Sermone: LA CONVERSIONE DI SAULO

La conversione di Saulo è così importante per Luca che la racconta tre volte nel libro degli Atti: al capitolo 9, che adesso leggerò, e con lievi differenze, al capitolo 22 e poi al capitolo 26.

Leggo al capitolo 9, i versetti dal 1 al 22:

“Saulo, sempre spirante minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote, e gli chiese delle lettere per le sinagoghe di Damasco affinché, se avesse trovato dei seguaci della Via, uomini e donne, li potesse condurre legati a Gerusalemme. E durante il viaggio, mentre si avvicinava a Damasco, avvenne che, d’improvviso, sfolgorò intorno a lui una luce dal cielo e, caduto in terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Egli domandò: «Chi sei, Signore?» E il Signore: «Io sono Gesù, che tu perseguiti. Àlzati, entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il viaggio con lui rimasero stupiti, perché udivano la voce, ma non vedevano nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla; e quelli, conducendolo per mano, lo portarono a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda. Or a Damasco c’era un discepolo di nome Anania; e il Signore gli disse in visione: «Anania!» Egli rispose: «Eccomi, Signore». E il Signore a lui: «Àlzati, va’ nella strada chiamata Diritta, e cerca in casa di Giuda uno di Tarso chiamato Saulo; poiché ecco, egli è in preghiera, e ha visto in visione un uomo, chiamato Anania, entrare e imporgli le mani perché ricuperi la vista». Ma Anania rispose: «Signore, ho sentito dire da molti di quest’uomo quanto male abbia fatto ai tuoi santi in Gerusalemme. E qui ha ricevuto autorità dai capi dei sacerdoti per incatenare tutti coloro che invocano il tuo nome». Ma il Signore gli disse: «Va’, perché egli è uno strumento che ho scelto per portare il mio nome davanti ai popoli, ai re, e ai figli d’Israele; perché io gli mostrerò quanto debba soffrire per il mio nome». Allora Anania andò, entrò in quella casa, gli impose le mani e disse: «Fratello Saulo, il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada per la quale venivi, mi ha mandato perché tu riacquisti la vista e sia riempito di Spirito Santo». In quell’istante gli caddero dagli occhi come delle squame, e ricuperò la vista; poi, alzatosi, fu battezzato. E, dopo aver preso cibo, gli ritornarono le forze. Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, e si mise subito a predicare nelle sinagoghe che Gesù è il Figlio di Dio. Tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua con lo scopo di condurli incatenati ai capi dei sacerdoti?» Ma Saulo si fortificava sempre di più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo”.

Perché è così importante la conversione di Paolo? Essenzialmente per due motivi. Il primo è che, con questa conversione il più accanito avversario di Gesù diventa il suo più zelante missionario. Per questo Lutero chiama questa conversione “il capolavoro di Dio”. Se infatti Dio è riuscito a convertire questo suo acerrimo nemico, chi potrà resistere alla sua chiamata? Se neanche Saulo ha potuto resistere – lui che era così agguerrito – vuol dire che Dio, alla fine, vince ogni resistenza. Il secondo motivo per cui Luca racconta tre volte questa conversione è naturalmente l’importanza di questo 13° apostolo il quale, benché probabilmente non abbia mai incontrato il Gesù storico e si consideri il “minimo degli apostoli”, è stato in realtà il più grande di tutti, sia come teologo, sia come missionario. Paolo è stato il discepolo più fedele di Gesù, quello che lo ha capito e servito meglio degli altri.

Vale la pena di notare che il racconto della conversione di Paolo è di Luca – anche quando lo mette in bocca a Paolo, come accade in Atti 22 e 26, che non ho letto – e non di Paolo. Paolo non parla mai, nelle sue lettere, dell’esperienza di Damasco e allude alla sua conversione, che ha coinciso con la sua chiamata, in termini molto sobri, quasi con pudore. Nel primo capitolo della lettera ai Galati, al capitolo 1, Paolo dice che Dio, che lo aveva prescelto fin dal seno di sua madre, “si compiacque di rivelare in me il Figlio suo”. Non parla dunque di una apparizione, ma di una rivelazione interiore (“in me”). Al capitolo 4 della lettera ai Corinzi c’è un altro possibile riferimento all’esperienza di Damasco, ma anche qui in termini di rivelazione interiore più che di apparizione esteriore: “Il Dio che disse: “Splenda la luce nelle tenebre” è quello che risplende nei nostri cuori, affinché noi facessimo brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio, che rifulge nel volto di Gesù Cristo”. Paolo comunque non sbandiera la sua esperienza, non la esibisce. C’è qualche volta nella chiesa un certo esibizionismo spirituale, che Paolo non pratica. Egli si limita a dire l’essenziale: Dio, o Cristo, sono entrati nella sua vita portandovi una luce che prima non c’era.

La cosa più bella di tutto il racconto è che Dio non fulmina questo nemico suo e della chiesa, non lo punisce, non lo condanna, non lo scomunica, ma al contrario gli parla, lo chiama per nome, lo converte e convertendolo, lo arruola al suo servizio. A ben guardare, questo modo di procedere di Dio è un paradigma di tutta la sua azione verso l’umanità. Siamo un po’ tutti come Saulo, forse non così accaniti e violenti come lui, ma anche noi, sotto sotto, siamo per natura nemici, increduli e ribelli; e invece, di fronte a questa durezza, giunge dal cielo una voce che ci chiama per nome e ci invita a cambiare vita, a scoprire che se siamo nemici di Dio, Dio non è nostro nemico, e che se siamo indifferenti verso Dio, egli non è indifferente verso di noi; al contrario non si stanca di cercarci e di parlarci. Così questa conversione di Saulo è, da un lato, un evento assolutamente unico ed eccezionale (e la sua eccezionalità appare dal fatto che Gesù in persona entra in scena – questo non accade per nessun’altra conversione nel Nuovo Testamento), ma dall’altro è uno specchio del modo normale, abituale, quotidiano di procedere di Dio nei nostri confronti. Ogni giorno egli usa misericordia verso di noi, ogni giorno egli ci aspetta sulla via di Damasco, ogni giorno si rivolge a noi con infinita pazienza chiamandoci per nome, fiducioso che, se abbiamo fatto orecchio da mercanti, un giorno risponderemo.

La conversione è al tempo stesso chiamata al servizio di Dio: nessuna conversione è mai fine a sé stessa, ma è in funzione di una missione. Dio ci vuole convertire per affidarci un incarico, cioè in fin dei conti la conversione non è finalizzata a noi stessi, ma gli altri. Nel racconto che abbiamo letto la conversione avviene attraverso una luce ed una voce. Paolo vede la luce e ode la voce, coloro che lo accompagnano odono la voce ma non vedono la luce. Perché? Io penso perché la conversione è qualcosa di assolutamente personale: solo Paolo vede la luce perché solo Paolo viene convertito. La luce è naturalmente la classica metafora per Dio, che è luce – come si dice nella prima lettera di Giovanni; vedere la luce significa trovarsi improvvisamente, inaspettatamente, alla presenza di Dio, che qui è rappresentata da Gesù, che si rivela per quello che è: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. In effetti era così: Saulo, perseguitando i cristiani, voleva in realtà perseguitare Gesù, nel senso di cancellare il suo nome e la sua memoria. Chi perseguita il popolo di Dio, in realtà ce l’ha con Dio, non con chi crede in lui. Così si spiega (sempre che sia “spiegabile”) anche la Shoah: i nazisti volevano annientare gli ebrei perché volevano annientare il Dio biblico per sostituirlo con il loro: il Dio della razza ariana, del sangue e del suolo tedesco. Quelli che accompagnano Saulo, odono la voce, ma non la capiscono. Sono anch’essi alla presenza di Dio, ma non lo sanno. E quindi a loro non succede nulla, non sono accecati – perché non vedono la luce – non capiscono la voce – odono soltanto il suono, e non si convertono. Saulo invece sa di essere alla presenza di Dio, perciò vede la luce, non solo ode la voce, ma la capisce, e viene convertito. È questo un messaggio anche per noi? Siamo attenti la vedere la luce di Dio tra le mille luci di questo modo? Siamo attenti a cogliere la sua voce, a riconoscerla e a capirla, tra le mille voci di questo mondo?

La conversione è sempre un trauma. Una morte e una risurrezione. Nel racconto questa esperienza è simboleggiata da due segni. Il primo è l’atterramento di Saulo: Saulo cade, e in un certo senso Saulo muore; ma appunto: c’è una caduta che può essere anche un rialzamento, c’è una morte che può essere una nascita, c’è una fine che può essere un inizio. È quanto accaduto a Saulo: c’è Saulo che muore, e c’è Paolo (nome latino dell’ebraico Saulo) che nasce. Come dicevo prima, Paolo descrive così – nella lettera ai Galati – la sua ri-nascita: “«Dio mi chiamò con la sua grazia, mi scelse fin dal seno di mia madre». Prima di ogni tua scelta, tu sei la mia scelta, io ho scelto te. Prima che tu fossi, Io sono: sono con te, sono per te, sono in te. C’è una passione più grande della nostra, anche della nostra passione per Dio, e cioè la passione del Dio che fa grazia per noi. Più grande della passione dell’uomo per Dio, è la passione di Dio per l’uomo.

Il secondo segno che evidenzia questo trauma di Paolo è la cecità. Si compie la parola di Gesù, che Giovanni riporta al capitolo 9 del suo vangelo: “Io sono venuto in questo mondo per fare un giudizio, affinché quelli che non vedono, vedano, e quelli che vedono diventino ciechi”. Risultato: l’onnipotente Saulo diventa cieco, non è più in grado nemmeno di orientarsi, non vede più la via per Damasco, deve essere condotto per mano come un bambino. Così sconvolgente è l’irruzione di Dio nella nostra vita. Tutto cambia anche se apparentemente tutto continua come prima. In realtà nulla continua come prima. Cambiano i pensieri, cambiano gli amori, cambiano i sentimenti, cambiano i rapporti, cambia il linguaggio, si imparano nuove parole, se ne abbandonano delle altre. Paolo parlerà di “spazzatura” di cui si è dovuto liberare “al fine di guadagnare Cristo”, l’unica sua e nostra ricchezza.

Tre veloci osservazioni ancora sulla conversione. La prima è questa: essa dura tutta la vita. Non si finisce mai di convertirsi. Sul letto di morte il riformatore Giovanni Calvino diceva: “Ora che cominciamo a convertirci …”. La conversione è iniziare un viaggio con Dio, iniziare una sequela di Cristo che ci condurrà forse dove non volevamo e non vorremmo andare. Paolo e tanti altri come lui saranno condotti al martirio e a un destino di sofferenza, come quello di Gesù.

La seconda è che la conversione è contagiosa: in questo racconto alla conversione di Saulo fa seguito quella che possiamo chiamare la conversione di Anania. E anch’egli si converte, nel senso che diventa fratello di colui che fino a quel momento considerava (ed effettivamente era) suo irriducibile nemico. La seconda grande luce del racconto si trova quindi al versetto 17, quando Anania si rivolge a Saulo chiamandolo fratello: “Allora Anania andò, entrò in quella casa, gli impose le mani e disse: «Fratello Saulo, il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada per la quale venivi, mi ha mandato perché tu riacquisti la vista e sia riempito di Spirito Santo». Quale grande conversione c’è dietro questa parola: fratello! Quanto profondamente ci si deve convertire per chiamare “fratello” colui che prima era il grande nemico!

La terza osservazione è questa: dietro tutte le conversioni sulla terra, su tutte le vie di Damasco di questo mondo, c’è la grande conversione in cielo, quella di Dio verso di noi. È perché Dio in Cristo si è convertito a noi, ci cerca e ci chiama, che ogni tanto, su questa dura terra, accade il miracolo assoluto di una conversione dell’uomo.

Dio ci aspetta nella sua misericordia. Dio minaccia, Dio avverte, Dio chiama, Dio prega. Così con Paolo, come abbiamo letto al versetto 4: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Spesso penso che siamo noi a pregare Dio: ma quante volte è Lui che ci prega nella Bibbia! Provate a leggerla per vedere quante volte Dio prega noi: prega più Lui noi, che noi Lui. La realtà più profonda è questa: conversione di fronte a un Dio che è sempre pronto a convertirsi, mentre noi no.

E’ per questo che nei Salmi del dopo esilio, si ha la coscienza che se è vero che l’uomo è capace di conversione, prima di tutto Dio è capace di conversione, Dio si converte dal male che ha minacciato di fare. Ricordate il libretto di Giona: “Dio si convertì dal male che aveva minacciato su Ninive”.

Oppure il Salmo 126, che al versetto 4, recita: “Convertiti Signore e noi ci convertiremo”, cioè “ritorna e noi ritorneremo”. Non è solo che Dio debba convertirci, ma in un certo senso è Lui che deve cambiare, e nella misura in cui desiste dal castigo, desiste dal male, ecco allora che Lui si converte.

In tutto questo i rabbini ebrei hanno detto, con il loro modo arguto, che in Dio che c’è una grande incoerenza: Dio minaccia il male e non lo fa mai. E’ il paradosso misterioso della fede ebraica e ce lo dice il messaggio dei profeti: colui che è onnipotente e onnisciente, poi cambia in una parola quello che ormai ha deciso. Insomma la conversione diventa davvero una forza potente, efficace, sia la conversione di Dio che la conversione del peccatore. Dio abbandona la collera, dimentica la giustizia punitiva, incoraggia il peccatore a pentirsi e a tornare; e analogamente il peccatore interrompe il cammino del male, va verso Dio e ha la forza in qualche modo di chiedere a Dio a fargli misericordia.

Io credo che in fondo Gesù sia venuto ad insegnarci questo, con le sue parole e le sue azioni: Dio si è convertito, ci ha fatto grazia, e in questa conversione ci mostra il suo amore. A noi, che accogliamo questo dono, spetta incamminarci verso di Lui e convertirci alla sua chiamata. Dio lo voglia per tutti noi.  AMEN

Fabio Barzon

News: IN RICORDO DI PAOLO TEOFILO ANGELERI

Martedì 18 settembre abbiamo dato l’ultimo saluto al fratello Paolo Teofilo Angeleri. Nel corso del servizio funebre il nipote Alberto Bragaglia lo ha ricordato con parole che hanno coinvolto tutti e che meritano di essere pubblicate per coloro che non erano presenti al culto.

Ciao Paolo: e ora che si fa? Era diventato difficile comunicare con te da tempo. Ma la memoria, quella continua ad aiutarci nel ricordo di quanto ci ha donato e di quanto abbiamo fatto insieme.

Paolo di Lidia (così lo distinguevamo in famiglia, dall’altro Paolo Angeleri, il cognato) ha avuto non una, ma tante vite: vivaci, ricche, anche complicate. Io ringrazio il Signore per averne potute incrociare più di qualcuna in questi anni.

Un toscano anomalo, nato in provincia di Potenza, cresciuto ad Arezzo, città che lo ha formato e che sentiva come propria, pur con il distacco di chi, in ogni parte del mondo sia stato, ha sempre cercato di coglierne le caratteristiche positive e negative con mente aperta e di stabilire relazioni fruttuose. Brillante e anticonformista, membro di una famiglia molto stimolante, anche dal punto di vista religioso, con la sua appartenenza all’alveo della chiesa dei Fratelli, anche se poi c’era stato un progressivo distacco. E poi gli inizi come insegnante, le esperienze all’estero fino alla definitiva scelta della carriera che lo ha portato letteralmente a girare il mondo e a farlo girare ai suoi famigliari.

Episodi, esperienze di cui lui mi aveva parlato in modo diretto, ma anche indiretto, per aneddoti e indizi, soprattutto quando il riferimento era a situazioni complicate. Perché Paolo amava raccontare, ma amava anche lasciare indizi, tracce da ricostruire o smontare per ricominciare a raccontare, scegliendo un’altra angolazione. Lettore instancabile, era sempre disponibile a capire se ci potesse essere un punto di vista diverso per riprendere a filosofare sulle cose; ovvero a trovare nuovi fili per il discorso, nuove ragioni per guardare avanti, dopo aver raccontato quel che era già alle nostre spalle. Caparbio ed estroso, a volte era faticoso seguirlo nei suoi pensieri. A volte però era lineare in modo disarmante. Spesso sorprendente, mai banale. Aperto al nuovo, tanto da accogliere in modo entusiastico, le prime macchine dedicate alla scrittura digitale, chiamate ironicamente “abulafia”, citando Umberto Eco, conosciuto e frequentato a lungo.

Questo è il Paolo che credo fosse ben conosciuto anche in questa comunità. Arrivato nella seconda metà degli anni Ottanta, quando decise di stabilirsi a Padova con Lidia da fresco pensionato, entrò a far parte anche della locale chiesa metodista. Formazione classica, grande cultura, decise di rimettersi in gioco, iscrivendosi al diploma di teologia. Un passatempo, per lui, che noi abbiamo potuto apprezzare nelle sue prediche e nei suoi studi biblici, trascinanti, originali, coinvolgenti. Per me erano anni particolari: anni in cui cercavo di trovare la mia strada, decidere la direzione da prendere. Paolo era uno stimolo continuo, un appoggio che non voleva essere ingombrante, ma voleva essere soprattutto presente.

Fu anche cassiere in questa chiesa, con pazienza e passione. E poi collaboratore a lungo con il nostro settimanale Riforma, come qualcuno ricorderà, firmandosi Paolo T (che sta per Teofilo) Angeleri. E ad un certo punto decise anche di scrivere la storia di questa comunità: un racconto, e non una pubblicazione accademica. Paolo voleva soprattutto realizzare una narrazione di fatti e di persone controcorrente, capaci di mantenere viva e vitale una piccola testimonianza in circostanze quasi sempre ostili o comunque difficili. Una storia in cui la mia famiglia è stata immersa per varie generazioni.

Eccolo ritornare sotto un’altra angolazione, Paolo: controcorrente, allergico ad ogni dogmatismo, ma fortemente legato ad uno spiccato senso del dovere, che spesso si è accompagnato ad una tendenza eccessiva a colpevolizzarsi, come ben sa Lidia. Nel caso specifico, la storia di questa piccola minoranza era segno e monito, per uno che in gioventù aveva fatto in tempo ad unirsi alla lotta partigiana e che aveva anche avuto una breve esperienza politica. Segno e monito che aiutava a mettere in guardia dal dimenticare la coscienza per abbracciare soluzioni sin troppo facili e rassicuranti. Segno e monito per chi voleva, con umiltà e semplicità, continuare a farsi interrogare dalla Parola del Signore per dare un senso alla propria vita.

Ed ecco la capacità di ragionare, affinata per una vita e la capacità di comunicare come si fa a “ragionare”. Un altro Paolo che molti di noi hanno conosciuto era proprio quello che sapeva insegnare coinvolgendo chi lo ascoltava, con una trascinante passione nello spiegare e nell’argomentare. Ma capace di conquistare il rispetto degli interlocutori anche grazie alla capacità di ascoltare. Caratteristiche apprezzata dagli studenti, ma anche da chi è entrato in contatto con lui nel corso della sua vita professionale: scrittori, studiosi, personaggi di diversa provenienza. Non trasmetteva solo nozioni, Paolo, ma anche metodo, percorsi, tracce, indizi da collegare per poter formare ragionamenti autonomi.

E infine ecco Paolo capace di grandi entusiasmi, a volte eccessivi, che rischiavano di portarlo (e a volte lo portavano sul serio) ad altrettanto grandi delusioni. Che non sempre riusciva a esorcizzare con la consueta ironia i problemi, soprattutto fisici. Ma io voglio ricordare, perché di certo sarà una cosa che porterò sempre con me, la breve e giocosa stagione dei viaggi fatti insieme con il camper. Il camper fu una grande, seppur breve, passione di Paolo e Lidia. E dei viaggi fatti insieme a Paolo e Daniele suo figlio, io conservo un ricordo molto affettuoso. Anche perché Paolo, in quel girovagare riscopriva luoghi e situazioni già conosciuti con rinnovata curiosità e stupore.

Curiosità e voglia di scoprire, sempre in compagnia, prima di tutto di Lidia. Sempre pronto a raccogliere stimoli e indicazioni. Paolo era uomo di relazioni, di rapporti umani, di condivisione. Uomo che accoglieva con grande affetto anche gli ultimi arrivati, in famiglia o in altri contesti. Cultore di una memoria da conservare e da trasmettere, come fece fermando in vivaci racconti su carta storie di famiglia e storie raccolte in conversazioni con persone diverse. Storie di grande umanità. Storie che trovo assai coerenti con quella che credo sia una delle ultime annotazioni di Paolo sulla sua Bibbia. Aveva trascritto il versetto 7 del Salmo 121: “Il SIGNORE ti preserverà da ogni male; egli proteggerà l’anima tua”, che porta al versetto successivo: “Il SIGNORE ti proteggerà, quando esci e quando entri, ora e sempre”. Sì, il Signore ci ha protetto e ci proteggerà sempre, Paolo. A ben pensarci, questo può essere un buon punto da cui ricominciare insieme i nostri studi biblici. Che dici?

News: Paolo T. Angeleri

Sabato 15 settembre ci ha lasciati per tornare fra le braccia del Padre il fratello

PAOLO T. ANGELERI

Alla moglie Lidia e a tutta la famiglia va il solidale abbraccio della comunità con la preghiera al Signore di concedere loro la forza per lenire il dolore del distacco ricordando i momenti belli passati insieme.

Il servizio funebre avrà luogo martedì 18 settembre

alle ore 11 presso la chiesa metodista di Padova – Corso Milano 6.

Sermone; LA VIA PER LA SALVEZZA

Ci sono alcuni versetti nella Bibbia che, non so per quale motivo, mi sono molto cari. Hanno per me un fascino particolare, non solo perché a volte sono poetici, o esprimono la bontà di Dio per l’uomo, per me, o per mille altri motivi. Sono frasi, come quelle che costituiscono la cosiddetta dichiarazione di fede di Simeone che fra poco leggerò, che mi accompagnano, come “lampada ai miei piedi”, mi danno pace, e mi aiutano a crescere nella fede.

Il brano si trova al capitolo 2 dell’evangelo di Luca e viene letto in chiesa, di solito, nel periodo post-natalizio. Io però ve lo propongo oggi, perché l’ho trovato di ispirazione per il tema che vorrei affrontare in questa predicazione: cosa si intende per Salvezza, che cosa è la salvezza in Cristo Gesù.

Leggo dai 25 al 32: Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest’uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d’Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto il Cristo del Signore. Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo: «Ora, o mio Signore, lascia andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».

 

Simeone ha visto la salvezza; può andare in pace, la sua speranza è stata esaudita. Ma cos’è questa salvezza, questa luce che illumina, questa gloria del suo popolo? Il tema della salvezza, così centrale nella tradizione biblica, è stato affrontato in tanti modi nella storia del protestantesimo, da Lutero ai nostri giorni. Per Lutero la salvezza si identifica con l’esperienza del perdono dei peccati e della giustificazione gratuita, immeritata e incondizionata del peccatore. Per i Puritani del Seicento la salvezza si identifica con la presa di coscienza della propria vocazione a plasmare la società secondo la volontà di Dio. Per i Metodisti del Settecento la salvezza si identifica con l’esperienza della conversione e di una consacrazione totale a Dio, con la santificazione della vita e la manifestazione di un uomo nuovo, rigenerato dalla parola di Dio. Ma salvezza è stata intesa anche come vivere con Gesù e come lui, perché Gesù è essenzialmente un Maestro, oppure, per un verso più moderno e storicizzato, la salvezza è stata intesa come la concretizzazione del regno di Dio, il suo progetto di sviluppo e crescita umana che si compie nella storia e di cui si ravvisano i segni nelle scoperte, nel progresso scientifico e nelle scienze.

Dopo le due guerre mondiali e gli orrendi crimini del Novecento, delusi da questa idea ottimistica e ingenua di progresso, l’esperienza della salvezza è tornata ad essere un concetto in cui si sottolinea la trascendenza e l’alterità di Dio, una realtà escatologica, una realtà ultima, che ci è destinata – ma che resta esterna a noi, esclusiva opera di Dio.

Per un protestante, parlare dell’idea di salvezza non può essere altro che fare un discorso biblico sulla salvezza, perché il protestantesimo non ha altro da dire e da offrire che quello che dice e offre la Bibbia.

Nella Bibbia sono molte, e molto diverse, le esperienze presentate e vissute come salvezza.

Per Abramo, e forse anche per noi, salvezza significa partire, abbandonare le proprie certezze, le proprie divinità, uscire dall’idolatria e mettersi in viaggio verso l’ignoto. Salvezza è abbandonare il noto per l’ignoto, ciò che è posseduto per ciò che è promesso, abbandonare l’idolo per cercare Dio. Una salvezza come viaggio, come itinerario, come cammino che terminerà solo in Dio; “Tu ci hai creati per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (dice Agostino).

Ma questo è solo uno dei nomi biblici della salvezza. Un altro è quello, ad esempio, che descrive l’evento fondante della coscienza religiosa di Israele: l’Esodo, la fuoriuscita non dalla propria casa, come per Abramo, ma dalla casa straniera, dall’Egitto, casa di servitù. Ed ecco allora l’altro nome, il grande nome biblico della salvezza: liberazione! Dalla terra straniera alla terra promessa, dalla dipendenza alla indipendenza, dalla alienazione alla autonomia, dalla servitù alla libertà. “Non sei più servo ma figlio, e se sei figlio sei anche erede” (scrive Paolo ai Galati), e se sei erede, sei libero! Ecco che cosa significa salvezza: significa accedere alla libertà, diventare liberi, che nella Bibbia va di pari passo con il diventare figli e figlie di Dio, tanto che – al capitolo 8 della lettera ai Romani – si parla della “gloriosa libertà dei figli di Dio”. Ma anche questo – liberazione, libertà – è solo uno dei nomi biblico della salvezza.

Nei profeti ne troviamo un altro, anch’esso fondamentale e ricorrente nella storia del popolo di Dio non solo nella Bibbia, ma anche dopo fino ai nostri giorni: questo nome è “conversione, volgersi a Dio, tornare a lui”. “Volgetevi a me e sarete salvi, paesi tutti della terra” (dice in Isaia al capitolo 45).  “O Israele, torna all’Eterno, al tuo Dio. Perché tu sei caduto per la tua iniquità. Prendete con voi delle parole e tornate all’Eterno” (dice Osea al capitolo 14). Per Abramo, salvezza significa partire, per i profeti salvezza significa tornare a Dio, guardare di nuovo nella sua direzione, volgersi a lui. Tornare a Dio, perché ce ne allontaniamo continuamente, senza neppure accorgercene, lo dimentichiamo, dimentichiamo i suoi comandamenti e le sue promesse. Tornare a Dio, perché improvvisamente ci accorgiamo di essere soli, di averlo perso di vista, ritrovare lui per ritrovare noi stessi, tornare a lui per ritrovare anche il prossimo che avevamo perso, trascurato, dimenticato. Tornare a Dio: ecco un altro grande nome biblico per indicare la salvezza.

Ed anche nel Nuovo Testamento troviamo la stessa pluralità di nomi per descrivere la salvezza. Lo stesso nome di Gesù, come sapete, significa “Dio salva”, il nome stesso lo identifica come Salvatore. Gesù è il salvatore e il racconto della sua vita è la descrizione di questa salvezza in atto, ma appunto, essa assume molti nomi diversi, proprio come nella storia e nella esperienza del popolo di Israele. Così salvezza significa per uno guarigione del corpo, per un altro guarigione della mente, per un altro è perdono dei peccati e liberazione dell’anima, per un altro è abbandonare ogni cosa e seguire Gesù, per un altro è risurrezione dei morti, per un altro è non essere lontani dal regno di Dio. Una salvezza unica, che però è espressa e vissuta in molti modi diversi. Per il pubblicano salvezza significava essere liberato dai propri peccati, per il fariseo significava essere liberato dalla propria giustizia. Un unico Salvatore, un’unica salvezza, che però assume molti nomi diversi all’interno della stessa rivelazione biblica e ancora di più all’interno dell’esperienza religiosa, tanto variegata, dell’umanità. Ma i nomi della salvezza non contraddicono la sua unicità, né contraddicono l’unicità del Salvatore. La salvezza è un nome che ne contiene molti altri.

Una delle caratteristiche salienti del ministero di Gesù è stata quella di allargare gli spazi della salvezza. Egli ha incluso tra i salvati coloro che le autorità religiose del tempo avevano escluso dalla comunità. Esempio tipico Zaccheo, il pubblicano, nella cui casa Gesù entra e dice: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”. Zaccheo era un escluso, Gesù lo include. Gli spazi della salvezza sono più ampi. Lo stesso accadrà più tardi con Paolo e le autorità di Gerusalemme che dicevano: “Per essere salvati occorre essere circoncisi”. E Paolo replica: “No, si è salvati anche senza circoncisione”. Lo stesso apostolo Pietro pensava che lo Spirito santo non sarebbe stato dato ai pagani, e invece – dopo il famoso incontro con Cornelio al capitolo 10 degli Atti degli Apostoli – ha dovuto lui stesso convertirsi e ammettere che gli spazi della salvezza sono più ampi di quelli che lui pensava. Dio è più ecumenico della Chiesa, il suo cuore è più grande di quello della chiesa.

Ma non sono solo gli spazi più ampi di quello che pensiamo; essi sono anche diversi da quello che pensiamo. La salvezza nella Bibbia è accompagnata da diverse sorprese. Molti primi saranno ultimi, molti ultimi, primi. C’é più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede che per 99 giusti che non hanno bisogno di ravvedimento. Di un pagano, un centurione romano, Gesù dice: “In nessuno in Israele ho trovato tanta fede come in questo pagano. Ora io vi dico che molti verranno da Oriente e da Occidente e si metteranno a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli”. In verità, gli spazi della salvezza sono diversi da quelli che pensiamo.

Quindi la salvezza si può esprimere in tanti modi, è oltre i nostri limitati confini e le nostre logiche. Ma la via è una: per Gesù non ci sono molte vie di salvezza, ce ne è una sola: fare la volontà di Dio. “Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. E questa volontà di Dio è ben manifestata nella predicazione e nelle opere di Gesù, per esempio nel Sermone sul monte, nelle parabole, nei miracoli, nella sua passione, morte e risurrezione. Il criterio fondamentale della salvezza, secondo Gesù, non è l’appartenenza ecclesiastica o religiosa, ma è la volontà di Dio fatta o non fatta.

E’ volontà di Dio che non si uccida, non solo con la spada, ma neppure con la parola: è volontà di Dio che si pratichi la non-violenza, che non si facciano giuramenti, che si amino persino i nemici, che non si accumulino ricchezze e non si serva Mammona anziché Dio; è volontà di Dio che si viva l’oggi con serenità, senza l’incubo per il domani; è volontà di Dio non giudicare il prossimo, non criticare la pagliuzza che c’è nell’occhio del prossimo senza scorgere la trave che c’è nel proprio; è volontà di Dio vivere secondo le Beatitudini, nutrire chi ha fame, visitare i malati e i carcerati, accogliere gli stranieri. Chi fa la volontà di Dio sarà salvato, cristiano o non cristiano che sia. Chi non fa la volontà di Dio, non sarà salvato, cristiano o non cristiano che sia.

Allora è inutile essere cristiani?

SI, se non si fa la volontà di Dio è inutile esserlo. Ma se sei cristiano e la farai, dice Gesù, sarai perfetto come è perfetto il Padre nei cieli. Ma ricordiamoci: la salvezza di Dio è più ampia, più ecumenica, diversa da come la si pensa comunemente, perché si rivolge all’uomo in quanto tale, aldilà di ogni appartenenza.

Infine: “Noi siamo salvati in speranza” dice l’apostolo Paolo, come per dire che la salvezza è data, è perfettamente compiuta per quanto riguarda l’opera di Dio, ma non ancora per quanto riguarda l’opera nostra. Difatti Paolo esorta gli abitanti di Filippi a “adoperarsi al compimento della loro salvezza con timore e tremore”; non abbiamo ancora raggiunto la “meta”, sempre per usare il vocabolario di Paolo, che dice: “Proseguo il percorso, se mai io possa afferrare il premio”. La salvezza è un cammino, un pellegrinaggio, un viaggio; noi siamo un progetto ancora incompiuto, ma siamo un progetto di Dio, per questo sappiamo che sarà portato a compimento.

“Non è ancora reso manifesto quel che saremo”, non lo sappiamo neppure noi. La salvezza è un segreto, un segreto da scoprire: io sono salvato, tu sei salvata, questo è il segreto della nostra vita. Questa certezza non è una bandiera da agitare, o un prodotto da vendere, e neppure una verità da propagandare e quasi imporre all’accettazione di tutti; no, piuttosto è una continua scoperta, un affidamento sereno, una fiducia ed un coraggio inattesi.

Nel libro dell’Apocalisse, al capitolo 2, si legge: “A chi vince io darò della manna nascosta e una piccola pietra bianca, sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve”. La salvezza è un segreto, il segreto della vita di ogni creatura umana. E questo segreto è tutto racchiuso in un nome, scritto su una piccola pietra bianca. E quando verrà l’ora della rivelazione, quando sarà tolto il velo che copre i nostri occhi e vedremo faccia a faccia, quando saranno svelati tutti i misteri e tutti i segreti, allora tutte le creature umane prenderanno in mano la loro piccola pietra bianca, e leggeranno il nome che c’è scritto sopra, e si rallegreranno perché su ogni pietra c’è scritto lo stesso nome. La salvezza è un segreto – il segreto di un nome – da scoprire e custodire per l’eternità. Dio lo voglia per tutti noi. AMEN.

Fabio Barzon

Sermone: PREGARE, NON PREGHIERE!

Il tema della preghiera è vastissimo, come quello della fede e di Dio stesso. Se ne potrebbe e dovrebbe parlare a lungo, perché la preghiera, sia come atto (l’azione di pregare, nelle tante forme possibili) sia come atteggiamento (cioè come modo di essere nel mondo e tra gli uomini), è centrale nella vita di fede, secondo la bella frase citata dal filosofo Kierkegaard: «La preghiera è figlia della fede, ma la figlia deve nutrire la madre».

Il brano che leggiamo ora (Lc 11,5-13) è composto di una duplice parabola, e fa parte di una catechesi sulla preghiera propria dell’evangelista Luca.

“Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Lo dico subito: io ho trovato queste parole di Gesù un po’ irreali, sfuggenti, quasi “buoniste”, come si direbbe oggi. Quale stridore, quale malessere sento, se mi pongo con sincerità di fronte a questo “chiedi e ti sarà dato”, rispetto alla realtà che vivo e che credo molti vivano. Quante persone deluse, che si sentono tradite dalla vita, dalle persone, da Dio stesso, ho davanti agli occhi.

Invece questo brano sembra andare in tutt’altra direzione: Gesù, dopo aver donato la preghiera del Padre nostro, in seguito alla richiesta così semplice e così vera dei discepoli (“Signore, insegnaci a pregare”), con questa parabola – conosciuta come quella “dell’amico importuno” – ci esorta a una preghiera sostenuta da una fede quasi «sfacciata» verso Dio. Nella sua spontaneità, la parabola sembra volerci dire: nessuna delusione dal Dio di Gesù di Nazareth! Dio è fedele alla sua promessa! Ogni preghiera, anche la più sconsideratamente audace, anche la più folle pretesa di ascolto, che venga da chi è ritenuto, e magari si ritiene, il più indegno, se sincera, è accolta.

Pregare, allora. Ma preghiera, non preghiere. Non il ripetere formule, ma lo slancio di una vita che bussa tutta intera. Non «dire le preghiere», ma essere domanda, essere sete, essere richiesta, essere mendicanti davanti alla porta di Dio. Gesù non ci chiede, quando preghiamo, di cambiare le nostre parole, ma di cambiare il nostro cuore, nella coscienza che la nostra preghiera arriva sempre seconda, è sempre risposta, anche quando chiede, perché Lui ci ha amati e chiamati per primo. È quello che leggiamo al cap. 3 del libro dell’Apocalisse: «Ecco, io sto alla porta e busso: se uno sente la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui, e cenerò con lui, e lui con me». È lui che si è fatto povero, e ha bussato alla nostra porta. È lui l’amico importuno che bussa alla nostra porta a mezzanotte. La prima condizione della preghiera è quindi aprirgli la porta, ascoltare la sua Parola. Poi però – ci dice Gesù – bussate anche voi. Anzi, bussate con insistenza; certo, nella propria cameretta, nel segreto, senza usare troppe parole, come dice l’evangelista Matteo, ma bisogna domandare, cercare, senza stancarsi mai (come dice Luca al cap. 18).

Calvino diceva: “La preghiera è il principale esercizio della fede; per mezzo di essa riceviamo quotidianamente i benefici di Dio”. La perseveranza, dunque, è la violenza che dobbiamo fare a noi stessi se vogliamo veramente diventare uomini e donne di preghiera. Chi non è capace di chiedere? Chi non è capace di bussare, di cercare? Tutti, in un modo o nell’altro, siamo mendicanti. «Chiedete, cercate, bussate; riceverete, troverete, vi sarà aperto». Il Signore ci fa passare dai bisogni che abbiamo al bisogno che siamo. Se abbiamo bisogno dei suoi doni, siamo soprattutto bisognosi di lui.

Quante domande, quanti dubbi, di fronte ad un gesto così semplice, a un atteggiamento persino così scontato per un credente, come quello di pregare Dio e tutto ciò che questo possa significare (invocarlo, ringraziarlo, supplicarlo, ascoltarlo o chissà cos’altro).

Ad esempio: cosa rispondere allora alle legittime obiezioni della donna e dell’uomo di oggi che ci chiedono dov’è Dio quando si trovano di fronte alle tragedie immotivate che la vita può porci dinnanzi, o anche solo al banale non-senso della vita, al vuoto afono e crudo di molti vissuti, che nascondono in maniera mal celata una profonda sofferenza, un male di vivere così attuale?

E poi: se chiedo a Dio di intervenire in una situazione difficile (una malattia o altro) o in qualunque altra situazione della vita, non affermo forse, almeno implicitamente, che Dio ha bisogno di essere, diciamo così, sollecitato, attraverso la mia preghiera, a intervenire là dove, forse, di sua iniziativa, non sarebbe intervenuto, o perché indifferente o incapace?

In altre parole: Dio agisce nella nostra vita solo se e in quanto glielo chiediamo, oppure agisce indipendentemente da qualunque preghiera? La nostra preghiera è davvero così potente da destare e mettere in movimento o addirittura modificare la volontà di Dio? E quindi, in fin dei conti, che senso ha pregare? C’è qualche possibilità – almeno una – di ottenere ciò che si chiede, o invece serve solo come esercizio di pietà, come atto di fiducia e abbandono in Dio, ma non può in alcun modo condizionare la volontà di Dio?

Sono domande grandi, alle quali provo a rispondere così.

L’idea che la nostra preghiera possa rivelare una passività o addirittura una «incapacità» di Dio è del tutto estranea all’orizzonte della fede cristiana. La preghiera infatti non nasce principalmente del bisogno umano (che pure c’è), ma dalla promessa divina (che è la vera sorgente della preghiera). Non è la preghiera che mette in movimento la volontà di Dio, ma è la promessa di Dio che mette in movimento la preghiera. È perché Dio ha promesso di essere il nostro Dio – cioè il Dio per noi, oltre che con noi e persino in noi – è per questa promessa che gli rivolgiamo con fiducia le nostre preghiere. È sulla sua Parola, è proprio perché ha detto «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate, e vi sarà aperto», che noi, fidandoci di queste parole, chiediamo, cerchiamo e bussiamo. È la promessa di Dio che ci rende audaci, e ci fa chiedere a Dio quello che Dio promette. La nostra preghiera quindi non rivela affatto un Dio indifferente, ma, al contrario, un Dio promettente, la cui promessa anticipa e autorizza ogni nostra richiesta.

Io credo, lo dico con umiltà, che la preghiera dell’uomo possa, e so di usare un termine non corretto, in qualche modo modificare la volontà divina. Non che la volontà umana possa imporsi a quella divina («sia fatta la tua volontà», diciamo nel «Padre Nostro», non la nostra), ma la volontà di Dio non è rigida e irremovibile, al contrario è duttile, flessibile, ospitale, e volentieri fa posto alla domanda dell’uomo: non perché deve farlo, ma perché può e vuole farlo. Dio non è una statua celeste né una sfinge impassibile. Perciò la preghiera sincera della fede, quella del cuore e non delle labbra soltanto, è capace, come diceva Lutero, di «smuovere la grazia di Dio». Diverse volte, nella Bibbia, si parla di un Dio che «si pente» del castigo che voleva infliggere a Israele e lo perdona: «si ricordò del suo patto con loro e nella sua gran misericordia si pentì» leggiamo al Salmo 106. Anche Gesù ha cambiato idea a motivo della preghiera insistente della donna cananea. Dio ascolta («l’Eterno è stato attento ed ha ascoltato» abbiamo prima letto dal libro di Malachia) e risponde («mediante prodigi tu ci rispondi» dice il Salmo 65).

Certo, ci sono tante preghierE non esaudite. Chi prega, forse da anni, per una certa cosa, e non l’ottiene, sa che cosa significa «preghiera non esaudita». Ci si aggrappa alla promessa, ma l’esaudimento non viene. È un’esperienza amara: si ha l’impressione di pregare invano. È vero però che preghiera non esaudita non vuol dire preghiera non ascoltata. E neppure preghiera senza risposta. Solo che la risposta può essere così diversa da quella che ci aspettavamo, che ci riesce difficile riconoscerla come risposta. È comunque un fatto che c’è anche un silenzio di Dio.

E di fronte al silenzio del Signore, può nascere lo scoramento, la delusione, l’abbandono di ogni forma di fede.

Un’esperienza traumatica, quella del silenzio di Dio, che va presa sul serio, senza cercare di giustificare Dio ma anche senza ricorrere alle facili scorciatoie devozionali che un certo tipo di spiritualità propone riguardo al dolore e alla sofferenza. Gesù Cristo, esortandoci a chiedere a Dio qualsiasi cosa, ha forse esagerato? Avrebbe fatto meglio a promettere di meno? Certo, per un credente, quel silenzio resta un mistero: e a volte è davvero difficile continuare a credere che Dio sia anche un “padre” amorevole e sollecito.

Mi è capitato tra le mani un libretto, un capolavoro pubblicato nel 1946 dal titolo “Yossl Rakover si rivolge a Dio”. Si tratta dell’ultimo messaggio scritto da un ebreo, Yossl Rakover appunto, nel ghetto di Varsavia, mentre il cerchio della morte nazista si stringeva, minuto dopo minuto, intorno a lui. Sentite le sue parole, che il filosofo Levinas aveva definito “un salmo moderno”, nel quale “tutti noi superstiti riconosciamo con sbalordito turbamento la nostra vita”: “Ti voglio chiedere Dio, e questa domanda brucia dentro di me come un fuoco divorante: che cosa ancora sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il tuo volto al mondo? Ti voglio dire in modo chiaro e aperto che ora più che in qualsiasi tratto precedente del nostro infinito cammino di tormenti, noi torturati, disonorati, soffocati, noi sepolti vivi e bruciati vivi, noi oltraggiati, scherniti, derisi, noi massacrati a milioni, abbiamo il diritto di sapere: dove si trovano i confini della Tua pazienza?”.

Sono parole durissime, che dovrebbero farci riflettere anche sulle immani tragedie dei nostri giorni, così vicine a noi. La Parola della promessa, a cui noi credenti ci affidiamo, ci dice che affidarsi a Dio non è mai sbagliato; la vita di Gesù, a cui noi credenti guardiamo, ci dice che affidarsi a Dio non è mai sbagliato. Io credo, per parte mia, che a Dio possiamo chiedere ogni cosa, ma questo non vuol dire che dobbiamo ottenere ogni cosa. Lo ripeto: affidarsi a Dio non è mai sbagliato. Ma proprio l’esperienza stessa di Gesù ci insegna che «una cosa è chiedere, un’altra è pretendere», aspettandosi un esaudimento automatico e quasi magico. Gesù ha chiesto che bere il calice amaro gli fosse risparmiato, ma non lo ha preteso. Ciò che veramente Dio non nega mai a chi glielo domanda con cuore sincero è lo “Spirito Santo”, dice il testo di Luca, ossia la forza di continuare ad amare e accettare di essere amati anche attraverso le prove più dolorose e drammatiche della vita.

Capisco però che ci si può stancare di credere. Ci si può stancare di Dio. Si può abbandonare la partita, si può, come si dice, perdere la fede. È successo anche a Gesù, non di perdere la fede, ma di perdere discepoli: «Molti dei suoi discepoli si ritrassero indietro e non andavano più con lui» (c’è scritto nel vangelo di Giovanni). C’è chi di fronte alle sofferenze del mondo e della vita, nella morsa della contraddizione tra ciò che crede e ciò che vede, non ce la fa più a continuare a credere, «sperando contro ogni speranza» come dice Paolo nella lettera ai Romani. È una cosa tristissima, una sconfitta per l’uomo e per Dio, ma succede. Che dire? Non c’è nulla da dire, c’è solo da portare, con chi non ce la fa più, un po’ del peso delle prove che sembrano aver spento in lui, almeno per ora, la fiamma della fede. Niente di più e niente di meno.

Però, proprio come insegna la vicenda di Cristo, dopo una morte ci può essere una resurrezione. Vale per la vita umana, vale per l’amore, può valere anche per la fede. Come ci può essere un venerdì santo della fede – “speravamo che fosse lui, Gesù, che avrebbe riscattato Israele!” dicono i discepoli di Emmaus “e invece…” – così la fede può risorgere, come è risorta quella dei suoi discepoli davanti alla tomba vuota, davanti al corpo risorto, davanti allo spezzare in pane insieme.

Nell’evangelo, come nella vita, la morte c’è, ma non ha l’ultima parola. Dopo il venerdì santo ci sarà la domenica di risurrezione. Nel frattempo, vorrei dire così, viviamo il sabato; Gesù è morto il venerdì ed è risuscitato all’alba della domenica.  In mezzo c’è il sabato con i nostri dubbi, i nostri tentennamenti, i nostri slanci e le nostre paure.  Il sabato può essere pieno di incredulità, di sano realistico cinismo (“così va il mondo, è sempre stato così”).  L’incredulità ha naturalmente il suo fascino: sembra una vittoria dell’intelligenza critica sulla fede equiparata a superstizione, o anche una legittima protesta contro un Dio deludente. Ma l’incredulità è piuttosto una sottile tentazione in agguato lungo il cammino della nostra vita, soprattutto nei suoi momenti critici. Non è un caso che l’ultima richiesta del Padre Nostro sia: «Liberaci dal Maligno», che significa anzitutto «Liberaci dalla tentazione di non credere più in te»; in altre parole: «Fa’ che non disperiamo mai di te».

Iddio lo voglia per tutti noi.

Amen

Fabio Barzon

Sermone: LUX LUCET IN TENEBRIS

Sermone della pastora Ulrike Jourdan predicato il 24.6.2018 a Torre Pellice in occasione della Conferenza del II Distretto e riproposto oggi durante il culto a Padova.  Lettura: 1 Giovanni 1,5-2,6

Luce e tenebre: sono queste le due parole forti che risuonano nel testo della prima lettera di Giovanni che abbiamo già ascoltato. È speciale per me poter predicare su un tema del genere in questa chiesa particolare e in questa zona d’Italia così ricca di storia per la vita delle nostre chiese. Quando si parla qui di luce e tenebre, chi non corre subito con il pensiero al simbolo del candelabro con le sette stelle dove sta scritto: Lux lucet in tenebris?

Leggo ancora una volta la parte iniziale del nostro testo. Giovanni scrive:

5 Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che vi annunziamo: Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre.  6 Se diciamo che abbiamo comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, noi mentiamo e non mettiamo in pratica la verità7 Ma se camminiamo nella luce, com’egli è nella luce, abbiamo comunione l’uno con l’altro, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.

Da bambina, nei campi per giovani della chiesa metodista in Germania, ho cantato spesso un inno che diceva: “Siamo fieri di essere valdesi e diciamo: Lux lucet in tenebris!”

Vi confesso che non sapevo neanche chi fossero questi valdesi, ma l’inno mi piaceva e l’ho cantato a squarciagola.

Eppure, a parte i ricordi d’infanzia e un po’ di folklore, penso che faccia bene porre e porci sempre di nuovo la domanda: che cosa vuol dire per noi, che cosa vuol dire per me vivere nella luce di Dio? Che cosa simboleggia questo candelabro per la mia vita? In quale ambito della mia vita ha diritto di essere presente questa luce?

Per capire meglio il testo, ci è forse d’aiuto guardare un po’ nella storia di questa breve lettera. La prima lettera di Giovanni viene scritta con molta probabilità per intervenire in una situazione di conflitto; la giovane comunità, alla quale è indirizzata, è stata posta dinnanzi ad insegnamenti che determinano insicurezza nei credenti: idee “strane” su come intendere la fede e interpretare il ruolo di Gesù Cristo per la fede. Nella chiesa vi erano probabilmente persone che pensavano di aver trovato la loro via verso la salvezza – e Gesù Cristo c’entrava poco con questa via.

Mi sembra che, con tutte le opportune differenze, si tratti di un tema molto attuale per la vita delle nostre chiese. Quante volte sento dire: voi valdesi (e anche i metodisti) siete una chiesa buona e onesta, siete brava gente, anch’io vi do l’8 per mille!

Può fare piacere sentirlo. Ci stimola a investire in progetti sociali e culturali che ci danno buona visibilità, che ci mettono in una buona luce; e talvolta, diciamolo, fa star bene guardare a sé stessi in questa luce, sentirsi buoni, bravi e in qualche modo anche importanti.

Dobbiamo però renderci conto che questa luce, nella quale ci crogioliamo e ci sediamo beati, non ha niente a che fare con la luce della quale parla il nostro testo biblico. La prima lettera di Giovanni ci ricorda che il cammino nella luce è collegato alla purificazione da ogni peccato tramite il sangue di Gesù.

Avete provato ultimamente a parlare con qualcuno del peccato? Non intendo con qualcuno delle nostre chiese, forse in uno studio biblico, ma con qualcuno all’esterno delle nostre comunità. Potete immaginarvi che faccia possono fare le persone che ci hanno appena detto che siamo brava gente, una chiesa moderna e affascinante, quando parliamo loro del peccato? – Una specie di shock! Il peccato non è né moderno né affascinante. Per la maggior parte delle persone il peccato è qualcosa di vecchio, di cui sarebbe meglio non parlare. Del peccato parlano solo i fondamentalisti.

Conoscete queste reazioni?

Il nostro testo biblico dice invece che nella luce di Cristo si cammina nella prospettiva di essere purificati dal peccato. In buona sostanza, c’è la convinzione di non potersi avvicinare a Dio tenendosi addosso tutto il peso e l’impurità del peccato. Per questo anche noi confessiamo ogni domenica i nostri peccati nel corso del nostro culto, perché sentiamo il bisogno di liberarci e di prepararci alla presenza di Dio. E come dice il nostro testo: nella luce di Dio si può stare soltanto lasciandosi purificare e liberare dal peccato. Ma il nostro brano prosegue:

8 Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi.  9 Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto / da perdonarci i peccati /e purificarci da ogni iniquità.  10 Se diciamo di non aver peccato, lo facciamo bugiardo, e la sua parola non è in noi.

1 Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; e se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto2 Egli è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. 

Il peccato e il suo superamento, la giustificazione è sempre stato il grande tema delle chiese riformate. È il primo tema che affronta il Catechismo di Heidelberg sotto il titolo “la miseria dell’uomo”. E con ogni nuovo catecumeno è la prima pietra d’inciampo. Per presentare ciò che nella parte finale di questo bellissimo testo della Riforma viene riassunto sotto il titolo di “la gratitudine dell’uomo” non serve la metà, ma neanche un terzo del tempo che si impiega all’inizio, dove si parla del peccato e della miseria che si devono riconoscere per poter vivere e morire felicemente. È un tema che si scontra con il pensiero e il sentire di oggi, che grosso modo afferma: l’importante nella vita è comportarsi bene!

Pensateci bene, forse è questa la grande filosofia di oggi: non importa a chi rivolgi la tua preghiera, l’importante è come ti comporti. Un po’ di pace e amore fa sempre bene e per il resto cerca di non comportarti male. Questo è il credo che si sente oggi e diciamocelo: influenza anche noi. Questo è il credo di gran parte del mondo che ci circonda. Non fare niente di male, così andrà tutto bene.

Solo per intenderci: io non ho niente contro la pace e l’amore, e sono ben contenta se la gente si comporta bene, però dobbiamo renderci conto che questo comportamento semi-religioso non ha a che fare con la luce di Cristo di cui ci parla la Scrittura. Nella prima lettera di Giovanni leggiamo che siamo bugiardi e inganniamo noi stessi se diciamo di non essere peccatori. E questo nostro essere peccatori emerge alla luce di Cristo.

Vi ho già detto prima della reazione di vari catecumeni quando affrontiamo questo tema. Penso a persone adulte, che si avvicinano alle nostre chiese proprio perché vedono in noi gente onesta e brava e considerano la nostra chiesa più democratica e moderna rispetto ad altre. Queste stesse persone rimangono spesso scioccate nel sentirsi dire: sei un peccatore! Ci vogliono settimane, talvolta dei mesi, per poter dire che la cosa fondamentale non è la buona luce nella quale noi, come esseri umani, siamo capacissimi di metterci, ma, al contrario, la luce di Dio che mostra tutto ciò che non va, mostra la nostra distanza e diversità da Dio. Come già ho detto: non è un concetto facile da cogliere o da accettare per le persone di oggi, eppure, devo dire, pur nella mia breve esperienza, con tutti i catecumeni si arriva anche al punto in cui si sperimenta la liberazione e si cambia prospettiva.

Non devo essere IO buono, non devo essere IO a realizzare tutto, non devo procurarmi IO la salvezza attraverso un atteggiamento pacifico e amorevole. Se accettiamo di metterci sotto la luce di Cristo, allora emergono tutti quei lati che avremmo voluto lasciare nell’oscurità, emerge quanto siamo centrati su noi stessi, quanto tutto ruoti intorno a quell’IO.

Ma Giovanni scrive: noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto.

La luce di Cristo è dolce, è una luce che ti mette in buona luce. Non siamo noi a dovercela procurare, non dobbiamo fare veder noi quanto siamo bravi e buoni, è la luce buona e benevola di Cristo che splende sulle nostre vite e sul nostro cammino.

Giovanni prosegue il suo discorso scrivendo:

3 Da questo sappiamo che l’abbiamo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti4 Chi dice: «Io l’ho conosciuto», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; 5 ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo. Da questo conosciamo che siamo in lui: 6 chi dice di rimanere in lui, deve camminare com’egli camminò.

Osservare i comandamenti, camminare sulla via di Cristo. Qualcuno potrebbe dire: adesso siamo arrivati dov’eravamo prima. Ci vuole comunque una vita che prenda forma dai comandamenti, serve comunque agire bene, essere onesti, pacifici, amorevoli ecc. ecc.

No, è tutto diverso. Perché chi cammina veramente con Cristo sotto la sua luce non lo fa per….. Chi osserva veramente i comandamenti, chi ama veramente e chi è veramente portatore di pace non lo è per….. La logica del nostro mondo ci dice: tu fai e poi guadagni. Invece Cristo ci dice: lasciati prima servire e poi sei libero di rispondere.

Chi cammina insieme a Cristo, sotto la sua luce, non deve fare per qualcosa, ma può fare perché è libero da quelle logiche che vorrebbero determinarci. Chi cammina nella luce di Cristo non deve più guadagnarsi la salvezza.  È già salvo e può condividere ciò che ha ricevuto con il mondo. Chi cammina nella luce di Cristo ha sperimentato la pace e il grandissimo amore di Cristo e così non può fare diversamente se non essere a sua volta portatore di pace e di amore per questo mondo.

È questa luce forte e dolce, chiara e calda che sento quando guardo il simbolo del candelabro con la scritta ‘lux lucet in tenebris’. Nelle tenebre di questo mondo, nelle tenebre della mia vita splende una luce.

Spesso non sappiamo in quale direzione ci poterà il nostro cammino come singoli e come chiesa, però sotto questa luce non ho paura di affrontare la strada. Questa luce mi aiuta a vedere chiaramente i miei limiti, ma toglie contemporaneamente lo sguardo da essi e porta verso il futuro, un futuro sotto la luce di Dio.

Amen

past. Ulrike Jourdan

 

Sermone: BONTA’ E GIUSTIZIA

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa, il quale, sul far del giorno, uscì a prendere a giornata degli uomini per lavorare la sua vigna. Si accordò con i lavoratori per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscì di nuovo verso l’ora terza, ne vide altri che se ne stavano sulla piazza disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna e vi darò quello che sarà giusto”. Ed essi andarono. Poi, uscito ancora verso la sesta e la nona ora, fece lo stesso. Uscito verso l’undicesima, ne trovò degli altri in piazza e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno inoperosi?” Essi gli dissero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Fattosi sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dà loro la paga, cominciando dagli ultimi fino ai primi”. Allora vennero quelli dell’undicesima ora e ricevettero un denaro ciascuno. Venuti i primi, pensavano di ricevere di più; ma ebbero anch’essi un denaro per ciascuno. Perciò, nel riceverlo, mormoravano contro il padrone di casa dicendo: “Questi ultimi hanno fatto un’ora sola e tu li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e sofferto il caldo”. Ma egli, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, non ti faccio alcun torto; non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest’ultimo quanto a te. Non mi è lecito fare del mio ciò che voglio? O vedi tu di mal occhio che io sia buono?” Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi». (Matteo 20,1-16)

Le parabole sono facili da capire, ma anche da fraintendere. Da un lato, quando le ascoltiamo, ci sembra tutto evidente, il messaggio è chiaro, dall’altro però ci accorgiamo che è facile capire un’altra cosa rispetto a quello che la parabola in realtà ci vuole dire. E io, iniziando questa predicazione, voglio indicare tre fraintendimenti possibili di questa parabola, prima di venire poi a una spiegazione di quello che mi sembra essere il messaggio che questa parabola ci vuole dare.

Il primo fraintendimento è molto evidente. E’ quello di pensare che questa parabola ci voglia offrire un modello di organizzazione del lavoro, da applicare alla società. Nessun sindacato accetterebbe che chi ha lavorato dieci ore sia pagato come chi ne ha lavorata una, e nessun imprenditore accetterebbe di pagare chi ha lavorato un’ora sola come se avesse lavorato dieci ore. Dunque, è chiaro che questa parabola non è un disegno di organizzazione sociale … è una parabola su Regno di Dio, non una parabola sulla nostra società; ed è perfettamente giusto che nella nostra società chi lavora molto e bene sia pagato di più di chi lavora poco e forse anche male. Sarebbe un totale fraintendimento della parabola capirla come se fosse esempio di un modello sociale.

Un secondo fraintendimento possibile è quello che è accaduto tante volte nella storia della Chiesa, e cioè è che il centro della parabola siano le 5 chiamate con cui Dio, padrone della vigna, chiama dei lavoratori nel corso della giornata (alle sei del mattino, alle nove, a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio, e alle cinque l’ultima chiamata). Allora molti commentatori, soprattutto antichi, i Padri della Chiesa soprattutto, hanno inteso come se il centro delle parabole fossero queste diverse chiamate di Dio, da intendersi come ad esempio le 5 grandi tappe della storia della salvezza, oppure come le 5 occasioni della vita, i 5 momenti chiave della vita di ogni persona durante i quali Dio cerca di chiamarti a sé e di farci diventare credenti.

Il centro della parabola non sta nelle chiamate del padrone della vigna sta, come tutti abbiamo capito, nel pagamento, nel come questo padrone remunera i lavoratori delle diverse ore. Quello però che ci può stupire ancora di più è il fraintendimento che compie l’evangelista Matteo perché, lo dico con tutta l’umiltà del caso, anche l’evangelista Matteo ha frainteso questa parabola, perché, come avete sentito, lui dice “Così i primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi”, cioè interpreta la parabola come se fosse un ribaltamento delle posizioni davanti a Dio di tutte le gerarchie umane, in poche parole, così che “gli ultimi saranno primi e i primi ultimi”. Matteo probabilmente è stato indotto a questo fraintendimento perché al v. 8 c’è proprio questo espressione, in cui il padrone dice al fattore di pagare i lavoratori cominciando dagli ultimi fino ai primi, cioè dal lavoratore dell’undicesima ora fino a quelli dell’alba. E allora lui ha creduto che quello fosse il senso della parabola. Ma non è così. Perché non è così? Perché si, è vero che gli ultimi diventano primi, ma non è vero che i primi diventano ultimi. I primi restano primi. “Avevamo pattuito un denaro? Eccolo qua; Non è che ti castigo come se tu avessi lavorato un’ora sola, ti pago per le tue dieci ore”.

E questo, guardate, è tanto più significativo in quanto il ribaltamento, l’idea che  “i primi diventano ultimi e gli ultimi diventano primi” è anche quello evangelo, intendiamoci bene, ma non qui, non in questa parabola. Si, in altre parole, ad esempio quando Gesù dice: “Ti ringrazio Signore perché hai nascosto queste cose ai saggi e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli e ai fanciulli” fa un ribaltamento, i saggi non capiscono e i bambini capiscono, i primi diventano ultimi e gli ultimi diventano primi; quando Gesù dice ai farisei: “I pubblicani e le meretrici vanno davanti a voi nel Regno dei cieli” fa il ribaltamento, questi che sono ultimi, che voi considerate fuori dalla comunità sono i primi ad entrare nel Regno dei cieli; quindi c’è il ribaltamento. Ma non in questo, dove invece ci sono gli ultimi che diventano primi e i primi che restano primi, non diventano ultimi. E questa è una cosa formidabile, perché che cosa vuol dire? Che tutti sono primi. C’è anche l’evangelo del ribaltamento, ma c’è anche un altro evangelo, quello in cui i primi restano anche loro primi, e non diventano ultimi. E allora, se tu credi di essere primo davanti a Dio non temere di diventare ultimo, resti primo. E se tu credi di essere ultimo, rallegrati, perché Dio può fare di te un primo. Questo è il cuore di questa parabola.

E forse si può anche aggiungere: com’è che nessuno diventa ultimo? Nessuno diventa ultimo perché Dio si è fatto ultimo, affinché tutti diventassero primi. Sarà questa la chiave del discorso di questa parabola?

E perché Dio si fa ultimo affinché nessuno resti ultimo? Perché è buono, lo ripeto, perché è buono. Se non fosse buono direbbe: Ma chi me lo fa fare? Sono primo e resto primo, non c’è nessun bisogno che diventi ultimo. Non c’è nessun bisogno che io venga dove sei tu, per tirarti fuori … se Dio non fosse buono. E invece Dio è buono; questo è il messaggio della parabola. Ed è anche giusto, perché a quelli a cui ha detto: “Vi do uno”, dà uno. Quindi la caratteristica di questo Dio che questa parabola presenta è quella di essere giusto e buono. È giusto, però in modo che la sua giustizia non cancelli la sua bontà, ed è buono, ma in modo che la sua bontà non cancelli la sua giustizia.

Certo, i lavoratori della prima ora protestano, non potrebbero fare altro, però Dio gli dice: Ti ho dato quello che avevamo pattuito, e allora vai pure, ma se io voglio essere buono con gli altri, chi me lo impedisce? O forse ti dà fastidio la bontà di Dio? A Giona, abbiamo letto, dava fastidio, dava molto fastidio che Dio perdonasse gli abitanti di Ninive, questa città pagana, dissoluta, simbolo della degenerazione; che questa città si penta, e soprattutto che Dio si penta del male che voleva fare a questa città, No, questo non l’accetto, non accetto che Dio sia buono. Ai farisei dava molto fastidio che Gesù accogliesse i peccatori: i peccatori vanno puniti, non vanno amati.

Che Dio sia buono dà fastidio, dà molto fastidio. Anche ai discepoli dava fastidio questo amore di Gesù: ricordate la situazione in cui c’è un tipo che cacciava i demoni nel nome di Gesù, ma non era un discepolo, e allora i discepoli veri e propri protestano, e sperano che Gesù glielo vieti, come loro glielo hanno vietato. E invece Gesù dice: NO, non glielo vietate, perché chi non è contro di noi è per noi”.

Ma c’è di più, per raccontare quanto l’amore di Dio sia fastidioso per tante persone. L’apostolo Pietro, il grande apostolo Pietro, ha fatto una fatica immensa per accettare che Dio desse lo Spirito Santo ai pagani, e non soltanto agli ebrei diventati cristiani. Ma come? Ci metti sullo stesso piano? Noi che abbiamo Mosè, la Legge, il Tempio e i pagani che non capiscono nulla, che hanno soltanto degli idoli? Dio ha fatto una gran fatica per convincerlo; ci sono ben 3 capitoli nel Libro degli Atti degli Apostoli che narrano questa cosiddetta conversione di Pietro, fino a quando anche lui deve arrendersi alla bontà di Dio!

E a noi: ci dà fastidio la bontà di Dio verso le persone che non sopportiamo, veso il mondo?

Che cosa mette in movimento la bontà di Dio? Perché al lavoratore dell’undicesima ora Dio dà la stessa paga del lavoratore che ha lavorato tutto il giorno? Perché Dio guarda alla fame di quell’uomo. Non al merito, perché quell’uomo non avrebbe merito, ma la fame quella c’è.

Cos’è la bontà di Dio? Che lui non guarda al nostro merito ma al nostro bisogno! E il bisogno è grande, che tu abbia lavorato o che tu non abbia lavorato, che tu abbia meritato o che tu abbia demeritato, il bisogno è grande. Il bisogno è uguale, ecco perché è uguale anche la paga, perché risponde al bisogno, non risponde al merito.

Che bell’annuncio che è questo, che bel evangelo: che Dio guarda al nostro bisogno, non al nostro merito. Che liberazione. Dio è buono ma è anche giusto, però preferisce essere buono! Ricordiamo il terzo comandamento: Dio punisce l’iniquità di quelli che lo odiano fino alla terza e alla quarta generazione, e benedice quelli che egli ama fino alla millesima generazione. Cioè: giustizia SI, però più bontà. Ha una preferenza per la bontà, perché la bontà corrisponde alla sua natura. Dio è buono nel suo essere; non dimentica la giustizia ma è innanzitutto buono.

Questo annuncio è stupendo; basterebbe quasi solo questa parabola per la nostra conversione e la nostra vita. Ma cosa significa questo annuncio per noi personalmente e per il nostro mondo? Per noi singole persone ho pensato a quanto abbiamo letto dalla seconda lettera ai Corinti: “Dobbiamo comparire tutti davanti al tribunale di Cristo affinché si riceva la retribuzione di ciò che ha fatto in bene e in male”. Cioè la giornata del lavoratore l’ho associata alla nostra vita, e il padrone che paga la retribuzione l’ho associato a questo tribunale di Cristo, e ho pensato: se mi va bene, potrò far valere davanti a Dio un’ora di lavoro, se ho lavorato almeno un’ora per il suo Regno, ma quante ore ho sciupato nella mia vita, quante ore. E allora invocherò la bontà di Dio, con la mia piccola e misera ora, Dio sarà buono anche con me.

E pensando al mondo, al nostro mondo nel quale c’è tanta malvagità. Cosa ha a che fare il nostro mondo, così lontano da Dio, che nega Dio, con questo Dio che è buono? Io penso che Dio voglia dirci di avere fiducia, che alla fine prevarrà la sua bontà, che Dio vincerà perché è buono. La sua bontà dura in eterno e avrà la meglio sulla malvagità dell’uomo, come già è avvenuto nella persona e nella vita di Gesù di Nazareth, nella quale vediamo “come in uno specchio” non solo che Dio è buono ma che può esserlo anche l’uomo. Anche l’uomo può essere buono. Credendo in Gesù, vivendo in stretto rapporto personale, intimo, con lui, anche l’uomo può diventare un uomo buono, come forse ancora non lo siamo stati. Iddio lo voglia per tutti noi.

Amen

Fabio Barzon

Sermone: SOLA SCRIPTURA – LA BIBBIA UNICA AUTORITA’

A volte capitano cose assai strane, eventi che ci costringono a riflettere su argomenti che magari abbiamo lasciato correre, per distrazione, per timore o per semplice disinteresse. Capita che magari questi eventi nascano da pensieri e sollecitazioni totalmente differenti, che sembrerebbero non avere una sorta di fil rouge che li accomuna e ci ritroviamo invece obbligati a riconoscerne le connessioni.

Provo a spiegarmi, condividendo con voi una mia recentissima esperienza. Il mio più caro Amico, grande intenditore di musica classica e devoto seguace di Bach, da tempo mi sta conducendo per mano alla scoperta di questo sommo compositore, incitandomi non solo ad ascoltare le sue opere (come già facevo), ma a porre attenzione ai testi, ai toni, ai ritmi, relazionando il tutto con la biografia, le esperienze e la vita di colui che qualcuno ha definito “il quinto evangelista”.

Orbene, qualche giorno fa, per rimanere virtualmente in compagnia del mio aio musicale, mi stavo cimentando con l’ascolto attento di alcuni pezzi della passione secondo Matteo, una splendida composizione che Bach (studioso anche di teologia) scrisse, trasponendo in musica i relativi capitoli dell’evangelista nella traduzione che fece Martin Lutero.  Potrebbe quasi essere una lectio divina!

Seguendo il testo che viene cantato mi imbatto in alcuni versi, che sembrano infastidirmi, dal titolo “O mondo, osserva qui la tua vita”, che recitano: “Sono io, io che dovrei scontare la pena, con le mani ed i piedi legati, nell’inferno. I flagelli e le catene, e tutto quello che tu hai sofferto, lo avrebbe meritato l’anima mia”.

Perché questo testo mi colpisce, dandomi una sorta di fastidio?  Ma perché parla di inferno, di una dannazione dove scontare la pena con flagelli e catene.

Abituata a riempirmi il cuore con la promessa del perdono, con la certezza della grazia in dono da Dio, interpreto queste parole come un eccesso di austerità, dovuta soprattutto ai tempi, e preferisco passare oltre, riconoscendo però la persistenza di un tarlo che mi suggerisce che non tutti saremo eredi del regno dei cieli. Drammatico.

Passa qualche giorno e mi trovo a dover preparare questo culto e, fra le letture suggerite dal lezionario “Un giorno una parola” trovo il passo di Luca 16,19-31 che vado a leggervi nella recente traduzione della BIR:

C’era un uomo ricco, che si vestiva di porpora e di bisso e ogni giorno festeggiava splendidamente.  Ma c’era anche un povero, di nome Lazzaro, gettato alla sua porta, coperto di piaghe.  Questi desiderava sfamarsi con quel che cadeva dalla tavola del ricco; ma i cani venivano a leccare le sue ulcere.

Il povero morì e fu portato dagli angeli nel grembo di Abramo.  Morì anche il ricco e fu sepolto. E nell’Ade, alzati i suoi occhi mentre stava nei tormenti, da lontano vide Abramo e Lazzaro nel suo grembo.  Avendolo chiamato: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a immergere la punta del suo dito nell’acqua e a rinfrescare la mia lingua, perché sono tormentato in questa fiamma”.  Ma Abramo disse: “Figlio, ricorda che nella tua vita hai ricevuto tutte le cose buone che ti spettavano, mentre Lazzaro allo stesso modo quelle cattive. Ora, però, qui lui è confortato, mentre tu sei nei tormenti.  Oltre a questo, tra noi e voi è stato posto un gran precipizio, perché quelli che vogliono attraversare da qui a voi non possano, né attraversino da lì verso di noi”.  Disse allora (il ricco): “Ti prego, padre, di mandarlo alla casa di mio padre – ho, infatti, cinque fratelli – perché renda loro testimonianza e non vengano anche loro in questo luogo di tormento”.  Abramo gli disse: “Hanno Mosè e i profeti; diano ascolto a loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo; ma se uno dai morti va a loro, si convertiranno”.  Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi nemmeno se uno dei morti risorgesse.”

Direi che questa parabola ha connotazioni abbastanza cruente, disperanti addirittura. Ci viene presentato l’Ade, un luogo che forse potremmo chiamare anche “inferno”, un luogo di sofferenze e tribolazioni, un luogo che Gesù, nel passo di Matteo 8 che abbiamo letto prima, definisce un luogo senza luce, dove c’è il pianto e lo stridor dei denti. Un luogo ben lontano dal regno dei cieli, da questo separato addirittura da una voragine invalicabile!

Non sono solo questi i passi del Nuovo Testamento in cui Gesù fa riferimento a ciò che potremmo trovare dopo la morte; ricordiamo ad esempio cosa dice in Matteo 19 e Luca 18, facendo l’esempio del cammello che passi per la cruna di un ago.

Sì, Gesù ci presenta chiaramente il destino futuro dell’uomo: chi ama Dio, chi fa la volontà di Dio e in Lui confida, rimarrà in comunione con Lui per l’eternità; chi invece respinge i Suoi insegnamenti continuerà ad essere separato da Dio, nella sofferenza dell’eterno distacco dal Signore.

E questa situazione di dolore non è sanabile; non c’è una sorta di “purgatorio” dove espiare la colpa per un periodo di tempo, in attesa di accedere al regno di Dio, perché la nostra scelta la dobbiamo fare ora, in questa vita. È in questa esistenza che dobbiamo scegliere se vogliamo seguire le indicazioni di Dio oppure se le rifiutiamo, se accogliamo nel nostro cuore gli insegnamenti di amore, fraternità e solidarietà, oppure se vogliamo vivere come se Dio non esistesse, se vogliamo aderire al messaggio di fede che ci è stato proposto oppure no.

In questa scelta siamo totalmente liberi, per cui, se ci condurremo in completo distacco dal nostro Signore, sappiamo che dopo la morte corporale, permarrà un eterno angoscioso distacco da Dio, perché questo è ciò che abbiamo voluto noi.

Ma dove troviamo gli insegnamenti per condurci nella vita? Chi può aiutarci per renderci consapevoli del volere di Dio? Dove troviamo le indicazioni per tentare di improntare la nostra esistenza come figli di Dio?

Per noi, popolo del Libro, non c’è che una risposta: la Bibbia. Un libro dove il Signore, attraverso suoi molteplici testimoni, ha nei secoli comunicato all’uomo come vivere. Lo ha comunicato nell’Antico Testamento, coi profeti, ma questo evidentemente non è bastato a convertire il cuore di pietra dell’uomo, per cui l’Eterno è intervenuto una volta di più con il dono più grande, attraverso Suo figlio, il nostro signore Gesù Cristo, che ci ha lasciato innumerevoli insegnamenti affinché non ci perdiamo.

La Bibbia, unica vera fonte per noi protestanti. La Bibbia che siamo tenuti a leggere, a studiare, a frequentare, perché, ripeto, è l’UNICA parola di verità (non certo la tradizione e tantomeno l’interpretazione da parte di una gerarchia ecclesiastica).

Uno dei nostri famosi “cinque sola” che abbiamo scritto anche sulle nostre vetrate non a caso è “SOLA SCRIPTURA”. La Bibbia basta, non abbiamo bisogno di null’altro, non abbiamo bisogno di miracoli, di segni portentosi per riconoscere la grandezza del Signore.

E se questo non ci bastasse, ricordiamoci la risposta che viene riportata nella parabola oggetto di questo sermone quando il ricco, preoccupato per la sorte del padre e dei cinque fratelli, chiede che venga mandato Lazzaro ad avvisarli, a sollecitarli; chiede che un uomo dal regno dei morti vada a dire loro che si convertano, evitando la perdizione. Abramo risponde: “Se non ascoltano Mosè e i profeti” (cioè la Scrittura, la legge, al tempo) “non saranno persuasi nemmeno se uno dei morti risorgesse”.

Noi siamo ulteriormente privilegiati, perché non abbiamo ricevuto solo gli insegnamenti della legge e dei profeti, ma abbiamo avuto anche la presenza di Gesù nel mondo, quel Gesù figlio di Dio che ben conosce le nostre infedeltà e le nostre debolezze e ci viene in soccorso con il perdono gratuito, se riconosciamo il nostro peccato e ci pentiamo.

Fratelli e sorelle, pensiamoci! Non facciamo come coloro che fugano dalla propria mente l’idea di un aldilà di continua sofferenza, perché abbiamo la possibilità di essere rassicurati e perdonati se ci convertiamo alla Parola di Dio, traendo forza dal costante confronto con la Bibbia.

Concludo con una battuta spiritosa che spero non faccia parte del pensiero e dei comportamenti di qualcuno di noi. C’è una vignetta di Schulz che ben rappresenta ciò che NON dobbiamo fare: Linus, un personaggio riflessivo, dice mentre ha la Bibbia in mano: “Hanno detto che questo libro avrebbe cambiato la mia vita. È da mesi sul comodino ed è ancora tutto uguale”.

Leggiamolo questo libro! Non dobbiamo temere che sia troppo astruso e non possiamo delegare solo ad altri la testimonianza su ciò che c’è scritto. Preghiamo, certo, il nostro Signore, ma rimaniamo diligenti e solleciti nel confrontare la nostra vita con la Scrittura. Così forse non dovremo dire anche noi le parole presenti nel coro di Bach: “Sono io, io che dovrei scontare la pena, con le mani ed i piedi legati, nell’inferno” perché sapremo quali sono le nostre infedeltà per le quali chiederemo perdono al Signore. E se chiederemo perdono con cuore puro, sappiamo che la grazia non ci sarà negata, perché, come diciamo spesso nell’annuncio del perdono, “nessuno deve dubitare del perdono ricevuto”.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: LO SPIRITO CREA DIVERSITA’

“Circa i doni spirituali, fratelli, non voglio che siate nell’ignoranza. Voi sapete che quando eravate pagani eravate trascinati dietro agli idoli muti secondo come vi si conduceva. Perciò vi faccio sapere che nessuno, parlando per lo Spirito di Dio, dice: «Gesù è anatema!» e nessuno può dire: «Gesù è il Signore!» se non per lo Spirito Santo. Ora vi è diversità di doni, ma vi è un medesimo Spirito. Vi è diversità di ministeri, ma non v’è che un medesimo Signore. Vi è varietà di operazioni, ma non vi è che un medesimo Dio, il quale opera tutte le cose in tutti. Ora a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune. Infatti, a uno è data, mediante lo Spirito, parola di sapienza; a un altro parola di conoscenza, secondo il medesimo Spirito; a un altro, fede, mediante il medesimo Spirito; a un altro, doni di guarigione, per mezzo del medesimo Spirito; a un altro, potenza di operare miracoli; a un altro, profezia; a un altro, il discernimento degli spiriti; a un altro, diversità di lingue e a un altro, l’interpretazione delle lingue; ma tutte queste cose le opera quell’unico e medesimo Spirito, distribuendo i doni a ciascuno in particolare come vuole.” (1 Corinzi 12,1-11)

Dal passo che abbiamo letto emerge che lo Spirito Santo è l’unica fonte di diversi doni, mediante i quali i credenti danno la loro testimonianza per il “bene comune”.  Senza lo Spirito nessuno può dire “Gesù è il Signore” e quindi nessuno può arrivare alla fede, a comprendere il lieto annuncio dell’amore di Dio che distribuisce gratuitamente i doni come vuole.

A pensarci bene, dobbiamo riconoscere che già qui c’è qualcosa che cozza contro la nostra indole umana. La gratuità insita nel dono ci può mettere in difficoltà, abituati come siamo a ragionare in termini di ricompensa o di scambio di favori e di doni.

Certo, siamo abituati a dire e sentirci dire che la grazia sovrabbondante di Dio ci viene donata per suo puro amore, ma credo che talvolta possa risultarci difficile capire la portata di questo concetto, abituati come siamo a ragionare in termini di “Do ut des”.  Ed è così difficile che in altre confessioni, così come nel dire comune, troviamo il termine di “azioni meritorie”, quasi che non si riuscisse a concepire una grazia così sovrabbondante dispensata gratuitamente.

E, ripeto, anche se da credenti protestanti siamo convinti che le azioni, per buone che siano, non sono certo meritorie, cioè non concorrono alla salvezza che ci deriva solo da Dio, dobbiamo riconoscere che tutta questa gratuità è difficile da capire, anche perché non c’è nulla da capire, ma dobbiamo solo accettarla per fede nel Signore e nel suo grande amore.

Un amore così grande che non si può esprimere, perché completamente anacronistico, secondo le categorie mentali umane.  Ecco allora che, se riusciamo a riconoscere i doni che abbiamo ricevuto (e questo possiamo farlo) e se non imputiamo questi doni alla “sorte”, possiamo accettare che essi sono la manifestazione dello Spirito, che si sparge sui credenti come vuole, in modi assai diversi, ma sempre in modo totalmente gratuito, sconvolgendo le nostre categorie mentali, le nostre idee, le nostre abitudini, perché è qualcosa che va oltre noi, oltre il nostro pensiero, oltre i nostri limiti.

Evidentemente questo non è un problema solo nostro, di uomini e donne dei tempi moderni, perché Paolo scrive alla chiesa di Corinto e cerca di spiegare che la diversità di doni ha però origine da un unico Spirito e se così scrive, significa che le medesime difficoltà di pensiero e accettazione che possiamo avere noi oggi, le avevano anche i Corinzi.

Orbene, questa difficoltà di comprensione può trarre origine dal fatto che i differenti doni in realtà creano diversità fra gli uomini: qualcuno ha la conoscenza, qualcun altro la sapienza, altri ancora la profezia, per non parlare della diversità di lingue e della capacità di saperle interpretare. In questo senso credo che la diversità di lingue stia a significare la diversità di cultura dell’etnia cui si appartiene, di abitudini sociali, di convenzioni e credenze proprie del popolo di cui si è parte.

Certo sarebbe tutto più semplice se uno stesso Spirito creasse omogeneità.

Invece NO! Accade esattamente il contrario, perché la diversità non è una minaccia, bensì una opportunità che ci viene proposta per costringerci ad andare oltre il nostro limitato orizzonte, allargando la nostra visione della vita, imparando ad accettare il diverso da noi.

Non è facile. No, proprio non è facile.

Come chiesa sappiamo che non è facile accettare chi ha teologie ed ecclesiologie differenti dalle nostre. E come individui constatiamo spesso quanto sia difficile esercitare la pazienza e l’accettazione con coloro che hanno un diverso approccio alla vita rispetto a noi, ai nostri convincimenti, alle nostre aspettative.

Risulta, ad esempio, difficile condividere ciò che siamo con coloro che mettono in atto comportamenti che ci turbano o che ci fanno soffrire; e non mi riferisco a persone cattive e malvage (che pure esistono), ma a coloro che sono vicini a noi, oppure che incrociano la loro vita con la nostra, ma hanno il loro carattere oppure vengono da esperienze differenti, talvolta totalmente opposte alla nostra.

Ad esempio, a me risulta molto difficile esercitare la pazienza e la comprensione con mio figlio o con il mio Amico del cuore, perché sono due persone reattive e impazienti e devo fare un grande sforzo per non litigare. In quei momenti mi risulta difficile comprendere che un carattere differente dal mio è una ricchezza anche per me, un dono che mi viene messo a disposizione.

Oppure posso capire come alcune persone possano sentirci a disagio se il figlio dichiara di essere gay, oppure ancora se incappiamo in una persona che ci si attacca come una cozza, perorando le sue necessità con insistenza. Possiamo essere così delusi o indispettiti da non vedere i doni che costoro hanno.

Ma ci potrebbero essere molti altri esempi che ci inducono a riflettere su quanto sia complicato riconoscere negli altri lo Spirito, accettare le loro diversità rispetto a noi, riconoscere che la diversità non è un limite, bensì una ricchezza.

Paolo infatti dice: «Vi sono doni diversi… vi sono diversi modi di servire… vi sono diversi tipi di attività… ma uno solo è lo Spirito, uno è il Signore. Lo Spirito si manifesta in modo diverso».

Ma qual è il fine della diversità, se riteniamo che essa sia un dono del Signore?

Paolo è chiarissimo in questo: il bene comune. Dunque possiamo dire che lo Spirito crea diversità affinché le caratteristiche di ognuno siano impiegate per il bene comune.

Questo ci dice l’apostolo; lo dice a noi oggi, a noi che preferiremmo l’uniformità perché i pensieri diversi di ognuno, i diversi comportamenti e usi sociali, i diversi approcci etici, così come le diverse teologie e le diverse spiritualità, possono metterci a disagio e facciamo fatica ad accettarle, facciamo fatica a considerarle “dono dello Spirito”, perché siamo più portati a pensare che la nostra concezione etica sia quella “giusta” e ci dimentichiamo invece che la centralità del messaggio di Gesù Cristo non coincide certo con le forme ecclesiologiche che ci siamo dati, o con la nostra teologia, o con una certa etica, o con le convenzioni sociali che noi preferiamo.

NO, il messaggio del Vangelo risiede nel Signore crocifisso e risorto per noi, per il nostro bene, per la nostra salvezza (quella di tutti), per il nostro perdono e perché potessimo orientare la nostra esistenza nella dimensione di un amore che non ci lascia mai e che ci invita invece a far sì che la diversità non diventi divisione, perché le divisioni danno come frutto solo conflitti, mancata accettazione, guerre, violenze e morte. Tutti aspetti e accadimenti ben lontani dal “bene comune”.

Dunque, per Paolo, lo Spirito agisce in modi diversi per il bene comune: come dire che quando noi agiamo solo per il bene particolare di qualcuno, di un gruppo, di un clan, di una sola comunità, ed escludiamo gli altri, quell’agire non è opera dello Spirito Santo, ma opera nostra, opera umana destinata a fallire.

Il bene comune è invece la prospettiva dello Spirito, lo scopo a cui mira l’opera dello Spirito.

E allora, che cosa significa per noi tutto questo?

Significa imparare a riconoscere l’azione dello Spirito che agisce per il bene di tutti, perché tutti possiamo beneficiare ciascuno gli uni degli altri, nella reciprocità, nella condivisione, a partire dalle nostre diversità e dai nostri doni.

Significa non arginare l’opera dello Spirito entro i propri steccati, i propri confini o i propri orizzonti, le proprie idee.

Ciò che è diverso da me, non è contro di me, ma per me. Questo ci vuole insegnare l’apostolo Paolo.

Lo Spirito ci incoraggia a lavorare, agire, lottare per il rispetto della diversità, perché il contrario significherebbe soffocare, spegnere, disprezzare l’opera dello Spirito.

Ci dia dunque Dio, attraverso il soffio del suo Spirito, la capacità di comprendere, anche dentro la nostra storia individuale, le nostre tradizioni, le nostre esperienze di vita, l’opera che lo Spirito compie, qui e ora, come altrove e in modo diverso, per il bene nostro, di coloro che ci sono vicini e dell’umanità intera.

AMEN!

Liviana Maggiore

Sermone: LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI – Culto contro l’omofobia

Giovanni 8,31-36

Care sorelle, cari fratelli,

Stefano studiava da alcuni anni a Berlino. Ha fatto “coming out” due anni fa. Sapeva con chiarezza da tanti anni che era gay, da quando gli piacevano di più i modelli maschili nel catalogo dei vestiti della madre delle modelle femminili. Però all’inizio pensava che fosse solo una “fase”, come aveva letto in un giornale, non conosceva nessun gay tra gli amici e i parenti… Solo durante uno studio in Spagna ha preso il coraggio di frequentare una discoteca gay a Barcellona. Rientrato a Berlino non voleva continuare a fingere di essere “normale”, che non aveva ancora trovato la fidanzata “giusta”. Lui raccontava a tutti i suoi amici e particolarmente alle amiche che si interessava di più ai ragazzi.

Era un giorno solenne di primavera. I genitori avevano già pianificato da qualche tempo di venire a visitare il figlio a Berlino, il primo della famiglia che studiava. Stefano sapeva che questo incontro sarebbe stato importante per raccontare tutto ai genitori. Non aveva mai avuto un ottimo rapporto con i suoi. Stefano andava da loro a Pasqua, a Natale e in estate. Però la madre gli telefonava ogni settimana, suo padre lo aiutava sempre a organizzare l’arredamento per la sua stanza. Stefano si sentiva legato alla sua famiglia nonostante la distanza, ma allo stesso tempo era felice di poter vivere la propria vita senza essere sempre osservato. Quando i suoi arrivarono in macchina, Stefano annunciò subito di dover raccontare loro una cosa importante – per non perdere dopo il coraggio di farlo. Stefano aveva preparato un pranzo e dopo mangiato cominciò: “Vorrei raccontarvi qualcosa di personale. Siete importanti nella mia vita e vorrei che rimanesse così. Per questo dovete sapere una cosa: io sono gay”. I suoi ingoiarono la saliva, suo padre cercò nervosamente le sue sigarette, la madre chiese “Ma sei sicuro? Non hai ancora trovato la fidanzata giusta, può succedere ancora. Cosa diranno i vicini?”

Stefano cercò di spiegare che ci sono tanti gay famosi nel mondo: Elton John, Jody Foster, il sindaco di Berlino, Ricky Martin. Questa non era una consolazione per i suoi. Suo padre fuggì in cucina per fumare una sigaretta e sua madre chiese altre due volte: “Sei assolutamente sicuro?” Stefano rispose: “Sì”.  Dopo due giorni i suoi tornarono a casa. Non si parlò più di quel giorno e della sua “confessione”. Però Stefano si sentiva sollevato per aver raccontato tutto, per far partecipare i suoi alla sua vita anche in futuro.

“La verità vi farà liberi”.

Questa frase è al centro del brano biblico per il nostro culto di oggi. La Bibbia è una raccolta di storie di liberazione: l’esodo dall’Egitto, la liberazione dalla prigionia babilonica, la liberazione dal peccato e dalla morte attraverso Gesù Cristo. Questi sono i grandi temi della Bibbia, però questa liberazione capita anche a noi cristiani in un modo individuale.

La Bibbia è un mazzo di testimonianze di come Dio si mostra nelle vite dei fedeli e io spero che anche noi possiamo fare le nostre esperienze di liberazione attraverso la fede e la fiducia. Però nel nostro brano biblico di oggi secondo il vangelo di Giovanni vediamo anche che ci sono dei discorsi su come interpretare la libertà. E gli ebrei-cristiani hanno ragione se non si sentono schiavi e prigionieri.

Secondo me possiamo imparare particolarmente dall’ebraismo: il dialogo, discutere insieme, provare a trovare la verità. Tutte le chiese hanno perso un po´ questo aspetto biblico del dialogo, del condividere la Bibbia, del chiedere, del rispondere, dell’avvicinarsi.

Ricordo che in questa chiesa c’è, ogni due settimane, un gruppo biblico interconfessionale: una bella cosa.  Loro mi invitano una/due volte all’anno per uno studio biblico e vogliono sempre che io faccia una introduzione di almeno 45 minuti di un testo biblico. E io sono sempre un po´ perplesso perché voglio subito condividere il brano. I testi biblici sono scritti per il dialogo. E per questo le chiese sono importanti: Sono un posto dove si discute, si insegna e si impara, un posto di comunione tra di noi e con Cristo, proprio come oggi.

E io sono molto grato che le diverse chiese abbiano imparato e stiano ancora imparando attraverso il dialogo nella società che essere gay o transgender non è una minaccia contro qualcosa, ma è un dono. È una variante della natura, non peggiore e non migliore degli altri. Omofobia, transfobia e intolleranza invece sono un pericolo per la società.

“La verità vi farà liberi”.

Per l’evangelista Giovanni la parola chiave non è il sostantivo “fede”, è il verbo “pistis” (credere). Per Giovanni non si possiede la fede, è un processo “credere”. Fa parte della fede: riconoscere, capire, comprendere. E credere vuol dire – secondo Anselm Grün: vivere nella luce ed essere illuminato. “Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”, dice Gesù.

Ma cosa vuol dire “verità” in questo contesto? Non sono dei dogmi, delle frasi vere, in cui dobbiamo credere. Abbiamo i nostri dubbi e siamo attenti con ragione quando qualcuno dice: io so la verità. La verità vuol dire: seguire Gesù.

È una verità che Gesù era una delle persone – secondo il Nuovo Testamento – del quale non conosciamo pregiudizi: lui si circonda di uomini, di donne, di bambini che non erano molto accettati a quell’epoca. E particolarmente attraverso l’incontro con gli emarginati lui insegna il vangelo, il buon messaggio, che il regno di Dio è vicino e viene in un altro modo da quello che ci aspettavamo: tramite la compassione, la comprensione, la sensibilità.

“La verità vi farà liberi”.

Si parla nel nostro brano biblico anche del peccato. Siamo molto sensibili quando sentiamo questa parola: peccato. Perché si usa sempre in un modo giudicante, quando qualcosa è immorale, è peccato. “I gay vivono nel peccato” (si sente ancora oggi). La verità invece è un’altra: collegare il peccato con le preferenze sessuali è peccato.

Peccato secondo i vangeli è essere separato da Dio, secondo Giovanni attraverso l’odio, l’infedeltà, l’egoismo e la cecità spirituale, la mancanza d’amore.

“La verità vi farà liberi”.

Poca gente sa che Martin Lutero cambia il suo nome dopo la sua scoperta teologica della grazia di Dio. Viene da una famiglia chiamata Luder. Vuole essere un monaco perfetto, serio. Vuole confessarsi ogni giorno perché vede che non riesce mai a essere sufficiente verso Dio. Scopre che non ha bisogno di essere perfetto, basta fidarsi della misericordia di Dio. Martin Luder cambia il suo nome come simbolo. Luther viene dal greco eleutheros, il liberato. La fede lo rende libero.

“La verità vi farà liberi”.

Care sorelle e fratelli, “essere a casa con il figlio”: questo è, secondo il nostro brano biblico, la formula per vivere la verità ed essere liberi. Siamo chiamati anche noi a seguire Gesù in un modo più ampio, con il nostro cuore e con tutta la nostra convinzione.

“Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». (Luca 10,27)

AMEN

pastore BERND PRIGGE