Sermone: LA DOMENICA DELLE PALME – Quale fede?

Giovanni 12,12-19 – INGRESSO TRIONFALE A GERUSALEMME

Il giorno seguente, la gran folla che era venuta alla festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme, uscì a incontrarlo, e gridava: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!». Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, montato sopra un puledro d’asina!» I suoi discepoli non compresero subito queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui, e che essi gliele avevano fatte. La folla dunque, che era con lui quando aveva chiamato Lazzaro fuori dal sepolcro e l’aveva risuscitato dai morti, ne rendeva testimonianza. Per questo la folla gli andò incontro, perché avevano udito che egli aveva fatto quel segno miracoloso. Perciò i farisei dicevano tra di loro: «Vedete che non guadagnate nulla? Ecco, il mondo gli corre dietro!»

Quand’ero ragazzina, per alcuni periodi vivevo in una famiglia tedesca, di fede mista luterana e cattolica. Spesso nella nostra casa di Bolzano era ospite uno zio del mio padrino, un austero vescovo luterano, il quale però, pur se con fare molto serioso, parlava volentieri con me, trasgressiva e contestatrice adolescente, su argomenti di etica e religione.

Ricordo bene quegli incontri. Ma mi piace oggi ricordare una domenica delle palme, quando zio Karl mi aiutava ad addobbare l’albero di Pasqua. Sì, proprio l’albero di Pasqua che vedeva un fascio di rami di Kätzchen (germogli pelosetti di un tipo di salice, credo) dai quali pendevano uova che avevamo prima colorato. Tutto intorno al fascio di rami erano poste foglie di palma e il vaso veniva ricoperto con un sontuoso drappo rosso. Bellissimo.

Ebbene, mentre con calma addobbavamo il nostro Osterbaum, lo zio vescovo mi faceva riflettere sul significato di questa tradizione nordica che, come peraltro l’albero di Natale, aveva origini pagane ma era stata assunta con significati religiosi. I nuovi germogli delle piante rappresentavano la rinascita primaverile, certo, ma simboleggiavano anche la grande rinascita del genere umano data dalla resurrezione di Cristo che si festeggia con la Pasqua. E le foglie di palma e il drappo rosso riportavano alla mente l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, con la gente che lo segue cantando “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” e che stende a terra i mantelli al suo passaggio.

Fin qui tutto bene e logico, ma ….. le uova? Lo zio mi disse che le uova erano un cibo povero, semplice, e rappresentavano quindi l’assoluta semplicità di questo Signore che, pur avendo la consapevolezza di essere il figlio di Dio, non entrava in Gerusalemme come un condottiero su un prestigioso destriero, ma vi entrava a cavallo di un asino, una cavalcatura che era a disposizione anche di coloro che non vantavano un alto rango sociale.

Certo, l’umile animale però non era stato scelto solo per dimostrare uno spirito semplice e povero, ma era il chiaro segno che Gesù voleva dare alla gente che attendeva il Messia e che magari ricordava quanto detto dal profeta Zaccaria: “Esulta grandemente, o figlia di Sion, manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme; ecco, il tuo re viene a te; egli è giusto e vittorioso, umile, in groppa a un asino, sopra un puledro, il piccolo dell’asina” (Zac 9,9).

Ma sui passi che abbiamo letto di Matteo e Giovanni dobbiamo fare ancora due considerazioni e credo sia doveroso per noi riflettere sulla nostra posizione.

1 – In Matteo ci viene detto che Gesù manda due discepoli a cercare il puledro d’asina e loro hanno bisogno di rassicurazione (“Se qualcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà”) e Giovanni dice chiaramente che “i suoi discepoli non compresero subito queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui”. Quindi non dobbiamo pensare che tutti avessero bene a mente la profezia di Zaccaria, tant’è che Giovanni stesso ci riferisce che la folla che gli fa festa lo fa perché ricorda i suoi prodigi e, nello specifico, la resurrezione di Lazzaro.

Direi che anche noi, come i discepoli e come la folla, troppo spesso ci dimentichiamo delle promesse del Signore, così come molti di coloro che lo seguivano si erano dimenticati della profezia del riscatto.

Ma spesso noi, che abbiamo ricevuto anche le testimonianze del Nuovo Testamento, ci dimentichiamo delle promesse del Signore, dei suoi insegnamenti, e magari per credere vorremmo vedere eventi prodigiosi, miracoli, manifestazioni eclatanti, quasi che non li avessimo costantemente sotto gli occhi se solo imparassimo a guardare la nostra esistenza con gli occhi della fede.

2 – Un’altra considerazione va fatta per i farisei. A dispetto dei connotati negativi attribuiti nel linguaggio comune odierno, va detto che i farisei erano profondamente credenti e molto legati alle Scritture. Tuttavia il loro essere ligi alla religione li portava ad essere una setta che predicava e praticava un eccessivo rigore formalista nell’osservanza della tradizione mosaica e della legge giudaica.

Da qui le loro espressioni di scherno. Da qui i vari episodi che troviamo nei vangeli, dove i farisei ci vengono presentati come coloro che vogliono provocatoriamente mettere alla prova Gesù, ponendogli domande che vorrebbero metterlo in difficoltà.

Ho molto rispetto per i farisei, perché comprendo bene che il messaggio di Gesù era certamente destabilizzante per l’ordine costituito ed inoltre costringeva (e costringe ancor oggi) le genti ad abbandonare le loro certezze consolidate per entrare in una dimensione dove non tutto può essere conosciuto, dove non tutto può essere provato, dove non c’è alcuna certezza “materiale e terrena” che conforti un atteggiamento di completa fiducia in un Signore che non vediamo, un Signore al quale dobbiamo affidarci per fede.

E allora mi chiedo e, sorelle e fratelli, faccio anche a voi la stessa domanda: “Ma la mia fede, la nostra fede, è veramente tale? Oppure, soprattutto se non coltivata con la lettura della Parola e con la preghiera, diventa un baluardo, una sovrastruttura culturale che ci deriva dalla nostra tradizione, una buona scusa per discriminare ciò che per noi è giusto o ingiusto, ma non è il faro illuminante della nostra vita.

Qualche giorno fa un giovane che frequenta anche la nostra chiesa mi scriveva che talvolta non sa se ha fede, oppure se il sentimento che pova è invece una speranza per affrontare la paura del domani, l’incertezza della vita. Io gli ho risposto che certamente la speranza è frutto anche della fede, ma non certo la speranza per lenire le nostre paure, perché la fede ha una valenza ancora diversa. La fede è quella che nel momento delle prove difficili, oppure nel momento in cui possiamo pensare di essere arrivati al termine della nostra corsa terrena, ci fa dire serenamente “Signore, sia fatta la tua volontà, anche se non comprendo. Signore, nelle tue mani affido tutto me stesso”.

E quindi, sorelle e fratelli, nel fondo del cuore, nel segreto della nostra casa, ci chiediamo mai se la fede in Colui in cui diciamo di credere fa sì che siamo disposti ad abbandonarci completamente alla Sua volontà, a vivere secondo i Suoi insegnamenti, a non temere la morte perché siamo certi che ci sarà una Pasqua anche per noi?”

Domande importanti e profonde, che non possono avere in risposta un atteggiamento farisaico, più legato al fare che all’essere.

AMEN

Liviana Maggiore

 

Sermone: PADRE NOSTRO – … non esporci alla tentazione ma liberaci dal Male

Voi dunque pregate così: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo, anche in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori; e non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno.”   (Matteo 6,9-13)

Abbiamo letto il Padre Nostro, la preghiera che Gesù ci ha insegnato, la preghiera che ci ha donato l’accesso ad un luogo nel quale diritto e giustizia si baciano, dove possiamo (e dobbiamo) considerarci fratelli e sorelle di Gesù, fratelli e sorelle tra noi. Una preghiera che per il fatto di esserci stata insegnata da Gesù non solo ci permette, ma ci autorizza a chiedere aiuto. Ancora di più: ci rende sicuri che la richiesta è già stata esaudita prima ancora che noi la formuliamo. Dio sa già di cosa abbiamo bisogno, senza che noi dobbiamo chiederglielo. Nel momento in cui Gesù ci insegna a dire Padre nostro, ci riconosce come già all’interno di una relazione con Dio, e in una relazione molto speciale perché come figli siamo quindi amati, accolti, sostenuti e protetti.

Non esaminerò ora tutte le richieste del Padre nostro, ma mi soffermerò brevemente su di una che è piuttosto inquietante, che ci interroga oggi, così come ha interrogato i nostri padri e le nostre madri: Non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal Male.

Non ci esporre alla tentazione è un po’ diverso dal cattolico romano non ci indurre, ma allude sempre e comunque ad una tentazione che esiste e dalla quale dobbiamo essere protetti. Il verbo originale indica un ingresso, un entrare, potremmo quindi tradurre: non permettere che io entri nella casa della tentazione, nel luogo metafisico della tentazione, perché già so che soccomberò; Signore aiutami, stai al mio fianco, perché all’interno della mia vita, costellata di prove e tentazioni, io da sola non ce la posso fare.

In effetti sappiamo bene, per dura e dolorosa esperienza, che il male in tutte le sue accezioni ci circonda e anche il nostro linguaggio quotidiano lo sottolinea. Tutti i giorni facciamo i conti con il male e anche con il Male. Il limitato male quotidiano del pensiero malizioso, della piccola bugia, dell’inganno a fin di bene, della scarsa volontà di impegnarsi e dell’assenza di amore per i fratelli e sorelle che incontriamo in autobus, per strada, sul posto di lavoro. Ma facciamo i conti tutti i giorni anche con il Male: quello di chi pensa di condurre i destini dell’umanità intera, seguendo i propri interessi particolari; quello di chi uccide per danaro o di chi lo fa per una passione malata; quello dei bambini maltrattati o addirittura violati. Il Male su cui sediamo comodamente, perché ciascuno di noi sa benissimo che il nostro benessere è costruito sullo sfruttamento di milioni di uomini e donne, e perfino bambini, e sul saccheggio sistematico della Terra.

Il male dunque esiste e non credo che possa mai diventare un bene, in nessun senso, neppure in quello che ci aiuti a diventare migliori o sia una prova mandataci dal Signore. Quando muore un bimbo, non è il Signore che manda una prova; quando siamo schiacciati dal dolore, il Signore non ci guarda per vedere se siamo in grado di andare avanti. No, io non lo credo assolutamente. Il Male è altro, totalmente altro, dalla realtà di Dio.

Ma, indubbiamente, esso è presente nelle nostre vite e dobbiamo anche ammettere che ci affascina, ci ammalia e seduce, segna le nostre esistenze in un modo che soggettivamente non è sempre inteso negativamente.

Il Male dunque esiste e, insieme ad esso, anche la tentazione. Gesù stesso ha dovuto affrontarla nel deserto. Tutti i giorni incontriamo la tentazione dell’ingordigia, del potere, dell’egoismo e potremmo scrivere un lungo elenco, ma, soprattutto, conosciamo una tentazione che in fondo le riassume tutte ed è la più pericolosa, quella che subdolamente entra in ciascuno e ciascuna di noi: la tentazione dell’indifferenza, dello smettere di interrogarsi, di indignarsi e di soffrire, la tentazione di negare la propria responsabilità sulla Terra, fino a quella più invischiante e pericolosa, la tentazione di lasciare Dio.

La prova dunque esiste, non possiamo che accettarlo: perché il dolore, la sofferenza, il sopruso, esistono. Ma noi possiamo soccombere oppure no. Noi possiamo resistere oppure no. Non si tratta di eroismo, non si tratta di essere campioni o peggio addirittura di magnificare il dolore, di considerarlo una cosa buona, utile per la nostra salvezza, o meritorio; si tratta di non crollare sotto il peso delle nostre esistenze. Delle nostre esistenze che sono sempre sotto il segno del dolore, della fatica, del peccato. Perché la vista quotidiana del male può farci cadere nel disfattismo, nella rassegnazione  o  nell’indifferenza. Come se non ci fosse nulla da fare e quindi noi non potessimo fare nulla, o, addirittura, come se la presenza, tenace, del male ci portasse piano piano a disinteressarci di Dio. Ci portasse a non credere che Dio sia Amore e che voglia l’amore per tutti e tutte noi. Ci spingesse a pensare che forse non può esistere Dio se siamo circondati da tanto orrore.  La richiesta, quindi, non è di sottrarci alla fatica del vivere, ma di aiutarci a restare in piedi, aiutarci ad esserci con la nostra forza, quando nella prova c’è qualcuno a noi vicino, aiutarci a non inchinarci ai tanti signori che ci tentano e ci inducono, loro sì, in tentazione.

Il Padre Nostro non è dunque una preghiera liturgica da ripetere durante il culto, ma è un programma di vita che ci ricorda che senza il Signore non possiamo nulla, ma, contemporaneamente, che siamo già col Signore e di nulla quindi dobbiamo temere. Una preghiera che ci indica la luce quando ci sentiamo nelle tenebre, una preghiera da dire insieme a chi è nelle tenebre e ci chiede aiuto per uscirne. Siamo in grado di farlo? Siamo in grado di affidarci con piena fiducia a questo Signore che ci ha chiesto di chiamarlo Padre?

Chiedere di non essere esposti alla tentazione, dunque, non significa sperare che la tentazione non ci sia, ma chiedere di essere più presenti a noi stessi, più consapevoli della presenza del Signore, del fatto che Gesù ci vede, è al nostro fianco e ci viene incontro. Significa non accontentarci del nostro tiepido vivere: se parliamo di Provvidenza, di aiuto che il Signore ci offre dobbiamo riflettere se ci crediamo oppure no, se parliamo di sequela del Signore, dobbiamo capire se siamo veramente nella sequela o se invece sopravviviamo con il nostro comodo tran tran. Siamo aperti all’ascolto della volontà del Signore? Abbiamo davvero voglia di chiedere a Dio che ci indichi la strada? O ci siamo talmente abituati al male, che non ha più molto senso per noi dire “liberaci dal Male”, se non nel senso piccolissimo, del liberaci dal male che potrebbe colpire chiunque di noi in qualsiasi momento? Il Padre Nostro ci aiuta a ricordarci, anche, che il Male esiste ed è qualcosa che è dentro di noi e che noi possiamo alimentare e far crescere come una pianticella o cercare di sradicare come un’erba cattiva.

Siamo tutti e tutte consapevoli che continueremo ad affrontare per tutta la vita il male, in un lungo percorso, talvolta leggero e talaltra pesante ed accidentato, durante il quale chiederemo al Signore di non esporci alla Tentazione di vivere senza porci domande, in un qui ed ora forse poco appagante, ma che non ci angoscerebbe, non ci interpellerebbe, non ci metterebbe in discussione continuamente; avremo sempre bisogno di chiederGli di non esporci alla tentazione di vivere senza di Lui. Infatti dire “Signore dove sei, perché mi hai abbandonato”, non è essere caduti nella tentazione, ma non interrogarci più e vivere la nostra vita normale, magari piena di buone azioni, piena di buoni sentimenti, bei sermoni e belle preghiere, ma senza Dio, è cadere nella tentazione e dunque, o Signore, non esporci alla tentazione, ma liberaci dal Male.   Amen!

Erica Sfredda

Sermone: LA PAZZIA E LO SCANDALO NELLA DEBOLEZZA DELLA CROCE

Carissimi, oggi, oltre a celebrare il 17 febbraio, grande ricorrenza per il popolo valdese che festeggia la propria emancipazione, siamo presenti a questo culto della prima domenica del periodo di quaresima.

Certamente non fa parte della nostra tradizione considerare questo periodo come un tempo di sacrifici e privazioni, però dobbiamo interpretare questi giorni che ci separano dalla Pasqua come un’attesa, un periodo di riflessione sul significato che ha per noi la croce e il sacrificio del Signore Gesù.

Certamente siamo distratti da mille cose nel corso della nostra quotidianità, tuttavia, da credenti quali diciamo di essere, non possiamo esimerci dal cogliere i messaggi che la Scrittura ci offre. Oggi quindi vediamo a cuore aperto e ci lasciamo interrogare da un passo della prima lettera di Paolo alla chiesa di Corinto.

Il mio personale ringraziamento va al pastore William Jourdan che mi ha dato un prezioso aiuto nella preparazione di questo culto, sollevandomi non poco nella situazione problematica che ho vissuto in queste due ultime settimane, pur mantenendo con voi il mio impegno per oggi.

Leggiamo quindi il passo su cui verte la predicazione di oggi.

“Poiché la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio; infatti sta scritto: «Io farò perire la sapienza dei saggi e annienterò l’intelligenza degli intelligenti». Dov’è il sapiente? Dov’è lo scriba? Dov’è il contestatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo? Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione. I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.” (1 Cor 1,18-25)

Persone perbene, ragionevoli, a seconda dei casi più pacate o più passionali, comunque, persone normali. Se ci pensiamo bene è così che ci definiamo o definiremmo se qualcuno dovesse domandarci: voi che credete in Gesù Cristo, come vi considerate, come guardate a voi stessi?  Non credo che la maggior parte di noi si consideri particolarmente al di fuori della norma, anzi, forse, talvolta, ci consideriamo anche troppo nella norma. Ma questa nostra immagine corrisponde all’evangelo che è annunciato dall’apostolo Paolo?  Questo modo di vederci e di guardare a noi è coerente con le sue parole?

Pazzia, scandalo, debolezza: è con queste parole che Paolo presenta il vangelo, parole che non rimandano direttamente a quella ragionevolezza e normalità che spesso sono nostre bandiere, che ci permettono di mimetizzarci tra gli altri senza apparire più di tanto diversi.  E riflettiamo, sorelle e fratelli, su quanto il nostro mimetizzarci nella cosiddetta “normalità” possa nascondere spesso una fede tiepida, un credere talvolta dovuto a tradizione e non a una reale nostra conversione di vita.

È questo evangelo che ci viene oggi consegnato, annunciato, che è fondamento della nostra fede. Non il nostro buon senso, non la nostra ragionevolezza, non il nostro equilibrio; è la predicazione della croce, la pazzia di Dio, la debolezza di Dio che fondano il nostro credere, che sono alla sua base. È il messaggio scandaloso che ci parla dell’azione di Dio.

Proprio oggi, in un tempo in cui abbiamo bisogno di equilibrio e di ragionevolezza da parte dei credenti, da parte delle fedi – perché di irragionevolezza ce n’è già abbastanza! – l’apostolo Paolo ci guida al centro di un messaggio che capovolge, ribalta i criteri di umana valutazione e porta con sé una strana confusione.

Paolo sa che la sua predicazione è fonte di confusione per chi lo ascolta: nel suo tempo si trova di fronte Giudei e Greci. Gli uni, come abbiamo letto nel precedente passo di Giovanni su Gesù al tempio, richiedono miracoli, opere di tangibile potenza, opere che convincono gli occhi della validità dell’annuncio; gli altri, forti della loro antica cultura, chiedono sapienza, cioè argomenti che siano capaci di mostrare la razionalità dell’annuncio, la sua pertinenza rispetto alle logiche che guidano la nostra vita (v. 22).  Eppure, l’unica risposta dell’apostolo è «ma noi predichiamo Cristo crocifisso» (v. 23).

Paolo non tenta di argomentare, non tenta di spiegare, ma mette dinnanzi ai suoi interlocutori l’unica cosa che può mostrare, l’unico segno che abbia valore: Cristo crocifisso.  Paolo non illustra né compie prodigi. Paolo non presenta la logica del messaggio evangelico con elucubrazioni filosofiche o razionali. Nulla di tutto questo. Però Paolo sa bene che nel suo uditorio ciò che egli dice crea confusione, disorientamento, scandalo.

Siamo noi consapevoli, come l’apostolo, che la nostra predicazione può essere fonte di confusione?  Siamo noi disposti ad accettare che la confusione ingeneri rifiuto, che la potenza rovesciata di questo evangelo sia snobbata, non riconosciuta, respinta?

Quanti Giudei e quanti Greci camminano nelle nostre città, vivono alla porta accanto, chiacchierano con noi ogni giorno, senza immaginare che il messaggio che abbiamo ricevuto e che portiamo nega le logiche correnti, si affida a qualcuno che nella comprensione del tempo di Paolo era uno sconfitto, un derelitto, uno che era finito male e non poteva certo avere qualcosa di buono per altri?

Forse a duemila anni distanza è più difficile comprendere lo scandalo e l’irragionevolezza della croce: anche perché la croce è divenuta il simbolo che va sempre bene! Come gioiello da appendere, come ornamento che si può mettere ad ogni parete, come simbolo della generosità umana e della disponibilità a spendersi per gli altri che affrontano la malattia.

In realtà al tempo di Paolo, annunciare che il Messia – il Cristo, appunto – era stato messo in croce, era un parlare da persone che farneticano, che non sanno bene che cosa dicono.  La crocifissione, come sappiamo, era la pena esemplare, il modo in cui il potere puniva un malfattore e mostrava a quanti avessero voluto fare lo stesso che cosa sarebbe loro accaduto.  Il potere del tempo, che era il potere romano, mostrava in questo modo la sua potenza.

Paolo osa affermare che questa comprensione delle cose è solamente apparenza. In realtà, la croce di Cristo, ci dice l’apostolo, è il trionfo di Dio su questo e su altri simili poteri, che esprimono la loro potenza nella sopraffazione.

Scandalo e pazzia sono le reazioni, i modi in cui si guarda a questo annuncio da parte dei gruppi che già prima abbiamo citato, i Giudei e i Greci, gli stranieri. Scandalo perché il Messia viene per esprimersi con potenza, non per lasciarsi schiacciare! Pazzia perché questo annuncio non aiuta a comprendere la realtà, bensì la confonde. «Ma per quelli che sono chiamati», questo annuncio è «potenza di Dio e sapienza di Dio» (v.24).

Ma noi, donne e uomini del nostro tempo, cogliamo la potenza di Dio e la sapienza di Dio che ci viene offerta in questo annuncio? Cogliamo l’altra logica, l’altra sapienza, l’altra forza che questo evangelo ci offre e ci porta?

È prima di tutto la forza dell’iniziativa di Dio nei nostri confronti: è Dio che agisce, è Dio che salva, è Dio che si fa conoscere nella propria sapienza.

Conoscete quel proverbio che dice «Aiutati che il ciel ti aiuta»? Di fronte all’annuncio di Paolo è la quintessenza dell’anti-evangelo.  Qui non c’è azione umana, non c’è invito a rimboccarsi le maniche, a fare qualcosa che ci fa stare meglio o ci fa sentire utili; c’è solo l’esigenza profonda di cogliere quella logica che scardina le logiche del nostro mondo, quel messaggio che relativizza radicalmente gli assoluti della nostra vita, anche quegli assoluti che possono sembrare buoni e positivi. C’è l’esigenza di vedere che l’evangelo è altro rispetto ai molti modelli ed espressioni di sapienza: non è annuncio di morale, non è messaggio filosofico o filosofeggiante, non è verità che contribuisce all’architettura spirituale o religiosa dell’essere umano; è momento di rottura con queste diverse realtà perché annuncia l’intervento definitivo di Dio nel mondo.

Paolo porta questo messaggio a chi vorrebbe spiegazioni e dimostrazioni.  Un messaggio paradossale.

Talvolta ho l’impressione che anche in noi cresce il bisogno, la voglia di spiegare come funziona l’evangelo, per renderlo meno scandaloso, più accettabile all’orecchio di chi ci sta intorno o anche al nostro stesso orecchio.  Eppure questo significa già fraintenderlo: non ci è dato di dimostrare, spiegare, convincere con la nostra sapienza e la nostra retorica; possiamo mostrare, possiamo illustrare, possiamo narrare la vicenda di Cristo, offrire semplicemente questa storia, portando insieme ad essa le domande che pone, il modo di guardare alla realtà che la accompagna, la comprensione del mondo che ci offre.

La predicazione della croce vive in questa debolezza, che è anche la sua forza: la debolezza di essere estranea alle logiche del mondo, di essersi inimicata queste logiche, ma proprio per questo la possibilità di offrirsi come l’alternativa inattesa.

È confidando in questa sua forza che noi possiamo annunciarla, farcene araldi, senza temere di essere considerati un po’ meno perbene e ragionevoli di come vorremmo essere.

AMEN

Past. William Jourdan – Liviana Maggiore

Sermone: LA FONTE D’ACQUA DELLA VITA

«O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte! Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il frutto delle vostre fatiche per ciò che non sazia? Ascoltatemi attentamente e mangerete ciò che è buono, gusterete cibi succulenti! Porgete l’orecchio e venite a me; ascoltate e voi vivrete; io farò con voi un patto eterno, vi largirò le grazie stabili promesse a Davide. Ecco, io l’ho dato come testimonio ai popoli, come principe e governatore dei popoli. Ecco, tu chiamerai nazioni che non conosci, e nazioni che non ti conoscono accorreranno a te, a motivo del SIGNORE, del tuo Dio, del Santo d’Israele, perché egli ti avrà glorificato».    (Isaia 55,1-5)

Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».  E colui che siede sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi mi disse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere», e aggiunse: «Ogni cosa è compiuta. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita».  (Apocalisse 21,1-6)

 

“O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte!”

Che bellissima immagine! Così festosa e luminosa! Così rassicurante e gioiosa! Davvero ci fa sentire sotto un nuovo cielo e sopra una nuova terra! O forse ci fa solo immaginare, quasi con malinconia, un nuovo cielo e una nuova terra, perché ci risulta difficile se non impossibile ipotizzare una realtà nuova, che non sia piena di morte e di dolore. Piena di morte e di dolore. Sì, perché spesso la nostra vita qui sulla terra ci appare buia e senza speranza, così buia e senza speranza da non trovare più la forza per sollevare il capo e guardarci intorno. E questa fatica, questa incapacità c’è oggi ed è molto evidente, ma c’era anche 2/3/quattro mila anni fa. In un mondo oscurato dal peccato umano, lacerato dalle grida di dolore e straziato dalla morte, ma, oggi come allora, troviamo nella Bibbia, sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento, parole di segno diverso, parole di speranza che ci indicano una strada differente, un percorso possibile, in salita, probabilmente, ma illuminato dalla luce del Signore.

E quanto ne abbiamo bisogno! Quanta necessità di essere dissetati alla fonte della vita e trovarvi refrigerio, per non cadere nella tentazione della disperazione, dell’angoscia, della perdita di qualsiasi speranza. Perché l’assenza di speranza è l’altra faccia della medaglia dell’arroganza umana che contraddistingue forse qualsiasi società, ma certamente la nostra. Viviamo in un mondo che alterna situazioni in cui ci crediamo onnipotenti ad altre di totale desolazione, senza che esista un equilibrio, una stabilità profonda che ci permetta di percepire la nostra più vera e profonda realtà: siamo uomini e donne, peccatori e peccatrici, che non hanno speranza di riscatto senza Grazia, ma contemporaneamente siamo appunto ricolmi e ricolme della Grazia e quindi possiamo guardare il mondo con gli occhi che il Signore ci ha dato, possiamo rimboccarci le maniche per renderci umili servi e serve al Suo servizio consapevoli che anche a noi, piccoli uomini e donne nell’enorme mondo che ci circonda, spetta un ruolo, spetta un compito. Il Signore ci chiama al Suo fianco, in un mondo che è pieno di dolore, di fatica, di male, ma ci promette anche di nutrirci e dissetarci. Non ci abbandona nel buio dell’esistenza, ma ci illumina con la Sua grazia e lo fa, come dice il testo dell’Apocalisse, rendendo “nuove tutte le cose”.

Molti di noi restano perplessi di fronte al libro dell’Apocalisse, perché sembra un po’ misterioso, strano, pare quasi che non parli a noi. Talvolta capita perfino che lo apprezzino di più i non credenti, che lo considerano una fantasia religiosa, ma affascinante. Perché il credente medio si sente troppo serio e composto per riuscire ad entrare in contatto con il testo dell’Apocalisse e a cogliere un rapporto tra la propria vita quotidiana e quelle immagini, per riuscire a costruire un ponte tra la propria fede, che cresce e si sviluppa all’interno della sua realtà concreta, e queste immagini, considerate poetiche, evanescenti, fuori dalla nostra portata.

Ma l’Apocalisse col suo linguaggio che ci pare descrivere un mondo irreale, fuori della nostra realtà, pieno di angeli e bestie e strani mostri, ci parla anche della lotta del Regno di Dio che viene.

La lotta del Regno di Dio che viene: la lotta, fratelli e sorelle, perché di questo si tratta, di una lotta: il Regno di Dio non è lassù nell’alto dei cieli, freddo e distante. No, il regno dei cieli è qui, al nostro fianco e lotta con noi e per noi. Il Signore si è incarnato una volta per tutte e ci ha offerto quell’acqua di cui parla alla samaritana: un’acqua che ci toglierà per sempre la sete, un’acqua che diventerà dentro di noi “una fonte d’acqua che scaturisce in vita eterna”.

E dunque dopo aver ricordato la settimana scorsa gli orrori dei lager nazisti, dopo aver bevuto, o cercato di bere, il calice amaro della consapevolezza che anche oggi in questo preciso momento ci sono in Libia, piuttosto che in Palestina, in Nigeria piuttosto che in Afghanistan uomini, donne e bambini che muoiono, che soffrono, che sono maltrattati, percossi, violati da altri uomini e donne, nonostante tutto ciò oggi vogliamo anche ricordare che possiamo chiedere e riceveremo, possiamo domandare e ci sarà risposto perché “A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita”. Gratuitamente, fratelli e sorelle, gratuitamente. Questa gratuità ci rimette al nostro posto spezzando la nostra arroganza, ma anche ristorando le nostre paure. E gratuitamente ci arriverà quello senza il quale non c’è esistenza, l’acqua. L’acqua che è fonte di vita per ognuno e ognuna di noi, acqua che ci ristora, che ci rinfresca, ma soprattutto che assicura il nostro esistere o non esistere. Utilizzare la metafora dell’acqua, dunque, ci aiuta a capire che il Signore non ci offre il di più, non ci coccola con discorsi oziosi se non addirittura inutili, ma ci offre la possibilità stessa di vivere, la possibilità di spezzare per sempre la catena, pesante e dolorosa con la quale trasciniamo il fardello che quotidianamente portiamo: il nostro peccato col suo corollario di dolore, di fatica, di ingiustizie fatte e subite. E questo dono è offerto a tutti, indistintamente, senza pregiudizio, senza confini, senza limitazioni, perché come leggiamo in Isaia: “Ecco, tu chiamerai nazioni che non conosci, e nazioni che non ti conoscono accorreranno a te, a motivo del SIGNORE, del tuo Dio, del Santo d’Israele, perché egli ti avrà glorificato”.

E questo è possibile nonostante tutto, perché il Signore ha la capacità e soprattutto l’intenzione di fare “nuove tutte le cose”, essendo l’alfa e l’omega, il principio e la fine.  AMEN

Erica Sfredda

 

Sermone: SPERARE L’IMPOSSIBILE

Romani 8:18-25

Infatti io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza.

Il passo di Paolo che abbiamo letto stamattina è di una rara potenza perché affronta il cuore stesso della nostra fede, del nostro travagliato rapporto con Dio, perché ci accompagna dalla disperazione provocata dalla nostra sofferenza fino alla speranza della nostra redenzione. Paolo afferma che

“siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza.”

Ma come si può giungere alla speranza, se si è totalmente circondati dalla disperazione? Non ho bisogno, credo, di insistere a lungo sulle sofferenze che viviamo e che ci fanno sentire vicinissimi all’apostolo. Anzi, potremmo arrivare a pensare che oggi più di allora la vita ci appare tremenda e angosciosa: in questi secoli abbiamo infatti ucciso e massacrato uomini, donne, bambini e talvolta siamo arrivati a sterminare intere popolazioni, abbiamo assistito in silenzio alla tratta degli schiavi africani, alla shoa, all’annientamento dei nativi americani; ma abbiamo anche sfruttato e depredato l’ambiente che ci circonda. Mai come ora ci pare di poter affermare che tutta la creazione geme. Tutta la creazione: gli animali in via di estinzione, spesso cacciati per puro divertimento, o quelli allevati in condizioni tremende, costretti a vivere tutta la vita all’interno di gabbie nelle quali è loro impedito qualsiasi movimento, ma anche gli ambienti naturali, distrutti e soppiantati da un ecosistema che ci toglie la vita. Non voglio fare un sermone ambientalista. Non è questo il momento, né, forse, la sede giusta, ma volevo solo rendervi presente lo sfacelo in cui abbiamo gettato, talvolta per buone ragioni, spesso solo per speculare ed arricchirci, la Creazione. L’intera Creazione. Se stessi facendo una conferenza, soppeserei i pro e i contro, valuterei l’impatto delle nostre scelte, a volte portatrici di progresso e talaltra scellerate. Ma quello che oggi voglio sottolineare è solo che non facciamo alcuna fatica a comprendere questa affermazione di Paolo:

“La creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta”

La creazione aspetta con impazienza: la creazione violata e ormai lontana dalla propria vocazione, aspetta con impazienza. La creatura umana ha costretto, dice Paolo, tutta la creazione ad essere inutile, ad essere vana, a perdere la propria vocazione e la propria identità. Ma la creazione aspetta perché, ed è questo un passo profondo e sul quale non meditiamo forse abbastanza, la redenzione non può che essere totale e riguardare l’intera creazione. Non si tratterà, dice Paolo, di un evento spirituale, un pochino astratto, a cui approdare attraverso l’ascesi, ma sarà qualcosa che ci coinvolgerà nella nostra totalità, nella nostra integrità di creature, uomini e donne, ma anche piante, animali, acque e montagne. L’aver trasformato la salvezza in qualcosa di astratto, ci permette di vivere come se essa non esistesse, di relegarla alle nostre preghiere domenicali, come se fosse cosa che in fondo non ci riguarda. Ma Paolo non pensa questo e ci ammonisce affermando che la redenzione, per essere tale, non può che riguardare tutta la creazione voluta da Dio.

Ma l’apostolo afferma che

“le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo.”

Le nostre sofferenze, le nostre tragedie, non sono paragonabili alla gloria. Cosa significa? Non si tratta di una facile scappatoia, una specie di consolazione per l’umanità avvolta nel dolore, perché, e Paolo lo sa bene, anche noi, che pur abbiamo le “primizie dello Spirito”, che pur siamo i destinatari della rivelazione, che pur abbiamo incontrato Gesù, anche noi continuiamo a gemere e soffrire e non c’è scappatoia consolatoria che tenga.

Dentro di noi non c’è realmente una possibilità di redenzione perché dietro e dentro ad ogni nostro dolore, anche il più piccolo e banale, c’è, bruciante, il tema della nostra finitezza, della nostra limitatezza che sembra distruggere la speranza. Certo possiamo sperare di trovare lavoro, una casa più bella, un buon marito, dei figli di cui andare orgogliosi, ma non possiamo cancellare la nostra finitezza. E non è pensando all’armonia dell’universo che riusciamo a sfuggire a questa angoscia di fondo, a questa consapevolezza, dalla quale non possiamo sottrarci perché anche l’eternità, vista con i nostri occhi, è limitata, è delimitata.

Possiamo immaginare un tempo lungo, lunghissimo, così lungo da non riuscire a vederne la fine, ma non possiamo capire, realmente, cosa sia l’eternità. Possiamo quindi immagine un’armonia che ci rassereni, ma sarà pur sempre e solo il contrario della disarmonia nella quale siamo immersi.

E Paolo risponde proprio a questo: non è guardando noi stessi che possiamo trovare una soluzione, non è prolungando artificialmente la nostra vita, non è annebbiandoci con l’alcool o con la musica new-age, non è ammazzandoci di lavoro, che possiamo incontrare la speranza, ma solo rivolgendoci al “completamente altro”. Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili, perché sono le nostre sofferenze, il nostro confine.

Per trovare la Consolazione dobbiamo prima di tutto accogliere la realtà che noi non possiamo dare consolazione, non possiamo essere consolazione, perché la consolazione in realtà non ci appartiene, è totalmente altro, o come dice Paolo

“la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora?”

La consolazione dunque arriva proprio quando ci lasciamo andare, quando accogliamo nel nostro cuore e nella nostra vita il totalmente Altro, colui che solo può accogliere la nostra disperazione e trasformarla in speranza. Amen!

Erica Sfredda

Sermone: EPIFANIA, CIOÈ MANIFESTAZIONE

In molti luoghi, anche nelle abitazioni, nel periodo di Natale, oltre all’albero addobbato, si predispone anche il presepe. Di recente mi è stato chiesto se il presepe va bene anche per gli evangelici e la mia risposta è stata “certo che sì”. Sicuramente non per mettere delle figurine che debbano essere oggetto di culto, ma per manifestare con un addobbo il ricordo di quanto avvenuto a Betlemme.

Un presepe completo, oltre alla cosiddetta sacra famiglia, vede anche i pastori, gli angeli e tre figure che rappresentano personaggi benestanti: i tre magi, tre sapienti venuti dall’oriente.

Ascoltiamo il racconto così come contenuto nell’evangelo di Matteo 2:1-12.

Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all’epoca del re Erode. Dei magi d’Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo».

Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informò da loro dove il Cristo doveva nascere. Essi gli dissero: «In Betlemme di Giudea; poiché così è stato scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo Israele”».

Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s’informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparsa; e, mandandoli a Betlemme, disse loro: «Andate e chiedete informazioni precise sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, affinché anch’io vada ad adorarlo».

Essi dunque, udito il re, partirono; e la stella, che avevano vista in Oriente, andava davanti a loro finché, giunta al luogo dov’era il bambino, vi si fermò sopra. Quando videro la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.

Entrati nella casa, videro il bambino con Maria, sua madre; prostratisi, lo adorarono; e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.

Poi, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per un’altra via.

A Natale abbiamo letto della nascita di Gesù così come raccontata da Luca. Un Signore che nasce povero fra i poveri, ma che viene annunciato ai pastori da un angelo che viene accompagnato da «una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva “Gloria a Dio nei luoghi altissimi e pace in terra agli uomini che egli gradisce!»

I pastori sono gente povera e semplice, certamente non acculturata, ma nel racconto di Matteo ci viene detto che anche tre sapienti arrivano da Oriente in cerca del bambino. I tre magi, persone ricche e colte che possono permettersi di portare doni preziosi, dal significato simbolico:

  • ORO, simbolo della regalità riconosciuta a questo infante povero;
  • INCENSO, per simboleggiare la sua divinità;
  • MIRRA, una resina ricavata da una pianta tipica della Mesopotamia e dell’India, che veniva utilizzata per aromatizzare e conservare le mummie, preludio quindi del sacrificio e della morte di quel Gesù bambino.

Questi saggi hanno seguito un “segno”, rappresentato nel racconto dalla stella che li ha guidati fino a Betlemme.

È un bel racconto. Certo non sappiamo se sia stato proprio così che è accaduto, ma poiché nelle Scritture nulla è messo per caso, al di là del fatto che ciò sia realmente accaduto, dobbiamo interpretare il significato simbolico della narrazione.

Intanto notiamo che i magi erano tre, non due o quattro o altro numero, ma tre, numero che fin dall’antichità era considerato “perfetto” e che, direi poco casualmente, ci richiama alla trinità, cioè alle tre manifestazioni dell’unico Dio: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Ma notiamo anche un altro aspetto dal racconto: costoro vengono dalle terre d’Oriente, terre in cui era già presente da alcuni secoli il buddismo oltre ad altre culture tendenti alla ricerca della luce per la vita attraverso la meditazione e l’introspezione anti-idolatrica.

Questi tre signori quindi ci vengono presentati come assolutamente estranei al popolo dei credenti del Dio unico, a Israele. Essi non vengono a Betlemme per riconoscere qualcuno che attendono in virtù di quanto annunciato dai profeti. Essi vengono con umiltà, in ricerca, alla ricerca di un RE davanti al quale prostrarsi in adorazione, un RE che si manifesta per i pastori (gente povera e non certo acculturata) ma anche per loro, sapienti e verisimilmente ricchi.

Vorrei sottolineare l’umiltà che ci viene presentata per queste tre figure, un’umiltà dimostrata nel prostrarsi dinanzi a un bimbo e a una famiglia povera.

Umiltà e non modestia: due termini da non confondere. I magi sono ben consapevoli del loro status sociale, infatti per chiedere informazioni si recano a Gerusalemme, dai maggiorenti della città, fino ad essere convocati al cospetto del re Erode e con lui parlare alla pari, prendendo anche accordi per fornirgli successivamente informazioni su dove avrebbero trovato questo preziosissimo bambino. Ma anche gli stessi doni che portano sono segno di personaggi sociologicamente altolocati e per ciò stesso consapevoli del loro status.

Eppure, illuminati nella loro ricerca, trovato Gesù si prostrano e lo adorano, un atteggiamento questo non consono a persone di rango superiore.

Che cosa significa questo? Che significato diamo a questo episodio noi, donne e uomini credenti di oggi?

Direi che a questo punto dobbiamo vedere il collegamento con le altre due letture: l’episodio in cui Gesù si fa riconoscere da Natanaele, un uomo buono, un “vero israelita in cui non c’è frode” il quale, tuttavia, è scettico e fatica a credere a quanto gli dice Filippo, perché … “Può forse venire qualcosa di buono da Nazareth?”. Natanaele è quindi sì un buon uomo, ma è anche colui che vive delle precomprensioni culturali della sua terra e su queste magari fonda il suo scetticismo.  Ma è proprio questo scetticismo che viene vinto da Gesù il quale si manifesta stupendolo (“ti ho visto sotto il fico”), ma dopo essersi manifestato e riconosciuto come il Messia, promette che si vedranno ancora cose più strabilianti (“il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo”).

Ecco il collegamento fra questi due passi: Dio si è fatto uomo PER TUTTI, per i sapienti e per i non sapienti, per i nobili e per i pastori, per i credenti e gli increduli, per i dotti e per i semplici, perché tutta la sapienza e la conoscenza dell’uomo viene ridotta a nulla al cospetto di Dio, se questa sapienza e conoscenza serve all’uomo per vantarsi, per perdere l’umiltà che deriva dalla vocazione, dalla chiamata ricevuta.

L’epifania del Signore ha quindi un grande valore, perché Egli si manifesta a tutti, al popolo di Israele come a coloro che vengono da Oriente, ai re come ai pastori, ai fedeli come agli increduli, ai ricchi come ai poveri.

È pur vero che troviamo scritto anche che “è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel Regno di Dio”, ma questa affermazione riguarda il ricco che non vuol condividere e non è certo un invito alla mistica della miseria o alla colpevolizzazione del benessere in sé.

Possiamo quindi dire che questa epifania ai magi, così come a Natanaele, sottolinea il fatto che Gesù è venuto per tutti, che la sua salvezza è per tutti i popoli, per tutti gli uomini e le donne che possano accoglierlo come il loro salvatore. Non c’è distinzione di razza o lingua, di cultura e abitudine sociale; l’amore di Dio è per tutti, la sua salvezza è offerta in abbondanza e gratuitamente e il cuore di chiunque cerchi autenticamente la verità può incontrare il Signore, credere in Lui e trovare il senso pieno della propria vita.

E se siamo consapevoli di questo, capiremo bene il valore della differenza fra umiltà e modestia, perché anche coloro che hanno avuto la fortuna e l’opportunità di studiare di più, oppure coloro che hanno avuto il dono di nascere e crescere in famiglie di status sociale più elevato, sono destinatari del messaggio e, se accolto nel loro cuore, non possono far altro che considerare tutti gli uomini uguali in dignità e destinatari della condivisione dei doni (materiali e immateriali) che ciascuno ha ricevuto.

Quindi tutti debbono certamente essere umili, pur magari nella consapevolezza del loro valore e quindi senza coltivare false modestie, perché ciascuno è chiamato alla salvezza e al servizio agli altri, certo in ruoli diversi, ma sicuramente non di importanza differente agli occhi di Dio.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: IL RINNOVO DEL PATTO

Carissimi,

Il culto di oggi ha come argomento il rinnovo del patto, quell’alleanza che Dio ha contratto con l’uomo, quella promessa che ci è stata confermata più volte dai profeti.

Tradizionalmente, nelle nostre chiese si festeggia il rinnovo del patto con l’inizio dell’anno nuovo, ma da qualche tempo nella nostra comunità viene ricordato nella domenica più vicina al primo gennaio.

Oltre alla lettura di Genesi 9:8-17 che abbiamo appena sentito, leggiamo il passo sul quale oggi rifletteremo, tratto dall’evangelo di Giovanni al capitolo 14:1-6.

«Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me! Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che io vado a prepararvi un luogo? Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi; e del luogo dove io vado, sapete anche la via».

Tommaso gli disse: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo sapere la via?»

Gesù gli disse: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.»

Nella prima lettura, quella di Genesi, abbiamo visto la costituzione del patto, dell’alleanza fra Dio e l’uomo. Dopo una terribile catastrofe (il diluvio), riferita come una punizione per la grande ira di Dio a causa dell’infedeltà dell’uomo, il Signore si ricrede, torna sui suoi passi, comprende bene che l’uomo è una sua creatura, una creatura che Egli ha lasciato libera di agire come crede, libera perfino di ribellarsi alla Sua legge e, con una descrizione favolistica e poetica, ristabilisce il rapporto con un segno: l’arcobaleno.

Pace fatta? Sì, temporaneamente, perché l’uomo non riesce a coltivare un cuore puro, non riesce a vivere in pace nella fedeltà al Signore, nemmeno quando il Signore lo soccorre e viene in suo aiuto per farlo uscire dal paese d’Egitto. In Esodo ci viene detto che l’uomo è di memoria labile e facilmente si converte ad altri idoli. E il Signore si fa sentire attraverso Mosè, dando semplici regole, i comandamenti.

Ma l’uomo continua pervicacemente a vivere la propria vita, infischiandosene ampiamente del condursi nella vita in correttezza, rettitudine e fratellanza.

Certo, magari riconosce a parole l’autorità di Dio e la sua benevolenza, ma rimane ancorato a comportamenti egoistici, prevaricatori, ingiusti e talvolta sceglie altri idoli.

Nello svolgersi delle scritture dell’Antico Testamento noi vediamo che questo schema si ripete, nonostante le esortazioni e le raccomandazioni dei profeti.

Ma l’uomo è fatto così, nella sua stessa indole c’è sempre presente la tendenza alla trasgressione, al peccato, all’oltraggio al Signore, il quale alternativamente si arrabbia furiosamente con la sua creatura e poi torna a perdonarlo, perché Egli sa bene che solo un Suo riavvicinamento con l’uomo può portare quest’ultimo alla salvezza, alla redenzione.

Un riavvicinamento che, nel Nuovo Testamento, ci viene presentato come il dono più grande che il Signore fa all’uomo, nel tentativo che il cuore umano finalmente si converta: la venuta di Gesù, Figlio di Dio, in terra. La venuta in terra non su un carro infuocato, ma con la semplice nascita di uomo fra gli uomini, perché il genere umano è fatto da esseri stolti e limitati, che hanno bisogno di sentirsi dire e ripetere quale sia la volontà del Signore.

E quando l’uomo, il credente, si rende conto della propria infedeltà, del susseguirsi dei propri insuccessi nel seguire le vie del Signore cosa succede?

Può accadere una cosa assai negativa: interiorizza il proprio senso di inadeguatezza, coltivando sensi di colpa e insoddisfazione costante, fino ad arrivare alla mancata accettazione di se stesso.

Ma può accadere anche che, per autodifesa, si neghi la presenza di Dio nella propria vita, passando a gestire l’esistenza come se Lui non ci fosse, come se il messaggio che magari abbiamo un tempo ricevuto sia stato dimenticato o nascosto al nostro pensiero, dando così la preferenza ad una vita più utilitaristica e meno solidale, oppure addirittura negando Iddio, risolvendo tutto ad una dimensione puramente orizzontale e non prendendo in considerazione che questo scampolo di anni di vita terrena può non essere il tutto della nostra stessa esistenza.

Ecco allora che, da fedeli, possiamo comprendere quanto sia stato grande l’amore di Dio per l’uomo che viene ad essere il destinatario di un grandissimo dono: il perdono. Quel perdono gratuito che ci dà la possibilità di rasserenarci, di cominciare da capo, di sentirci amati nonostante il nostro essere infedeli e peccatori. Quel perdono segno di grande amore per ciò che siamo, di infinita accettazione del nostro essere.

Proprio così, Dio ci conosce e ci ama e ci accetta per come siamo. E su questo dovremmo forse fare una riflessione: perché spesso noi non ci accettiamo? Forse perché siamo più concentrati ad osservare la differenza fra ciò che siamo e ciò che avremmo voluto essere? Ma quello che avremmo voluto essere non è forse un modello, direi quasi un fantasma, che ci siamo costruiti nella giovinezza, ma che in realtà non ci appartiene? Impariamo dunque ad accettarci! Certo dobbiamo rimanere vigili per limitare i nostri comportamenti negativi, ma dobbiamo anche riconoscere ciò che di buono c’è in noi, in ciascuno di noi e forse così eviteremo di proiettare sul prossimo le nostre insoddisfazioni e impareremo a coltivare la pazienza e la tolleranza.

Dio rinnova costantemente il suo patto con noi. E lo fa non certo togliendoci le nostre responsabilità, né tantomeno limitando la nostra libertà, ma lo fa concedendoci la grazia di essere suoi figli, accogliendoci così come siamo, proprio come il padre misericordioso accoglie e fa festa per il figliol prodigo.

E se questo non bastasse, ci viene data anche rassicurazione, come abbiamo letto nelle parole di Gesù: “Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”.

Con queste parole Gesù ci invita a dissipare il nostro turbamento, a guardarci dentro e, ripeto, provare ad accettare noi stessi, così come il Signore ci accetta per ciò che siamo, sollecitandoci magari ad una conversione, ad ammorbidire il nostro cuore di pietra perché da Lui viene la forza per tornare ad un cuore di carne.

Gesù è l’incarnazione del rinnovato patto, della rinnovata alleanza fra Dio e l’uomo e, nonostante l’uomo, è colui che dice anche “Quando vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi”.

Non solo, ma anche la risposta all’insipienza di Tommaso è come se fosse dedicata a noi. Tommaso, proprio come noi, non ha ben capito la portata della figura di Gesù. Tommaso non ha capito, noi non abbiamo capito, oppure spesso la nostra mente e il nostro cuore sono altalenanti fra comprensione e incredulità, fra accettazione e rifiuto di Dio nella nostra vita.

La risposta di Gesù è chiara: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

È chiara questa risposta? Direi di sì.

Ci crediamo a questa risposta? Come credenti dovremmo crederci e non dovremmo nutrire dubbio alcuno. Se invece non ci crediamo, nell’assoluta libertà che abbiamo, dovremmo essere intellettualmente onesti e non definirci cristiani.

Ma c’è anche un altro aspetto, un’idea costante che mi ha assillato nella riflessione durante la preparazione di questo culto per il rinnovo del patto.

Qual è la valenza particolare della conferma dell’alleanza fra Dio e l’uomo manifestata e proclamata da Gesù Cristo. In effetti nell’Antico Testamento più volte il Signore ha rinnovato il suo patto, più volte ha dovuto Lui riavvicinarsi all’uomo (es. Giosuè, Geremia).

Credo sia una lettura corretta e ve la propongo in tutta umiltà: con la venuta di Gesù, col grande dono del perdono gratuito, Dio guarisce il nostro cuore di pietra e ci dà la possibilità di interpretare la legge dell’amore e della fratellanza non come una norma esteriore, esterna all’essere umano, talvolta forse oppressiva. Con il perdono gratuito Dio ci vuol dire che la legge dell’amore è anni luce distante dai semplici comandamenti di Mosè, perché la legge dell’amore, dell’accettazione, del perdono, non è scritta su tavole di pietra, ma è incisa nel cuore di carne, nel nostro cuore, quel cuore che la fede fa cambiare.

Ecco allora, sorelle e fratelli, che ancora una volta possiamo solo innalzare al Signore la nostra preghiera di lode e ringraziamento perché il rinnovo del patto, la conferma dell’alleanza è per tutti noi, collettivamente e individualmente.

Con questo spirito quindi, possiamo augurarci fraternamente buon anno nuovo nel Signore.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: IL DONO DI NATALE

Questo è un periodo particolare dell’anno. Le nostre città, i negozi, le nostre stesse abitazioni sono addobbate per l’evento, il più delle volte in una strana commistione fra il sacro e il profano. L’aria delle feste si sparge sulla nostra distratta e materialistica civiltà, facendo magari in modo che il Natale diventi una festa anche per coloro che non sono credenti.

Una consuetudine ormai radicata è quella di scambiarsi doni (almeno per chi ne ha le possibilità) e magari siamo portati a interpretare i doni solo come “cose” da regalare e non ci fermiamo a riflettere sul fatto che il dono può essere anche il nostro tempo condiviso per stare insieme, fossilizzati come siamo nel fare anziché nell’essere.

Io ritengo di essere una persona fortunata perché ho avuto l’abitudine fin da giovane a considerare un grande dono la vicinanza di persone che amo e dalle quali mi sento riamata. E questo è accaduto anche in questo Natale, il cui preludio è stato veder realizzato un grande desiderio: passare ore insieme con una persona che ha condiviso con me l’ascolto di musica, le chiacchiere, la condivisione dei pasti, l’allegria così come la tristezza. Molto, molto più di un regalo materiale.

E proprio riflettendo sul significato del “dono” assume una particolare valenza il passo della prima Epistola di Giovanni, un passo per me pregno di gioia e speranza, un passo nel quale veniamo sollecitati a riflettere sul grande dono che ci è stato fatto con la nascita del Bambinello a Betlemme.

Leggo da 1 Giovanni 3:1-6

Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio! E tali siamo. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.

Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è. E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica com’egli è puro.

Chiunque commette il peccato trasgredisce la legge: il peccato è la violazione della legge. Ma voi sapete che egli è stato manifestato per togliere i peccati; e in lui non c’è peccato.

Chiunque rimane in lui non persiste nel peccare; chiunque persiste nel peccare non l’ha visto, né conosciuto.

Ho detto che in questi versetti traspare la gioia e in tal senso cerco di spiegarmi.

Questa lettera è attribuita da molti all’autore del quarto vangelo, altri invece ritengono che non lo sia. Tuttavia per la nostra riflessione questa disputa non riveste particolare importanza perché oggi è meglio concentrare la nostra attenzione sul significato dei versetti che abbiamo letto.

L’epistola non inizia con una dedica di apertura in cui siano indicati i destinatari, però alcuni studiosi ritengono che Giovanni volesse scrivere alle chiese dell’Asia minore, nelle quali era ben conosciuta la radice ebraica derivante dall’Antico Testamento.

In questo senso quindi possiamo leggere il versetto 5, nel quale Giovanni dice che “chi commette peccato trasgredisce la legge”, perché così era interpretato il peccato: fare qualcosa che va contro la legge, contro le regole imposte.

Ma Giovanni ci parla anche di amore, di un amore immenso che noi cristiani sappiamo essersi manifestato con la venuta di Gesù sulla terra. Un amore che ci dà la speranza, anzi la certezza del perdono per il peccato, perché noi sappiamo bene che anche la persona più retta e più proba vive comunque in una situazione di peccato e necessita quindi del perdono.

Nonostante nella cultura cattolica dominante il peccato sia spesso letto come il “fare qualcosa che non va bene”, se ci soffermiamo a riflettere comprenderemo bene che il peccato è qualcosa che va bene al di là delle nostre azioni. Il peccato non è solo non ledere gli altri, non rubare, non uccidere, non maltrattare. E tantomeno il peccato non è certo commettere “atti impuri”, magari assimilandoli a comportamenti sessuali che risentono per lo più dalla civiltà in cui siamo inseriti.

Spesso le azioni che consideriamo “peccato” risentono più dei nostri sensi di colpa e poco hanno a che fare con azioni realmente peccaminose.

Il peccato è altro. È la situazione nella quale costantemente viviamo perché il nostro condurci nella vita in realtà non è fraterno, non è amorevole nei confronti degli altri, non è realmente solidale, non ci fa uscire dal nostro guscio per condividere ciò che siamo e ciò che abbiamo, quasi che tutto ciò che ci viene messo a disposizione in termini materiali e non materiali sia una nostra proprietà, della quale possiamo disporre totalmente, lasciando agli altri le briciole.

Così inteso il peccato è qualcosa di più grande, più coinvolgente, sempre presente nel nostro agire e nel nostro essere, perché in realtà siamo … esseri piccoli e meschini, che non riescono a vedere più in là del loro naso e che hanno bisogno di norme e leggi per definire il buon condursi nella vita o la trasgressione. Direi una visione decisamente veterotestamentaria.

Ma oggi è Natale. Ricordiamo la nascita di Gesù, quindi dobbiamo chiederci quale sia la relazione fra quanto abbiamo fin qui detto e questa grande festa della cristianità.

Giovanni ci dice che il Padre ci ha manifestato un grande Amore, un Amore con la A maiuscola. Il Padre ci ha fatto un grandissimo dono “dandoci di essere chiamati figli di Dio”. E questo dono ci è stato fatto proprio con Gesù, uomo fra gli uomini, Dio incarnato per solo e puro amore di un Signore che continua ad amarci nonostante le nostre infedeltà e che, lungi dall’essere solo il Dio degli eserciti, ci concede il perdono attraverso suo figlio, Dio egli stesso, ma non un altro Dio, bensì una diversa manifestazione dell’Eterno.

Ecco allora che la venuta di Gesù è una rottura completa con il passato. La venuta di Gesù produce una “anastrofe” una completa inversione di termini, una anteposizione rispetto a ciò che prima era, ma senza cancellare ciò che prima esisteva. Non è quindi una “catastrofe” che azzera il passato, ma una nuova visione del mondo e della vita basata sul perdono e sulla grazia gratuitamente elargita.

Ecco dove sta la gioia che deve inondare i nostri cuori.

Quel bambino di Betlemme nasce ancor oggi per ciascuno di noi, viene per farsi conoscere da noi, viene per donarci la consapevolezza che siamo figli di Dio, che siamo destinatari di un amore puro e infinito, che siamo coloro che riconoscono nel Signore l’unica vera fonte di grazia, quella grazia che ci riscatta dal peccato, dalla situazione di infedeltà che costantemente ci attanaglia.

Quindi, sorelle e fratelli, gioiamo oggi nel ricordo di un grande evento che ha cambiato i tempi. Gioiamo nel profondo dei nostri cuori perché Qualcuno ha già provveduto alla nostra salvezza.

Tuttavia, consapevoli di questo grandissimo dono, certo non materiale, realizziamo nella nostra vita un pezzetto di quella anastrofe, cambiando talvolta il nostro modo di essere e di porci nei confronti degli altri, non relegando i nostri pensieri solo nelle nostre esperienze passate, nei comportamenti legati alla nostra storia personale, a quella limitata vita finora vissuta.

Concentriamoci invece sul fatto che tutti noi, ciascuno col proprio nome (tu Francesco, tu Valdo, tu Mary, tu Sophia, tu Federico …), siamo in cuore a Dio che fa piovere sul nostro capo il perdono grazie alla presenza sul mondo di Gesù, un bimbo nato povero fra i poveri per la salvezza del mondo.

Con questo spirito gioioso, sapendo che come canteremo nel prossimo inno “una nuova alba sorge”, auguriamoci vicendevolmente “Buon Natale”.

AMEN

Liviana Maggiore

 

Sermone: MARANATHA’ – VIENI, SIGNORE, VIENI.

Cari fratelli e sorelle, per questa domenica, terza di Avvento, il testo di predicazione proposto da “Un giorno una parola” è tratto dalla Lettera ai Romani 15,4-13

“Poiché tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione, affinché mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza.

Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di aver tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, affinché di un solo animo e d’una stessa bocca glorifichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio. Infatti io dico che Cristo è diventato servitore dei circoncisi a dimostrazione della veracità di Dio per confermare le promesse fatte ai padri; mentre gli stranieri onorano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti celebrerò tra le nazioni e canterò le lodi al tuo nome». E ancora: «Rallegratevi, o nazioni, con il suo popolo». E altrove: «Nazioni, lodate tutte il Signore; tutti i popoli lo celebrino». Di nuovo Isaia dice: «Spunterà la radice di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni; in lui spereranno le nazioni». Ora il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza, per la potenza dello Spirito Santo.”

Il testo che abbiamo appena ascoltato sembra, a prima vista, voler toccare più punti, voler offrire più spunti e tematiche diverse per la riflessione personale o comunitaria. Se lo mettiamo però a confronto con le altre letture neotestamentarie di oggi, ecco che un filo conduttore unico inizia a comparire. Siamo nel periodo dell’Avvento: fra una settimana, lunedì prossimo, sarà Natale. Ancora una volta Cristo nasce per noi e si fa uomo: carne per noi e come noi. Nell’Evangelo di Giovanni, la nostra prima lettura, vediamo Gesù che ribadisce con forza, di fronte ad un Giovanni Battista dubbioso o quanto meno incerto su chi fosse realmente colui che aveva battezzato tempo prima nelle acque del fiume Giordano.  «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?».  Anche nella Seconda Lettura l’Apostolo Paolo parla della venuta del Signore. Questa volta però si tratta della seconda e definitiva venuta: “quando Egli metterà in luce quello che è nascosto nelle tenebre e manifesterà i pensieri dei cuori”. Alla fine dei tempi quindi, quando Gesù giudicherà noi tutti: “colui che mi giudica è il Signore. Perciò non giudicate nulla prima del tempo, finché sia venuto il Signore”.

Si comprende ora meglio il messaggio che ci viene oggi dal passo della Lettera ai Romani: Gesù Cristo è l’inviato di Dio. Dio ha mantenuto la sua promessa e ha mandato il liberatore. “A dimostrazione della veracità di Dio per confermare le promesse fatte ai padri”. Del resto anche Isaia, nell’Antico Testamento, dice chiaramente: “Spunterà la radice di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni; in lui spereranno le nazioni».

Ma Dio non ha mandato un inviato in vesti regali: ha mandato un “servitore dei circoncisi” ovvero del popolo ebraico. Ma attenzione, ora siamo nel Nuovo Patto per cui Gesù non è il liberatore solo e soltanto del popolo ebraico ma lo è per tutte le nazioni: “Rallegratevi, o nazioni, con il suo popolo”. Pertanto “nazioni lodate tutte il Signore; tutti i popoli lo celebrino”.

Ecco quindi cosa ci apprestiamo a fare in queste settimane di Avvento. Dove questo termine, come sappiamo, indica, appunto “venuta”.  Una venuta che è speranza, speranza che ci riempie di gioia e di pace nella fede, affinché possiamo abbondare, prosperare, stare meglio grazie alla potenza dello Spirito Santo. Spirito Santo che, ricordiamolo ancora, è quella persona della Trinità che è sempre presente qui sulla Terra fin da quando Gesù è asceso al cielo.

Egli non ci ha lasciato soli: con noi è rimasto il suo Spirito. Lo abbiamo sentito prima nell’invocazione iniziale: “Dio, che è per noi come un padre” (vedi quindi l’Antico Testamento) “Dio, che è diventato nostro fratello in Gesù Cristo (e qui siamo nel Nuovo Testamento) “Dio, che è adesso qui presente nello Spirito Santo.” Spirito di speranza, di consolazione ed anche di potenza, nell’attesa della seconda e, lo ripeto, definitiva venuta di Cristo per “giudicare i vivi e i morti” come dice il nostro Credo.

Le parole chiave quindi, cari fratelli e sorelle, di questo passo di Paolo che ci viene proposto alla riflessione in questa domenica, iniziano a crescere: venuta, speranza, e adesso Fede: “vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede”.

Ma cos’è la Fede? Fede vuol dire fiducia, vuol dire affidarsi totalmente a qualcuno. Sì, mio Signore, mi fido ciecamente ed assolutamente di Te, portami dove vuoi. La tua mano paterna mi guida sicuramente verso il bene. E abbiamo sentito prima le parole del Salmo 23: “Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza”. Tu sei con me, tu mi dai sicurezza. La sicurezza che nasce dalla fiducia, dall’affidarsi totalmente a Colui che è già venuto e che so che tornerà. Ma che comunque è già qui presente, in mezzo a noi, in Spirito.

Lo abbiamo anche invocato nel primo inno: “Vieni in mezzo a noi, Dio liberatore”. Ecco di nuovo il liberatore. Anche l’inno 70 “Un’alba nuova” ce lo ricorda: “Un’alba nuova sorger vediam per liberarci viene il Signor”. Colui che ha liberato il popolo ebraico dalla schiavitù materiale, fisica, in Egitto, colui che ci ha liberato dalla schiavitù spirituale del peccato, colui che tornerà per salvare ancora una volta chi ha avuto fiducia in lui, chi ha creduto, chi si è affidato.

Come vedete, cari fratelli e sorelle, tutto il culto di questa domenica converge, tutto torna. E allora, non possiamo fare altro che pronunciare, con vera fede, l’ultima parola della Bibbia: Maranathà, vieni Signore vieni. Il tuo popolo ti aspetta.

Amen

Daniele Rampazzo

Sermone: NON SI COSTRUISCE SENZA PRIMA AVER ABBATTUTO

Geremia 1,4-10

4 La parola del SIGNORE mi fu rivolta in questi termini: 5 «Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni». 6 Io risposi: «Ahimè, Signore, DIO, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo». 7 Ma il SIGNORE mi disse: «Non dire: “Sono un ragazzo”, perché tu andrai da tutti quelli ai quali ti manderò, e dirai tutto quello che io ti comanderò. 8 Non li temere, perché io sono con te per liberarti», dice il SIGNORE. 9 Poi il SIGNORE stese la mano e mi toccò la bocca; e il SIGNORE mi disse: «Ecco, io ho messo le mie parole nella tua bocca. 10 Vedi, io ti stabilisco oggi sulle nazioni e sopra i regni, per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare».

In questa seconda domenica d’avvento ci arriva dai testi che abbiamo letto, una richiesta importante: metterci in ascolto obbediente, perché siamo conosciuti dal Signore, siamo conosciuti sin dal grembo materno, ed Egli ha un incarico da affidarci, un compito, ci indica una strada da seguire e forse si tratta di un percorso molto facile, oppure molto impegnativo o addirittura pericoloso, come quello che è toccato a Geremia, ma non dobbiamo temere. Anche se ci sentiamo troppo minuscoli per affrontare il nostro compito, il Signore è con noi e non ci abbandona.

Cerchiamo dunque di capire quale rapporto possa esserci tra la nostra storia personale, di uomini e donne del XXI secolo, e quella di Geremia, un profeta antico, la cui vicenda può sembrarci epica, qualcosa che oggi non ha più nulla da dirci, se non in termini molto simbolici. Così come presto, tra un paio di settimane, saremo chiamati a metterci in discussione di fronte alla storia di un piccolo bambino nato in una grotta, o in una stalla, alla periferia di Betlemme.

Tutti i profeti hanno vissuto in situazioni difficili, ma Geremia ha dovuto svolgere il suo ministero profetico in un periodo storico particolarmente drammatico. Il regno settentrionale d’Israele non esisteva già più da parecchio e la sua capitale, Samaria, era occupata dagli Assiri. Ma anche il regno del Sud aveva perso la sua autonomia diventando stato vassallo dell’Assiria. Gli assiri erano stati presto sostituiti dai babilonesi, guidati dal famoso Nabucodonosor che era entrato in Gerusalemme e aveva operato una prima deportazione. Nonostante i ripetuti inviti di Geremia, che aveva iniziato il suo ministero poco prima, Gerusalemme si era ribellata ai babilonesi. Nabucodonosor era quindi tornato e dopo un lungo assedio era entrato a Gerusalemme e l’aveva distrutta. Gli israeliti vennero deportati in massa in Babilonia. Gerusalemme e il tempio furono distrutti, la terra promessa occupata e martoriata, nulla sembrava più essere come avrebbe dovuto. Già prima della disfatta il popolo aveva cominciato ad allontanarsi dalla propria fede e si era lasciato contaminare da altri culti più facili. Sì, più facili, perché si trattava di culti che promettevano ricchezza, bellezza, fertilità… Culti che in cambio della devozione sembravano dare agli uomini e alle donne quello che maggiormente essi desiderano: la facile felicità. Chi di noi non la vorrebbe? Chi di noi in fondo non sarebbe disposto a rinunciare alla propria spiritualità, alla propria fede, se gli venisse promessa la felicità? Il raggiungimento dei propri sogni? Non facciamo un pochino anche noi la stessa cosa? Non abdichiamo alla nostra fede mille volte anche noi? o forse solo cento, o dieci o solo qualche volta per opportunismo, per quieto vivere, per il cosiddetto buonsenso? O anche, semplicemente, perché in fondo abbiamo perso il senso stesso di ciò che è bene e ciò che è male?

E poi, guardiamoci intorno: non pensiamo spesso che a viste umane non c’è più nulla da sperare? Che nel mondo tutto è sotto il segno del peccato, tutto è perduto e quindi a che vale che solo noi resistiamo? Non è più facile farsi portare dalla corrente? E non succede quindi anche a noi di abbandonarci agli idoli? Di chiedere aiuto agli idoli che ci circondano? In questo contesto Geremia è chiamato ad andare per annunciare che tutto ciò va sradicato. Anzi che va sradicato, demolito, abbattuto e distrutto. Non si tratta di sinonimi, ma di verbi che ci restituiscono il senso del tremendo potere che Dio dà a Geremia perché conduca a termine la sua missione.

Geremia sapeva, perché lo sentiva dentro di sé, ne aveva la consapevolezza, di essere predestinato al difficile compito di essere profeta, e profeta di sventura, oltretutto! Sentiva che era nato per questo, ma sentiva anche che gli mancava la forza e forse il coraggio per esserlo. Non capita lo stesso anche a noi? Quante volte succede che ci tiriamo indietro, che non sappiamo percorrere fino in fondo la strada che pur intuiamo essere la nostra? Quante volte la visione delle difficoltà ci blocca, ci paralizza e ci impedisce di andare avanti? Quante volte ci siamo accontentati di fermarci al primo bivio? Ci siamo detti che era sufficiente questo? Geremia si sente troppo giovane, noi forse ci sentiamo troppo vecchi, ma a noi come a lui sembra mancare la forza sufficiente per fare quello a cui eravamo destinati fin dal grembo delle nostre madri. Predicare, lavorare per la nostra comunità, ma anche essere adeguati a quello che il nostro ruolo comporta in famiglia, nei luoghi di lavoro, nella società, ma soprattutto essere e rimanere consapevoli sempre che siamo figli di Dio e che i nostri vicini, amici e conoscenti, avranno o non avranno il dono della fede anche a causa nostra, a causa della nostra testimonianza.

E a questo proposito vorrei che rifletteste un momento su cosa significhi profezia, perché non credo che dobbiamo pensare che sia qualcosa che non ci riguarda, un’attività del passato, anzi da credenti del passato, perché al contrario la profezia è qualcosa che riguarda, o può riguardare, ognuno e ognuna di noi. Cosa significa, cosa può significare oggi, in un’epoca in cui tutto sembra molto prosaico e materiale, dove la tecnologia domina le nostre esistenze, parlare del dono profetico? Al giorno d’oggi sembra ci siano parecchi guaritori, indovini, mistici dediti all’esoterismo, e ne troviamo all’interno delle chiese cristiane, ma anche nelle sinagoghe, nelle moschee, nei templi laici e atei della modernità. Ma a tutti questi personaggi mancano due caratteristiche che accomunano i profeti dell’Antico Testamento: la prima è il parlare con un’autorevolezza che non proviene da loro stessi, che li trascende. Il profeta non annuncia se stesso, non mette in mostra i propri doni, ma è sempre e solo colui che comunica la volontà di Dio, che è mandato da Dio ed operante solo grazie alla potenza di Dio. L’altra caratteristica è che il profeta è colui che è inviato per chiamare uomini e donne a convertirsi, cioè a tornare alla loro vocazione più profonda. Non è un mestiere facile, perché il profeta arriva là dove ci si è allontanati e questo provoca sempre delle reazioni di rifiuto, quando non aggressive. Il profeta biblico non è tanto colui che predice il futuro, ma colui che ti aiuta a discernere la volontà di Dio, ma anche, laicamente, a discernere il bene, a costo di mettere in pericolo la propria stessa vita.

Infine vorrei sottolineare stamattina che Geremia è inviato “per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare». Ci vuole un bel coraggio! Anche per costruire e piantare, se chi ci sta attorno non è d’accordo, figuriamoci per sradicare, demolire, abbattere e distruggere!

Pensiamo per un attimo a cosa c’è dentro di noi che potremmo sradicare per diventare persone migliori. Non necessariamente persone con una fede in Dio, o una fede maggiore, o più coerente, ma semplicemente persone migliori. Ognuno e ognuna di noi potrebbe pensare, adesso, a un aspetto di sé che andrebbe sradicato: la presunzione? la vigliaccheria? la falsità? l’ipocrisia? Pensiamoci per un attimo. E dopo che avremo visto questa parte, piccola o grande, di noi, dopo che l’avremo identificata, potremo cercare di demolirla. Pensiamo allora a una azione che potremmo fare per demolire questa parte di noi che si nutre del nostro sangue, della nostra stessa vita, ma che andrebbe sradicata. E ora pensiamo a cosa potremmo fare per distruggere questa parte, in modo che non rientri in noi, in modo che non torni ed abbia nuovamente il sopravvento. Solo dopo aver fatto questo, cioè sradicato, demolito, abbattuto e distrutto quello che dentro di noi ci allontana dalla nostra vocazione, sarà arrivato il momento per costruire e per piantare. Sì perché spesso non c’è più posto dentro di noi, spesso siamo talmente pieni di noi stessi e di quella che crediamo la nostra ricchezza, ma che spesso è invece la nostra povertà, che nulla può più essere piantato e costruito. Quando ci rinchiudiamo nella gabbia di una vita, nella quale idolatriamo il denaro, o il potere, o i nostri doveri o, perfino, dove idolatriamo la nostra bontà, la nostra capacità di essere presenti nel modo e nel tempo giusto, in questo tipo di vita non c’è spazio per altro, non c’è spazio per Dio.

Ecco dunque un compito per queste giornate in cui ci prepariamo a ricordare l’avvento di Gesù: possiamo cercare cosa ci allontana dalla nostra vocazione e provare a demolirlo per fare spazio al Signore che arriva. La buona novella di stamattina è che nel fare questo lavoro, lungo, difficile, doloroso, talvolta perfino pericoloso dal punto di vista relazionale e sociale, non dobbiamo temere perché non siamo soli, il Signore infatti dice a Geremia e a tutti noi: “Non temere, perché io sono con te per liberarti»

Amen!

Erica Sfredda