Sermone: CANTICO DI ZACCARIA – 1^ DOMENICA D’AVVENTO

Luca 1,68-79

Preparando il culto per questa prima domenica di Avvento il mio pensiero è andato prepotentemente ad un amico molto caro che avevo. Era uno stimatissimo primario di neuropsichiatria nella capitale, esponente politico e uomo di grande cultura. Nonostante tutto ciò era anche uomo che sapeva relazionarsi con estrema semplicità con chiunque, infatti ancor oggi so per certo che molte persone, di qualsiasi levatura, come me piangono la sua repentina e prematura morte.

Con lui ho passato ore al telefono, nel cuore della notte quando finalmente si fa silenzio. Parlavamo di tutto con “Nik il sognatore” (così lo chiamavo e gli piaceva il nomignolo che gli avevo appioppato), e molto spesso il nostro confronto verteva sul fatto che lui era agnostico ed io credente. Gli piaceva stuzzicarmi chiedendomi come mai una persona come me, con i piedi piantati per terra, possa credere in ciò che non vede.

Proprio con lui ho parlato a lungo l’anno scorso sul significato dell’Avvento, spiegandogli il significato delle quattro candele della corona, della quale oggi abbiamo acceso il primo cero, quello detto anche “del profeta” (gli altri simboleggiano “Betlemme”, “i Pastori”, “gli Angeli”).

Ebbene, oggi la nostra candela ci ricorda i profeti, coloro che parlavano alle genti e parlavano predicendo eventi futuri ispirati da un’entità superiore.

Non erano certo singolari nel mondo antico coloro che venivano interpellati per cercare di conoscere il futuro e questo non solo nella storia del popolo ebraico.

Ma noi siamo “il popolo del Libro”, siamo coloro che, forti della conoscenza degli eventi successivi, riconoscono negli scritti profetici l’annuncio della venuta del nostro Signore, di Colui che ha riscattato l’umanità, Colui che ha confermato la sua immensa misericordia nonostante le infedeltà umane, Colui che ci ha riscattati dal peccato donandoci gratuitamente il perdono.

Nei nostri studi e nelle nostre letture abbiamo certo frequentato i libri profetici dell’antico testamento, ma allora perché oggi, parlando di profeti ho scelto il passo di Luca 1,68-79 chiamato il “Cantico di Zaccaria” in cui leggiamo:

«Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo, e ci ha suscitato un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo, come aveva promesso da tempo per bocca dei suoi profeti; uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto,del giuramento che fece ad Abraamo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita. E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, perché andrai davanti al Signore per preparare le sue vie, per dare al suo popolo conoscenza della salvezzamediante il perdono dei loro peccati, grazie ai sentimenti di misericordia del nostro Dio; per i quali l’Aurora dall’alto ci visiterà per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte, per guidare i nostri passi verso la via della pace».

Questo Zaccaria non è certo lo stesso che compare come profeta nell’Antico Testamento, ma è il padre di Giovanni il Battista.

Luca ci dice che Maria ha ricevuto l’annuncio dell’angelo, il quale, tra l’altro, le ha anche detto che Elisabetta, sua parente, è rimasta incinta nonostante l’età avanzata. Maria si reca a casa di Elisabetta e Zaccaria e nel salutarla ci viene detto che Elisabetta, riempita di Spirito Santo, riconosce in lei colei che metterà al mondo il suo Signore.

Il passo che abbiamo letto, il cantico di Zaccaria, viene declamato dopo la nascita di Giovanni, quando il bambino viene circonciso.

Luca dice che “Zaccaria … fu pieno di Spirito Santo e profetizzò” dicendo le parole che abbiamo letto. Ma allora, forse che le sue parole si riferivano al figlio Giovanni? Non credo, perché già Elisabetta (piena di Spirito Santo) aveva salutato Maria come abbiamo detto e, dopo Zaccaria, anche il figlio Giovanni profetizzava sulla venuta di uno a cui lui non sarebbe stato degno nemmeno di legare i calzari.

Ecco allora che anche questo Zaccaria è profeta, cioè, ispirato da Dio, annuncia la realizzazione della promessa antica sulla venuta di un potente Salvatore, segno della grande misericordia del Signore che non si dimentica del suo santo patto e che è venuto per preparare le vie dell’Eterno e per annunciare al popolo la salvezza mediante il perdono dei peccati.

È vero, tutto ciò potrebbe essere una bella favola. Certamente questo scritto è frutto di tradizioni orali e di interpretazioni. È vero che gli scritti profetici (compreso il passo che stiamo commentando) non ci danno la prova dell’esistenza di Dio, perché NON C’È ALCUNA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO.

In questo il mio amico “Nik il sognatore”, da uomo di scienza, aveva perfettamente ragione, ma noi sappiamo che di fede si tratta e non di scienza.

Le nostre storie personali, il nostro scoprire la presenza di Dio nella nostra vita, il nostro credere che Gesù è il figlio di Dio, venuto in fattezze umane sulla terra per riscattarci dal peccato, hanno origine molto diverse.

Il nostro percepire la presenza del Signore nella nostra vita personale non ci deriva certo da un contatto telefonico dell’Altissimo, né tantomeno dal riconoscere la Sua presenza in un roveto ardente nel deserto. Ciascuno di noi, ciascuno dei credenti, ha una storia individuale che l’ha portato a credere senza vedere, senza avere alcuna prova tangibile. Tutto vero, ma è vero anche che, almeno alcuni, hanno sentito e continuano a sentire la presenza di Dio nella propria vita e vivono nell’attesa che i tempi si compiano e che si realizzi quanto oggi si crede per fede, una smisurata fiducia che ci fa elevare il cuore al cielo, senza accontentarci della sola dimensione razionale e orizzontale.

Una volta il mio amico mi ha chiesto: “E se poi un giorno ti accorgerai che era tutta una sovrastruttura culturale e non trovi nessuno che ti accolga in quello che chiami il Regno?”

La mia risposta è stata così repentina da stupire anche me stessa: “Nik, io non ci perdo nulla se non troverò niente, tanto, se così fosse, io non ci sarò perché tutto finirebbe con la morte. Ma se invece fosse vero? Se invece fossi tu quello che si sbaglia e trova la realizzazione di quella che io chiamo la Promessa?”

Sto facendo questo discorso in una chiesa, quindi, almeno in linea teorica, sto parlando con dei credenti, ma credo che sia utile lo stesso, perché spesso nella tradizione di proclamarsi credenti molti di noi non si chiedono se la presenza di Dio nella propria vita è veramente percepita. Molto spesso la nostra fede non viene sufficientemente analizzata e ravvivata ed è così che rischiamo di relegare il nostro sentire, il nostro credere in una dimensione tiepida, dove privilegiamo il fare, per buono che sia, dove la fede viene vissuta in maniera intimistica per timore di essere magari derisi, dove la preghiera non trova spazio, dove scarseggia la fiducia che Qualcuno ha già disegni per noi, anche se il più delle volte non li comprendiamo.

Accade così che il nostro spirito giaccia di fatto nelle tenebre e non ce ne accorgiamo, non ci accorgiamo nemmeno di aver bisogno dell’Aurora che le venga a dissipare.

Io da questo pulpito non ho certo ricette da dare, se non quella di riflettere e tornare col pensiero ai momenti in cui abbiamo sentito la presenza di Dio nella nostra vita, ai momenti in cui, con sicurezza e fiducia ci siamo detti: “Dio c’è e io sono suo figlio, sua figlia”.

La nostra mente è quotidianamente travolta da cose da fare, da notizie che ci addolorano, come da eventi che ci danno gioia, da avvenimenti dei quali non comprendiamo la logica e la giustizia, ma non possiamo accettare che queste dimensioni orizzontali offuschino la grande luce che un giorno ci ha illuminati.

E per tornare alla figura del profeta, permettetemi di aggiungere che, con estremo rispetto per i profeti “canonici”, come possiamo considerare Zaccaria un profeta, siamo anche noi chiamati ad essere profeti nel nostro piccolo, affermando la nostra fede e proclamando il Regno che viene. Siamo anche noi chiamati ad essere luce nel mondo.

Ma non possiamo dare luce se non l’abbiamo, per cui ravviviamo questa luce con la preghiera e con la frequentazione assidua della Bibbia, senza mai dimenticarci che facciamo parte di una chiesa riformata, nella quale la diaconia riveste una parte importante nel realizzare la fratellanza, ma nella quale proclamiamo anche il sacerdozio universale, in forza del quale ciascuno è impegnato a proclamare l’evangelo, ciascuno può essere “profeta”.

Oggi inizia il periodo dell’Avvento, dell’attesa. Dovrebbe essere un periodo in cui aspettiamo il Natale non certo per le luci, la festa e i doni, ma un tempo in cui viene stimolato il ricordo dell’attesa di colui che i profeti biblici avevano annunciato. Dovrebbe essere un periodo in cui spiritualmente noi stessi ci incamminiamo verso Betlemme con umiltà per accogliere un bimbo nato per noi, per la nostra salvezza e per donarci il perdono nel nome del Padre.

E se così facendo scoprissimo che in realtà non siamo credenti, se scoprissimo che la nostra dimensione è puramente orizzontale e non proiettata verso Dio incarnato in Gesù Cristo e che ci ha dato il dono dello Spirito Santo, coerenza vuole che non ci definiamo cristiani, perché anche fra coloro che si definiscono agnostici ci sono persone di grande spessore morale ed etico.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: QUANDO SARA’ L’ORA?

Il brano scelto per la predicazione di questa domenica è tratto dall’evangelo secondo Luca, al cap. 12. E’ un testo un po’ particolare, ad una prima lettura, forse anche perché utilizza termini e riferimenti sociali non più così evidenti nel nostro vissuto. Si parla di amministratori, di servi e di padroni, di percosse e di punizioni. Troppo, forse, per le nostre orecchie. Però è anche un brano chiaro nel suo intento, anche se sconcerta un po’.  Proviamo a porci in ascolto della Parola, chiedendo a Dio che ci aiuti a cogliere il messaggio di speranza che contiene, speranza di cui abbiamo tanto bisogno in questo mondo così quotidianamente piatto e senza prospettive di senso.

Leggo dal cap. 12 dell’evangelo di Luca, i versetti dal 39 al 48: “Gesù disse: Sappiate questo, che se il padrone di casa conoscesse a che ora verrà il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi siate pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate». Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi, o anche per tutti?» Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fedele e prudente che il padrone costituirà sui suoi domestici per dar loro a suo tempo la loro porzione di viveri? Beato quel servo che il padrone, al suo arrivo, troverà intento a far così. In verità vi dico che lo costituirà su tutti i suoi beni. Ma se quel servo dice in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”; e comincia a battere i servi e le serve, a mangiare, bere e ubriacarsi, il padrone di quel servo verrà nel giorno che non se lo aspetta e nell’ora che non sa, e lo punirà severamente, e gli assegnerà la sorte degli infedeli. Quel servo che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere la sua volontà, riceverà molte percosse; ma colui che non l’ha conosciuta e ha fatto cose degne di castigo, ne riceverà poche. A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà”.

 

Il testo di fronte al quale ci troviamo oggi apre a prospettive a cui non siamo normalmente abituati. Luca lo situa verso la fine di un capitolo nel quale Gesù ha continuato a ripetere “Non abbiate paura”, esortando i suoi discepoli ad avere fiducia nella vicinanza e protezione del Padre, in ogni circostanza, e soprattutto nelle persecuzioni. Ora, alla fine della pericope, la minaccia di botte. E questo ci stupisce. Anche la similitudine iniziale con il ladro disorienta: qui non è sanzionato il comportamento da furfante del ladro, (fra l’altro nel paragone ad agire come un ladro è il Signore stesso), ma la condanna al contrario cade su chi si è lasciato sorprendere dal ladro e non era vigilante.

L’argomento che fa da filo conduttore di questo capitolo, e in cui si inserisce la parabola appena letta, è la venuta del Regno. E questo tema, quello della venuta del Regno, ha sempre due dimensioni: quella futura, legata alla speranza di essere pronti per qualcosa che avverrà nel futuro, che in qualche modo non ha a che fare con quello che noi possiamo fare adesso, ma che si fonda appunto nella speranza in colui che viene senza a volte neppure darci un preavviso; e nello stesso tempo in una dimensione presente e attualissima, come ci ricorda il testo appena letto, che ci invita con forza a riflettere su come il discepolo incaricato si è comportato nell’amministrare quelli di cui egli doveva aveva cura.

E’ la realtà ambivalente dell’uomo di fede, che vive questa realtà del “già e non ancora”, della realtà futura in cui speriamo e della realtà presente in cui fatichiamo a vedere la presenza del Signore. L’amministratore, infatti, decide di tradire la fiducia del suo padrone proprio perché lui oramai è lontano, non vede e non interviene, e proprio questa sua convinzione lo porterà, dice il testo, ad “essere posto fra gli infedeli”, cioè tra coloro che non hanno avuto fede nella sua presenza oggi e nel suo ritorno domani.

La fede, infatti, vive nell’oggi, noi siamo donne e uomini radicati nelle dinamiche, a volte così dolorose, del presente. Ma, ci dice Gesù, la fede non è solo per l’oggi; l’intento dell’insegnamento della Scrittura è quello di invitarci a vivere l’oggi per il domani, a cogliere i segni nascosti ma concreti del prossimo ritorno del Signore Gesù.  La logica del ritardo, del quotidiano sempre ugualmente monotono, ci pone in una condizione di rischio: il rischio di pensare che mai nulla cambia, che le logiche del mondo sono sempre le stesse, quelle che noi tutti conosciamo, fatte di “percosse date ai servi”, agli ultimi della Terra, di “mangiare, bere e ubriacarsi” da parte dei potenti, di pensare che il Signore non tornerà mai. L’evangelo di questa domenica intende invece essere una risposta di fede, di speranza e di servizio, contro la tentazione della “distruzione interiore”, come potrebbe essere tradotto dall’ebraico la “severa punizione” a cui va incontro l’amministratore al v. 46

Non è esattamente un problema di ordine etico, cioè di condotta morale. Si tratta invece dello statuto sostanziale del credente che viene posto in risalto: il cristiano è uno che “aspetta” il suo Signore che è, per definizione, “Colui che viene”, come dice l’ultimo versetto della Bibbia, al cap. 22 dell’Apocalisse: Colui che attesta queste cose, dice: «Sì, vengo presto!» Amen! Vieni, Signore Gesù!

La fede cristiana ha questa paradossale caratteristica: è una fede nell’“Assente”, nel “non-visibile”, eppure nel totalmente “Presente”, del tutto “visibile” sotto i “segni” della Parola e del prossimo che vive al nostro fianco.

Il messaggio centrale del nostro brano è una bella notizia, un evangelo. Gesù ci chiama infatti ad una beatitudine: “Beato quel servo che il padrone, al suo arrivo, troverà intento a far così”. Così come? Distribuendo a ciascuno, dice il testo, la sua porzione di cibo. Gesù ci chiama molto concretamente ad assumere le nostre responsabilità verso i nostri fratelli. Cosa vuol dire, in fondo, responsabilità? Nella Bibbia vuol dire principalmente “rispondere” (come infatti richiama l’etimologia della parola) alla chiamata di Dio, a Dio che ci cerca e ci costituisce suoi amministratori. Responsabile di che cosa? Si può rispondere in tanti modi a questa domanda; io ho risposto così: responsabile di Dio in mezzo agli uomini, e responsabile del nostro prossimo davanti a Dio. Cioè la responsabilità ha questa doppia valenza; responsabile di Dio, cioè testimone di Dio tra gli uomini, questa è la mia responsabilità, la responsabilità della testimonianza di Dio tra gli uomini, e di pari passo la responsabilità del prossimo davanti a Dio. Cioè nella Bibbia nessuno è solo responsabile di sé stesso, certo anche, ma non solo.  Ricordiamo tutti la famosa domanda di Dio a Caino: “Dov’è tuo fratello Abele?” e ricordiamo la risposta: “Sono forse io il guardiano – sono forse io il responsabile di mio fratello?” Si – dice il testo – sono responsabile di mio fratello, devo rispondere del mio prossimo.

Amministrare in modo “saggio e fedele”, rispondere alla chiamata di Dio è quindi dare da mangiare a tutti a tempo debito, cercare la giusta condivisione di ciò che ci è affidato. Ed essere vigilanti, essere fedeli e prudenti, significa accorgersi del bisogno del fratello ora, condividendo i beni di cui tutti siamo destinatari. La vigilanza ci obbliga a guardare al futuro, ma soprattutto all’oggi. Aspettare il Signore significa prendersi cura di ciò che ci è stato donato e affidato. I fratelli, la Terra, la pace. Il non avere a cuore tutto questo ci stabilisce come usurpatori e non vigilanti.

L’amministratore che si disinteressa di quante e quanti gli sono stati affidati, è considerato da Dio, come dicevo, come qualcuno che non crede. Credere non è tanto un atteggiamento mentale, una confessione puramente verbale, è invece molto concreto. Non «chi non dice», ma «chi non fa» non crede. Non crede nella possibilità e nella realtà di un Regno di equità, che Dio verrà sì ad instaurare ma che, prima ancora, chiede a noi di preparare attraverso la pratica della giustizia e della solidarietà.

Perché è così importante aspettare il Signore, al punto che Gesù proclama “beati” coloro che lo aspettano? E perché al contrario è così grave non aspettarlo, al punto che Gesù riserva a chi non lo aspetta “la sorte degli infedeli”?

È importante aspettare il Signore che è presente perché così si rende testimonianza che egli non è in nostro possesso, che Dio è con noi, ma noi non possiamo requisirlo, ma soltanto invocarlo. E non possiamo comandarlo, non abbiamo potere su di lui,  ma solo aspettarlo. La nostra attesa di Dio corrisponde alla libertà di Dio verso di noi.

Per questo è difficile attenderlo, perché significa dipendere totalmente da lui e riconoscere che siamo a mani vuote e tese. Il teologo Paul Tillich una volta ha detto: “Penso che buona parte della rivolta contro il cristianesimo, è dovuta alla pretesa esplicita o sottintesa dei cristiani di possedere Dio, e perciò anche alla perdita di questo elemento dell’attesa, così decisivo per i profeti e gli apostoli”.

Infine: la parabola dell’amministratore fedele e prudente narrata da Gesù viene provocata dalla domanda di Pietro che chiede se le cose dette fino a quel momento da Gesù siano da riferirsi a loro, o valgano anche per tutti. Tramite l’intervento di Pietro, l’evangelista Luca sembra quindi voler cercare di precisare chi siano i destinatari dell’insegnamento di Gesù, e quindi chi debbano essere identificati come i responsabili della comunità. La primitiva comunità post-pasquale, ci dicono gli esegeti, visto il prolungarsi dell’attesa del ritorno di Gesù, cercava infatti nelle parole del Maestro una indicazione che desse i criteri per individuare i soggetti in grado di essere gli “amministratori” della stessa.

La risposta di Gesù è una non-risposta. Difatti a questo interrogativo Gesù risponde ponendo a sua volta una domanda. “Chi è dunque …?”. La sua domanda retorica poneva certamente Pietro e gli altri discepoli a cercare di capire se potessero essere come quell’amministratore fedele e prudente”.  Ma in realtà Gesù non parla di una persona o gruppo di persone particolari che rivestano una funzione speciale. Questo è chiaro dalle sue parole che seguono: “Beato quel servo che il padrone, al suo arrivo, troverà intento a far così”. Poteva essere uno qualsiasi degli schiavi. L’unico requisito per essere dichiarato beato era di rimanere fedele. Non esiste quindi uno schiavo particolare o una classe particolare che è fedele e uno schiavo o classe particolare che è infedele. Ciascuno, ogni discepolo-schiavo, ha possibilità delle due condizioni. “Chi è dunque . . . ?”.

Gesù utilizza quindi un quesito che gli viene posto, come accade spesso nella narrazione evangelica, per sottolineare il criterio ultimo a cui l’uomo deve fare riferimento; nel caso specifico, ciò che “fa la differenza” non sono determinate persone poste in ruoli particolari, ma i criteri di verità, che Gesù rivela, come la disposizione del cuore (la fedeltà e la vigilanza) e la concretezza dei comportamenti (il farsi carico di quanti, non avendo ricevuto altrettanto, ci sono stati affidati).

Mi sembra questa bellissima intuizione di Gesù uno dei tratti caratteristici che le varie Chiese Protestanti hanno cercato di realizzare, pur con mille limiti, Difatti nella nostra Chiesa non vi sono ruoli ministeriali sacri, nessuno è chiamato a ruoli di amministrazione per elezione divina, ma ogni membro della comunità – secondo il criterio del sacerdozio universale dei fedeli – è chiamato, con i propri doni e i propri limiti, ad essere responsabile della propria sorella e del proprio fratello di fede. Nelle nostre chiese tutti i credenti sono eguali fra loro e nessuno nella chiesa è chiamato «maestro», o «padre», o «guida», perché uno solo è il maestro (come dice l’evangelo di Matteo). Non abbiamo «sacerdoti», nel senso di un ministero speciale e riservato ad alcuni appositamente ordinati a tal fine, e che abbiano in qualche modo il monopolio del rapporto con Dio, la celebrazione dei sacramenti, il governo della chiesa. Ministro vuol dire etimologicamente «servitore», e questo perché Gesù «è colui che serve», «è venuto per servire». Vi sono doni e servizi suscitati dallo Spirito che danno vita, senza dubbio, a delle diversità anche nelle nostre Chiese, ma sono diversità che devono servire a porre in essere le più svariate azioni della comunità, senza creare in essa delle gerarchie di dignità o di potere.

La riforma, di cui ricordiamo i 500 anni, ci ha lasciato in eredità questa intuizione, ribaltando una posizione, una convinzione teologica e una prassi ecclesiale più che millenaria (e, detto per inciso, è quella dalla quale le altre due Chiese cristiane, la Cattolica e la Ortodossa, dipendono): cioè la fine della differenza di natura tra uno “stato ecclesiastico o clericale” proprio dei cristiani che hanno ricevuto l’ordinazione, e lo “stato laicale” proprio dei cristiani non ordinati, cioè dei cosiddetti “semplici laici”. Scrive Lutero nella “La libertà del cristiano”: “Tutti appartengono allo stato ecclesiastico, e tra di loro non c’è alcuna distinzione se non unicamente quella della funzione; siamo tutti cristiani dello stesso tipo”.

La ragione teologica per la quale tutti i cristiani appartengono allo stato ecclesiastico, cioè sono tutti sacerdoti, è il battesimo, che è lo stesso per tutti ed è una vera ordinazione sacerdotale. Il “semplice laico” diventa così il personaggio principale della Chiesa, corresponsabile con i ministri della Chiesa, della sua predicazione, del suo insegnamento, della sua gestione. In questo modo la Riforma ha dato un contributo di prim’ordine alla emancipazione del laicato cristiano, alla sua crescita, all’avvento del cristiano adulto, maggiorenne, libero nella sua coscienza, responsabile delle sue scelte.

Gesù ci ricorda però che: “A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà”. La libertà che come cristiani rivendichiamo di fronte al mondo, e la nostra acquisita consapevolezza di persone adulte nella fede, non deve farci dimenticare che noi siamo liberi perché liberati da Cristo dal nostro peccato, e questo per poter essere oggi utili strumenti nelle mani di Dio.

AMEN

Fabio Barzon

Sermone: IL PANE QUOTIDIANO

Esodo 16,4-16

Allora il SIGNORE disse a Mosè: «Ecco, io farò piovere pane dal cielo per voi; il popolo uscirà e ne raccoglierà ogni giorno il necessario per la giornata; così lo metterò alla prova e vedrò se cammina o no secondo la mia legge. Ma il sesto giorno, quando prepareranno quello che hanno portato a casa, dovrà essere il doppio di quello che raccolgono ogni altro giorno».

Mosè e Aaronne dissero a tutti i figli d’Israele: «Questa sera voi conoscerete che il SIGNORE è colui che vi ha fatti uscire dal paese d’Egitto. Domattina vedrete la gloria del SIGNORE, poiché egli ha udito i vostri mormorii contro il SIGNORE. Quanto a noi, che cosa siamo perché mormoriate contro di noi?»

E Mosè disse: «Vedrete la gloria del SIGNORE quando stasera egli vi darà carne da mangiare e domattina pane a sazietà; perché il SIGNORE ha udito le lagnanze che voi mormorate contro di lui. Noi infatti, che cosa siamo? I vostri mormorii non sono contro di noi, ma contro il SIGNORE».

Poi Mosè disse ad Aaronne: «Di’ a tutta la comunità dei figli d’Israele: “Avvicinatevi alla presenza del SIGNORE, perché egli ha udito i vostri mormorii”».

Mentre Aaronne parlava a tutta la comunità dei figli d’Israele, questi volsero gli occhi verso il deserto, ed ecco la gloria del SIGNORE apparire nella nuvola.

E il SIGNORE disse a Mosè: «Io ho udito i mormorii dei figli d’Israele; parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e domattina sarete saziati di pane; e conoscerete che io sono il SIGNORE, il vostro Dio”».

La sera stessa arrivarono delle quaglie che ricoprirono il campo. La mattina c’era uno strato di rugiada intorno al campo; e quando lo strato di rugiada fu sparito, ecco sulla superficie del deserto una cosa minuta, tonda, minuta come brina sulla terra. I figli d’Israele, quando l’ebbero vista, si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?» perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «Questo è il pane che il SIGNORE vi dà da mangiare. Ecco quello che il SIGNORE ha comandato: “Ognuno ne raccolga quanto gli basta per il suo nutrimento: un omer a testa, secondo il numero delle persone che vivono con voi; ognuno ne prenda per quelli che sono nella sua tenda”».

 

Giov 6,32-35

Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che non Mosè vi ha dato il pane che viene dal cielo, ma il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo. Poiché il pane di Dio è quello che scende dal cielo, e dà vita al mondo».

Essi quindi gli dissero: «Signore, dacci sempre di codesto pane».

Gesù disse loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete».

 

«Camminare nel profondo di quel bosco o salire su quella cima mi fa sentire più vicino a Dio!» Non so se vi sia mai capitato personalmente di percepire le cose in questo modo o se abbiate sentito qualcuno dire parole di questo tipo; sembra però, proprio in questo nostro tempo, una cosa abbastanza diffusa.

C’è il bisogno di trovarsi in qualche luogo straordinariamente suggestivo per incontrare Dio, per fare esperienza del divino. Sembra molto più facile in questi contesti, quando ci si è lasciati alle spalle il rumore delle città, il rumore della vita quotidiana, percepire Dio o l’assoluto.

Chissà in quanti pensano che per vivere davvero e in profondità l’incontro con Dio, si deve in qualche modo uscire dal mondo, isolarsi, andare su una montagna solitaria o nel cuore di un deserto dimenticato oppure di fronte alla maestà del mare.

Certo, chi conosca almeno un po’ la storia della chiesa cristiana, potrebbe dire che questa tendenza non è così nuova, perché già nel corso dei primi secoli del cristianesimo, vi furono, con i cosiddetti Padri del deserto, delle esperienze di individui che decisero di vivere nell’isolamento del deserto la loro esperienza di fede.

La diversità forse maggiore è che oggi la maggior parte delle persone che crede di poter incontrare Dio sulla cima di un monte o nel silenzio del deserto o dove l’individuo si trova a contemplare romanticamente la natura, non crede che quella stessa esperienza abbia qualcosa a che fare con la vita quotidiana spesa nel formicolio e nel movimento delle nostre città. Allora l’animo si perde nella bellezza dell’ambiente e si può accettare una spruzzatina di religiosità, solamente se questa non diventa una costante della vita, almeno di quella vita che ha i suoi bisogni, le sue attese, le sue speranze, che non vogliono essere riposte in qualcun altro.

In Esodo abbiamo sentito che Israele sta camminando nel deserto, sta camminando nella libertà. Eppure il suo sguardo non è ancora rivolto in avanti, continua a rimanere ancorato al passato, un passato di sofferenza, ma al tempo stesso di garanzie.  Certamente in Egitto non si viveva nella libertà, ma almeno la pancia era piena. A che cosa serve la libertà se si si è costretti a morire di fame nel deserto?

La crisi di fede di Israele non nasce da una riflessione intellettuale, dal non riuscire ad affrontare o a dare risposta a determinati problemi generali; la crisi di fede di Israele non nasce neanche in legame a qualcosa di straordinario. La crisi di fede di Israele nasce dalla difficoltà concreta, la penuria di cibo. Ad una mancanza di cibo corrisponde una mancanza di fede. E lo sapevano bene anche alcuni padri fondatori delle nostre chiese riformate che comprendevano come sia difficile parlare di Dio a chi si trova nella miseria, nella malattia, nell’impossibilità di accettare un messaggio d’amore quando si è alla ricerca della sopravvivenza fisica.

A questo punto ci si potrebbe domandare: Israele ha capito chi sia a guidare il popolo, Israele conosce il Signore che l’ha condotto fuori dall’Egitto? Ci troviamo di fronte ad una crisi che si potrebbe definire una crisi di conoscenza (nel versetto 12 troviamo scritto: “conoscerete che io sono il Signore, il vostro Dio”). Non la conoscenza che definiremmo intellettuale, bensì quel tipo di conoscenza che costituisce la relazione di fede.

Un riformatore del XVI secolo, in una sua famosa pagina, scriveva: “Conoscere Cristo significa conoscere i suoi benefici”. Che, detto in altri termini, vuol dire che la vera conoscenza di Dio si ha sperimentando o riconoscendo ciò che di buono Dio realizza nei nostri confronti.

La benedizione di Dio non si sperimenta solamente nelle situazioni eccezionali o che possono apparire straordinarie; Dio non viene ad incontrare l’umanità solamente nella cornice straordinaria di un monte isolato, sul quale sembra che la sua presenza sia più completa. Al contrario, è nella concretezza piena di questo mondo, nell’ordinarietà del bisogno che trova una risposta, che lo si conosce e riconosce.  “Conoscere i suoi benefici”, cioè riconoscere che nelle strade tortuose della vita, proprio quando si può essere nel deserto e affrontare la fame e la sete, la povertà materiale o di prospettive, il Signore non ha smesso di ascoltare la nostra voce.

Questa pagina biblica ci invita a guardare a Dio come colui che nella quotidianità della nostra vita, nella nostra quotidiana “milizia” come la chiama il libro di Giobbe (7,1), cioè vivendo spesso in una sensazione di incertezza, è il Signore che ascolta il grido di aiuto, che provvede alle nostre necessità e che, al tempo stesso, ci chiama all’obbedienza.

Vorrei che riflettessimo un poco su queste tre dimensioni, che possono apparire scontate, spesso ripetute ma altrettanto in fretta messe da parte. Il primo aspetto è questo: Dio ascolta il grido, ascolta le voci di quanti mormorano contro di lui. E questo ascolto non è selettivo: Dio presta attenzione ad ogni preghiera, anche a quelle che si ricollegano alle cose di ogni giorno.  E questo lo vediamo anche nella preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli; nel Padre nostro si prega per il “pane quotidiano”, per ciò che è essenziale per la nostra vita.

Quante volte ci capita però di pensare che dopotutto il pane quotidiano sia frutto della nostra fatica e ben poco abbia a che fare con Dio; oppure, guardandoci intorno, abbiamo l’impressione che questo pane che Dio dovrebbe distribuire a tutti sia in realtà privilegio di pochi e ci viene da chiederci “dov’è la generosità di Dio o la sua pietà nei confronti di quanti non hanno da mangiare?”.  Forse, pensando in questo modo abbia già dimenticato l’essenziale di questa preghiera, cioè il fatto di riconoscere che anche quanto abbiamo per la nostra vita sia da considerare un dono e non un possesso esclusivo.

Non è Dio a dimenticarsi di essere il Padre di tutti e che il pane sia di tutti; spesso siamo noi a parlare del Padre nostro, ma al tempo stesso a guardare al pane come ad una cosa esclusivamente mia. Creando quel circolo vizioso che impedisce la condivisione e pensa invece al vantaggio personale.

Il secondo aspetto ci ricorda che Dio provvede ai bisogni di quanti lo invocano. Anche in questo caso, questo provvedere non si situa su un piano distaccato dalla realtà concreta del nostro quotidiano. Se noi siamo qui è perché nonostante tutte le contraddizioni della vita, nonostante tutte le prove, nonostante le nostre domande aperte e i nostri dubbi, nonostante tutto, la luce di questa promessa non è stata completamente oscurata: Dio ha provveduto e provvede al suo popolo.

Questo non è il nostro giudizio definitivo sulla storia, è il nostro riconoscimento, la nostra confessione di fede. Chi conosce questa risposta di Dio conosce i benefici del Signore nei confronti dei suoi figli, ha riconosciuto che il Signore non è un’idea o un’invenzione della mente umana, ma colui dal quale la vita dipende.

Il terzo aspetto ci rimanda alla chiamata all’obbedienza. Il Signore che ascolta le esigenze quotidiane e offre la sua risposta ci chiama anche alle nostre responsabilità nel quotidiano.  Obbedire a Dio non significa uscire dal mondo, ma restare pienamente fedeli a quello che noi viviamo nella nostra quotidianità e a cui siamo chiamati da Dio, esprimere fedeltà e ascolto a quella volontà di Dio che è data non per amore dell’obbedienza in quanto tale, ma per amore della pienezza di vita.

E la pienezza non si realizza nell’accumulo del superfluo, ma nel ricevere il necessario (il pane). Rimanere fedeli a quel quotidiano in cui la fede in Dio ci chiama a vivere significa anche riflettere su quanto noi per primi siamo capaci di uscire dalla logica del popolo che corre subito a far provviste oltre la misura indicata: che cos’è necessario, che cos’è superfluo nella nostra vita?

Siamo partiti considerando come, spesso, nel nostro tempo, si parta alla ricerca di Dio pensando di incontrarlo più facilmente lontano dalla quotidianità. In realtà, come abbiamo visto, il nostro testo biblico ci indica una strada diversa: ci chiede di saper esercitare il discernimento, per riconoscere la presenza di Dio nelle necessità quotidiane.

Non c’è condanna per il popolo che mormora, non c’è condanna per chi può apparire privato della sua fede, ma, al contrario, ascolto.  Dio ascolta ed è presente. Chi vive questa presenza, chi l’attende non sarà deluso. Chi vive questa presenza comprenderà, come il popolo d’Israele, la libertà alla quale è stato chiamato, quella libertà che toglie la fame e la sete.

E per noi, donne e uomini cristiani, cioè seguaci e fedeli di Dio che si è incarnato in Gesù, la promessa viene confermata con quella bella espressione che abbiamo trovato nel vangelo di Giovanni: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete».    AMEN

past. William Jourdan / Liviana Maggiore

Sermone: ECCOMI !

Esodo 2,23 – 3,8

Durante quel tempo, che fu lungo, il re d’Egitto morì. I figli d’Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe. Dio vide i figli d’Israele e ne ebbe compassione. Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. L’angelo del SIGNORE gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si consumava. Mosè disse: «Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il pruno non si consuma!» Il SIGNORE vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: «Mosè! Mosè!» Ed egli rispose: «Eccomi». Dio disse: «Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro». Poi aggiunse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe». Mosè allora si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio. Il SIGNORE disse: «Ho visto, ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele.

 

Dopo la rocambolesca fuga dall’Egitto, Mosé si era rifatto una vita a Madian, dove aveva sposato una delle figlie del sacerdote e aveva cominciato a condurre un’esistenza tranquilla con la famiglia e le greggi. Ma, improvvisamente, quando meno Mosè se lo aspetta, succede qualcosa, un evento straordinario, qualcosa che scompiglia le carte e distrugge il tranquillo tran tran di questo pastore di pecore. Sappiamo che mentre Mosè conduceva la sua pacifica esistenza, gli israeliti che vivevano in Egitto continuavano ad essere sottoposti alla schiavitù e “alzavano grida” di dolore e di angoscia, grida che giunsero fino a Dio. E il Signore, dice il nostro testo, ne provò compassione e decise di intervenire, anche perché non aveva dimenticato il patto che aveva fatto con Abramo, Isacco e Giacobbe.

Ed ecco la prima considerazione che voglio fare con voi stamattina: per quanto tempo gli israeliti erano rimasti in schiavitù? Perché Dio non è intervenuto prima? Quante volte nel corso della storia l’umanità o anche noi nelle nostre esistenze ci siamo trovati nella disperazione e abbiamo chiesto un intervento del Signore: rapido, forte, determinante, un intervento in grado di spezzare il dolore, di togliere l’ingiustizia, un intervento che ci permetta di vedere che viviamo in un mondo creato da Dio e non da Satana.

Ma talvolta questo intervento non avviene, o non avviene come noi ci aspetteremmo. Quante volte uomini e donne e bambini, perfino bambini, alzano le loro grida, ma il Signore sembra sordo, sembra essersi dimenticato del suo popolo?

Forse anche in Egitto, allora, questo intervento era sembrato tardare, era sembrato non abbastanza tempestivo.

Quando leggiamo la Bibbia, a distanza di tanti secoli, sembra tutto molto facile e molto netto, lineare: Dio ascolta e poi interviene e agisce e gli israeliti sembrano sentire fortemente la sua forza, e costruiscono intorno a questo evento, la fuga dall’Egitto, il cuore della loro storia.

Ma in realtà sappiamo che poi gli stessi israeliti finirono col comportarsi da ingrati, anche loro caddero nel dubbio e costruirono il vitello d’oro.

A questo dovremmo riflettere: siamo sicuri che non succeda anche a noi, qualche volta, di ricevere delle benedizioni e di non saperle riconoscere come tali? O di riconoscerle e poi dimenticarle? Di essere liberati e di rimpiangere la nostra schiavitù? Di guardare tutto quello che ci circonda solo dal nostro punto di vista senza interessarci ad altro? Di valutare i nostri tempi, i nostri desideri, i nostri bisogni come assoluti? E anche di dimenticare le nostre responsabilità nel susseguirsi delle cause e degli effetti? Certo a viste umane Dio avrebbe dovuto intervenire prima nella Shoa, ma noi cosa abbiamo fatto per impedire che quell’evento diabolico si concretizzasse?

Il testo di oggi mostra infatti anche un altro aspetto: Mosè stava pascolando il gregge quando vide di lontano una cosa che attirò la sua attenzione. Un albero, un pruno, brillava come se stesse bruciando, ma non sembrava consumarsi. Che cosa strana!

Non so se siate mai stati nel deserto, io ho avuto il dono di andarci una volta, in Tunisia. Un deserto di sabbia. E là ho visto un albero che avrebbe potuto essere proprio il pruno del nostro testo. Non dovete immaginare i nostri alberi, quando leggete questo racconto, ma pensare agli arbusti che crescono in territori aridi e desertici. Vi dico questo perché dovete immaginare che quello a cui stava assistendo Mosè era una visione strana, ma non impossibile. Mosè era incuriosito, infatti, ma non spaventato, non stralunato. Era incuriosito e andò a vedere. Avrebbe anche potuto non essere curioso. Dio non dà per scontato che lo sarà. Il Signore lo chiama, certamente, ma non lo fa attraverso un gesto fuori dalla esistenza di Mosè.

Interroghiamoci per un attimo su noi stessi: siamo aperti al Signore, ai suoi richiami? Qualora ci volesse, saremmo capaci di sentire la sua chiamata, la vocazione che ci è rivolta? Oppure tutto quello che abbiamo, il lavoro, la famiglia, l’impegno quotidiano, ci bastano e induriscono i nostri cuori e le nostre orecchie, la nostra intelligenza e i nostri occhi? Qualora venissimo chiamati sapremmo sentire e vedere? O cerchiamo di non ascoltare, di non vedere?

Probabilmente quando Dio si rivolge a noi non lo fa con gesti eclatanti, con azioni cinematografiche di stampo hollywoodiano e quindi potremmo anche non accorgercene, potremmo non dare importanza a quello che vediamo.

Quello che Mosè riceve non è un messaggio così dirompente che non si può evitare di vederlo e tenerlo in considerazione. Mosè non è costretto a rispondere, può anche tirare dritto e continuare a preoccuparsi del suo gregge. E Dio, il testo lo dice esplicitamente, aspetta.

E noi? Noi ascoltiamo e guardiamo i messaggi che ci potrebbero arrivare? Siamo attenti o siamo perennemente distratti e concentrati solo su noi stessi, sui nostri impegni, sui nostri traffici?

Mosè alza gli occhi e vede qualcosa che richiama la sua attenzione. Il Signore aspetta che Mosè si muova: non lo incalza, non lo spinge. Aspetta la risposta di Mosè e quando Mosè si muove, attratto dal pruno, allora e solo allora lo chiama. E Mosè cosa fa? Dice “Eccomi!”. Mosè è ricettivo, prima vede, poi ascolta e risponde e infine ha paura.

Quando sa di essere di fronte a Dio ha paura. Ha paura di guardare Dio. Paura.

E noi? Noi di fronte a Dio ci inchiniamo? Di fronte a Dio abbiamo paura e ci inginocchiamo? Di fronte a Dio sentiamo tutta la nostra piccolezza? Forse no. Forse abbiamo perso la capacità di vedere e sentire Dio. Forse siamo distratti da mille cose e mille rumori. Forse siamo diventati ormai troppo prosaici e troppo materialisti per prendere sul serio tutto ciò che va oltre il raggio di pochi metri dalla nostra visuale. Forse non sentiamo più il timore di Dio, il timore per la nostra piccolezza e fragilità.

Eppure, cari fratelli e sorelle, anche questo non è del tutto vero: perché anche noi abbiamo visto il pruno ardere altrimenti non saremmo venuti fin qui a vedere cosa c’era. Anche noi abbiamo sentito la voce del Signore che ci ha chiamati, altrimenti non saremmo usciti di casa solo per ascoltare un culto.

Perché, ed è questa la lieta novella di questa mattina, il Signore non si dimentica di noi, non ci abbandona alla nostra triste esistenza, continua a sentire i nostri gemiti, continua a ricordare il patto che ha fatto con noi: quello antico, con Abramo, Isacco e Giacobbe e quello nuovo, segnato dalla venuta di Gesù. Sì, il Signore ci vede, ci ascolta e ci conosce e non ci abbandona. Apriamo i nostri occhi, apriamo le nostre orecchie, apriamo i nostri cuori e accogliamo il Signore oggi e per sempre!

Amen

Erica Sfredda

 

Sermone: FESTA DELLA RIFORMA – CINQUE “SOLA”

Cari fratelli e care sorelle,

Abbiamo fatto riferimento ai “cinque sola” e forse è il caso che per una nostra maggiore consapevolezza li ripassiamo insieme, anche se certamente li conosciamo:

  1. Sola Scriptura, cioè solo alla Bibbia va riconosciuta l’autorità; non alla chiesa, alle tradizioni e men che meno alle impressioni personali o ai sentimenti soggettivi. Certo vi sono autorità riconosciute anche dalla Bibbia, ma se una qualunque di esse si allontana dall’insegnamento biblico, deve essere rigettata.
  2. Solus Christus, perché la salvezza è stata già operata grazie all’opera di Cristo ed al suo sacrificio per l’espiazione del nostro peccato.
  3. Sola Gratia, che significa che l’uomo, anche il più probo, non può vantare alcun credito nei confronti di Dio, perché l’uomo non può contribuire con il Signore alla propria salvezza, già realizzata per Sua grazia.
  4. Sola Fide, cioè l’uomo diventa destinatario della grazia aderendo al messaggio evangelico con fede, affidandosi all’unico vero Signore.
  5. Soli Deo gloria, cioè solo a Dio la gloria. Il quinto punto nel quale convergono i primi quattro e che richiama chiaramente l’inizio dei dieci comandamenti, dove si dice che non v’è altro Dio al di fuori di Colui nel quale crediamo e solo a lui può andare la nostra preghiera e la nostra adorazione.

Questi principi hanno comportato una rottura con il pensiero religioso del tempo, hanno creato una vera e propria frattura, dando luogo ad una religiosità completamente diversa da prima, un modo di vivere la fede senza orpelli umani, ma soprattutto senza paura.

Leggiamo ora dal vangelo di Matteo 10:26-34.

“Non temete dunque; perché non c’è niente di nascosto che non debba essere scoperto, né di occulto che non debba essere conosciuto.

Quello che io vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce; e quello che udite dettovi all’orecchio, predicatelo sui tetti. E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna.

Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro.

Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri.

Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli. Ma chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io rinnegherò lui davanti al Padre mio che è nei cieli.

Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada”.

Non temete. Così inizia il nostro passo.

“Non temete” ha detto Gesù ai suoi discepoli di allora e lo ha detto per ben tre volte. E lo dice anche a noi oggi, qui riuniti per il nostro culto.

Gesù parla sapendo bene che il suo messaggio aveva creato problemi e li avrebbe creati ancora nel momento in cui fosse stato proclamato a gran voce “sui tetti”, ci viene detto. Gesù incoraggia i suoi discepoli, dando loro una consolazione: “Non temete!”

Ma temere cosa? Che cosa potevano temere? Ma soprattutto, che cosa possiamo temere?

Si può temere di essere banalizzati, di doversi giustificare per i propri principi, di essere derisi, di essere magari considerati “bigotti”, di sentirsi al di fuori della realtà dominante, così materialistica.

Molte le emozioni che ci fanno temere di non essere accettati e questo talvolta ci porta ad un eccesso di timidezza nell’affermare la nostra fede. Magari la professiamo con coloro che la condividono, magari preferiamo rinchiuderci per timore del giudizio degli altri e così è che non abbiamo il coraggio di “salire sui tetti” per proclamarla a gran voce.

Ma Gesù dice “non temete”. Un’espressione di amore e di incoraggiamento ma potremmo dire anche uno sprone, un ordine, un vigoroso invito per guardarci dentro e cercare di vincere i nostri problemi psicologici, perché essi possono influire pesantemente sulla nostra stessa etica di vita.

Come? Se ho timore di qualcosa o di qualcuno, se temo di non essere accettato perché io stesso non mi accetto, facilmente cercherò di cambiare il mio comportamento evitando le situazioni che mi creano ansia. Divento così succube di coloro che temo, ma anche di me stesso e quindi non solo non professerò ciò che sono e ciò in cui credo, ma mi adeguerò a coloro che non mi accettano per paura del loro rifiuto, perdendo così di vista la mia stessa libertà di essere come sono.

Ecco allora che quel “non temete” detto da Gesù riveste un’importanza fondamentale nella vita del credente e potrà portarlo a un’inversione di pensiero, una vera e propria conversione che gli permetterà di dire “sono in cuore a Dio” invece che “ho Dio nel mio cuore”.

Ma nel passo che abbiamo letto, oltre alla bella immagine, molto rassicurante del passero, c’è anche un altro aspetto assai rilevante. Gesù dice  “… non sono venuto a mettere pace, ma spada”.

È forse questa una minaccia?  Certo che no. Perché chi ama non minaccia, perché la fede in Dio proclamata da Gesù non si ottiene con le armi, né con la violenza.

E allora, che significato ha questa spada?

Ha il significato di “rottura”, di divisione da ciò che era vecchio. La venuta di Gesù ha aperto una nuova era. La realizzazione della promessa che era stata profetizzata ha cambiato il modo di approcciarsi al Signore. Una religiosità prevalentemente legalistica e rituale è stata soppiantata da un messaggio d’amore e di fratellanza, dalla consapevolezza profonda di essere tutti figli dello stesso Padre. Ed inoltre viene palesato quel grandissimo dono che è la grazia, una salvezza donata per puro amore, per la grande misericordia di Dio. È un vero e proprio stravolgimento di mentalità.

Ma anche Lutero con la sua riforma ha rotto con una chiesa ormai oppressa dalle norme degli uomini, una chiesa che si era adagiata sui bisogni materiali, una chiesa che strumentalizzava il messaggio evangelico per schiavizzare il popolo e tenerlo nell’ignoranza, una chiesa le cui direttive affossavano il grande messaggio d’amore e di perdono della Scrittura.

Lutero non ci sta e, forte della spada portata da Gesù, rompe con quella chiesa.

Ma non solo lui. Pensiamo anche a Wesley che ha rotto con una chiesa di stato, pensiamo anche ai missionari della nostra storia metodista che hanno avuto il coraggio di portare in Italia una chiesa di rottura, pensiamo anche ai vecchi valdesi che non hanno temuto di tornare al di qua delle Alpi sapendo cosa rischiavano nel giurare fedeltà all’evangelo, pensiamo a tutti coloro che nella storia passata e recente hanno sacrificato la loro vita per non rinnegare il loro credo. Grandi e piccoli personaggi di fede, alcuni martiri per la fede, ma certo non più meritevoli o santi degli altri, perché il messaggio di Cristo può essere certo di rottura, ma sicuramente non crea gerarchie di santità fra coloro che lo accolgono.

E noi, cristiani riformati, metodisti di Padova, come ci poniamo di fronte a tutto ciò? Siamo consapevoli della grande ricchezza che ci viene donata da Dio? Sappiamo noi salire sui tetti per proclamare la gloria del nostro Signore? Nutriamo il coraggio di essere noi stessi coloro che vogliono rompere gli schemi di una società ingiusta e materialista, di una religiosità spesso basata sul fare, sulle opere, invece che sulla completa fiducia che solo Dio salva? Siamo disposti a correre il rischio di essere derisi, di essere considerati fuori dal tempo, di essere interpretati come “bigotti” idealisti? Abbiamo la consapevolezza che perfino i capelli del nostro capo sono noti al Padre e sul serio, nel profondo del nostro cuore, siamo convinti di valere molto più di due passeri?

Se lo siamo veramente, non ci resta altro che coltivare la nostra fede e proclamarla al mondo, individualmente e come chiesa.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: IL GIOVANE RICCO

Marco 10,17-31

Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio. Tu sai i comandamenti: “Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre”».

Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».

Gesù, guardatolo, l’amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va’, vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».

Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.

Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»

I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile [per quelli che confidano nelle ricchezze] entrare nel regno di Dio!  È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».

Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»

Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».

Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».

Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo, il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.  Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

L’episodio del giovane ricco è riportato da tutti i tre vangeli sinottici, questo indica che per la chiesa primitiva vi era un profondo significato nella mancata vocazione del giovane e nelle domande successive dei discepoli.

Anche per la nostra chiesa del 2017 queste parole del vangelo risuonano familiari e rilevanti. Chi non ricorda il paradosso di Gesù: ” è più  facile a un cammello passare per la cruna di un ago che ad un ricco entrare nel regno di Dio”.

Uno dei versetti più citati nel parlare profano, una immagine usata per la polemica contro i potenti della terra, una indicazione che non lascia dubbi. Se leggiamo la bibbia in maniera letterale, se usiamo i versetti per abbattere chi la pensa diversamente da noi, abbiamo già finito il sermone. Oggi abbiamo imparato che: i ricchi non sono salvati, noi che seguiamo Gesù sì.  Anzi possiamo aggiungere alla citazione un altro versetto dello stesso brano: “se lasci casa e famiglia per seguire Gesù ne ricevi in questo tempo, cento volte tanto”. E quindi potremmo affermare: noi che non siamo ricchi e seguiamo la chiesa di Cristo, riceveremo cento volte quello che abbiamo lasciato.

Semplice diretto e anche gradito alle nostre orecchie!

Il messaggio di questo brano del vangelo di Marco però non è questo!

Certo queste affermazioni sono chiare e vengono dalla predicazione di Gesù, ma non possono rappresentare l’intero significato della vita cristiana a cui il Cristo chiama i suoi discepoli. Se leggiamo il vangelo così, cercando risposte letterali, meccaniche, quasi mercantili andiamo fuori strada; andiamo dove il nostro orgoglio umano ci porta.

Pensate di ricevere una foto sul vostro telefonino, per uno scherzo della trasmissione si vedono solo i piedi della persona ritratta, quelle scarpe non possono rappresentare tutta la persona. Appartengono alla foto, da esse si capisce qualche cosa, ma non saprete certo di chi si sta parlando nella vostra chat!

Raccogliere dal vangelo le indicazioni stringenti di un solo versetto, ci porta ad usare il vangelo come fosse un manuale di comportamento. Ma nel vangelo c’è molto di più!

Ragionate sulla storia del popolo scelto da Dio.

I dieci comandamenti appartenevano ad Israele da secoli, perché allora avrebbero dovuto seguire  questo maestro galileo?  Se è sufficiente avere un manuale etico, una legge, Gesù è morto per nulla, per nulla Dio si è fatto uomo.

Consideriamo allora tutto il passo, scorriamo i due quadri delle azioni di questo incontro e del chiarimento successivo, troviamo le domande poste e comprenderemo quali sono le risposte, anzi se c’è una risposta, la risposta di Gesù.

Nel primo quadro, vediamo il giovane ricco inginocchiato davanti a Gesù che lo apostrofa: Maestro.  Gesù risponde, rifiuta il rapporto di adorazione e guardandolo in viso lo ama, un termine che si può tradurre anche lo abbraccia. Dopo la vocazione a seguire Gesù, vediamo il giovane ricco allontanarsi con gli occhi bassi e la testa china.

Nel secondo quadro vediamo Gesù attorniato dai discepoli che lo hanno seguito. Gesù li scuote con le sue parole, essi reagiscono fintanto che Pietro sbotta, ma noi che ti abbiamo seguito avremo di più di chi ti rifiuta?

Due quadri vivaci con la stessa ansia che percorre chi ascolta Gesù: il regno di Dio, la salvezza, come la otterremo? Come ci sarà assicurata?

Sia il giovane ricco, sia Pietro riconoscono Gesù come il maestro. Sia il giovane ricco sia Pietro vogliono conoscere la via per avere la vita eterna.  Insomma ci viene da chiedere anche a noi: “quale è il prezzo del regno dei cieli?”

Gesù dà una risposta articolata in tre punti: 1) Prendi la tua croce e seguimi. 2) Quello che per noi è impossibile, per Dio, che è buono, è possibile. 3) Molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi.

Queste sono le tre risposte che indirizzano il lettore: seguire Gesù, accettare l’onnipotenza del Padre nei cieli, annunciare il Regno di Dio che rivoluziona la nostra esistenza.

Dio chiama ricchi e poveri e li raggiunge nel concreto del loro peccato, anche se le nostre umane contraddizioni sembrano insuperabili, la bontà di Dio, il Santo Spirito, sovrabbonda, alleggerendo le ansie economiche di chi ha un tesoro e dando speranza a chi non ne ha. Il regno che ci attira in maniera irresistibile, il regno che ci dona la vita eterna, si insinua nel tempo che viviamo con aspetti paradossali: fortuna materiale accompagnata da persecuzioni, primi che si comportano come ultimi e ultimi che hanno l’onore dei primi.

In questa prospettiva piena di paradossi anche un cammello può sperare di passare per la cruna di un ago!

Confrontando le domande del ricco e di Pietro con le risposte di Gesù comprendiamo cosa dobbiamo cambiare nel nostro dialogo con Dio, nella nostra lettura della Bibbia.

Davanti alla Parola del Signore, ascoltando il vangelo, purtroppo noi pensiamo di essere in un supermercato, andiamo e prendiamo quel che ci piace e ci domandiamo solo: quanto costa? Siamo interessati ad una salvezza che meccanicamente ci dà la certezza di entrare nel regno di Dio anzi di esserci già ora.  Vogliamo la salvezza e la prosperità subito e a basso prezzo.

Gesù non evita le domande concrete, entra in dialogo con chi chiede in preghiera, dà delle risposte che entrano nel pieno della nostra vita, ma il prezzo ci sembra troppo alto per quello che noi vogliamo spendere.

La vocazione di Cristo ci raggiunge nel pieno della nostra inadeguatezza, ci accorgiamo che non usciremo dal supermercato avendo sotto braccio un pacco con su scritto “regno dei cieli”. La conclusione allora è quella del ricco? Dopo l’abbraccio di Gesù ce ne andiamo ad occhi bassi, rifiutiamo la vocazione del Signore?  No, non facciamo questo errore, infatti dal passo emerge una via di uscita che possiamo percorrere, la risposta di Gesù.

Gesù ci invita a seguirlo, mostra le difficoltà di questa via, ma ricorda dal primo verso all’ultimo che Dio che è buono ed opera per noi, rende possibile quello che ci sembra impossibile, nella sua onnipotenza rovescia le nostre logiche umane: “molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi”.

A noi viene chiesto di seguirlo con una grande fiducia nella sua potenza che rovescia la nostra logica, che rovescia il nostro ordine personale, l’ordine sociale nel quale siamo cresciuti.

Che il Signore ci dia l’intelligenza per scorgere la sua volontà, l’amore fraterno per metterla in pratica.

AMEN

Ruggero Mica

Sermone: LA FIDUCIA DI DIO NELL’UOMO

Giobbe 15,1-16

Allora Elifaz di Teman rispose e disse: «Il saggio risponde forse con vana scienza? Si gonfia il petto di vento? Si difende con chiacchiere inutili e con parole che non giovano nulla? Tu, poi, distruggi il timor di Dio, sminuisci la preghiera che gli è dovuta. La tua iniquità ti detta le parole, e adoperi il linguaggio degli astuti. Non io, la tua bocca ti condanna; le tue labbra stesse depongono contro di te. Sei forse tu il primo uomo che nacque? Fosti tu formato prima dei monti? Hai forse sentito quanto si è detto nel Consiglio di Dio? Hai forse accaparrato la saggezza tutta quanta per te solo? Che sai tu che noi non sappiamo? Che conoscenza hai tu che non sia anche nostra? Ci sono fra noi uomini canuti e anche vecchi più attempati di tuo padre. Fai così poco caso delle consolazioni di Dio e delle dolci parole che ti abbiam rivolte? Dove ti trascina il cuore, e che vogliono dire codeste torve occhiate? Come! Tu volgi la tua collera contro Dio, e ti lasci uscir di bocca tali parole? Chi è mai l’uomo per esser puro, il nato di donna per esser giusto? Ecco, Dio non si fida nemmeno dei suoi santi, i cieli non sono puri ai suoi occhi; quanto meno quest’essere abominevole e corrotto, l’uomo, che tracanna iniquità come acqua!

 

Isaia 58,5-12

È forse questo il digiuno di cui mi compiaccio, il giorno in cui l’uomo si umilia?

Curvare la testa come un giunco, sdraiarsi sul sacco e sulla cenere, è dunque questo ciò che chiami digiuno, giorno gradito al SIGNORE?

Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo?

Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne?

Allora la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà, la gloria del SIGNORE sarà la tua retroguardia.

Allora chiamerai e il SIGNORE ti risponderà; griderai, ed egli dirà: Eccomi!

Se tu togli di mezzo a te il giogo, il dito accusatore e il parlare con menzogna; se tu supplisci ai bisogni dell’affamato, e sazi l’afflitto, la tua luce spunterà nelle tenebre, e la tua notte oscura sarà come il mezzogiorno; il SIGNORE ti guiderà sempre, ti sazierà nei luoghi aridi, darà vigore alle tue ossa; tu sarai come un giardino ben annaffiato, come una sorgente la cui acqua non manca mai.

I tuoi ricostruiranno sulle antiche rovine; tu rialzerai le fondamenta gettate da molte età e sarai chiamato il riparatore delle brecce, il restauratore dei sentieri per rendere abitabile il paese.

 

Cari fratelli e care sorelle,

Abbiamo letto dal libro di Giobbe quanto gli dice il suo amico Elifaz a fronte della profonda crisi che vive un uomo provato dal dolore e dalla sventura.  Forse un amico del genere è meglio perderlo che trovarlo, visto che certamente costui non dà a chi sta male consolazione e soprattutto rispetto per il sentire travagliato.

Il messaggio di Elifaz è pessimista, è colpevolizzante, certamente deprimente e poco o per nulla fiducioso. Arriva a dire, abbiamo sentito, che “Dio non si fida nemmeno dei suoi santi e che perfino i cieli ai Suoi occhi non sono puri”!

Ma questa è la visione del mondo di Elifaz, molto perbenista e punitiva e con un concetto che non possiamo condividere: ogni malanno e ogni sventura sono la punizione divina per qualcosa di male che l’uomo fa e per il fatto che l’uomo si senta scoraggiato e metta in discussione la propria fede.

Ma non è così. Questa visione lasciamola a Elifaz e lasciamola anche a coloro che, a fronte delle prove talvolta dure della vita dicono “Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”

Riflettiamo invece su quanto abbiamo letto in Isaia, dove possiamo dire che Dio ci crede capaci di tante cose!

Dio ci crede capaci di far spuntare la nostra luce come l’aurora!

Ci crede capaci di far spuntare la nostra luce nelle tenebre, affinché la nostra notte oscura sia come il mezzogiorno!  Dio ci crede capaci di essere come un giardino ben annaffiato, come una sorgente la cui acqua non manca mai.

Sì, Dio ci crede capaci di ricostruire, di riparare le brecce e di restaurare i sentieri!

Dio, allora, crede te e crede me veramente capaci di tante cose!

Come, però, potrà realizzarsi quello di cui Dio ci crede capaci?

Il testo di Isaia risponde a questa nostra domanda dandoci delle indicazioni concrete: “Che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo ….. Che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne”.

Noi riusciamo ad essere una luce in mezzo alle tenebre, siamo come un giardino ben annaffiato e una sorgente la cui acqua non manca, quando viviamo non solo per noi stessi ma anche per gli altri, quando abbiamo cura non solo del nostro benessere personale, ma anche del bene degli altri.

Queste affermazioni ci sembrano quasi scontate. Sì, sembrano proprio scontate e tuttavia così facili da rimuovere e facili da dimenticare.

Rimosse e quasi dimenticate le aveva anche il popolo d’Israele. Il profeta Isaia si rivolge al suo popolo che dopo lunghi anni di esilio in Babilonia era tornato a vivere nella propria terra.  Dopo l’esperienza concreta dell’esilio, dopo l’esperienza di essere stati trattati male, dovrebbe, allora, essere quasi naturale non fare del male ad altri, applicare il diritto e la giustizia e occuparsi dei “meno fortunati”.  La gente di allora, invece, stava attenta a tutt’altro. Si preoccupava di mantenere con grande rigore le pratiche religiose, i momenti di preghiera, le giornate di digiuno …. per essere certi di ricevere un atteggiamento di favore da parte del loro Dio.

Ma quello che Dio gradisce è proprio altro! Le parole del profeta non lasciano alcun dubbio.

All’Israele di allora doveva essere ricordato che per seguire la volontà di Dio non era sufficiente andare nel tempio a pregare e a digiunare, e poi non occuparsi di coloro che si erano dovuti vendere come schiavi o di altri ancora, che, magari erano liberi, ma costretti a lottare, giorno dopo giorno, per la propria sopravvivenza, contro la fame e la miseria.  All’Israele di allora veniva ricordato che un digiuno che Dio gradisce è quello che libera, che sazia e che apre le porte delle case a chi ha bisogno di essere sostenuto.

E a noi, che siamo riuniti qui stamattina in questa chiesa, che cosa vogliono dire queste parole del profeta? Come ci toccano le sue parole oggi?

Queste parole mi toccano, perché non mi lasciano tranquilla!  Mi propongono la domanda: dove io, come persona, mi impegno per altri e sostengo concretamente le persone che vivono nell’ombra della miseria e dell’ingiustizia?

Queste parole mi toccano, perché non mi lasciano tranquilla!

Infatti mi chiedono, sempre di nuovo: dove noi, come chiesa, siamo una chiesa per altri e non solo per noi stessi?

Queste parole del profeta ci toccano, perché ci ricordano il fatto che il culto che celebriamo la domenica perde quasi tutto il suo valore davanti a Dio, se questo nostro culto non ha niente a che fare con la nostra vita quotidiana, se questo nostro raduno domenicale è totalmente distaccato da ciò che facciamo durante la settimana.

Se la domenica lodiamo il Signore per la sua misericordia e per la sua giustizia, allora è nostro compito impegnarci nelle nostre relazioni interpersonali, ma anche nella società e nel mondo che ci circondano proprio per ottenere maggiore misericordia e giustizia.

Se la domenica chiediamo a Dio di darci la Sua pace, siamo chiamati a cercare di vivere la pace e la non-violenza fisica e verbale anche nelle nostre relazioni di tutti i giorni.

Se la domenica ringraziamo il Signore per la buona creazione e per tutto quello che è la base della nostra vita, siamo chiamati a salvaguardare il creato nella nostra vita di tutti i giorni con buone pratiche.

Siamo dunque continuamente chiamati a cercare di costruire un ponte dal culto domenicale al, potremmo chiamarlo così, culto feriale, affinché Dio gradisca i nostri culti.

Il bello è: Dio ci crede proprio capaci di fare questo!

Dio ci crede capaci di applicare la misericordia e la solidarietà nella nostra vita.  E ci promette che ne varrà la pena. Perché cosa si può dire di più bello di una persona se non che la sua luce spunterà come l’aurora?

Dio ci crede capaci di essere messaggeri e portatori della Sua speranza.  E com’è bello poter dire di una persona, che la sua luce spunterà nelle tenebre.

Dio, infatti, ci crede capaci di rendere più chiare situazioni di vita dominate dalle tenebre, di portare un po’ di gioia laddove regna la tristezza.

Com’è bello essere come un giardino ben annaffiato e come una sorgente la cui acqua non manca mai.  Dio ci crede anche capaci di dissetare, di dissetare la sete di pace e di giustizia, la sete di amore e di sicurezza.

E infine, com’è bello poter dire di una persona che ricostruisce e rialza, che ripara le brecce e restaura sentieri.

Dio ci crede capaci di rendere possibile la vita laddove fino ad ora era stata possibile solo la sopravvivenza. Egli ci crede capaci di vincere divisioni, di chiudere brecce che sono riuscite a separare gli uni dagli altri.

Dio ci crede capaci di fare veramente tante cose!

E non ci lascia soli con ciò che abbiamo da fare. Ci promette di essere con noi, di essere al nostro fianco. Ci promette di donarci la forza necessaria.

Dio ci crede veramente capaci di fare tante cose.

Fidiamoci di lui!

AMEN

past. Dorothee Mack – Liviana Maggiore

Sermone: CUORE E PAROLE

Romani 10, 9-17

Perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: «Chiunque crede in lui, non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato. Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunci? E come annunceranno se non sono mandati? Com’è scritto: «Quanto sono belli i piedi di quelli che annunciano buone notizie!» Ma non tutti hanno ubbidito alla buona notizia; Isaia infatti dice: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?» Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo.

Care sorelle e cari fratelli, sono parole appassionate quelle che abbiamo ascoltato! Paolo cerca di convincere i suoi fratelli ebrei e di portarli alla fede in Cristo; usa formule incisive e fa riferimenti continui alla Scrittura.

Il primo elemento sul quale egli insiste è proprio la fede in Cristo come nuovo paradigma della fede in Dio. Siamo in un contesto polemico. Infatti i capitoli 9, 10 e 11 della Lettera ai Romani affrontano il tema spinoso “Israele e la fede in Cristo”. L’ebreo Paolo, convertito all’Evangelo, cerca di convincere i suoi ascoltatori ebrei che, in Cristo, la giustizia di Dio si è compiuta. E lo fa con urgenza, sa che il suo messaggio deve entrare in ogni casa, nelle case degli ebrei come dei pagani, dei ricchi come dei poveri, dei greci come dei romani.

Ma come si può giungere alla fede, come nasce la nostra fede, se non è capacità umana ma dono di Dio? L’abbiamo ascoltato dall’evangelo di Marco: «Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità». Paolo ci fornisce una via per accedere alla fede, la sua via per accedere alla fede: credere con il cuore! “Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato.”

La bocca e il cuore. Da una parte la parola, la parola della confessione e della predicazione; dall’altra la sede delle emozioni, la casa delle emozioni, della gioia, dell’amore, del sostegno ricevuto da Dio, la casa della fede che crede nell’incredibile.

Mi viene in mente un pensiero di Blaise Pascal, riportato proprio in questi giorni dal lezionario “Un giorno una parola”: “Parlando delle realtà umane, bisogna conoscerle prima di poterle amare; parlando delle realtà divine, al contrario, bisogna prima amarle per poterle conoscere. Si entra infatti nella verità solo attraverso l’amore.”

Credere con il cuore, mettere al centro della nostra vita l’inspiegabile mistero di Pasqua, della resurrezione e della vita oltre questa vita; anche in un mondo che sa spiegare, curare, guarire, che indaga la complessità, il gigantesco e il minuscolo; anche in un mondo, il nostro, dove la fede ad alcuni sembra un controsenso, o un resto del passato.

La fede, scrive ancora Paolo, viene da ciò che si ascolta. Paolo ci mette di fronte alla nostra responsabilità come credenti: il primo veicolo dell’Evangelo sono io, sei tu, con le tue parole, con le tue esperienze, con la tua storia. Tu sei un testimone, non perché la chiesa ti ha confermato o consacrato, ma perché con la tua bocca hai confessato Cristo come Signore e con il cuore hai creduto che Dio l’ha risuscitato dai morti. Da te e da tutti noi nasce l’unica chiesa.

Che il Signore ci sia accanto nel cammino che abbiamo di fronte e ci renda in grado di accogliere questa Parola che ci chiama ad attivare il nostro cuore e la nostra bocca per essere, così, portatori di quella nuova vita che ci è riservata.

Amen

Paola Gonano

Sermone: AMORE, ACCETTAZIONE E PERDONO

Matteo 5: 38-48

Fra le persone che costellano la mia attuale vita ve ne sono due che hanno per me una valenza affettiva molto particolare, direi addirittura unica, tanto che sovente mi accade di pensare che non saprei cosa fare senza di loro.

Poiché le amicizie del cuore si sviluppano fra persone che hanno qualche similitudine, conoscendo me, potete ben pensare che anche questi due miei amici hanno un bel “caratterino”, pur con modalità espressive diverse.

A loro riconosco una grandissima carica umanitaria, una reale solidarietà verso chi soffre, una profonda sensibilità di pensiero.

Lei, la mia amica del cuore da più di 50 anni, non si sottrae mai al confronto con me, nei periodi gioiosi come nei momenti più bui ed ha una caratteristica che ci accomuna: è tenace e anche quando le nostre idee sono divergenti non rinuncia ad esprimerle.

Lui è una persona che definisco “troppo reattiva”, perché spesso cede agli impulsi del momento per esprimersi con parole talvolta eccessive, pena magari il fatto di pentirsene poco dopo.

Entrambi hanno più o meno la mia età, quindi ritengo che ormai i nostri caratteri siano ben lungi dal cambiare.

Talvolta il confronto con loro è per me assai impegnativo, se non addirittura doloroso; però l’amore profondo che mi lega a queste due persone ha sempre il sopravvento, perché probabilmente loro sanno di poter contare su di me e io sono certa di poter contare su di loro, in quanto ci accettiamo e stimiamo come persone, per quello che siamo, anche se talvolta i comportamenti sono discordi e quindi non possiamo far altro che perdonarci reciprocamente per le nostre intemperanze.

Perché, sorelle e fratelli, vi dico tutto ciò?  Perché nelle frequentazioni con la Scrittura mi sono recentemente imbattuta in questo passo di Matteo e l’associazione mi è venuta spontanea.

Leggiamo insieme dall’Evangelo di Matteo 5: 38-48

Voi avete udito che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra; e a chi vuol litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello.

Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te, non voltar le spalle. Voi avete udito che fu detto: “Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste.

 

Il passo che abbiamo letto fa parte del capitolo di Matteo in cui è riferito il Sermone sul monte e, a primo acchito, potrebbe sembrare un invito alla debolezza (e in questo senso è stato purtroppo talvolta interpretato).

Quello che invece voglio sottolineare oggi è che il porgere l’altra guancia qui è messo in contrasto con la legge del taglione (… occhio per occhio e dente per dente).

Premesso che la legge del taglione, riportata in Esodo 21, Levitico 24 e Deuteronomio 19 non era da intendersi come “vendetta”, con l’accezione negativa che questo detto ha assunto nel nostro parlare comune, bensì come “equilibrio di giustizia” a fronte di un danno, una malefatta, un’ingiustizia perpetrata, così che la reazione non dovesse essere sproporzionata all’azione negativa. Quindi sbaglia chi ritenesse la legge del taglione una forma primitiva di vendetta.

Ciò premesso, quindi pensando che Gesù si rivolgeva a persone che interpretavano la legge del taglione come una legge giusta ed equilibrata, lo sconvolgimento nel suo dire è a dir poco plateale.

Ma non è finita qui. Gesù dice ancora “… a chi vuol prenderti la tunica, lascia anche il mantello”. Ancora una volta non siamo di fronte ad un invito alla debolezza, alla inutile passività, a un vuoto buonismo, ma il riferimento è ancora alla legge, così come contenuta in Esodo 22, 26-27 “Se prendi in pegno il vestito del tuo prossimo, glielo restituirai prima che tramonti il sole; perché esso è l’unica sua coperta, è la veste con cui si avvolge il corpo. Con che dormirebbe? E se egli grida a me, io lo udrò; perché sono misericordioso.”, dove vengono date precise indicazioni contro l’usura.

Gesù quindi non vuole indurre in coloro che lo seguono un atteggiamento di arrendevolezza, ma vuole andare oltre. Vuole superare le leggi necessarie al vivere civile insinuando la legge dell’amore, dell’accettazione dell’altro, della partecipazione alla vita del prossimo (“Da’ a chi ti chiede e a chi desidera un prestito da te non voltare le spalle”), fino ad arrivare al saluto rivolto non solo ai fratelli, ma evidentemente anche agli sconosciuti.  Il paradosso infine è contenuto nell’invito all’amore per il nemico.

Orbene, o siamo convinti che Gesù fosse un grullo, oppure dobbiamo cercare di capire il perché di tutto ciò.  E il motivo sta nell’affermazione conclusiva del nostro passo: “Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste.”

Ecco il nodo della questione!

Nella sua perfezione, il Padre, che è padre di tutti, cosa fa? PERDONA, o meglio AMA E PERDONA.

Ci perdona costantemente per le nostre infedeltà e per il nostro peccato. Questo credono i cristiani e chi ha accolto la Parola di Dio non ha alcun dubbio in merito. Noi credenti non abbiamo dubbi sul fatto che il perdono ci viene donato per grazia e non per meriti. Certo, abbiamo il dovere di guardare la nostra vita e di valutare le nostre azioni per ciò che sostanzialmente sono. Abbiamo il dovere di riconoscere i nostri errori, la nostra situazione di peccato nella quale costantemente viviamo malgrado le migliori intenzioni. Abbiamo il dovere dell’umiltà di presentarci al nostro Signore per invocare il suo perdono, ma abbiamo anche la certezza che Egli ci conosce come un pastore conosce le proprie pecore, una ad una, e conosce il loro nome e per salvare solo una di esse è disposto a lasciare il gregge che non corre pericoli.

In altre parole, abbiamo il dovere, se credenti, dell’esercizio dell’amore e del perdono similmente a quanto Dio fa con noi, trattandoci in base all’amore che Egli nutre per i suoi figli e non in base ai singoli e temporanei comportamenti.

E se Lui con noi fa questo, chi siamo noi per non imitarlo, per non cercare di seguire le Sue orme?

Ma, per tornare al nostro passo, secondo questa interpretazione possiamo dire che il discorso di Gesù va ben oltre la legge. La strada indicata da Gesù è quella dell’amore, della fratellanza, della comprensione, della solidarietà verso il prossimo, tutto il prossimo, anche quello che non ci piace. E su questo anche la nostra umanità ha avuto fulgidi esempi; giusto per farne uno: Martin Luther King che predicava la non violenza.

Ma potreste dirmi: “Cosa c’entra questo con i riferimenti che hai fatto all’inizio ai tuoi due amici? Perché leggendo questo passo del vangelo ti è venuta l’associazione con queste due persone?”  Presto detto. Io amo molto costoro. Li amo profondamente per ciò che sono, anche se talvolta il loro comportamento è difforme dal mio, anche se talvolta vengo colta da atroce dolore perché non andiamo d’accordo. Li amo anche quando ho timore di perdere il loro amore e la loro amicizia perché magari litighiamo. Il mio amore per loro ha superato il limite dell’affetto per ciò che FANNO e si è situato nel sentimento positivo per ciò che costoro SONO.

E questo non è solo un modo di dire. Pensate, ad esempio, ad un grande amore che molti di noi hanno sperimentato per un figlio. Certamente ci sarà capitato di ricevere anche cocenti delusioni per il comportamento del figlio, quasi certamente il figlio non è come noi avremmo voluto che fosse. Eppure lo amiamo e continuiamo a farlo anche quando i suoi comportamenti ci inducono al litigio, alla mortificazione delle nostre aspettative, perfino al dolore profondo.

Potremmo essere delusi e amareggiati dal figlio, ma se lo amiamo veramente gli staremo sempre alle spalle, pronti ad aiutarlo e sorreggerlo, pronti a perdonarlo.

E se questo siamo disposti a farlo per un figlio, perché mai non può essere che siamo disposti a farlo per altri che amiamo a titolo diverso?

Se siamo credenti, se abbiamo accolto nel nostro cuore la Parola, non abbiamo altra scelta che cercare di proiettare verso i fratelli ciò che il Padre fa nei nostri riguardi: perdono e amore.

Potranno cambiare le situazioni, certo. Magari potrà accadere che la nostra vita non si intrecci più con la vita di coloro che amiamo, ma una cosa è certa: se di vero amore si tratta, esso non verrà mai meno e resterà scolpito nei nostri cuori.

E se siamo convinti che, secondo gli insegnamenti cristiani, è l’amore la vera forza della vita, il porgere l’altra guancia non è un segno di debolezza, bensì l’unica alternativa che abbiamo, perché la ragione è dalla nostra parte e l’amore ci obbliga talvolta anche alla sofferenza di ricevere un altro schiaffo, nella speranza che colui che ci percuote possa ravvedersi.  Come dire: “tu mi percuoti, ma io ho ragione per ché credo che la forza dell’amore non può essere negata e non posso fare altro che porgerti l’altra guancia per non disconoscere ciò in cui credo”.

In conclusione possiamo quindi dire che l’amore ci induce all’accettazione della persona per come è, essendo disponibili a perdonare ciò che talvolta dice o fa, nella speranza che anche gli altri facciano lo stesso nei nostri confronti e sappiano accettare le nostre scuse e il nostro autentico sentimento di ravvedimento per i nostri comportamenti.  Ecco qual è la proiezione nella nostra dimensione orizzontale di ciò che crediamo Dio faccia con noi.

Ma se noi non facciamo un’analisi in questo senso della nostra vita, del nostro condurci in questa esistenza, come possiamo presentarci al cospetto di Dio per chiedere che Lui faccia nei nostri confronti ciò che noi NON VOGLIAMO FARE nei confronti degli altri?

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: IL POPOLO DEL LIBRO

Salmo 1 (BIR)

1 Beato l’uomo che non cammina secondo il consiglio dei malvagi, non si ferma sulla strada dei trasgressori e non si siede nel consesso degli schernitori, 2 al contrario, il suo piacere è nella legge di Yhwh e sulla sua legge rimugina giorno e notte. 3 Sarà come albero trapiantato presso canali d’acqua, che dà frutto a suo tempo, il cui fogliame non appassisce e tutto ciò che fa gli riesce. 4 Non così sono i malvagi, anzi, sono come pula che il vento sospinge. 5 Perciò i malvagi non potranno resistere nel giudizio, né i trasgressori nell’assemblea dei giusti. 6 Infatti Yhwh conosce la via dei giusti, ma la via dei malvagi si perderà.

Care sorelle e cari fratelli,

Sono ormai passati quasi cinquecento anni da quando Lutero a Worms pronunciò la famosa frase: Hier stehe ich, qui io sto fermo, per affermare che era irremovibile nel suo intento di seguire la Scrittura come unica regola della sua fede. Davanti a lui da una parte stava il consiglio degli opportunisti che circondava l’imperatore, e dall’altra la Parola di Dio. Lutero scelse con chiarezza, e così fecero dopo di lui e dietro a lui diversi principi di varie nazionalità, intellettuali di ogni ambito, uomini e donne di ogni estrazione sociale. Di fronte alla minaccia delle armi rivolta a chi voleva seguire la via del Signore, di fronte agli schernitori di professione che gettavano fango su chiunque osasse opporsi al potere del papa e dell’imperatore, queste persone hanno fatto una scelta, pagandola sovente molto cara.

Una situazione simile viene prospettata dal Salmo 1. Il lettore, infatti, viene posto di fronte ad un’alternativa radicale. Da una parte stanno gli empi, gli schernitori, quelli che sono, è vero, come pula che il vento disperde, ma che ai nostri occhi appaiono sovente potenti e vittoriosi; dall’altra sta chi rimugina la Scrittura, la torah di Dio. Noi con chi stiamo? Dietro a noi stanno generazioni di uomini e di donne che questa scelta l’hanno fatta, costruendo quella storia che ci piace tanto ricordare, celebrare, ma un po’ meno vivere nel nostro quotidiano. E noi?

Chi sceglie la via della Scrittura viene detto beato, e chi è beato è anche salvato agli occhi di Dio, sta in piedi saldo davanti al Suo giudizio. Ma non solo. Noi tendiamo a proiettare nel futuro escatologico questa beatitudine, il salmista ce la riporta al presente, non solo perché il giudizio di Dio è un giudizio quotidiano, ma anche perché la sua dimensione esistenziale è orientata principalmente al presente. Chi evita malvagi, trasgressori e schernitori, e trova il suo piacere nella parola di Dio e su essa medita, si china a leggerla e a rileggerla, (l’immagine del Salmo ci richiama una persona che legge e rilegge, mormorando alle sue stesse orecchie questo insegnamento), questi è come un albero piantato vicino all’acqua che vive la sua vita rispettandone l’armonia, i tempi, le fasi, vivendo la sicurezza interiore del credente, di colui che vive la sua vita sapendo che le sue scelte sono accompagnate da quella Parola che sola può condurci sul retto sentiero. Vive, insomma, la solidità di chi nel suo proprio tempo sa che cosa deve fare e quando. Per questo ha successo e produce frutto abbondante.

Degli avversari, invece, viene evidenziata l’instabilità, la fugacità, la debolezza. Quando arriva il vento l’albero rimane stabile, mentre loro sono portati in giro senza pietà, senza potersi ancorare a nessuna radice. Mentre chi si affida alla torah di Dio rimane saldo di fronte al giudizio di Dio e della storia, chi si affida alle mode del momento, alle tentazioni di questo mondo, sparirà nel nulla e, se verrà ricordato, sarà solo per il male che ha fatto.

Questa scelta di fondo, naturalmente, si ripropone a noi come credenti e come chiesa ogni giorno e non solo nei momenti cruciali della storia. Forse nessuno di noi viene chiamato a comparire di fronte all’imperatore o al papa re, ma gli empi, i trasgressori, gli schernitori sono sempre lì. L’Italia è un paese divorato dalla corruzione, a tutti i livelli: che cosa scegliamo di fronte alla tentazione? Nel tempo del “volemose bene” e in cui tutto sembra essere uguale, noi siamo capaci di dire che la Parola di Dio è diversa e può fare la differenza nel piccolo della nostra quotidianità? In un tempo di totale assenza di un pensiero alternativo di opposizione che difenda la dignità delle persone, dei lavoratori, dei più deboli della nostra società, sappiamo noi dire una parola meditata, rimuginata e non superficiale, una parola di conforto e di speranza, per non dire di giustizia? In ogni scelta della vita quotidiana si cela la contrapposizione evocata dal salmista. Senza per forza diventare paranoici o moralisti, la sappiamo riconoscere senza cadere nella trappola del tentatore?

Di fronte alla scelta, il salmista ci dice chiaramente che l’unico modo che abbiamo per sapere dove stiamo andando e se stiamo facendo davvero la scelta giusta è leggere ogni giorno la Parola del Signore, lasciarci interrogare da essa e dalla sua sapienza antica, lasciarci sconvolgere dall’annuncio dell’evangelo… Anni fa al tempo della crisi degli ospedali il pastore G. Tourn invitò la chiesa a chiudersi nella caverna di Elia a riflettere. Ma, quando ci siamo entrati nella caverna, non è che abbiamo dimenticato fuori la Bibbia? Questo, infatti, è il dato più duro con cui noi valdesi e metodisti del 2017 dobbiamo fare i conti: noi non siamo più il popolo del Libro. Agli studi biblici vengono solo pochi eletti, la maggior parte dei membri di chiesa, quando va bene, si accontenta di ascoltare il culto. Quanti davvero hanno la Scrittura come bussola della propria vita? Quanti la leggono e la rimuginano? Anche da questo punto di vista abbiamo delegato tutto ai pastori, dal compiere le scelte radicali di vita alla lettura quotidiana della Scrittura. Ricordiamoci, però, che il teologo al massimo può lanciare una provocazione. Se non ci fossero state schiere di “semplici” credenti dietro i Riformatori, Lutero sarebbe finito sul rogo come Jan Hus e tanti altri. Noi valdesi e metodisti, oggi, ci siamo profondamente clericalizzati, ma ricordiamoci sempre che se si clericalizza, il protestantesimo muore. Se il popolo di Dio non legge la Bibbia, noi protestanti diventiamo del tutto inutili.

Per questo credo molto nel progetto della nuova traduzione della “Bibbia della Riforma”. Perché è un progetto inter-protestante che vuole riportare la Bibbia al centro del dibattito religioso e culturale e vuol sfidare i nostri membri di chiesa a leggerla e rileggerla, a rimuginarla e a meditarla come fecero i Riformatori e la loro generazione. Nella traduzione abbiamo lanciato qualche provocazione, per cercare di uscire dal nostro linguaggio ecclesiastico intra-protestante, perché divenga più accessibile a tutti, senza però fare una tradizione più libera, come la TILC. La speranza del comitato di traduzione è che non solo sia letta, ma sia discussa a tutti i livelli. Perciò, per favore, devastate la nostra traduzione, fatela a pezzi, non abbiate alcuna pietà: se lo farete vorrà dire che avremo raggiunto il nostro obbiettivo, perché vorrà dire che si è tornati a discutere di Bibbia, del suo senso, della Parola che ci porta. E magari poi potremo anche fare delle correzioni perché la “Bibbia della Riforma” possa davvero diventare la nostra traduzione. Infine, per favore, non lasciate assolutamente che la leggano solo i pastori. Magari leggetela con loro, se non avete il coraggio di farlo da soli, ma tutte e tutti la devono leggere. Lo ripeto: se i laici non leggono la Bibbia e non parlano di teologia, la nostra chiesa è morta.

Beati noi, dunque, se ancora una volta sapremo essere il popolo del Libro, se ciascuno e ciascuna di noi avrà ancora piacere a leggere e studiare la torah di Dio, a chinarsi su quelle pagine antiche per rimuginarle, per meditarle, e trarre senso per la propria vita, ispirazione per vivere la quotidianità e volgerla al bene, offrendo una speranza a noi stessi e a chi ci è vicino. Allora saremo veramente beati, benedetti dal Signore, saldi e forti come albero trapiantato presso canali d’acqua, che dà frutto a suo tempo, il cui fogliame non appassisce e tutto ciò che fa gli riesce.

Amen

Eric Noffke