Sermone: IL PERDONO

Matteo al cap. 18, 21-35
“Allora Pietro si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?» E Gesù a lui: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Perciò il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che fosse venduto lui con la moglie e i figli e tutto quanto aveva, e che il debito fosse pagato. Perciò il servo, gettatosi a terra, gli si prostrò davanti, dicendo: “Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto”. Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ma quel servo, uscito, trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari; e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: “Paga quello che devi!” Perciò quel servo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me, e ti pagherò”. Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito. Gli altri servi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto. Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu mi hai supplicato; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?” E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva. Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.

La parabola appena letta non ha paralleli negli altri Vangeli e si trova solo nell’evangelo di Matteo. Si articola in quattro scene. Le prime due sono simmetriche, e mettono in evidenza il contrasto tra il diverso comportamento dei due creditori; la terza pone in risalto l’atteggiamento degli altri servi che notano il comportamento senza pietà del servo appena condonato, mentre l’ultima scena descrive il castigo comminato al servo spietato.
La situazione di partenza è simile nelle due scene parallele: un debitore, che non era in grado di rispondere dei propri debiti, secondo la legge del tempo poteva essere condannato al carcere. Nel caso in questione entrambi i debitori vengono condannati ed entrambi implorano misericordia. La loro richiesta è formulata con le stesse parole, ma con esito opposto: nella prima scena il debito viene cancellato, nella seconda invece no.
La parabola forza persino in maniera esagerata il contrasto presente tra i due debitori, sottolineando l’enorme sproporzione tra le due cifre da saldare. La prima è astronomica, ed è troppo alta anche per un re; la seconda, invece, è piccola anche per un semplice servo. In questo modo si esalta ancora di più la generosità del re e si sottolinea l’ostinazione spietata del servo.
Contribuisce inoltre a dare un maggiore effetto anche il poco lasso di tempo che intercorre tra le due scene. “Appena uscito” dalla casa del re, ci si aspetterebbe che dalla gioia ancora viva dallo scampato pericolo, corrispondano sentimenti di benevolenza verso gli altri. Invece non è così, e ciò porta il protagonista a ritrovarsi nuovamente davanti al re, per sentirsi dire che l’annullamento della condanna è stato a sua volta annullato: il debito è ripristinato e la legge deve fare il suo corso. Ci ritroviamo al punto di partenza, con la differenza che la conclusione tragica prima evitata ora è messa in atto. Qualcosa ha rovinato tutto. Il re, che prima aveva perdonato, ora non è più disposto a perdonare, e questo perché, come spiega il re stesso: “Dovevi perdonare anche tu come io ho perdonato a te”.
Fin qui la parabola, abbastanza immediata nella sua vivace dinamicità.
Ma il testo, meditato con pazienza, può scavare dentro di noi e interrogarci, noi uomini del XXI secolo, sul senso e sul significato del perdono.
Il perdono è centrale nella vita del cristiano. Non è un caso che ogni nostro culto comincia con una confessione di peccato, personale e collettiva, seguita dall’annuncio del perdono a chi si pente e crede in Cristo. La storia di Israele stessa nell’AT è la storia di una esperienza di peccato, a livello sia collettivo (il vitello d’oro!), sia individuale (pensiamo all’adulterio e all’omicidio compiuto dal re Davide). E’ la storia di una esperienza di ira e castigo divino (si pensi all’esilio di Babilonia). Ma alla fine, è una esperienza di perdono, perché il Dio che Israele ha conosciuto nella sua tormentata storia è un Dio – come recita il Salmo 103 – «pietoso e clemente, lento all’ira e ricco di bontà… Egli non ci tratta secondo i nostri peccati, e non ci castiga secondo le nostre colpe. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così è grande la sua bontà verso quelli che lo temono. Come è lontano l’oriente dall’occidente, così ha egli allontanato da noi le nostre colpe».
La stessa esperienza l’ha fatta e continua a farla oggi la Chiesa. Essa stessa è il frutto del perdono dei peccati. Se non ci fosse il perdono, non ci sarebbe la Chiesa, che è la comunità dei peccatori perdonati. La storia della salvezza, che percorre tutta la Bibbia e giunge fino a noi, è la storia del perdono di Dio, che cancella il peccato risparmiando il peccatore. E questo perdono ha delle caratteristiche molto particolari in questo testo, che ho provato a sintetizzare così: è un perdono senza limiti, è un perdono per tutti, è un perdono che richiede a noi di fare altrettanto, è una offerta di libertà, è un atto di fede.

Innanzitutto, come detto, è un perdono senza limiti. Se ci pensate, la domanda iniziale di Pietro, “Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me?”, non è solo un generico quesito posto a Gesù su quante volte lui dovrà perdonare il fratello che pecca. Pietro pone una domanda concretissima: il fratello ha peccato “contro di lui”, dice il testo, cioè sono stati violati quelli che noi oggi chiameremmo in termini moderni i suoi diritti personali.
E la risposta di Gesù: “Fino a settanta volte sette”, espressione semitica che indica, come sappiamo, senza limiti, sottolinea la misura sconfinata del perdono, e ci lascia intravedere anche il significato profondo della riconciliazione cristiana: non si tratta di un perdono singolo, offerto ad una singola offesa. Cristo non ci chiede solo di perdonare le singole offese, ma di fronte alla rivendicazione inflessibile dei nostri diritti violati ci chiede di essere in primo luogo uomini di riconciliazione. Il perdono cristiano coincide quindi con l’accettazione incondizionata degli altri, perché il perdono illimitato, richiesto da Cristo ai suoi discepoli, non è un perdono che si dà alla singola offesa, bensì un perdono anteriore a ogni possibile offesa, che consiste appunto nell’accettazione del prossimo nelle sue diversità, nelle sue caratteristiche peculiari, nei suoi sbagli, nelle sue molteplici forme di immaturità.
Il senso profondo della riconciliazione cristiana consiste nella capacità di perdonare al nostro prossimo il peccato più grave che siamo soliti rimproverargli: quello di non essere come noi lo vorremmo. L’accettazione incondizionata degli altri è la misura, senza misura, indicata da Cristo a proposito del perdono.
Secondo punto: come dicevo, è un perdono “per tutti”. Il versetto iniziale della parabola recita “…il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi”. Il mistero del Regno viene presentato come un giudizio, giudizio in cui sono convocati tutti i servi, non solo quelli che gli sono debitori; questa omissione ci porta a identificare la condizione di servo con la condizione del debitore. Essere servi è dunque lo stesso che essere debitori, ossia essere uomini è lo stesso che essere peccatori, e quindi necessariamente bisognosi del perdono di Dio; Dio ci chiama a libertà sottolineando con forza il nostro bisogno di essere accolti e perdonati da Lui.
La buona notizia per tutti gli uomini, ed anche per noi oggi, è questa: il peccato può essere cancellato; “il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito” L’Evangelo in fondo è proprio questa notizia: il peccato è stato cancellato da Gesù sulla croce. Come dice Paolo ai Romani: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù”.
La nostra piccola e fragile esperienza di Dio si fonda sull’esperienza che abbiamo del perdono. L’esperienza del perdono e l’esperienza di Dio, in fondo, coincidono. «Beato l’uomo a cui la trasgressione è perdonata, e il cui peccato è coperto!» recita il Salmo 32. Certo, molti negano che esista il peccato, e negando il peccato, negano pure la necessità del perdono, di cui non ne capiscono il senso. E dove il perdono svanisce, anche Dio diventa evanescente e presto scompare del tutto. Là dove invece, misurando la nostra umanità su quella di Gesù, prendiamo coscienza del nostro peccato, là c’è la ricerca e l’attesa del perdono, e, ricevendolo, si sperimenta la beatitudine narrata un giorno da Gesù sul monte.
Ma Gesù va persino oltre, sconvolgendo le mie certezze, e mi dice: la richiesta di perdono che rivolgete a Dio è credibile se è accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno, come recita il Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. E ancora: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Anche la liturgia giudaica afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “lo Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello”.
Difatti il vero debito del servo è la mancanza di disponibilità a fare altrettanto con gli altri; il servo, cioè, non viene punito per l’enorme somma che non ha restituito al suo padrone, ma perché non lo ha imitato nella medesima generosità. E proprio Matteo ci ricorda che persino il criterio con cui saremo giudicati è in qualche maniera dipendente dalla misura che noi applichiamo agli altri nel giudicarli. “Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato. Date, e vi sarà dato: vi sarà versata in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante; perché con la misura con cui misurate, sarà rimisurato a voi”.
Infine un ultimo particolare, per me il più inquietante. La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nella unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con colui che lo ha offeso con un atto di totale gratuità, e accetta di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdono nel Cristo crocifisso. Gesù è colui che, in modo asimmetrico, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a tutti, anche a chi non lo domanda. Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi non riconosce il bisogno di perdono.
Lui ci offre questa possibilità, questa libertà: quella di perdonare gli altri, perché abbiamo sperimentato e sperimentiamo ogni giorno di essere stati perdonati da Dio. Ma rimane sempre aperta una possibilità: “Non dovevi forse anche tu avere pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” Una domanda carica dello stupore di come possa verificarsi che, chi ha sperimentato tanto amore su di sé, non sia poi disponibile verso gli altri.
L’azione di Dio sta all’origine. Dio che per primo condona, usa misericordia e rende l’uomo capace di misericordia. Ma non è un colpo di spugna, il perdono di Dio non è mai un far finta che il peccato non ci sia, ma è un reale intervento per risolvere il problema: il perdono di Dio davvero trasforma la persona, la cambia dal di dentro e la abilita a fare qualcosa che non sarebbe in grado di fare da sola.
Sono note le parole scritte da Dietrich Bonhoeffer sulla «grazia a buon mercato», che egli descrive così: «Grazia a buon mercato è predicare il perdono senza chiedere il pentimento, il battesimo senza la disciplina ecclesiastica, la comunione senza la confessione [di peccato], l’assoluzione senza la contrizione. Grazia a buon mercato è la grazia senza discepolato, grazia senza la croce, grazia senza Gesù Cristo, vivente ed incarnato». Quello che Bonhoeffer dice della grazia, si può e deve dire del perdono. C’è un perdono a buon mercato, che non è quello di Dio e neppure quello del cristiano.
Difatti, ciò che non viene chiesto prima, viene però sollecitato dopo, e viene reclamato come conseguenza: Dio è misericordioso con noi, quindi, come conseguenza, noi possiamo essere misericordiosi.
Termino con questa ultima sottolineatura: il perdono che Gesù ci offre interroga la nostra fede in lui. Le sue parole non sono – come spesso noi siamo soliti tradurle – una indicazione di tendenza, un bel programma di vita, affascinante, ma sostanzialmente irrealizzabile, e neppure un dovere morale, un obbligo; sono una bella notizia, una beatitudine: noi possiamo essere misericordiosi, dal momento che Dio è misericordioso con noi.
Se ho fede veramente nel Dio rivelato nelle Scritture, se non mi sono fatto un Dio a mio uso, posso perdonare, che in definitiva significa affidare a Dio il mio risentimento e il mio desiderio di vendetta.
Infatti il finale della parabola ce lo ricorda: al re, e solo a lui, rimane il giudizio sul servo che non ha condonato il suo debitore; a Dio è lasciata l’ultima parola e il giudizio sull’uomo.
A noi invece viene proposta l’obbedienza a questa Parola: riconoscere di essere stati perdonati, e quindi, con la forza della fede nella sua Parola, credere per sola fede di poter perdonare, credere all’impossibile che Dio realizza in noi ogni giorno.

Fabio Barzon

Sermone: IL PERDONO

Matteo al cap. 18, 21-35

“Allora Pietro si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?» E Gesù a lui: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

Perciò il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che fosse venduto lui con la moglie e i figli e tutto quanto aveva, e che il debito fosse pagato. Perciò il servo, gettatosi a terra, gli si prostrò davanti, dicendo: “Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto”. Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ma quel servo, uscito, trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari; e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: “Paga quello che devi!” Perciò quel servo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me, e ti pagherò”. Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito. Gli altri servi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto. Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu mi hai supplicato; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?” E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva. Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.

 

La parabola appena letta non ha paralleli negli altri Vangeli e si trova solo nell’evangelo di Matteo. Si articola in quattro scene. Le prime due sono simmetriche, e mettono in evidenza il contrasto tra il diverso comportamento dei due creditori; la terza pone in risalto l’atteggiamento degli altri servi che notano il comportamento senza pietà del servo appena condonato, mentre l’ultima scena descrive il castigo comminato al servo spietato.

La situazione di partenza è simile nelle due scene parallele: un debitore, che non era in grado di rispondere dei propri debiti, secondo la legge del tempo poteva essere condannato al carcere. Nel caso in questione entrambi i debitori vengono condannati ed entrambi implorano misericordia. La loro richiesta è formulata con le stesse parole, ma con esito opposto: nella prima scena il debito viene cancellato, nella seconda invece no.

La parabola forza persino in maniera esagerata il contrasto presente tra i due debitori, sottolineando l’enorme sproporzione tra le due cifre da saldare. La prima è astronomica, ed è troppo alta anche per un re; la seconda, invece, è piccola anche per un semplice servo. In questo modo si esalta ancora di più la generosità del re e si sottolinea l’ostinazione spietata del servo.

Contribuisce inoltre a dare un maggiore effetto anche il poco lasso di tempo che intercorre tra le due scene. “Appena uscito” dalla casa del re, ci si aspetterebbe che dalla gioia ancora viva dallo scampato pericolo, corrispondano sentimenti di benevolenza verso gli altri. Invece non è così, e ciò porta il protagonista a ritrovarsi nuovamente davanti al re, per sentirsi dire che l’annullamento della condanna è stato a sua volta annullato: il debito è ripristinato e la legge deve fare il suo corso. Ci ritroviamo al punto di partenza, con la differenza che la conclusione tragica prima evitata ora è messa in atto. Qualcosa ha rovinato tutto. Il re, che prima aveva perdonato, ora non è più disposto a perdonare, e questo perché, come spiega il re stesso: “Dovevi perdonare anche tu come io ho perdonato a te”.

Fin qui la parabola, abbastanza immediata nella sua vivace dinamicità.

Ma il testo, meditato con pazienza, può scavare dentro di noi e interrogarci, noi uomini del XXI secolo, sul senso e sul significato del perdono.

Il perdono è centrale nella vita del cristiano. Non è un caso che ogni nostro culto comincia con una confessione di peccato, personale e collettiva, seguita dall’annuncio del perdono a chi si pente e crede in Cristo. La storia di Israele stessa nell’AT è la storia di una esperienza di peccato, a livello sia collettivo (il vitello d’oro!), sia individuale (pensiamo all’adulterio e all’omicidio compiuto dal re Davide). E’ la storia di una esperienza di ira e castigo divino (si pensi all’esilio di Babilonia). Ma alla fine, è una esperienza di perdono, perché il Dio che Israele ha conosciuto nella sua tormentata storia è un Dio – come recita il Salmo 103 – «pietoso e clemente, lento all’ira e ricco di bontà… Egli non ci tratta secondo i nostri peccati, e non ci castiga secondo le nostre colpe. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così è grande la sua bontà verso quelli che lo temono. Come è lontano l’oriente dall’occidente, così ha egli allontanato da noi le nostre colpe».

La stessa esperienza l’ha fatta e continua a farla oggi la Chiesa. Essa stessa è il frutto del perdono dei peccati. Se non ci fosse il perdono, non ci sarebbe la Chiesa, che è la comunità dei peccatori perdonati. La storia della salvezza, che percorre tutta la Bibbia e giunge fino a noi, è la storia del perdono di Dio, che cancella il peccato risparmiando il peccatore. E questo perdono ha delle caratteristiche molto particolari in questo testo, che ho provato a sintetizzare così: è un perdono senza limiti, è un perdono per tutti, è un perdono che richiede a noi di fare altrettanto, è una offerta di libertà, è un atto di fede.

 

Innanzitutto, come detto, è un perdono senza limiti. Se ci pensate, la domanda iniziale di Pietro, “Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me?”, non è solo un generico quesito posto a Gesù su quante volte lui dovrà perdonare il fratello che pecca. Pietro pone una domanda concretissima: il fratello ha peccato “contro di lui”, dice il testo, cioè sono stati violati quelli che noi oggi chiameremmo in termini moderni i suoi diritti personali.

E la risposta di Gesù: “Fino a settanta volte sette”, espressione semitica che indica, come sappiamo, senza limiti, sottolinea la misura sconfinata del perdono, e ci lascia intravedere anche il significato profondo della riconciliazione cristiana: non si tratta di un perdono singolo, offerto ad una singola offesa. Cristo non ci chiede solo di perdonare le singole offese, ma di fronte alla rivendicazione inflessibile dei nostri diritti violati ci chiede di essere in primo luogo uomini di riconciliazione. Il perdono cristiano coincide quindi con l’accettazione incondizionata degli altri, perché il perdono illimitato, richiesto da Cristo ai suoi discepoli, non è un perdono che si dà alla singola offesa, bensì un perdono anteriore a ogni possibile offesa, che consiste appunto nell’accettazione del prossimo nelle sue diversità, nelle sue caratteristiche peculiari, nei suoi sbagli, nelle sue molteplici forme di immaturità.

Il senso profondo della riconciliazione cristiana consiste nella capacità di perdonare al nostro prossimo il peccato più grave che siamo soliti rimproverargli: quello di non essere come noi lo vorremmo. L’accettazione incondizionata degli altri è la misura, senza misura, indicata da Cristo a proposito del perdono.

Secondo punto: come dicevo, è un perdono “per tutti”. Il versetto iniziale della parabola recita “…il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi”. Il mistero del Regno viene presentato come un giudizio, giudizio in cui sono convocati tutti i servi, non solo quelli che gli sono debitori; questa omissione ci porta a identificare la condizione di servo con la condizione del debitore. Essere servi è dunque lo stesso che essere debitori, ossia essere uomini è lo stesso che essere peccatori, e quindi necessariamente bisognosi del perdono di Dio; Dio ci chiama a libertà sottolineando con forza il nostro bisogno di essere accolti e perdonati da Lui.

La buona notizia per tutti gli uomini, ed anche per noi oggi, è questa: il peccato può essere cancellato; “il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito” L’Evangelo in fondo è proprio questa notizia: il peccato è stato cancellato da Gesù sulla croce. Come dice Paolo ai Romani: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù”.

La nostra piccola e fragile esperienza di Dio si fonda sull’esperienza che abbiamo del perdono. L’esperienza del perdono e l’esperienza di Dio, in fondo, coincidono. «Beato l’uomo a cui la trasgressione è perdonata, e il cui peccato è coperto!» recita il Salmo 32. Certo, molti negano che esista il peccato, e negando il peccato, negano pure la necessità del perdono, di cui non ne capiscono il senso. E dove il perdono svanisce, anche Dio diventa evanescente e presto scompare del tutto. Là dove invece, misurando la nostra umanità su quella di Gesù, prendiamo coscienza del nostro peccato, là c’è la ricerca e l’attesa del perdono, e, ricevendolo, si sperimenta la beatitudine narrata un giorno da Gesù sul monte.

Ma Gesù va persino oltre, sconvolgendo le mie certezze, e mi dice: la richiesta di perdono che rivolgete a Dio è credibile se è accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno, come recita il Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. E ancora: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Anche la liturgia giudaica afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “lo Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello”.

Difatti il vero debito del servo è la mancanza di disponibilità a fare altrettanto con gli altri; il servo, cioè, non viene punito per l’enorme somma che non ha restituito al suo padrone, ma perché non lo ha imitato nella medesima generosità. E proprio Matteo ci ricorda che persino il criterio con cui saremo giudicati è in qualche maniera dipendente dalla misura che noi applichiamo agli altri nel giudicarli. “Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato. Date, e vi sarà dato: vi sarà versata in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante; perché con la misura con cui misurate, sarà rimisurato a voi”.

Infine un ultimo particolare, per me il più inquietante. La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nella unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con colui che lo ha offeso con un atto di totale gratuità, e accetta di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdono nel Cristo crocifisso. Gesù è colui che, in modo asimmetrico, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a tutti, anche a chi non lo domanda. Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi non riconosce il bisogno di perdono.

Lui ci offre questa possibilità, questa libertà: quella di perdonare gli altri, perché abbiamo sperimentato e sperimentiamo ogni giorno di essere stati perdonati da Dio. Ma rimane sempre aperta una possibilità: “Non dovevi forse anche tu avere pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” Una domanda carica dello stupore di come possa verificarsi che, chi ha sperimentato tanto amore su di sé, non sia poi disponibile verso gli altri.

L’azione di Dio sta all’origine. Dio che per primo condona, usa misericordia e rende l’uomo capace di misericordia. Ma non è un colpo di spugna, il perdono di Dio non è mai un far finta che il peccato non ci sia, ma è un reale intervento per risolvere il problema: il perdono di Dio davvero trasforma la persona, la cambia dal di dentro e la abilita a fare qualcosa che non sarebbe in grado di fare da sola.

Sono note le parole scritte da Dietrich Bonhoeffer sulla «grazia a buon mercato», che egli descrive così: «Grazia a buon mercato è predicare il perdono senza chiedere il pentimento, il battesimo senza la disciplina ecclesiastica, la comunione senza la confessione [di peccato], l’assoluzione senza la contrizione. Grazia a buon mercato è la grazia senza discepolato, grazia senza la croce, grazia senza Gesù Cristo, vivente ed incarnato».  Quello che Bonhoeffer dice della grazia, si può e deve dire del perdono. C’è un perdono a buon mercato, che non è quello di Dio e neppure quello del cristiano.

Difatti, ciò che non viene chiesto prima, viene però sollecitato dopo, e viene reclamato come conseguenza: Dio è misericordioso con noi, quindi, come conseguenza, noi possiamo essere misericordiosi.

Termino con questa ultima sottolineatura: il perdono che Gesù ci offre interroga la nostra fede in lui. Le sue parole non sono – come spesso noi siamo soliti tradurle – una indicazione di tendenza, un bel programma di vita, affascinante, ma sostanzialmente irrealizzabile, e neppure un dovere morale, un obbligo; sono una bella notizia, una beatitudine: noi possiamo essere misericordiosi, dal momento che Dio è misericordioso con noi.

Se ho fede veramente nel Dio rivelato nelle Scritture, se non mi sono fatto un Dio a mio uso, posso perdonare, che in definitiva significa affidare a Dio il mio risentimento e il mio desiderio di vendetta.

Infatti il finale della parabola ce lo ricorda: al re, e solo a lui, rimane il giudizio sul servo che non ha condonato il suo debitore; a Dio è lasciata l’ultima parola e il giudizio sull’uomo.

A noi invece viene proposta l’obbedienza a questa Parola: riconoscere di essere stati perdonati, e quindi, con la forza della fede nella sua Parola, credere per sola fede di poter perdonare, credere all’impossibile che Dio realizza in noi ogni giorno.

Fabio Barzon

Sermone: FREQUENTARE LA BIBBIA

LETTURE BIBLICHE: Salmo 31,1-8.21-24; Giovanni 15,1-8

O SIGNORE, poiché ho confidato in te, fa’ che io non sia mai confuso; per la tua giustizia liberami. 2 Porgi a me il tuo orecchio; affrèttati a liberarmi; sii per me una forte rocca, una fortezza dove tu mi porti in salvo. 3 Tu sei la mia rocca e la mia fortezza; per amor del tuo nome guidami e conducimi. 4 Tirami fuori dalla rete che m’han tesa di nascosto; poiché tu sei il mio baluardo. 5 Nelle tue mani rimetto il mio spirito; tu m’hai riscattato, o SIGNORE, Dio di verità. 6 Detesto quelli che si affidano alle vanità ingannatrici; ma io confido nel SIGNORE. 7 Esulterò e mi rallegrerò per la tua benevolenza; poiché tu hai visto la mia afflizione, hai conosciuto le angosce dell’anima mia, 8 e non mi hai dato in mano del nemico; tu m’hai messo i piedi in luogo favorevole. 21 Sia benedetto il SIGNORE; poich’egli ha reso mirabile la sua benevolenza per me, ponendomi come in una città fortificata. 22 Io, nel mio smarrimento, dicevo: «Sono respinto dalla tua presenza»; ma tu hai udito la voce delle mie suppliche, quand’ho gridato a te. 23 Amate il SIGNORE, voi tutti i suoi santi! Il SIGNORE preserva i fedeli, ma punisce con rigore chi agisce con orgoglio. 24 Siate saldi, e il vostro cuore si fortifichi, o voi tutti che sperate nel SIGNORE!

 

15:1 «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo. 2 Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo toglie via; e ogni tralcio che dà frutto, lo pota affinché ne dia di più. 3 Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciata. 4 Dimorate in me, e io dimorerò in voi. Come il tralcio non può da sé dare frutto se non rimane nella vite, così neppure voi, se non dimorate in me. 5 Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete fare nulla. 6 Se uno non dimora in me, è gettato via come il tralcio, e si secca; questi tralci si raccolgono, si gettano nel fuoco e si bruciano. 7 Se dimorate in me e le mie parole dimorano in voi, domandate quello che volete e vi sarà fatto. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto, così sarete miei discepoli.

 

Il salmo che abbiamo in parte letto oggi, e che vi invito a leggere interamente più tardi quando tornerete nelle vostre case, può stimolare molte riflessioni, ma su due in particolare vorrei concentrare la vostra attenzione. La prima è che le parole del versetto 5 (Nelle tue mani rimetto il mio spirito) sono quelle pronunciate da Gesù sulla croce, nella versione della Passione scritta da Luca. Ma sono anche le ultime parole dette da Stefano, il primo martire cristiano, e dopo di lui da molti altri che le hanno pronunciate prima di morire, come Lutero o Girolamo Savonarola.

Questi uomini, non persone qualunque, evidentemente, prima di morire hanno sentito la necessità di pronunciare non delle parole qualsiasi, magari profonde o importanti, non sono rimasti neppure in silenzio, ma hanno citato un versetto di un salmo. Chi di noi è ancora in grado di farlo? Chi di noi conosce a memoria passi più o meno lunghi della Bibbia? Chi di noi è in grado di trovare il versetto giusto che lo aiuti nel momento del bisogno? Da molto tempo, ormai, abbiamo dimenticato questa necessità, abbiamo perso di vista questa opportunità: tanto abbiamo la nostra Bibbia con noi, tanto nei nostri cellulari è caricata la Bibbia intera a che serve conoscerla a memoria? O addirittura abbiamo perso un rapporto intimo e quotidiano con la Bibbia.

Intatti insieme ad aver perso la capacità di citare a memoria salmi e versetti, abbiamo anche, a poco a poco, perso la nostra dimestichezza col testo biblico, perso quella familiarità che era patrimonio comune fino all’epoca dei nostri genitori. Vorrei che tornando a casa riflettessimo un po’ anche su questo. Leggiamo tutti i giorni almeno qualche passo biblico? Ne conosciamo alcuni talmente bene che appartengono alla nostra vita? Mi rendo conto che sto facendo un discorso assai fuori moda, ma l’impressione che ho è che abbiamo perso o stiamo perdendo, noi tutti che siamo qui oggi qualcosa di importante, qualcosa di speciale. Perché siamo stanchi, abbiamo il lavoro, le nostre preoccupazioni. Abbiamo già la testa piena di tante altre cose!

Il cuore di questo salmo è la fiducia in Dio, che è la nostra rocca, la sicura fortezza. Siamo ancora capaci di vivere davvero nella certezza che Dio è la nostra rocca e la nostra fortezza? O non è piuttosto vero che al Signore dedichiamo giusto un pensiero fugace al mattino o alla sera prima di dormire? Non ci accade più spesso di chiedere aiuto a noi stessi o ad altri che si presentano a noi come salvatori? Guaritori, esperti in miracoli che ci faranno trovare lavoro, guarire dalle malattie, avere fortuna? Ma il salmo proclama con forza e con chiarezza:

3 Tu sei la mia rocca e la mia fortezza;

E prosegue: per amor del tuo nome guidami e conducimi.

Quindi il Signore è la nostra rocca, la nostra fortezza, a lui ci rivolgiamo per avere aiuto, ma è anche guida, conduzione: cioè gli chiediamo protezione e contemporaneamente accettiamo e accogliamo la Sua volontà, non la nostra; seguiamo la strada che Lui ci indica, non la nostra, anche se questo può significare che i nostri desideri umanissimi, e anche magari ragionevoli, non si realizzano. Ma è proprio questo il punto: possiamo continuare ad affidarci ad un Dio che non è come lo vorremmo? O non possiamo? O non riusciamo?

Essere nelle mani di Dio: un’immagine davvero potente! Noi piccoli, limitati, tormentati, noi che non siamo dei supereroi, ma degli uccellini nelle mani di Dio. Abbiamo il coraggio di affidarci totalmente? Siamo capaci di lasciarci totalmente abbracciare e proteggere dalle mani di Dio?

Ecco il nostro rifugio: il salmista ce lo descrive come concreto, reale, la nostra difesa. Si tratta di mani che ci liberano, che ci riscattano: da noi stessi, in primo luogo, e poi dalle nostre abitudini, dai legami che ci impediscono di cercare il nutrimento più importante. Chiedere aiuto a Dio ci ricorda che siamo piccoli e fragili e che abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio. Non dell’aiuto di un prestigiatore o di un mago, non dell’aiuto di coloro che si fingono guaritori e facitori di miracoli, perché non è questo l’aiuto che il Signore ci dà. Rimettersi a Dio significa accettare la Sua presenza nella nostra vita, il Suo piano per noi e quindi accogliere la Sua volontà e non la nostra. Abbiamo il diritto di chiedere aiuto per la nostra vita concreta, e il diritto, concretissimo, di essere come bambini che si affidano totalmente nelle mani del Signore. Il diritto di chiudere gli occhi e sapere che siamo in buone mani, di rifugiarci nelle mani del Signore. Ma metterci nelle mani di Dio significa riconoscere il nostro bisogno, riconoscere che siamo tutti dei rifugiati, dei richiedenti asilo. Noi che stiamo bene, che abbiamo un lavoro, o almeno una casa, uno stipendio, o almeno una famiglia che ci aiuta, noi che viviamo in una parte di mondo dove esiste il benessere, noi, proprio noi, possiamo scoprirci e riscoprirci rifugiati in Dio. Possiamo finalmente accettare chi siamo veramente, non dei supereroi, ma dei rifugiati. Dei rifugiati che non si affidano al potere e al potente, ma a Dio e Dio è Colui che ha scelto di illuminare coloro che sono nell’ombra, coloro che non contano nulla, gli ultimi di questo nostro mondo, che invece cerca il potere, il danaro, la forza. Dio sceglie invece uomini e donne bisognosi di tutto, ma che, a differenza dei disperati del Mediterraneo, hanno la certezza di trovare rifugio, di trovare asilo. Noi siamo certi che saremo accolti, siamo certi che il miracolo avverrà ogni volta perché nel momento stesso in cui chiediamo di essere accolti, lo siamo davvero, perché anche noi, come il salmista nel versetto 22 nel nostro smarrimento ci sentiamo talvolta respinti, non amati, non accolti, ma il Signore ode la nostra voce, ascolta il nostro pianto e ci accoglie. E nel momento in cui ci accoglie diveniamo noi stessi le mani di Dio perché entriamo in comunione profonda con Lui e quindi facciamo e diventiamo il Suo volere.

Non siamo più noi che agiamo, ma Lui attraverso di noi: diventiamo davvero come la vite e i tralci di cui parla Gesù nel vangelo di Giovanni. Rimettendo il nostro spirito, rimettendo le nostre esistenze nelle mani di Dio, diventiamo noi stessi le mani di Dio. Le mani di Gesù. Faremo anche noi le opere che fa Gesù come ci dice Giovanni (Gio 14,12). Rimettendoci al Signore entriamo in comunione con Lui, dimoriamo in lui e lui in noi, e agiamo come Gesù. Non da soli, ma con tutti i figli e le figlie di Dio, insieme. Le mani nelle mani. Le sue mani, diventano le nostre mani, forti, potenti, guaritrici. Lasciandoci andare fiduciosi nelle mani del Signore troveremo le mani dei nostri fratelli e sorelle e riscopriremo il senso di questo antico salmo che da migliaia di anni ci racconta il mistero grande e profondo dell’amore di Dio.  Amen.

Erica Sfredda

Sermone: ADAMO DOVE SEI?

Genesi 3, 7-10

Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e s’accorsero che erano nudi; unirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture.

Poi udirono la voce di Dio il SIGNORE, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l’uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza di Dio il SIGNORE fra gli alberi del giardino.

Dio il SIGNORE chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?»

Egli rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto».

 

E’ una domanda che Dio rivolge a tutte e tutti noi in determinati momenti della vita. Dio che conosce il luogo del nostro esistere e il luogo del nostro credere, lo “scrutatore di cuori lo chiama Paolo” non desidera, ovviamente, ascoltare qualcosa che già sa, piuttosto desidera che noi, abitanti della distrazione, prendiamo consapevolezza di dove siamo, cioè a quale distanza siamo da Lui.

“Adamo dove sei?”: la domanda che risuona in particolari circostanze significative, tappe lungo la personale storia di fragile testimonianza, presenta però anche l’esigenza speculare di una risposta comunitaria.

Allora, anche in questi giorni, nella nostra vita individuale e comunitaria, è probabile che Dio ci stia chiedendo: “Dove siete?”

E serve come il pane che Dio ce lo chieda, perché per ciascuna e ciascuno di noi e per le nostre chiese è vitale capire se le nostre anime godono della luce dello Spirito di Cristo, oppure si nascondono nell’ombra, come fa Adamo, per la paura di confrontarsi, prima ancora che con Dio, con loro stesse e con la loro fede sfibrata.

Il nascondimento di natura spirituale, nel rifiutare il confronto con la parola di Dio, crea l’illusione che è sufficiente dirsi credenti per esserlo.

Se ci stiamo nascondendo, abbiamo soffocato in noi la vocazione ad essere, in Cristo, figlie e figli del Padre celeste, destinatari della sua grazia e chiamati a prendercene cura.

Se ci stiamo nascondendo, lo stiamo facendo a nostro danno , a danno dei nostri progetti, dei nostri ideali, a danno del significato che volevamo la nostra esistenza cristiana assumesse.

Se ci stiamo nascondendo a Dio e a noi stessi inaridiamo e con noi inaridiscono le nostre comunità.

E dunque, di fronte a questo rischio, si potrebbe impiegare questo tempo anche per capire la vita intima del credente e delle chiese, prima e oltre a ciò che testimoniano fattivamente nella società.

Riflettere. Bisogna riflettere e valutare qual è il grado di intensità interna e di risonanza esterna della spiritualità evangelica, quella che innanzitutto nasce nella meditazione della Scrittura e si sviluppa poi nella preghiera.

“Dove siete?” ci chiede oggi il Signore, e non “Cosa fate?”

La domanda di Dio invita a esaminare il nostro essere credenti prima del nostro agire come credenti.

L’interrogativo posto ad Adamo riguarda la spiritualità in quanto sostanza della relazione con Dio, in quanto forma e contenuto dell’esistenza del credente, in quanto accesso all’unica posizione che ci è permesso assumere davanti a Lui: quella dell’orante.

Solo dopo aver verificato secondo quale percentuale il nostro esistere è un esistere al cospetto del Signore, possiamo dedicarci a capire se la vita, come pratica della spiritualità, quella vita che tutte e tutti noi a Lui consacriamo, si sviluppa su coordinate analoghe che possano fare di noi una Chiesa coesa.

Coordinate che sono segnali di fede: lavorare non solo per vivere ma con la prospettiva che la Creazione, grazie al nostro impegno, resti luogo di dono inestimabile del Signore; studiare e formarsi per acquisire la “follia” di Dio e non la saggezza del mondo; godere del valore spesso negato del tempo nella sua dimensione non produttiva.

Un esempio? Il tempo”sprecato” del culto. E infine, ma come culmine, capire se le nostre esistenze e quelle delle nostre chiese si muovono secondo un progetto spirituale, dunque reale, di incontro. Un incontro libero e aperto, pronto nel dare e grato nel ricevere. Un incontro che a volte magari si realizza solo con chi ci è più vicino, ma mosso dalla volontà di raggiungere tutti:

“Il mondo è la mia parrocchia” diceva Wesley; un’affermazione quanto mai attuale.

E ancora una volta risuona la domanda di Dio, cui fanno eco le nostre.

L’annuncio e l’ascolto della Parola, la preghiera che da essa nasce, ci sostengono nella testimonianza quotidiana?

Siamo dentro questo tipo di vita o ne siamo fuori?

Siamo nel luogo della fede vissuta nel cuore e nella mente prima ancora che agìta?

“Dove sei Adamo? ” Dove siete ? Dove siamo tutti noi?

Adamo ha dato la sua risposta sincera, ora credo tocchi a noi affrontare la voce del Signore: una sosta obbligata per poter riprendere il cammino al servizio del Vangelo.

AMEN

Pastora Eleonora Natoli

Sermone: LEVATRICI CORAGGIOSE

Esodo 1, 8-22

8Sorse sopra l’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe. 9Egli disse al suo popolo: «Ecco, il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più potente di noi. 10Usiamo prudenza con esso, affinché non si moltiplichi e, in caso di guerra, non si unisca ai nostri nemici per combattere contro di noi e poi andarsene dal paese». 11Stabilirono dunque sopra Israele dei sorveglianti ai lavori, per opprimerlo con le loro angherie. Israele costruì al faraone le città che servivano da magazzini, Pitom e Ramses. 12Ma quanto più lo opprimevano, tanto più il popolo si moltiplicava e si estendeva; e gli Egiziani nutrirono avversione per i figli d’Israele. 13Così essi obbligarono i figli d’Israele a lavorare duramente. 14Amareggiarono la loro vita con una rigida schiavitù, adoperandoli nei lavori d’argilla e di mattoni e in ogni sorta di lavori nei campi. Imponevano loro tutti questi lavori con asprezza. 15Il re d’Egitto parlò anche alle levatrici ebree, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua, e disse: 16«Quando assisterete le donne ebree al tempo del parto, quando sono sulla sedia, se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina, lasciatela vivere». 17Ma le levatrici temettero Dio, non fecero quello che il re d’Egitto aveva ordinato loro e lasciarono vivere anche i maschi. 18Allora il re d’Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e avete lasciato vivere i maschi?» 19Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree non sono come le egiziane; esse sono vigorose e, prima che la levatrice arrivi da loro, hanno partorito». 20Dio fece del bene a quelle levatrici. Il popolo si moltiplicò e divenne molto potente. 21Poiché quelle levatrici avevano temuto Dio, egli fece prosperare le loro case. 22Allora il faraone diede quest’ordine al suo popolo: «Ogni maschio che nasce, gettatelo nel Fiume, ma lasciate vivere tutte le femmine».

 

Non è un caso che nel libro dell’Esodo, che racconta la nascita del popolo scelto da Dio, siano ricordati i nomi di due ostetriche. Sifra e Puà entrano in scena proprio quando iniziano le prime doglie: un popolo piange e si contrae dal dolore. Un popolo che ancora non lo sa, ma presto nascerà a libertà perché Dio ascolta quel grido.

Ma il popolo non sa neanche del pericolo di morte in agguato, non sa di quel terribile ordine dato alle levatrici, donne chiamate a custodire la porta della vita: il tiranno si crede Dio, pensa di avere potere di vita e di morte sui propri sudditi ridotti a schiavi, umiliati, piegati. Il faraone convoca le due ostetriche ed ordina loro di non lasciar nascere i maschi del popolo. Le femmine possono vivere, sono innocue e inutili…

Ma Sifra e Puà decidono di non eseguire gli ordini del tiranno e continuano a far nascere i bambini, femmine e maschi. Temono Dio più del faraone, ci dice il testo. Preferiscono ascoltare i gemiti delle partorienti piuttosto che gli ordini del loro sovrano.

Gesto coraggioso, che ferma il genocidio e salva la vita a molti neonati. Disubbidienza a caro prezzo, però, a rischio della loro stessa vita. Dovranno rendere conto al faraone del loro boicottaggio. Infatti, sono convocate davanti alle autorità, chiamate a spiegare il loro operato sovversivo. Lo fanno, non però come ci aspetteremmo, con la solennità dei martiri, di chi sa di compiere un’azione eroica. Sono pronte a morire, ma senza far troppo rumore. Usano, piuttosto, l’ironia, arma tipica dei soggetti deboli, cara alle donne.

Arma che permette di capovolgere le categorie interpretative, di trasformare la debolezza in forza e di ridicolizzare il potente. “Le donne ebree, prima che la levatrice arrivi, hanno già partorito”.

Sifra e Puà riescono a fermare solo per un attimo la macchina di morte del faraone, ma ecco che dopo di loro una rete di donne si metterà in moto per custodire la vita: una madre ebrea, una ragazzina, una giovane principessa e le sue ancelle si alleano per salvare un bambino e farlo crescere al sicuro – Mosè, che sarà strumento divino per liberare il popolo.

Ma mentre tremiamo per la vita di un popolo in pericolo, ci chiediamo: dov’è Dio, mentre il faraone pianifica il genocidio? Dov’è Dio, mentre le levatrici e le altre donne, successivamente, cercavano di resistere alla macchina mortale del potere? Dorme? E’ latitante? Qualcuno sostiene che Dio, dietro le quinte, si muova per mezzo di queste donne, prima di entrare in scena direttamente con Mosè.

Noi osiamo suggerire che Dio, mentre le donne agiscono nella prima pagina del Libro dei nomi, osservi con orgoglio questa rete di solidarietà laica, fatta dalle più piccole, e proprio da queste trovi ispirazione per compiere poi i gesti della liberazione. Quando Dio entrerà in scena, di fatto, riprodurrà con le sue azioni l’agire delle donne: vede l’afflizione del popolo come la principessa vede il cesto sul fiume; ode il pianto e manda Mosè a tirare fuori il popolo dalla schiavitù, come le ancelle mandate a tirare fuori il cesto dal fiume. Dio, nella grande epopea del Libro dei nomi, viene ricordato come il liberatore, colui che, come coraggioso guerriero, con braccio forte e potente, si fa coinvolgere in una lotta cosmica contro il potere demoniaco del faraone.

Ricordando però la presenza delle donne all’inizio dell’epopea, è come se il narratore volesse addolcire tale immagine divina, accostando a Dio un’altra immagine: quella della grande levatrice che aiuta il popolo a nascere, facendolo passare attraverso le acque per deporlo al sicuro nel deserto, dove sarà svezzato, imparerà a camminare e a parlare il linguaggio della libertà.

Ricordare i nomi delle donne nell’epopea dell’Esodo, non è solo compiere un atto di giustizia verso la memoria biblica che ricorda quelle levatrici che hanno osato disubbidire al potente per custodire delle vite. Ci aiuta anche a capire che Dio, per salvare il mondo, non si serve dei potenti, ma dei più deboli. Non è solo una questione di strumenti: con quali mezzi Dio agisce nella storia.

Nel Libro in cui Dio rivela il proprio nome a Mosè, ogni gesto ha un carattere di rivelazione: ci indica una precisa immagine di Dio. In questo senso il Libro ebraico dei nomi – Shemot -ci dice anche i nomi di Dio. Tra questi, Dio è una levatrice che si prende cura della vita proprio come Sifra e Puà.

Amen.

Sermone: PASQUA IN AGOSTO?

Giovanni 6,55-65

Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, e io in lui. Come il Padre vivente mi ha mandato e io vivo a motivo del Padre, cosí chi mi mangia vivrà anch’egli a motivo di me. Questo è il pane che è disceso dal cielo; non come quello che i padri mangiarono e morirono; chi mangia di questo pane vivrà in eterno». Queste cose disse Gesú, insegnando nella sinagoga di Capernaum. Perciò molti dei suoi discepoli, dopo aver udito, dissero: «Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo?» Gesú, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano di ciò, disse loro: «Questo vi scandalizza? E che sarebbe se vedeste il Figlio dell’uomo ascendere dov’era prima? È lo Spirito che vivifica; la carne non è di alcuna utilità; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma tra di voi ci sono alcuni che non credono». Gesú sapeva infatti fin dal principio chi erano quelli che non credevano, e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è dato dal Padre».

Il testo biblico di quest’oggi può apparire strano per questo periodo dell’anno. In altri lezionari, appartiene a quei cicli di testi che accompagnano la chiesa nel cammino verso la Pasqua. È vero che ogni domenica ricorda alle chiese cristiane il giorno della risurrezione del Signore, ma una “pasqua” nel bel mezzo dell’estate è quanto meno anomala per il ritmo dei nostri calendari! Eppure, proprio questo testo ci offre una chiara presentazione di ciò che la Pasqua significa per la nostra fede. Lo fa con termini che per il nostro orecchio moderno – che è anche l’orecchio di persone che hanno già udito l’annuncio dell’Evangelo e lo hanno fatto proprio – suonano strani; tuttavia, facciamo attenzione, perché queste parole non suonano strane solamente a noi. Gesù, l’abbiamo sentito, fa un riferimento al mangiare la sua carne e al bere il suo sangue: è chiaro che siamo portati a pensare alla condivisione del pane e del vino nella Cena del Signore, ma, al tempo stesso, queste parole hanno in sé un qualcosa di brutale, qualcosa che ci colpisce con la sua violenta concretezza. Questa medesima percezione ci accomuna, in qualche misura, agli ascoltatori nella sinagoga di Capernaum. Pensateci bene: quale schiaffo per la religiosità ebraica il sentir parlare di bere del sangue! Tra i divieti fondamentali della legge ebraica, che regola e regolava l’alimentazione degli Ebrei osservanti, vi è proprio il divieto di consumare il sangue dell’animale ucciso; questo perché nel sangue si ritiene che sia contenuta la vitalità stessa dell’animale e quindi non ci si può “appropriare” della vita di un’altra creatura. L’evangelista Giovanni precisa che queste parole sono state pronunciate in un luogo in cui l’attenzione per ciò che Gesù avrebbe detto era garantita: tanto maggiore sarà quindi stato lo sconcerto dei presenti.

Ora, il nostro compito non è quello di fermarci allo sconcerto degli ascoltatori di Capernaum o di immedesimarci in esso. Possiamo piuttosto provare ad ascoltare con maggior attenzione la spiegazione che Cristo stesso offre delle sue parole, per comprendere meglio quale sia la sua intenzione. Che cosa mangiare la carne e bere il sangue significhi, viene spiegato ancora nella prima parte del nostro testo. Gesù usa l’espressione “dimorare in me”, rimanere in lui si potrebbe anche dire. Mangiare la carne e bere il sangue di Cristo significa essere partecipi della sua vita, del suo modo di vivere; condividere in profondità la nostra esistenza con la sua, vivere in una profonda comunione, il che non significa limitarsi a sfiorare ciò che sta alla base della nostra vita, ma vedere rinnovata e addirittura cambiata questa base. Si potrebbe dire che questa dimensione del dimorare in Cristo ci invita ad una comunione spirituale con lui, ma è necessario precisare questa parola “spirituale”. Una comunione spirituale non è qualcosa che non si intreccia con la nostra vita concreta; se comprendiamo in questo modo la comunione con Cristo allora la fiducia che riponiamo in lui, la fede che ci guida in questo rapporto non sarà altro che una caricatura, qualcosa che diciamo di considerare importante, ma che in realtà mettiamo sempre in disparte quando si tratta di prendere delle decisioni importanti per la nostra esistenza. In questo senso, l’immagine forte usata da Gesù (il verbo usato per dire mangiare significa letteralmente “masticare”) ci riporta a tutta la concretezza della comunione spirituale con Cristo: quella medesima concretezza che noi abbiamo in mente quando pensiamo all’affetto o all’amore che ci lega ad una persona. Una concretezza di questa comunione spirituale che proprio e anche la celebrazione della Cena del Signore intende confermare: nella condivisione del pane e del vino la comunità cristiana si confronta con il fatto che in questo segno concreto, c’è un riflesso di quella comunione profonda che promette e dona vita in Cristo. Chi mangia di questo pane, chi dimora in Cristo, chi vive spiritualmente con lui, vive in eterno.

Qual è la reazione di fronte ad un discorso di questo tipo? Come possono reagire delle persone di fronte ad un discorso che non le invita soltanto a nutrirsi di qualche bel pensiero, ma esprime con tale forza una pretesa concreta sulla loro vita? Come si reagisce quando qualcuno ti spiega che l’impegno che ti è richiesto non è solo una volta ogni tanto ed esclusi, ovviamente, tutti i giorni festivi? Si dice spesso che le persone nella nostra società sono allergiche di fronte alle proposte che sembrano richiedere un impegno continuativo. In questo, mi pare di poter dire, possiamo individuare una seconda somiglianza con la reazione degli ascoltatori di Gesù. Che cosa rispondono quanti l’ascoltano nella sinagoga. “Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo?”. È opportuno dividere questa frasetta in due momenti: “Questo parlare è duro” non significa che sia duro da capire. A Capernaum hanno capito benissimo quanto Gesù diceva e chiedeva. Questo parlare è duro da ascoltare e quindi, “chi può ascoltarlo?”. In questa espressione il verbo ascoltare significa anche ubbidire. Chi può ubbidire a quanto Gesù dice, chi può mangiare questa carne che è difficile da digerire, chi può dimorare in Cristo vivendo quella comunione che impegna tutta la vita? Credo che queste domande interpellino anche la nostra coscienza di credenti.

Ciò che suscita queste domande che ci rendono inquieti è la parola esigente che Gesù ci rivolge; una parola che come viene detto poco dopo è spirito e vita, cioè dona vita in abbondanza, dona questa comunione vivente con Cristo e con il Padre. Ma è anche una parola che chiede ubbidienza nella concretezza della vita. Quando penso a questa dimensione esigente della Parola che ci viene rivolta, di questa parola che vivifica, mi sembra tanto più ingiusto il giudizio che abbastanza spesso si sente da parte di persone che rimangono al di fuori della chiesa nei confronti di quanti vivono la vita di una comunità cristiana. Spesso ci sono persone che partono dal presupposto che il vivere come cristiani sia fondamentalmente un atteggiamento, che non necessita di tante parole. Forse questo modo di pensare deriva da delusioni che hanno vissuto con dei cristiani che si riempivano solamente la bocca dei buoni propositi della loro fede. Eppure chi pensa che l’essere cristiani sia solo un modo di comportarsi, banalizza molto questa parola esigente e concreta che cambia la vita di chi la incontra, perché crea quella comunione vivente con Gesù Cristo, la quale non si può esprimere solamente in una serie di “buoni comportamenti”. Un pastore racconta di aver fatto una volta una visita in una famiglia di persone che non frequentavano la chiesa. Sentendosi in obbligo di giustificare questa assenza costante, un membro di quella famiglia disse: «Sa, pastore, noi non veniamo in chiesa, ma siamo comunque delle brave persone: quelli che sono tutte le domeniche seduti allo stesso posto non sono necessariamente migliori di noi!». Il pastore ha saggiamente risposto: «Avete ragione, quelli che vengono in chiesa la domenica non sono automaticamente migliori di voi per il fatto di venire in chiesa. Ma quelli che vengono in chiesa e ascoltano, quelli sì che lo sono!». L’ascolto – che in questo caso significa anche ubbidienza – della parola esigente di Cristo ci rende migliori, sorelle e fratelli, anche quando questo non si può tradurre in un comportamento da mostrare con un po’ di orgoglio. E la parte migliore che ci viene offerta è la maggiore profondità di comunione con Cristo.

Ecco, dunque, nel bel mezzo dell’estate, ritorniamo verso la Pasqua, ricordandoci che il messaggio centrale della nostra fede ci parla di vita nuova, non immaginata o semplicemente sognata da qualcuno. È una vita piena e fatta di legami concreti, innanzitutto con Gesù Cristo, che si rivolge a noi per offrirci ciò che niente e nessuno possono strapparci. E la Parola che ci annuncia questo, è anche capace di creare questa realtà. Questo ha insegnato Gesù a Capernaum e insegna anche a noi oggi.

Amen.

Pastore William Jourdan

 

 

 

 

 

 

Matteo 13, 1-9.18-23

In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva.  Egli insegnò loro molte cose in parabole, dicendo: «Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. Un’altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. Un’altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi oda».

«Voi dunque ascoltate che cosa significhi la parabola del seminatore! Tutte le volte che uno ode la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada.  Quello che ha ricevuto il seme in luoghi rocciosi, è colui che ode la parola e subito la riceve con gioia, però non ha radice in sé ed è di corta durata; e quando giunge la tribolazione o persecuzione a motivo della parola, è subito sviato. Quello che ha ricevuto il seme tra le spine è colui che ode la parola; poi gli impegni mondani e l’inganno delle ricchezze soffocano la parola che rimane infruttuosa. Ma quello che ha ricevuto il seme in terra buona è colui che ode la parola e la comprende; egli porta del frutto e, così, l’uno rende il cento, l’altro il sessanta e l’altro il trenta».

 

Care sorelle e cari fratelli,

eccoci di fronte a una famosa parabola, che molti di noi ricordano sin dalla Scuola Domenicale!

Ascoltandola ci torna subito alla mente il famoso ritratto di Vincent Van Gogh, il seminatore al tramonto. Un’immagine oggi non abituale per noi; oggi fatichiamo a vedere anche i mezzi meccanici intenti alla semina, e la semina manuale è un’attività che avviene solo negli orti.

Era un’immagine abituale, invece, per le folle che stavano ascoltando Gesù: secondo le usanze agricole palestinesi la semina avveniva prima che il terreno fertile venisse arato. Il contadino spargeva il seme con abbondanza per ogni dove, in un modo che certamente ci stupisce: così – dice Gesù – una parte del seme cade lungo la strada, dove viene divorata dagli uccelli; un’altra parte cade tra i sassi e subito germoglia ma poi, allo spuntare del sole, secca per mancanza di radici; un’altra parte cade tra le spine, che ben presto la soffocano; un’altra parte cade infine sulla terra buona e porta frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta.

Ci sentiamo interrogati in molte maniere da questa parabola: ci interroga sul nostro essere testimoni della Parola, sulla nostra capacità di superare la delusione di una testimonianza apparentemente inefficace, sulla nostra capacità di porre ogni nostra fiducia sulla Parola.

Ci interroga anche sulla nostra capacità di ricevere la Parola.

Su questo vorrei porre la mia attenzione oggi, e vorrei farvi una domanda: quale terreno vi sentite di essere oggi? Quale terreno pensate di essere, voi, oggi?

Ecco, io credo che i quattro terreni di cui parla Gesù siano tutti rappresentati, di volta in volta, nel nostro unico cuore, siano quattro possibili risposte alla Parola che ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato nella propria vita!

Non siamo un terreno lastricato, un terreno sabbioso, o un terreno coperto di rovi; eppure ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato la difficoltà di rispondere pienamente alla Parola di Dio.

Quante volte ascoltiamo la Parola di Dio, ma è come non l’avessimo ascoltata; incontra in noi una sorta di impermeabilità. Succede quando la misuriamo sui nostri pensieri: se va bene col nostro pensiero l’accettiamo, se va male la eliminiamo, la accantoniamo; succede quando ascoltiamo la Parola, però ci diciamo “Siamo concreti, la vita è un’altra cosa”, come se la Parola di Dio non c’entrasse con la vita. Questo è perfettamente umano, è normale, eppure è diabolico: “viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada”.

Altre volte, invece, accogliamo la Parola con gioia, con entusiasmo, almeno sul momento, poi di fronte alle difficoltà, ripieghiamo. Di fronte alle preoccupazioni del mondo, di cosa vivremo, di cosa mangeremo, di cosa vestiremo, cadiamo. La difficoltà vera è che la Parola entri nella quotidianità della vita, che diventi quell’amore vincente che poi norma l’esistenza quotidiana. La difficoltà vera è che riuscire a rispendere alla Parola con la nostra vita; saper vivere secondo la Parola, anche, e soprattutto, quando questo significa fare scelte difficili, scelte che non seguono i valori del mondo. Perché le preoccupazioni del mondo sono in tutti e tutte noi. La mondanità è dentro di noi, anche quella brama di avere, di potere, di apparire, quelle garanzie, quelle sicurezze che in fondo sostituiscono un po’ Dio.

Occorre interiorizzare la Parola, «ruminarla» con attenzione; occorre perseverare nell’ascolto: è facile accogliere la Parola con gioia per breve tempo, lasciare che essa porti frutto per un attimo, come il seme tra i sassi; ma così si è persone «di un momento», prive di radici, incapaci di fare fronte alla prova del tempo e alle tribolazioni che un ascolto autentico comporta. Occorre lottare contro gli idoli mondani che ci seducono; eppure in questo cammino, che sicuramente sarà fatto di cadute, di strade sbagliate, di momenti in cui ci fermiamo, su una cosa possiamo contare, su una cosa possiamo fare affidamento: su un seminatore che sparge il suo seme su ogni terreno, che non calcola quanto il terreno è produttivo, e che torna a seminare di nuovo, e di nuovo ancora.

Il nostro Signore è un Dio che ci ha amati e amate sino al punto di dare il suo unico figlio per la nostra salvezza; è un Dio che ci rialza ad ogni nostra caduta, che ci viene a cercare quando ci smarriamo.

Allora credo che la parabola del seminatore più che distinguere i veri credenti dagli increduli, coloro che perseverano nella fede rispetto a quanti accolgono la Parola in maniera superficiale, vuol farci comprendere che anche nelle avversità della vita, anche quando la terra sembra essere oscurata dal male, non bisogna temere: la parola di Dio farà il suo corso, perché “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55, 10-11).

Amen

Maria Paola Gonano

Sermone: IL SEMINATORE

Matteo 13, 1-9.18-23

In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva.  Egli insegnò loro molte cose in parabole, dicendo: «Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. Un’altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. Un’altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi oda».

«Voi dunque ascoltate che cosa significhi la parabola del seminatore! Tutte le volte che uno ode la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada.  Quello che ha ricevuto il seme in luoghi rocciosi, è colui che ode la parola e subito la riceve con gioia, però non ha radice in sé ed è di corta durata; e quando giunge la tribolazione o persecuzione a motivo della parola, è subito sviato. Quello che ha ricevuto il seme tra le spine è colui che ode la parola; poi gli impegni mondani e l’inganno delle ricchezze soffocano la parola che rimane infruttuosa. Ma quello che ha ricevuto il seme in terra buona è colui che ode la parola e la comprende; egli porta del frutto e, così, l’uno rende il cento, l’altro il sessanta e l’altro il trenta».

Care sorelle e cari fratelli,

eccoci di fronte a una famosa parabola, che molti di noi ricordano sin dalla Scuola Domenicale!

Ascoltandola ci torna subito alla mente il famoso ritratto di Vincent Van Gogh, il seminatore al tramonto. Un’immagine oggi non abituale per noi; oggi fatichiamo a vedere anche i mezzi meccanici intenti alla semina, e la semina manuale è un’attività che avviene solo negli orti.

Era un’immagine abituale, invece, per le folle che stavano ascoltando Gesù: secondo le usanze agricole palestinesi la semina avveniva prima che il terreno fertile venisse arato. Il contadino spargeva il seme con abbondanza per ogni dove, in un modo che certamente ci stupisce: così – dice Gesù – una parte del seme cade lungo la strada, dove viene divorata dagli uccelli; un’altra parte cade tra i sassi e subito germoglia ma poi, allo spuntare del sole, secca per mancanza di radici; un’altra parte cade tra le spine, che ben presto la soffocano; un’altra parte cade infine sulla terra buona e porta frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta.

Ci sentiamo interrogati in molte maniere da questa parabola: ci interroga sul nostro essere testimoni della Parola, sulla nostra capacità di superare la delusione di una testimonianza apparentemente inefficace, sulla nostra capacità di porre ogni nostra fiducia sulla Parola.

Ci interroga anche sulla nostra capacità di ricevere la Parola.

Su questo vorrei porre la mia attenzione oggi, e vorrei farvi una domanda: quale terreno vi sentite di essere oggi? Quale terreno pensate di essere, voi, oggi?

Ecco, io credo che i quattro terreni di cui parla Gesù siano tutti rappresentati, di volta in volta, nel nostro unico cuore, siano quattro possibili risposte alla Parola che ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato nella propria vita!

Non siamo un terreno lastricato, un terreno sabbioso, o un terreno coperto di rovi; eppure ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato la difficoltà di rispondere pienamente alla Parola di Dio.

Quante volte ascoltiamo la Parola di Dio, ma è come non l’avessimo ascoltata; incontra in noi una sorta di impermeabilità. Succede quando la misuriamo sui nostri pensieri: se va bene col nostro pensiero l’accettiamo, se va male la eliminiamo, la accantoniamo; succede quando ascoltiamo la Parola, però ci diciamo “Siamo concreti, la vita è un’altra cosa”, come se la Parola di Dio non c’entrasse con la vita. Questo è perfettamente umano, è normale, eppure è diabolico: “viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada”.

Altre volte, invece, accogliamo la Parola con gioia, con entusiasmo, almeno sul momento, poi di fronte alle difficoltà, ripieghiamo. Di fronte alle preoccupazioni del mondo, di cosa vivremo, di cosa mangeremo, di cosa vestiremo, cadiamo. La difficoltà vera è che la Parola entri nella quotidianità della vita, che diventi quell’amore vincente che poi norma l’esistenza quotidiana. La difficoltà vera è che riuscire a rispendere alla Parola con la nostra vita; saper vivere secondo la Parola, anche, e soprattutto, quando questo significa fare scelte difficili, scelte che non seguono i valori del mondo. Perché le preoccupazioni del mondo sono in tutti e tutte noi. La mondanità è dentro di noi, anche quella brama di avere, di potere, di apparire, quelle garanzie, quelle sicurezze che in fondo sostituiscono un po’ Dio.

Occorre interiorizzare la Parola, «ruminarla» con attenzione; occorre perseverare nell’ascolto: è facile accogliere la Parola con gioia per breve tempo, lasciare che essa porti frutto per un attimo, come il seme tra i sassi; ma così si è persone «di un momento», prive di radici, incapaci di fare fronte alla prova del tempo e alle tribolazioni che un ascolto autentico comporta. Occorre lottare contro gli idoli mondani che ci seducono; eppure in questo cammino, che sicuramente sarà fatto di cadute, di strade sbagliate, di momenti in cui ci fermiamo, su una cosa possiamo contare, su una cosa possiamo fare affidamento: su un seminatore che sparge il suo seme su ogni terreno, che non calcola quanto il terreno è produttivo, e che torna a seminare di nuovo, e di nuovo ancora.

Il nostro Signore è un Dio che ci ha amati e amate sino al punto di dare il suo unico figlio per la nostra salvezza; è un Dio che ci rialza ad ogni nostra caduta, che ci viene a cercare quando ci smarriamo.

Allora credo che la parabola del seminatore più che distinguere i veri credenti dagli increduli, coloro che perseverano nella fede rispetto a quanti accolgono la Parola in maniera superficiale, vuol farci comprendere che anche nelle avversità della vita, anche quando la terra sembra essere oscurata dal male, non bisogna temere: la parola di Dio farà il suo corso, perché “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55, 10-11).

Amen

Maria Paola Gonano

 

 

 

 

 

 

Di solito siamo abituati a non discutere questioni di famiglia in pubblico. La famiglia è famiglia e ciò che facciamo a casa nostra non deve interessare gli altri. E, se posso essere sincera, proprio qui in Veneto ho l’impressione che questa caricatura della famiglia abbia qualcosa di vero. Incontro tante famiglie con delle storie particolari che però non vengono raccontate subito. Serve parecchio tempo prima che si permetta di guardare dentro alla famiglia.
La Bibbia è piena di racconti di famiglie. Inizia con Adamo ed Eva che senz’altro non avevano solo momenti belli con i loro due figli Caino e Abele. Penso a Abramo e Sara, le storie dei re di Israele e Giuda fino al racconto della famiglia di Gesù. Sono racconti che conosciamo e dai quali possiamo imparare, possiamo prenderli come esempio – talvolta anche come esempio da non copiare.
Vorrei riflettere oggi con voi su una chiesa che si percepisce come famiglia. Anche loro sono una famiglia come la maggior parte delle famiglie: con tanti pregi ma anche con dei conflitti interni. In questa famiglia-chiesa si trovano persone che vivono la loro fede con grande libertà e altre persone che sono più legate a segni e tradizioni. Questa è una situazione assolutamente normale per ogni comunità, anzi, è il segno che c’è vita in questa chiesa perché solo in una chiesa morta non c’è bisogno di litigare.
È proprio nel corso di uno di questi litigi Paolo scrive il testo della nostra predicazione di oggi. Leggo dalla lettera ai Romani capitolo 14,10-13
10 Ma tu, perché giudichi tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi tuo fratello? Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio; 11 infatti sta scritto: «Come è vero che vivo», dice il Signore, «ogni ginocchio si piegherà davanti a me, e ogni lingua darà gloria a Dio». 12 Quindi ciascuno di noi renderà conto di sé stesso a Dio. 13 Smettiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; decidetevi piuttosto a non porre inciampo sulla via del fratello, né a essere per lui un’occasione di caduta.
Nella chiesa di Roma hanno litigato a causa delle loro abitudini alimentari. È un tema tipico. Talvolta penso: se riuscissimo a discutere con tanta enfasi su temi biblici quanto lo facciamo sul menu dei nostri pranzi, saremmo una comunità perfetta.
Il cibo è importante per noi oggi come per la chiesa di Roma all’epoca di Paolo. C’erano tra i membri di chiesa quelli che mangiavano un po’ di tutto e altri che escludevano ogni carne.
Vi ripeto, anche oggi da noi ci sono quelli che non possono immaginarsi un pranzo senza un bicchiere di vino e ci sono quelli che sostengono che l’alcool non dovrebbe entrare in chiesa. Ci sono anche tra di noi quelli che vanno volentieri la sera a divertirsi alle feste e in discoteca e ci sono quelli che pensano che una vita evangelica dovrebbe essere più sobria. Ci sono anche tra di noi quelli che pensano che in una chiesa riformata si debba cantare al massimo ciò che è contenuto nel nostro innario e altri che non ne possono più sentire gli inni vecchi e vorrebbero vivacizzare i nostri culti.
Sono opinioni diverse e tutte hanno una ragione. Spesso riusciamo a trovare un equilibrio o anche a chiudere gli occhi e fare finta di niente davanti al comportamento degli altri; però spesso succede, proprio a tavola, mangiando insieme, che vengano fuori dei conflitti. A Roma succedeva che a ogni pranzo, sia in comunità, sia ai pranzi tra amici, si discutesse nuovamente se si debba mangiare solo verdura o anche la carne.
Oggi si propongono varie ipotesi sul perché questo gruppo della chiesa abbia rifiutato di mangiare carne. Non lo sappiamo con certezza. Forse erano ex-ebrei e non volevano mangiare solo carne kosher. Forse avevano paura di mangiare la carne degli olocausti immolata alle divinità. La carne che rimaneva dopo questi riti si poteva comprare a un prezzo molto conveniente. C’è anche l’ipotesi che questo gruppo di vegetariani volesse attenersi ai comandamenti che Dio aveva dato ancora ad Adamo ed Eva in paradiso quando offriva una dieta solo vegetariana. Non sappiamo oggi quale fosse la motivazione di fondo per questo gruppo di persone a non mangiare carne, però senz’altro era una decisione religiosa.
E ora Paolo scrive nella sua lettera alla chiesa di Roma: Tu, perché disprezzi tuo fratello? Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio. Paolo assume due categorie. I vegetariani li chiama deboli, gli altri forti nella fede. – Devo dirvi che non mi piace tanto questa distinzione che non mette le due posizioni su uno stesso livello, però è proprio questo che Paolo non vuole. Egli dice che non dobbiamo giudicare, non dobbiamo metterci gli uni sopra gli altri ma dovremmo guardare soprattutto noi stessi. È troppo semplice parlare e giudicare ciò che fanno gli altri. È anche molto più divertente raccontare pettegolezzi che non osservare se stesso. E in un gruppo funziona così bene il puntare il dito su altri che sono strani dal nostro punto di vista. – Paolo dice: smettetela! Guardate voi stessi e non gli altri. Una volta starete tutti quanti davanti al tribunale di Dio e dovrete giustificarvi. A quel punto non dovrò giustificare gli altri, ma solo me stesso. In quel momento non interesserà che cosa dicono gli altri di me o che cosa io penso di altri, ma solo ciò che Dio vede in me. Per questo dice Paolo: occupatevi di voi stessi che vi dà già abbastanza da fare.
Questo è un aspetto. Però esiste anche l’altro aspetto, ed è che in una comunità di sorelle e fratelli abbiamo anche una certa responsabilità per gli altri. Non abbiamo nessun diritto di giudicare gli altri, però abbiamo il dovere di parlare con i fratelli e le sorelle se loro vivono la loro vita in una maniera che a noi sembra contro la volontà di Dio. In un certo senso abbiamo una responsabilità per la comunità tutta, però l’ultima parola l’ha solo Dio.
Cogliete che è molto difficile trovare il giusto equilibrio tra il pensiero: “non m’interessa che cosa fa l’altro, è roba sua” e l’atteggiamento di avere sempre qualcosa da ridire su tutti. Però penso che sia proprio il nostro compito in una chiesa di fratelli e sorelle di trovare questo equilibrio così difficile.
Talvolta sento dire: ho portato i miei figli in chiesa quand’erano piccoli, ora devono decidere loro cosa fare. O qualcuno dice: i miei amici sono credenti, però preferiscono vivere la loro fede da soli senza andare in chiesa. O sento dire qualcuno con convinzione: sono evangelico e membro di chiesa. Però vedo questa persona solo a Natale tra di noi e mi pongo delle domande.
Qualcuno direbbe: dobbiamo tacere. Non ci si può intromettere nella vita di persone adulte che devono fare loro le proprie scelte. Sì, in un certo senso sono d’accordo. Però voglio anche ricordarci con Paolo di che cosa stiamo parlando. Qui si tratta di vita eterna. E seguendo il pensiero di Paolo dobbiamo essere consapevoli che con questa frase secondo la quale ognuno deve fare le proprie scelte, noi esprimiamo una condanna sopra quelle persone che ci sono care.
Tutte le volte in cui diciamo: mia figlia, mio marito, la mia amica è così, non è religioso, non ha bisogno della chiesa, per lei, per lui la fede non ha importanza. Tutte queste frasi esprimono una condanna. Paolo dice: Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio. E ciascuno di noi renderà conto di sé stesso a Dio.
Vorrei tornare ancora una volta sul tema dell’equilibrio, perché so di certe persone tra di noi che soffrono perché i loro cari non hanno mai trovato una relazione con Dio o si sono allontanati da lui. So che ci sono tra di noi dei fratelli e delle sorelle che pregano da decenni per i loro figli, mariti e moglie e testimoniano la propria fede con parole e azioni.
Non riesco a darvi una risposta alla domanda perché ci sono delle persone che non vogliono accettare l’amore di Dio. Dio stesso sa che cosa gli dirà in quel giorno quando compariranno davanti al suo trono. Non è il nostro compito farci dei pensieri su che cosa sarà in quel giorno. Noi siamo semplicemente sollecitati a testimoniare continuamente la nostra fede.
Torniamo ancora una volta al tema della libertà che qualcuno tra i fratelli si prende maggiormente e altri invece preferiscono autolimitarsi di più. L’evangelo rende liberi. Come cristiani non siamo determinati dall’esteriorità, questo dev’essere chiaro. Però sappiamo anche che non è facile vivere questa libertà. È molto più semplice fare ciò che qualcun altro mi dice che non decidere tutto in proprio. La libertà può turbare e disorientarmi. Per questo scrive Paolo: Smettiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; decidetevi piuttosto a non porre inciampo sulla via del fratello, né a essere per lui un’occasione di caduta.
Paolo ci invita a vedere i fratelli e le sorelle con amore. In maniera molto pratica dice così alla chiesa di Roma: se volete mangiare insieme lasciate via la carne, perché può dare fastidio a qualcuno. È solo un gesto d’amore, e chi vuole mangi carne per cena.
Qui da noi non so neanche se vi siete resi conto che abbiamo cambiato pane e vino della Santa Cena. In questo periodo utilizziamo del succo d’uva perché abbiamo parecchie persone tra di noi che per vari motivi non possono bere alcool e prendiamo del pane senza glutine perché c’è uno, solo uno ma anche lui dev’essere incluso, che non digerisce altro pane. È semplice se c’è la voglia di includere e se c’è amore tra di noi.
Mi sono chiesta che cosa Paolo scriverebbe a noi. Mi sono venute l’una o l’altra cosa in mente che però non vi dico. Chiedo a voi di pensare una volta se ci siano nella nostra chiesa dei punti critici. A questa domanda ognuno deve rispondere per se stesso. In qualche modo, per come io vivo la mia vita e la mia fede, creo scompiglio ad un fratello, ad una sorella? E quanto sono disposto a cambiare, a limitare la mia libertà per amore dell’altro? Non è una decisione semplice. Non è una decisione che qualcun altro può pretendere. È una decisione che viene dall’amore che io per primo ho ricevuto.
Dio ci dirà una volta se siamo stati in grado di vivere questo equilibrio così fine tra libertà e rispetto, tra testimonianza e giudizio.
Vorrei terminare con la profezia di Isaia che cita Paolo e che vale anche per noi oggi: «Come è vero che vivo», dice il Signore, «ogni ginocchio si piegherà davanti a me, e ogni lingua darà gloria a Dio». Questa è la nostra speranza.
Amen
Ulrike Jourdan

Sermone: LE RICHEZZE INGIUSTE

Luca 16, 1-8 – Parabola del fattore infedele

Gesù diceva ancora ai suoi discepoli: «Un uomo ricco aveva un fattore, il quale fu accusato davanti a lui di sperperare i suoi beni. Egli lo chiamò e gli disse: “Che cos’è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché tu non puoi più essere mio fattore”.

Il fattore disse fra sé: “Che farò, ora che il padrone mi toglie l’amministrazione? Di zappare non sono capace; di mendicare mi vergogno. So quello che farò, perché qualcuno mi riceva in casa sua quando dovrò lasciare l’amministrazione”.

Fece venire uno per uno i debitori del suo padrone, e disse al primo: “Quanto devi al mio padrone?” Quello rispose: “Cento bati d’olio”. Egli disse: “Prendi la tua scritta, siedi, e scrivi presto: cinquanta”.

Poi disse a un altro: “E tu, quanto devi?” Quello rispose: “Cento cori di grano”. Egli disse: “Prendi la tua scritta, e scrivi: ottanta”.

E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito con avvedutezza; poiché i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce.

 

E’ questa una parabola un po’ strana, dove ci viene presentato un individuo che, diremmo oggi, si è reso colpevole di malversazione.

Nell’affrontare questa scritto va fatta una doverosa premessa: il fattore di cui si parla non è un “fattore agricolo”, bensì un vero e proprio amministratore dei beni del padrone, perché gestisce i crediti che il suo signore può vantare.

Orbene, questo amministratore pone il proprio interesse personale in primo piano, invece di curare i beni che gli sono stati affidati e li sperpera a suo esclusivo vantaggio. Non si cura nemmeno di fare il proprio interesse, magari accantonandoli per se stesso, infatti il suo problema, a fronte del licenziamento, è che non sa come farà a vivere in futuro, perché non sa lavorare la terra e prova vergogna nel mendicare. Quindi, evidentemente, non può contare su ricchezze che ha messo da parte.

E’ chiaramente colpevole, perché non ci viene riferito che, a fronte della contestazione che gli viene mossa, egli faccia una benché minima opposizione.

Ma dobbiamo notare ancora che, dopo essere stato scoperto, il suo atteggiamento è ancora incentrato su se stesso, su cosa farà in futuro e non viene nemmeno sfiorato dalla vergogna per il suo comportamento. Il suo unico scopo è trovare una soluzione per la sua vita futura, quando si troverà senza un lavoro che gli dia sostentamento.

E allora cosa fa? Fa quello che sa fare: approfittarsi degli altri, inducendoli con gli sconti che pratica a nutrire sentimenti di riconoscenza, cioè di debito morale, così che quando sarà disoccupato, costoro lo accolgano in casa.

Questo individuo quindi non viene nemmeno sfiorato dal rimorso per il suo comportamento, anzi, con astuzia, persevera nel suo modo di fare: strumentalizzare gli altri, ingenerando in loro riconoscenza.

Possiamo anche immaginare che il padrone sia molto arrabbiato con lui, tanto da licenziarlo, ma, a fronte del reiterato comportamento disonesto, anziché irritarsi ancor di più ….. addirittura lo loda. Incredibile! Illogico possiamo dire.

Tanto illogico da farci chiedere: cos’è che colpisce positivamente il padrone?

Ci viene riferito che questo signore viene colpito dall’avvedutezza del suo collaboratore, o, potremmo dire in modo migliore, dalla furbizia, dall’intraprendenza, caratteristiche che Gesù ci dice essere dei figli di questo mondo e non dei figli della luce.

Ma c’è un’altra considerazione da fare. In molti passi dei vangeli troviamo l’idea che Gesù ha nei confronti della ricchezza terrena, che puzza spesso di ingiustizia e che viene contrapposta alla vera ricchezza. Solo per dirne un paio, ricordiamoci come tratta i mercanti del tempio, oppure come ammonisce sul fatto che il credente non può servire due padroni: Dio e Mammona, cioè il denaro.

Ma questo non ci deve indurre a pensare ad un messaggio evangelico buonista, incentrato sulla mistica della povertà, infatti conosciamo bene anche la parabola del padrone che affida i suoi beni ai servi (parabola dei talenti in Matteo 25) e che alla fine è giudice sul fatto che essi li abbiano messi a frutto.

Ma allora, qual è l’insegnamento che ci viene dalla parabola che è oggetto della nostra riflessione odierna?

Direi che potremmo pensare che a, anche a fronte di ricchezze ottenute ingiustamente, queste possono essere convertite in mezzi per l’aiuto agli altri.

Sia chiaro: nessuna giustificazione per l’amministratore disonesto! A lui va solo il riconoscimento per le capacità pratiche, per la furbizia, per l’intraprendenza. Tutte caratteristiche che egli ha però utilizzato solo per il proprio interesse e non certo per l’interesse altrui. Perciò …. nessun merito.

Quindi l’insegnamento di Gesù per il suo uditorio e per noi è che, a fronte di ricchezze anche ingiuste, dobbiamo essere capaci di convertirle per far del bene agli altri.

E qui si apre una riflessione sulle nostre ricchezze ingiuste, sul fatto che dobbiamo avere la consapevolezza che noi stessi siamo possessori di ricchezze ingiuste, magari perché derivanti non tanto da nostri comportamenti disonesti, ma dal fatto che socialmente abbiamo potuto godere di situazioni collettive ingiuste, dove la distribuzione della ricchezza non è certo equa e, nonostante ciò, continuiamo a sentirci “padroni a casa nostra” e “padroni di ciò che abbiamo”, continuando a relegare nella miseria coloro che non fanno parte del nostro mondo, ma che magari sono di una parte del mondo che in passato è sempre stata sfruttata per i nostri interessi.

Le nostre ricchezze ingiuste derivano anche dai nostri risparmi negli acquisti di beni che sappiamo derivare da sfruttamento della manodopera (e non solo in altri paesi del mondo, ma anche qui). Le nostre ricchezze ingiuste derivano anche dallo sfruttamento indiretto di altri esseri umani, dai grandi margini economici che possiamo avere negli affari, dalle furbizie che talvolta mettiamo in atto per non pagare regolarmente le tasse, quietando magari le nostre coscienze affermando che c’è chi ruba di più.

Anche queste sono ricchezze ingiuste, che non hanno nulla da invidiare alle ricchezze per malversazione sperperate per il proprio tornaconto dal fattore della nostra parabola.

Ecco, queste ricchezze ingiuste che noi abbiamo fra le mani devono essere “convertite” con astuzia, con intraprendenza, con fantasiosa dedizione per il bene di altri. In altre parole, potremmo dire che i figli della luce devono avere la consapevolezza che “ciò che sembra mio non è mio, ma mi è solo stato affidato” e per ciò stesso va condiviso.

Certo potrà darsi il caso che le mie ricchezze io le condivida con qualcuno che magari fa il furbo, che mi vuole sfruttare, che si vuole approfittare di me, però questo non è un problema mio: è un problema di SUA disonestà!

Ma in questa parabola, che ci invita a farci amici con le ricchezze ingiuste, io vedo anche un altro aspetto.

Le ricchezze che abbiamo ricevuto dal nostro Signore non sono solo materiali. Sono anche i doni che abbiamo ricevuto e che continuiamo a ricevere “ingiustamente”, cioè che ci vengono elargiti senza alcun merito da parte nostra, quindi senza alcuna correlazione ad un “giusta distribuzione”.

Ne abbiamo ricevuti e ne riceviamo in abbondanza. Sono i talenti che ci sono stati affidati e dell’uso dei quali un giorno dovremo rendere conto. Abbiamo ricevuto intelligenza, opportunità, capacità, conoscenza, beni materiali, relazioni di amicizia, perfino la nostra stessa fisicità.

E queste ricchezze noi come le usiamo?

Le sperperiamo per il nostro benessere, come fossero una nostra proprietà esclusiva, oppure sappiamo metterle a disposizione di altri? Le utilizziamo per i nostri interessi materiali o emotivi, oppure sappiamo farne parte con coloro che magari ne hanno bisogno? E quando ne facciamo parte, lo facciamo perché siamo consapevoli che così deve essere fatto, oppure lo facciamo per ingenerare sentimenti di debito e riconoscenza negli altri, quindi, ancora una volta, per accumulare meriti e considerazione per noi stessi?

E badate bene che una ricchezza, un dono immenso, è anche la capacità di amare che ci è stata data, quella capacità che ci mette in relazione con gli altri per instaurare autentici rapporti d’amore, sia amicali che passionali. Ma, se siamo stati dotati della capacità di amare, la rivolgiamo solo verso noi stessi, in un atteggiamento di nevrosi di conversione, oppure la porgiamo a coloro che incrociano la loro vita con la nostra?

E se riusciamo a porgere questo dono agli altri, lo facciamo per reale amore, per autentico altruismo, o per prendere in ostaggio emotivo le loro persone, i loro sentimenti, la loro libertà?

Credo che su questi aspetti dobbiamo fare una seria riflessione.

AMEN

Liviana Maggiore

 

 

 

 

 

Sermone: Cercare e lasciarsi trovare

Quando sono dal parrucchiere mi diverto a leggere quei giornali che di solito non aprirei. E l’ultima volta ho trovato la pagina di un astrologo che risponde alle grandi domande della vita. È impressionante che ci siano delle persone che pongono veramente le loro domande in un giornale e si aspettano lì una risposta. Una donna giovane chiedeva: Che cosa c’è di sbagliato in me? Perché non si sente abbastanza femminile. Un uomo di 50 anni vede la sua vita come un unico fallimento e chiede come dovrebbe proseguire. Lui scrive che da due anni tutto gli va male, sembra essere tutto bloccato e non sa perché. – La risposta dell’Astrologo è geniale. Scrive qualcosa tipo: Caro Luca, lei è capricorno con ascendente toro per questo lei non ha pazienza. Ciò che la blocca da due anni è Saturno, ma da settembre tutto cambierà.

Quando leggo una roba del genere non so se devo ridere o piangere. Per me è assolutamente assurdo, ma contemporaneamente sono anche triste per quante persone credono in questo o in simili sciocchezze.

Vorrei oggi raccontarvi di un uomo di media età, con un lavoro molto ben pagato, capo nel suo reparto. Uno che è diventato ricco attraverso il suo lavoro però ha sempre portato con sé tante di queste domande alle quali nessuno poteva rispondergli. Un uomo contemporaneamente ricco e povero.

Leggo dal Vangelo di Luca 19,1-10

Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città.  2 Un uomo, di nome Zaccheo, il quale era capo dei pubblicani ed era ricco,  3 cercava di vedere chi era Gesù, ma non poteva a motivo della folla, perché era piccolo di statura.  4 Allora per vederlo, corse avanti, e salì sopra un sicomoro, perché egli doveva passare per quella via.  5 Quando Gesù giunse in quel luogo, alzati gli occhi, gli disse: «Zaccheo, scendi, presto, perché oggi debbo fermarmi a casa tua».  6 Egli si affrettò a scendere e lo accolse con gioia.  7 Veduto questo, tutti mormoravano, dicendo: «È andato ad alloggiare in casa di un peccatore!»  8 Ma Zaccheo si fece avanti e disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo».  9 Gesù gli disse: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d’Abraamo;  10 perché il Figlio dell’uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto».

Zaccheo è un uomo che viene torturato dalle domande sulla vita. Lui era capo dei pubblicani, cioè un uomo ricco. La provincia di Giudea della quale faceva parte anche Gerico, era direttamente sotto l’amministrazione di Roma. Il sistema delle tasse funzionava in questo modo: Roma affittava la dogana per un prezzo fisso e i pubblicani cercavano di fare il più possibile soldi con questa concessione. Per questo erano doppiamente odiati: come aiutanti dei romani e come doganieri disonesti. Comunque non dobbiamo dimenticare: dovevano essere molto intelligenti, buoni organizzatori, abile nella società e con educazione ellenista. A modo loro facevano parte della classe elevata della società. Gerico era per una capo dei pubblicani il luogo perfetto perché era il punto d’incrocio di varie strade in prossimità dei passaggi del Giordano. Questa zona era una ricca fonte di guadagno. Secondo i nostri parametri di oggi, Zaccheo sarebbe stato milionario. D’altra parte, questo pubblicano era ebreo. Il suo nome viene probabilmente dall’ebraico Sakkai che vuol dire il ‘Giusto’. Che nome per un personaggio come Zaccheo!

Zaccheo si mette alla ricerca. Questo è sorprendente, perché uno potrebbe pensare che ha già ciò che tanti altri vorrebbero avere, cioè soldi, tanti soldi. L’evangelista Luca non ci racconta neanche che cosa scatena questa ricerca. Forse era una semplice curiosità. O forse Zaccheo aveva sentito di come Gesù si era comportato con altri pubblicani. Però che cosa cerca Zaccheo veramente? Luca ci dice: cercava di vedere chi era Gesù. Perché? Forse perché le domande della vita sono diventate per Zaccheo talmente grandi, che doveva per forza porle a qualcuno. Il Figlio dell’uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto.

Devo dire che Zaccheo è nella sua ricerca di risposte abbastanza simpatico. È troppo piccolo per vedere e per questo ha l’idea di arrampicarsi come un bambino su un sicomoro. Tanto di capello, che determinazione! Dobbiamo ammettere che Zaccheo investe qualcosa per portare la sua ricerca a buon fine. Cerca di superare gli ostacoli che trova e ci riesce veramente. Cosa dite, trova ciò che ha cercato? Direi piuttosto che lui viene trovato. Ancora prima che Zaccheo possa rivolgersi a Gesù, ancora prima che egli si possa fare un’immagine di chi sia quel Gesù, è lui che si rivolge a Zaccheo. E non solo questo, non è stato solo trovato tra le foglie di un albero ma Gesù verrà a trovarlo a casa e Zaccheo troverà risposte alle sue domande. In quest’incontro con Gesù, Zaccheo trova se stesso. Trova un nuovo accesso a se stesso, alla sua vita così com’era e così come sarà. Trova un nuovo modo di comportarsi con le persone attorno a se. Succede tutto senza che Gesù debba fare grandi prediche. Zaccheo sa bene che cosa non va nella sua vita e sa anche come si può pentire e cambiare via. La metà del suo possesso vuole darla ai poveri. È tanto, però neanche dopo questo gesto Zaccheo sarà veramente povero. Ma fa vedere che non è attaccato ai soldi. Mostra che non sono i suoi beni che comandano sulla sua vita. Zaccheo è in grado di aprire le mani per dare e anche per poter ricevere ciò che Gesù vuole dargli.

Un secondo passo è che Zaccheo vuole risanare le ingiustizie commesse. Secondo il comandamento biblico vuole restituire il quadruplo di ciò che ha preso indebitamente. Questo è un pentimento molto concreto. Ciò che Zaccheo ha in mente di fare è più di una semplice preghierina. Deve presentarsi da ognuno al quale ha fatto un torto. Deve scusarsi e restituire i soldi. – Quanta fatica facciamo noi ad ammettere una volta che abbiamo sbagliato. Zaccheo assume questa fatica su di se.

Però una cosa non la fa. Non dice di voler cambiare il suo mestiere. No. Vuole rimanere pubblicano, capo dei pubblicani. E questo mi piace e lo trovo importante. Non esistono per noi cristiani dei mestieri che non dovremmo fare. Nella Bibbia rimangono i pubblicani pubblicani e i soldati rimangono soldati. Però ogni mestiere può essere svolto in tanti modi e il modo in cui Zaccheo sarà pubblicano in futuro sarà molto diverso.

Ancora una volta: Zaccheo fa una specie di grande confessione davanti a Gesú, anche se non ci vengono riportate le sue parole. Ma vediamo che Zaccheo accetta i comandamenti e cerca di risanare le sue colpe e tutto ciò senza che Gesù lo debba chiedere a lui.

Zaccheo ha trovato durante la sua ricerca Gesù e ha trovato in lui l’impulso di cambiare la sua vita profondamente. Zaccheo ha cercato Gesù ed è stato invece trovato.

Oggi ci sono tante persone che cercano risposte sulle grandi domande della vita. Io direi che ci sono tante persone che cercano Dio, loro forse non lo direbbero così. Cercano, ma non sanno bene che cosa.

Durante questa ricerca ci saranno senz’altro degli ostacoli. Da Zaccheo c’era la folla, che gli impediva di avvicinarsi. Da noi è spesso la folla che influenza i nostri pensieri. La folla ci suggerisce che cosa sia ‘normale’ è che cosa no. È la folla nella quale crescono paure che ci allontanano dal nostro obiettivo. È la folla che può impedire anche a noi di farci trovare da Gesù.

Un altro ostacolo è il tentativo di cedere. Immaginatevi una volta che cosa avrà pensato il milionario Zaccheo prima di salire sull’albero, nel bel mezzo di tutta la gente che poteva vederlo? Che cosa avrà pensato quel uomo ricco e ben educato di essere trovato da un predicatore itinerante su un albero? Zaccheo doveva superare la propria superbia. Doveva farsi piccolo – diventare come un bambino che può salire con naturalezza su un albero. Questa capacità di farsi piccolo ci serve sempre quando noi stessi siamo il più grande ostacolo che ci impedisce di raggiungere la nostra meta. Quando non riusciamo a superare i nostri pensieri statici, i nostri pregiudizi, le nostre pretese, non saremmo in grado di trovare ciò che cerchiamo.

Ma proprio in quel momento quando cogliamo che noi con il nostro volere e potere non arriviamo da nessuna parte, in quel momento ci trova il messaggio di Dio. Quando siamo alla fine con la nostra organizzazione e i nostri piani, quando le nostre risorse sono finite, a quel punto può intervenire Dio. Gesù ci chiama fuori dal labirinto dei nostri pensieri e dà delle risposte alle grandi domande della vita. Non sono sempre risposte facili, ma una domanda profonda ha anche bisogno di una risposta profonda.

La nostra vita da cristiani consiste sia nella ricerca che nell’essere trovato. Vorrei che riscoprissimo la voglia di metterci ogni giorno di nuovo alla ricerca e di lasciarci trovare sempre di nuovo dal nostro Dio.

Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Santo santo santo

Vorrei ascoltare oggi con voi un testo che è decisamente estraneo alla nostra vita. Forse è proprio quello che mi affascina anche in questo testo, che è diverso dalla nostra quotidianità e parla di un incontro insolito con Dio.

Leggo dal libro del profeta Isaia, 6,1-13

Nell’anno della morte del re Uzzia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio.  2 Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava.  3 L’uno gridava all’altro e diceva: «Santo, santo, santo è il SIGNORE degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!»  4 Le porte furono scosse fin dalle loro fondamenta dalla voce di loro che gridavano, e la casa fu piena di fumo.  5 Allora io dissi: «Guai a me, sono perduto! Perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il SIGNORE degli eserciti!»  6 Ma uno dei serafini volò verso di me, tenendo in mano un carbone ardente, tolto con le molle dall’altare.  7 Mi toccò con esso la bocca, e disse: «Ecco, questo ti ha toccato le labbra, la tua iniquità è tolta e il tuo peccato è espiato».  8 Poi udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò? E chi andrà per noi?» Allora io risposi: «Eccomi, manda me!»  9 Ed egli disse: «Va’, e di’a questo popolo: “Ascoltate, sì, ma senza capire; guardate, sì, ma senza discernere!”  10 Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendigli duri gli orecchi, e chiudigli gli occhi, in modo che non veda con i suoi occhi, non oda con i suoi orecchi, non intenda con il cuore, non si converta e non sia guarito!»  11 E io dissi: «Fino a quando, Signore?» Egli rispose: «Finché le città siano devastate, senza abitanti, non vi sia più nessuno nelle case, e il paese sia ridotto in desolazione;  12 finché il SIGNORE abbia allontanato gli uomini, e la solitudine sia grande in mezzo al paese.  13 Se vi rimane ancora un decimo della popolazione, esso a sua volta sarà distrutto; ma, come al terebinto e alla quercia, quando sono abbattuti, rimane il ceppo, così rimarrà al popolo, come ceppo, una discendenza santa».

L’ho già detto: la visione di Isaia è totalmente diversa da come io incontro Dio. Anche il messaggio che ad Isaia viene affidato non mi piace tanto. Ma questo non deve interessarci, che cosa mi piace o non mi piace.

Proviamo ad iniziare da capo: fu nell’anno della morte del re Uzzia. Talvolta servono dei cambiamenti anche politici affinché la parola di Dio venga ascoltata nuovamente. Talvolta deve vacillare la stabilità del mondo così che le persone si ricordino nuovamente di Dio. E Dio utilizza anche ciò che succede nel mondo per portare le persone verso di lui.

All’epoca, quando muore il re Uzzia, Dio cercava un messaggero. Penso che questo sia molto simile anche oggi. Forse si dirà fra qualche centinaia di anni: fu nell’anno delle elezioni a Padova che Dio cercò un messaggero. Lui è sempre alla ricerca di persone che portino la sua parola nel mondo. Persone che possono mettere se stesse in seconda fila e testimoniano semplicemente ciò che hanno vissuto con Dio e appreso da lui.

Però per questo serve certamente prima l’incontro con Dio, perché se non facciamo nessuna esperienza personale con Dio non c’è niente che si potrebbe trasmettere. Isaia vive un incontro molto particolare con Dio. Vede Dio in persona seduto sul trono e l’orlo della sua veste riempie tutto il tempio. Sopra di lui volano i serafini che sono angeli simili a dei serpenti con sei ali. Ci viene detto che loro coprivano con due ali i loro occhi, con due i loro piedi e con due volavano. – Quando nell’Antico Testamento si parla dei piedi si intende piuttosto il centro del corpo. L’immagine vuole dirci che questi angeli si coprono i loro occhi perché Dio è troppo santo perché loro possano guardarlo e si coprono la nudità, perché addirittura gli angeli sono ancora impuri davanti a Dio. Questi serafini gridano uno all’altro «Santo, santo, santo è il SIGNORE degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!» E ci viene raccontato che il tempio veniva scosso dalle loro voci e la casa era piena di fumo. – Il nome serafino deriva dalla parola ebraica utilizzata per dire “bruciare”. Ci sta bene con il fumo nel tempio però penso che si potrebbe anche interpretare dicendo che queste creature avevano uno zelo di servire Dio che bruciava dentro a loro.

Isaia sente che ciò che vive in questo momento con Dio è totalmente diverso da tutte le esperienze umane. Egli riconosce il suo peccato davanti a Dio e vede questa grandissima differenza tra lui, l’uomo, e Dio, il Signore degli eserciti. E Isaia esclama: Guai a me, sono perduto! – È importante che anche noi riconosciamo sempre di nuovo la potenza e la santità di Dio. Certamente conosciamo anche l’altro lato di Dio di cui Gesù ci ha raccontato. Sì, Dio è nostro padre che ci ama e che possiamo chiamare Abba, Babbo. Però non dovremmo arrivare al punto di far diventare Dio il nonnetto rimbambito il cui compito sarebbe di farmi stare bene. Dio è anche il totalmente altro, il misterioso, il signore del cielo e della terra. Egli è colui il cui mantello riempie il tempio e la cui potenza si sente su tutta la terra.

Isaia riconosce la sua impurità e la esprime davanti a Dio. Questa confessione di peccato deve avvenire prima dell’incontro con Dio perché senza confessione non può esserci un vero incontro. Isaia lo vive così che un angelo gli tocca le labbra con un carbone ardente per purificarlo. – L’immagine ci fa capire che la confessione davanti a Dio può fare veramente male. Ci tocca nel profondo quando riconosciamo i nostri peccati e gli diamo voce davanti a Dio.

Oggi sappiamo che Gesù Cristo è morto per il nostro peccato. Sappiamo che egli ha preso il nostro peccato su di sé e ha pagato con il suo sangue per i nostri peccati. Non dobbiamo più pagare con il nostro sangue. Non dobbiamo più sacrificare animali o altro per espiare il nostro peccato. Dobbiamo semplicemente venire da Dio per chiedere perdono. Però anche questo necessità di essere fatto. Non ci viene tolto di aprirci davanti a Dio, di guardare il nostro peccato e di chiedere perdono se vogliamo essere liberati.

Dopo che Isaia si è confessato, si è fatto purificare e ha sentito l’annuncio della purificazione, viene la domanda da parte di Dio: «Chi manderò? E chi andrà per noi?» Non è solo Isaia a cui è rivolta questa domanda. Dio pone questa domanda a tutte le persone, però sono solo pochi in grado di sentire le sue parole, e ancora di meno sono in grado di cogliere e realizzare queste parole. Però Isaia risponde: «Eccomi, manda me!»

Sono convinta che Dio cerca anche oggi delle persone che sono disposte a farsi inviare da lui. Persone che sono disposte a mettere la volontà di Dio al primo posto e solo dopo le proprie idee. Dio cerca anche oggi persone che sono disposte a portare dei messaggi impopolari e a difenderli con vigore. Dio cerca anche oggi delle persone che sono disposte a mettersi al suo servizio senza compromessi e a farsi usare per la sua volontà.

Il messaggio che Isaia deve portare è crudele. Deve indurire il popolo, così che non odano e non capiscano ciò che Isaia dice. In questo troviamo chiaramente ciò che Dio e la persona che scrive questo racconto sanno già: il popolo non vuole comprendere, non vogliono sentire le parole di Dio. Questa situazione rimarrà così finche tutte le città saranno devastate il paese ridotto in desolazione. Però, dice Dio, così come tagliando un albero rimane il tronco, così rimarrà anche di quel popolo un resto. E Dio dice: così rimarrà al popolo, come ceppo, una discendenza santa.

All’inizio di questa visione i serafini cantano “santo santo santo”. Poi Isaia vede ciò che non è per niente santo ed esprime la condanna sopra il suo stesso popolo Israele che non vuole sentire e comprendere e alla fine rimane questo ceppo, la discendenza santa. – Dio ha innestato qualcosa di se stesso nel suo popolo.

Isaia racconta di un incontro che ha cambiato tutta la sua vita. Un incontro che lo ha fatto diventare una persona nuova che va su una via nuova. Questa via non è bella e non è semplice, è piuttosto dura. Isaia parla con persone che non vogliono e non possono comprenderlo. Lui vede arrivare il malanno e non può aiutare. Egli parla e parla ma le persone attorno a lui hanno orecchie sorde. Egli parla di peccato, ma gli altri non vedono nessun peccato. Isaia è molto solo con il suo annuncio e comunque non cede il suo mandato. Egli annuncia la parola di Dio.

Conosco questo pensiero di parlare come contro i muri. Penso che anche voi lo conosciate, perché qui non parliamo solo di profeti a tempo pieno ma di tutte le persone che annunciano in parole e fatti la volontà di Dio. Ci sono tanti che non vogliono sentire o che fanno finta di sentire e non comprendono comunque. In questo vediamo che cosa vuol dire per noi oggi: Va’, e di’ a questo popolo: Ascoltate, sì, ma senza capire. Non posso dirvi perché ci siano così tante persone che ascoltano senza capire. Forse fa parte dei misteri che non dobbiamo e non possiamo sapere.

Però posso dirvi che come per Isaia vale anche per noi il mandato di predicare la volontà di Dio. Di predicarlo sempre di nuovo indipendentemente che la gente colga il significato o no. Indipendentemente se il popolo si converta o no. Questo è il mandato per Isaia, questo è anche il nostro mandato. Non dobbiamo preoccuparci del nostro successo. Forse Dio non ha neanche previsto il successo per il nostro lavoro. Importante è il mandato in sé: Va’, e di’ a questo popolo. Niente di più e niente di meno.

Amen

Ulrike Jourdan