e che spinge molti a tradurre con il primo significato proposto dal dizionario. Un po’ come fanno gli studenti liceali impegnati nelle versioni di latino o greco. Il primo significato proposto è quello giusto. Si fa meno fatica. Dimenticando, per esempio, che il verbo latino “colere”, significa coltivare ma anche raccogliere oppure “legere”, che significa leggere ma anche eleggere, scegliere, costeggiare, raccogliere, percorrere. Ecco questo era un esempio relativo al latino, la lingua classica più vicina alla nostra. Figuriamoci per il greco o l’ebraico.

Pertanto, cari fratelli e sorelle, avviandoci verso la conclusione, il fatto è che noi possiamo semplicemente fare delle speculazioni su ciò che Paolo intendeva dire usando queste parole. Quello che invece noi sappiamo è che quando il significato di una parola o di un passaggio non è chiaro, i pregiudizi del traduttore entrano in gioco nella scelta delle parole utilizzate per tradurre il significato non facilmente conoscibile, in questo caso, del greco. I pregiudizi del traduttore. Vogliamo quindi veramente basare la nostra condanna di un intero gruppo di persone su una traduzione non attendibile, e sottolineo non attendibile, di un termine greco non perfettamente conoscibile? Una persona ragionevole, per non dire un cristiano compassionevole, non lo farebbe.

Concludendo, la Bibbia, cari fratelli e sorelle, non risponde ai quesiti che ci stiamo ponendo sugli uomini e le donne che sono orientate affettivamente verso persone dello stesso sesso. Presi nel loro contesto, questi testi, quello che abbiamo letto e commentato oggi ed altri, si rivolgono a situazioni che provengono da mentalità diverse, molto diverse dalle nostre. Nelle scritture si insiste invece sulla compassione verso il nostro prossimo, sul richiamo all’empatia e alla giustizia per gli emarginati e compaiono esempi di onestà, solidarietà e amore in ogni relazione.

Amore, la legge dell’amore. Quello stesso amore per cui Dio ci ha concesso la sua Grazia, quell’immensa grazia che ci salva e ci libera dal peccato. Questa è la chiave di lettura.

Amen

Daniele Rampazzo

Sermone: PREGARE, NON PREGHIERE!

Il tema della preghiera è vastissimo, come quello della fede e di Dio stesso. Se ne potrebbe e dovrebbe parlare a lungo, perché la preghiera, sia come atto (l’azione di pregare, nelle tante forme possibili) sia come atteggiamento (cioè come modo di essere nel mondo e tra gli uomini), è centrale nella vita di fede, secondo la bella frase citata dal filosofo Kierkegaard: «La preghiera è figlia della fede, ma la figlia deve nutrire la madre».

Il brano che leggiamo ora (Lc 11,5-13) è composto di una duplice parabola, e fa parte di una catechesi sulla preghiera propria dell’evangelista Luca.

“Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Lo dico subito: io ho trovato queste parole di Gesù un po’ irreali, sfuggenti, quasi “buoniste”, come si direbbe oggi. Quale stridore, quale malessere sento, se mi pongo con sincerità di fronte a questo “chiedi e ti sarà dato”, rispetto alla realtà che vivo e che credo molti vivano. Quante persone deluse, che si sentono tradite dalla vita, dalle persone, da Dio stesso, ho davanti agli occhi.

Invece questo brano sembra andare in tutt’altra direzione: Gesù, dopo aver donato la preghiera del Padre nostro, in seguito alla richiesta così semplice e così vera dei discepoli (“Signore, insegnaci a pregare”), con questa parabola – conosciuta come quella “dell’amico importuno” – ci esorta a una preghiera sostenuta da una fede quasi «sfacciata» verso Dio. Nella sua spontaneità, la parabola sembra volerci dire: nessuna delusione dal Dio di Gesù di Nazareth! Dio è fedele alla sua promessa! Ogni preghiera, anche la più sconsideratamente audace, anche la più folle pretesa di ascolto, che venga da chi è ritenuto, e magari si ritiene, il più indegno, se sincera, è accolta.

Pregare, allora. Ma preghiera, non preghiere. Non il ripetere formule, ma lo slancio di una vita che bussa tutta intera. Non «dire le preghiere», ma essere domanda, essere sete, essere richiesta, essere mendicanti davanti alla porta di Dio. Gesù non ci chiede, quando preghiamo, di cambiare le nostre parole, ma di cambiare il nostro cuore, nella coscienza che la nostra preghiera arriva sempre seconda, è sempre risposta, anche quando chiede, perché Lui ci ha amati e chiamati per primo. È quello che leggiamo al cap. 3 del libro dell’Apocalisse: «Ecco, io sto alla porta e busso: se uno sente la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui, e cenerò con lui, e lui con me». È lui che si è fatto povero, e ha bussato alla nostra porta. È lui l’amico importuno che bussa alla nostra porta a mezzanotte. La prima condizione della preghiera è quindi aprirgli la porta, ascoltare la sua Parola. Poi però – ci dice Gesù – bussate anche voi. Anzi, bussate con insistenza; certo, nella propria cameretta, nel segreto, senza usare troppe parole, come dice l’evangelista Matteo, ma bisogna domandare, cercare, senza stancarsi mai (come dice Luca al cap. 18).

Calvino diceva: “La preghiera è il principale esercizio della fede; per mezzo di essa riceviamo quotidianamente i benefici di Dio”. La perseveranza, dunque, è la violenza che dobbiamo fare a noi stessi se vogliamo veramente diventare uomini e donne di preghiera. Chi non è capace di chiedere? Chi non è capace di bussare, di cercare? Tutti, in un modo o nell’altro, siamo mendicanti. «Chiedete, cercate, bussate; riceverete, troverete, vi sarà aperto». Il Signore ci fa passare dai bisogni che abbiamo al bisogno che siamo. Se abbiamo bisogno dei suoi doni, siamo soprattutto bisognosi di lui.

Quante domande, quanti dubbi, di fronte ad un gesto così semplice, a un atteggiamento persino così scontato per un credente, come quello di pregare Dio e tutto ciò che questo possa significare (invocarlo, ringraziarlo, supplicarlo, ascoltarlo o chissà cos’altro).

Ad esempio: cosa rispondere allora alle legittime obiezioni della donna e dell’uomo di oggi che ci chiedono dov’è Dio quando si trovano di fronte alle tragedie immotivate che la vita può porci dinnanzi, o anche solo al banale non-senso della vita, al vuoto afono e crudo di molti vissuti, che nascondono in maniera mal celata una profonda sofferenza, un male di vivere così attuale?

E poi: se chiedo a Dio di intervenire in una situazione difficile (una malattia o altro) o in qualunque altra situazione della vita, non affermo forse, almeno implicitamente, che Dio ha bisogno di essere, diciamo così, sollecitato, attraverso la mia preghiera, a intervenire là dove, forse, di sua iniziativa, non sarebbe intervenuto, o perché indifferente o incapace?

In altre parole: Dio agisce nella nostra vita solo se e in quanto glielo chiediamo, oppure agisce indipendentemente da qualunque preghiera? La nostra preghiera è davvero così potente da destare e mettere in movimento o addirittura modificare la volontà di Dio? E quindi, in fin dei conti, che senso ha pregare? C’è qualche possibilità – almeno una – di ottenere ciò che si chiede, o invece serve solo come esercizio di pietà, come atto di fiducia e abbandono in Dio, ma non può in alcun modo condizionare la volontà di Dio?

Sono domande grandi, alle quali provo a rispondere così.

L’idea che la nostra preghiera possa rivelare una passività o addirittura una «incapacità» di Dio è del tutto estranea all’orizzonte della fede cristiana. La preghiera infatti non nasce principalmente del bisogno umano (che pure c’è), ma dalla promessa divina (che è la vera sorgente della preghiera). Non è la preghiera che mette in movimento la volontà di Dio, ma è la promessa di Dio che mette in movimento la preghiera. È perché Dio ha promesso di essere il nostro Dio – cioè il Dio per noi, oltre che con noi e persino in noi – è per questa promessa che gli rivolgiamo con fiducia le nostre preghiere. È sulla sua Parola, è proprio perché ha detto «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate, e vi sarà aperto», che noi, fidandoci di queste parole, chiediamo, cerchiamo e bussiamo. È la promessa di Dio che ci rende audaci, e ci fa chiedere a Dio quello che Dio promette. La nostra preghiera quindi non rivela affatto un Dio indifferente, ma, al contrario, un Dio promettente, la cui promessa anticipa e autorizza ogni nostra richiesta.

Io credo, lo dico con umiltà, che la preghiera dell’uomo possa, e so di usare un termine non corretto, in qualche modo modificare la volontà divina. Non che la volontà umana possa imporsi a quella divina («sia fatta la tua volontà», diciamo nel «Padre Nostro», non la nostra), ma la volontà di Dio non è rigida e irremovibile, al contrario è duttile, flessibile, ospitale, e volentieri fa posto alla domanda dell’uomo: non perché deve farlo, ma perché può e vuole farlo. Dio non è una statua celeste né una sfinge impassibile. Perciò la preghiera sincera della fede, quella del cuore e non delle labbra soltanto, è capace, come diceva Lutero, di «smuovere la grazia di Dio». Diverse volte, nella Bibbia, si parla di un Dio che «si pente» del castigo che voleva infliggere a Israele e lo perdona: «si ricordò del suo patto con loro e nella sua gran misericordia si pentì» leggiamo al Salmo 106. Anche Gesù ha cambiato idea a motivo della preghiera insistente della donna cananea. Dio ascolta («l’Eterno è stato attento ed ha ascoltato» abbiamo prima letto dal libro di Malachia) e risponde («mediante prodigi tu ci rispondi» dice il Salmo 65).

Certo, ci sono tante preghierE non esaudite. Chi prega, forse da anni, per una certa cosa, e non l’ottiene, sa che cosa significa «preghiera non esaudita». Ci si aggrappa alla promessa, ma l’esaudimento non viene. È un’esperienza amara: si ha l’impressione di pregare invano. È vero però che preghiera non esaudita non vuol dire preghiera non ascoltata. E neppure preghiera senza risposta. Solo che la risposta può essere così diversa da quella che ci aspettavamo, che ci riesce difficile riconoscerla come risposta. È comunque un fatto che c’è anche un silenzio di Dio.

E di fronte al silenzio del Signore, può nascere lo scoramento, la delusione, l’abbandono di ogni forma di fede.

Un’esperienza traumatica, quella del silenzio di Dio, che va presa sul serio, senza cercare di giustificare Dio ma anche senza ricorrere alle facili scorciatoie devozionali che un certo tipo di spiritualità propone riguardo al dolore e alla sofferenza. Gesù Cristo, esortandoci a chiedere a Dio qualsiasi cosa, ha forse esagerato? Avrebbe fatto meglio a promettere di meno? Certo, per un credente, quel silenzio resta un mistero: e a volte è davvero difficile continuare a credere che Dio sia anche un “padre” amorevole e sollecito.

Mi è capitato tra le mani un libretto, un capolavoro pubblicato nel 1946 dal titolo “Yossl Rakover si rivolge a Dio”. Si tratta dell’ultimo messaggio scritto da un ebreo, Yossl Rakover appunto, nel ghetto di Varsavia, mentre il cerchio della morte nazista si stringeva, minuto dopo minuto, intorno a lui. Sentite le sue parole, che il filosofo Levinas aveva definito “un salmo moderno”, nel quale “tutti noi superstiti riconosciamo con sbalordito turbamento la nostra vita”: “Ti voglio chiedere Dio, e questa domanda brucia dentro di me come un fuoco divorante: che cosa ancora sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il tuo volto al mondo? Ti voglio dire in modo chiaro e aperto che ora più che in qualsiasi tratto precedente del nostro infinito cammino di tormenti, noi torturati, disonorati, soffocati, noi sepolti vivi e bruciati vivi, noi oltraggiati, scherniti, derisi, noi massacrati a milioni, abbiamo il diritto di sapere: dove si trovano i confini della Tua pazienza?”.

Sono parole durissime, che dovrebbero farci riflettere anche sulle immani tragedie dei nostri giorni, così vicine a noi. La Parola della promessa, a cui noi credenti ci affidiamo, ci dice che affidarsi a Dio non è mai sbagliato; la vita di Gesù, a cui noi credenti guardiamo, ci dice che affidarsi a Dio non è mai sbagliato. Io credo, per parte mia, che a Dio possiamo chiedere ogni cosa, ma questo non vuol dire che dobbiamo ottenere ogni cosa. Lo ripeto: affidarsi a Dio non è mai sbagliato. Ma proprio l’esperienza stessa di Gesù ci insegna che «una cosa è chiedere, un’altra è pretendere», aspettandosi un esaudimento automatico e quasi magico. Gesù ha chiesto che bere il calice amaro gli fosse risparmiato, ma non lo ha preteso. Ciò che veramente Dio non nega mai a chi glielo domanda con cuore sincero è lo “Spirito Santo”, dice il testo di Luca, ossia la forza di continuare ad amare e accettare di essere amati anche attraverso le prove più dolorose e drammatiche della vita.

Capisco però che ci si può stancare di credere. Ci si può stancare di Dio. Si può abbandonare la partita, si può, come si dice, perdere la fede. È successo anche a Gesù, non di perdere la fede, ma di perdere discepoli: «Molti dei suoi discepoli si ritrassero indietro e non andavano più con lui» (c’è scritto nel vangelo di Giovanni). C’è chi di fronte alle sofferenze del mondo e della vita, nella morsa della contraddizione tra ciò che crede e ciò che vede, non ce la fa più a continuare a credere, «sperando contro ogni speranza» come dice Paolo nella lettera ai Romani. È una cosa tristissima, una sconfitta per l’uomo e per Dio, ma succede. Che dire? Non c’è nulla da dire, c’è solo da portare, con chi non ce la fa più, un po’ del peso delle prove che sembrano aver spento in lui, almeno per ora, la fiamma della fede. Niente di più e niente di meno.

Però, proprio come insegna la vicenda di Cristo, dopo una morte ci può essere una resurrezione. Vale per la vita umana, vale per l’amore, può valere anche per la fede. Come ci può essere un venerdì santo della fede – “speravamo che fosse lui, Gesù, che avrebbe riscattato Israele!” dicono i discepoli di Emmaus “e invece…” – così la fede può risorgere, come è risorta quella dei suoi discepoli davanti alla tomba vuota, davanti al corpo risorto, davanti allo spezzare in pane insieme.

Nell’evangelo, come nella vita, la morte c’è, ma non ha l’ultima parola. Dopo il venerdì santo ci sarà la domenica di risurrezione. Nel frattempo, vorrei dire così, viviamo il sabato; Gesù è morto il venerdì ed è risuscitato all’alba della domenica.  In mezzo c’è il sabato con i nostri dubbi, i nostri tentennamenti, i nostri slanci e le nostre paure.  Il sabato può essere pieno di incredulità, di sano realistico cinismo (“così va il mondo, è sempre stato così”).  L’incredulità ha naturalmente il suo fascino: sembra una vittoria dell’intelligenza critica sulla fede equiparata a superstizione, o anche una legittima protesta contro un Dio deludente. Ma l’incredulità è piuttosto una sottile tentazione in agguato lungo il cammino della nostra vita, soprattutto nei suoi momenti critici. Non è un caso che l’ultima richiesta del Padre Nostro sia: «Liberaci dal Maligno», che significa anzitutto «Liberaci dalla tentazione di non credere più in te»; in altre parole: «Fa’ che non disperiamo mai di te».

Iddio lo voglia per tutti noi.

Amen

Fabio Barzon

Sermone: LUX LUCET IN TENEBRIS

Sermone della pastora Ulrike Jourdan predicato il 24.6.2018 a Torre Pellice in occasione della Conferenza del II Distretto e riproposto oggi durante il culto a Padova.  Lettura: 1 Giovanni 1,5-2,6

Luce e tenebre: sono queste le due parole forti che risuonano nel testo della prima lettera di Giovanni che abbiamo già ascoltato. È speciale per me poter predicare su un tema del genere in questa chiesa particolare e in questa zona d’Italia così ricca di storia per la vita delle nostre chiese. Quando si parla qui di luce e tenebre, chi non corre subito con il pensiero al simbolo del candelabro con le sette stelle dove sta scritto: Lux lucet in tenebris?

Leggo ancora una volta la parte iniziale del nostro testo. Giovanni scrive:

5 Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che vi annunziamo: Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre.  6 Se diciamo che abbiamo comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, noi mentiamo e non mettiamo in pratica la verità7 Ma se camminiamo nella luce, com’egli è nella luce, abbiamo comunione l’uno con l’altro, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.

Da bambina, nei campi per giovani della chiesa metodista in Germania, ho cantato spesso un inno che diceva: “Siamo fieri di essere valdesi e diciamo: Lux lucet in tenebris!”

Vi confesso che non sapevo neanche chi fossero questi valdesi, ma l’inno mi piaceva e l’ho cantato a squarciagola.

Eppure, a parte i ricordi d’infanzia e un po’ di folklore, penso che faccia bene porre e porci sempre di nuovo la domanda: che cosa vuol dire per noi, che cosa vuol dire per me vivere nella luce di Dio? Che cosa simboleggia questo candelabro per la mia vita? In quale ambito della mia vita ha diritto di essere presente questa luce?

Per capire meglio il testo, ci è forse d’aiuto guardare un po’ nella storia di questa breve lettera. La prima lettera di Giovanni viene scritta con molta probabilità per intervenire in una situazione di conflitto; la giovane comunità, alla quale è indirizzata, è stata posta dinnanzi ad insegnamenti che determinano insicurezza nei credenti: idee “strane” su come intendere la fede e interpretare il ruolo di Gesù Cristo per la fede. Nella chiesa vi erano probabilmente persone che pensavano di aver trovato la loro via verso la salvezza – e Gesù Cristo c’entrava poco con questa via.

Mi sembra che, con tutte le opportune differenze, si tratti di un tema molto attuale per la vita delle nostre chiese. Quante volte sento dire: voi valdesi (e anche i metodisti) siete una chiesa buona e onesta, siete brava gente, anch’io vi do l’8 per mille!

Può fare piacere sentirlo. Ci stimola a investire in progetti sociali e culturali che ci danno buona visibilità, che ci mettono in una buona luce; e talvolta, diciamolo, fa star bene guardare a sé stessi in questa luce, sentirsi buoni, bravi e in qualche modo anche importanti.

Dobbiamo però renderci conto che questa luce, nella quale ci crogioliamo e ci sediamo beati, non ha niente a che fare con la luce della quale parla il nostro testo biblico. La prima lettera di Giovanni ci ricorda che il cammino nella luce è collegato alla purificazione da ogni peccato tramite il sangue di Gesù.

Avete provato ultimamente a parlare con qualcuno del peccato? Non intendo con qualcuno delle nostre chiese, forse in uno studio biblico, ma con qualcuno all’esterno delle nostre comunità. Potete immaginarvi che faccia possono fare le persone che ci hanno appena detto che siamo brava gente, una chiesa moderna e affascinante, quando parliamo loro del peccato? – Una specie di shock! Il peccato non è né moderno né affascinante. Per la maggior parte delle persone il peccato è qualcosa di vecchio, di cui sarebbe meglio non parlare. Del peccato parlano solo i fondamentalisti.

Conoscete queste reazioni?

Il nostro testo biblico dice invece che nella luce di Cristo si cammina nella prospettiva di essere purificati dal peccato. In buona sostanza, c’è la convinzione di non potersi avvicinare a Dio tenendosi addosso tutto il peso e l’impurità del peccato. Per questo anche noi confessiamo ogni domenica i nostri peccati nel corso del nostro culto, perché sentiamo il bisogno di liberarci e di prepararci alla presenza di Dio. E come dice il nostro testo: nella luce di Dio si può stare soltanto lasciandosi purificare e liberare dal peccato. Ma il nostro brano prosegue:

8 Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi.  9 Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto / da perdonarci i peccati /e purificarci da ogni iniquità.  10 Se diciamo di non aver peccato, lo facciamo bugiardo, e la sua parola non è in noi.

1 Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; e se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto2 Egli è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. 

Il peccato e il suo superamento, la giustificazione è sempre stato il grande tema delle chiese riformate. È il primo tema che affronta il Catechismo di Heidelberg sotto il titolo “la miseria dell’uomo”. E con ogni nuovo catecumeno è la prima pietra d’inciampo. Per presentare ciò che nella parte finale di questo bellissimo testo della Riforma viene riassunto sotto il titolo di “la gratitudine dell’uomo” non serve la metà, ma neanche un terzo del tempo che si impiega all’inizio, dove si parla del peccato e della miseria che si devono riconoscere per poter vivere e morire felicemente. È un tema che si scontra con il pensiero e il sentire di oggi, che grosso modo afferma: l’importante nella vita è comportarsi bene!

Pensateci bene, forse è questa la grande filosofia di oggi: non importa a chi rivolgi la tua preghiera, l’importante è come ti comporti. Un po’ di pace e amore fa sempre bene e per il resto cerca di non comportarti male. Questo è il credo che si sente oggi e diciamocelo: influenza anche noi. Questo è il credo di gran parte del mondo che ci circonda. Non fare niente di male, così andrà tutto bene.

Solo per intenderci: io non ho niente contro la pace e l’amore, e sono ben contenta se la gente si comporta bene, però dobbiamo renderci conto che questo comportamento semi-religioso non ha a che fare con la luce di Cristo di cui ci parla la Scrittura. Nella prima lettera di Giovanni leggiamo che siamo bugiardi e inganniamo noi stessi se diciamo di non essere peccatori. E questo nostro essere peccatori emerge alla luce di Cristo.

Vi ho già detto prima della reazione di vari catecumeni quando affrontiamo questo tema. Penso a persone adulte, che si avvicinano alle nostre chiese proprio perché vedono in noi gente onesta e brava e considerano la nostra chiesa più democratica e moderna rispetto ad altre. Queste stesse persone rimangono spesso scioccate nel sentirsi dire: sei un peccatore! Ci vogliono settimane, talvolta dei mesi, per poter dire che la cosa fondamentale non è la buona luce nella quale noi, come esseri umani, siamo capacissimi di metterci, ma, al contrario, la luce di Dio che mostra tutto ciò che non va, mostra la nostra distanza e diversità da Dio. Come già ho detto: non è un concetto facile da cogliere o da accettare per le persone di oggi, eppure, devo dire, pur nella mia breve esperienza, con tutti i catecumeni si arriva anche al punto in cui si sperimenta la liberazione e si cambia prospettiva.

Non devo essere IO buono, non devo essere IO a realizzare tutto, non devo procurarmi IO la salvezza attraverso un atteggiamento pacifico e amorevole. Se accettiamo di metterci sotto la luce di Cristo, allora emergono tutti quei lati che avremmo voluto lasciare nell’oscurità, emerge quanto siamo centrati su noi stessi, quanto tutto ruoti intorno a quell’IO.

Ma Giovanni scrive: noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto.

La luce di Cristo è dolce, è una luce che ti mette in buona luce. Non siamo noi a dovercela procurare, non dobbiamo fare veder noi quanto siamo bravi e buoni, è la luce buona e benevola di Cristo che splende sulle nostre vite e sul nostro cammino.

Giovanni prosegue il suo discorso scrivendo:

3 Da questo sappiamo che l’abbiamo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti4 Chi dice: «Io l’ho conosciuto», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; 5 ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo. Da questo conosciamo che siamo in lui: 6 chi dice di rimanere in lui, deve camminare com’egli camminò.

Osservare i comandamenti, camminare sulla via di Cristo. Qualcuno potrebbe dire: adesso siamo arrivati dov’eravamo prima. Ci vuole comunque una vita che prenda forma dai comandamenti, serve comunque agire bene, essere onesti, pacifici, amorevoli ecc. ecc.

No, è tutto diverso. Perché chi cammina veramente con Cristo sotto la sua luce non lo fa per….. Chi osserva veramente i comandamenti, chi ama veramente e chi è veramente portatore di pace non lo è per….. La logica del nostro mondo ci dice: tu fai e poi guadagni. Invece Cristo ci dice: lasciati prima servire e poi sei libero di rispondere.

Chi cammina insieme a Cristo, sotto la sua luce, non deve fare per qualcosa, ma può fare perché è libero da quelle logiche che vorrebbero determinarci. Chi cammina nella luce di Cristo non deve più guadagnarsi la salvezza.  È già salvo e può condividere ciò che ha ricevuto con il mondo. Chi cammina nella luce di Cristo ha sperimentato la pace e il grandissimo amore di Cristo e così non può fare diversamente se non essere a sua volta portatore di pace e di amore per questo mondo.

È questa luce forte e dolce, chiara e calda che sento quando guardo il simbolo del candelabro con la scritta ‘lux lucet in tenebris’. Nelle tenebre di questo mondo, nelle tenebre della mia vita splende una luce.

Spesso non sappiamo in quale direzione ci poterà il nostro cammino come singoli e come chiesa, però sotto questa luce non ho paura di affrontare la strada. Questa luce mi aiuta a vedere chiaramente i miei limiti, ma toglie contemporaneamente lo sguardo da essi e porta verso il futuro, un futuro sotto la luce di Dio.

Amen

past. Ulrike Jourdan