Pasqua

Culto di Pasqua

Culto di Pasqua a cura delle pastore e dei pastori del VII Circuito

Saluto: Sovrintendente Maria Paola Gonano
Liturgia a cura delle/i pastore/i:
Marco Casci, Dieter Kampen,
Daniela Santoro, Laura Testa
Predicazioni: past. George Ennin, past. Davide Ollearo

LINK: https://youtu.be/R6xLCPLiFis

Venerdì santo

In questo si è manifestato per noi l’amore di Dio:
che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo affinché, per mezzo di lui, vivessimo.
In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi,
e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati.

(1 Giovanni 4,9s)

Matteo 27,27-44 (testo)

Tutto quello che precede la morte di Gesù, è scherno, beffa, derisione.
I pellegrini che si erano recati a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua, i discepoli che, nonostante gli avvertimenti, non sono stati in grado di capire il progetto di Dio, la folla che conosceva Gesù per fama, forse gli stessi farisei e dottori della legge: tutti si aspettavano qualcosa da Gesù… ma in soli tre giorni, dal lunedì al mercoledì, tutte le speranze riposte in lui vengono disilluse.
I mantelli che erano stati spiegati per accogliere il passaggio di Colui che viene nel nome del Signore, non sono sulla strada che porta Gesù al Golgota: chi lo aveva accompagnato con lodi e canti, ora lo accusa e tortura.

Vorremmo dire che non capiamo… e invece capiamo benissimo: capita anche a noi. Quando veniamo delusi nelle nostre aspettative, quando le nostre certezze e poi le nostre speranze svaniscono, si alternano in noi rassegnazione e rabbia.

Sei tu il re dei giudei? Sei tu il messia che ci era stato annunciato?
Perché, dopo essere entrato a Gerusalemme non hai chiamato a raccolta il popolo e non lo hai guidato verso la libertà?
Se non ci hai preso in giro, scendi da quella croce: chiedi a Dio di liberarti. Cogli l’attimo: dopo aver fatto credere di essere debole, innocuo, un agnello in mano ai tuoi aguzzini, ora è il momento giusto per rivelarti come figlio di Dio.
Se scenderai dalla croce, come potremmo non credere in te, non seguirti, non adorarti?
Scendi, e saremo con te. Fa’ quello che noi ci aspettiamo, e noi ti seguiremo.

Ma Gesù non risponde. E la provocazione diventa scherno, insulto, rabbia. Più la gente non capisce, più diventa violenta; più Gesù non risponde e non fa quello che gli chiedono, più viene considerato falso e lasciato solo.

Come siamo simili, noi e la folla! Sappiamo esattamente che cosa Dio dovrebbe fare per noi, ma Lui sembra non ascoltarci; gli offriamo anche delle alternative, ma lui non risponde; ci proponiamo di aiutarlo se farà ciò che ci aspettiamo da lui, ma niente, non si muove… e il dubbio si insinua nei nostri pensieri: ma, allora, le sue promesse sono false? i suoi progetti inconsistenti? le sue parole illusioni? abbiamo mal riposto la nostra fede? A volte anche noi arriviamo a supplicare, fino a quando rassegnati, delusi, arrabbiati, siamo pronti a voltare le spalle…

MATTEO 27,45-50 (testo)

Per tre ore il buio avvolge Gerusalemme e preannuncia la morte di Gesù.
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”
Chissà che cosa voleva esprimere Gesù con queste parole: abbandono, sofferenza, forse anche paura all’avvi­cinarsi della morte…
Ma anche questo grido di Gesù viene frainteso dalla folla: “Ecco, chiama Elia”.
E forse la speranza si riaccende: se Gesù non può scendere dalla croce, allora verrà Elia in suo aiuto; Dio non ci deluderà!

Ma Elia non arriva: Gesù muore, e con lui svaniscono anche le ultime piccole speranze ancora segretamente riposte negli animi dei suoi seguaci. Tutti e tutte tornano a casa, alcuni delusi, altri arrabbiati o increduli o rassegnati…

E noi? Dove siamo? Davanti alla croce, sulla via per casa o già impegnati in altre attività?
Davanti alla croce prevalgono la compassione, la rassegnazione, il dispiacere che normalmente si provano nei confronti di chi muore ingiustamente, vittima innocente.
Rassegnazione e pietà: Giuseppe d’Arimatea si preoccuperà di trovare un posto in cui posare il corpo di Gesù, mentre le donne pensano già agli oli e ai profumi per la sepoltura: che altro si può fare? Quella di Gesù è stata una bella parentesi, ma la vita è altro. La liberazione, la salvezza, il compimento delle promesse di Dio, avverranno in un altro modo… in un altro tempo.

Ma… se invece questo fosse proprio il momento giusto per rivolgerci a Dio? Il momento giusto non per dargli consigli o mostrargli la nostra contrarietà per il suo silenzio, ma per esprimere i nostri dubbi, le nostre paure, il nostro bisogno di consolazione?
Gesù, anche in questo ultimo atto della sua vita, ci un’indicazione: le sue parole sono: Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ricordate?
È con questa frase che si apre il salmo 22 (testo).

La storia del salmista, sembra rivivere e compiersi in quella di Gesù. Una storia di dolore, sofferenza, tradimento, solitudine, che viene narrata a Dio per viverla insieme a lui; la storia del presente di un uomo che confida nel futuro promesso da Dio… ma anche la storia di un Dio che non rinuncia a condividere l’esistenza umana per poterla redimere e salvare, non dall’alto dei cieli, ma nel profondo della terra; non nella pace dei cieli, ma nel trambusto della nostra vita.

E così una storia senza lieto fine, si prepara a diventare la storia della speranza; una storia di solitudine e abbandono, si rivela la storia dell’Emmanuele, del Dio con noi.

Inno 102 (clicca per ascoltare) Innario Cristiano – Claudiana
Ivan Furlanis, organista della chiesa metodista di Padova

Signore,
in questi giorni sono tante le domande e i dubbi che si affollano nella nostra mente,
sul nostro presente, ma anche sul nostro futuro;
sui nostri progetti, ma anche sul tuo progetto per noi.

Abbiamo la tentazione di considerarci semplici spettatori della settimana santa,
invece ci scopriamo parte della folla,
quella folla che pur avendoti vicino, è lontana da te.

Siamo lontani ogni volta che ci consideriamo unici artefici della nostra esistenza;
ogni volta che tristi, sconsolati, delusi,
ti accusiamo di non fare abbastanza, di deluderci, di averci abbandonato;

ogni volta che ti sfidiamo a mostrare il tuo potere, il tuo amore, la tua misericordia;
ogni volta che stendiamo i nostri mantelli al tuo passaggio, ma evitiamo di accompagnarti,
aspettando che tu compia il tuo volere per noi e non insieme a noi.
Ma ai piedi della croce ti riscopriamo nostro fratello, nostro Padre, nostra speranza, nostro Dio,
colui che “non ha disprezzato né sdegnato l’afflizione del sofferente,
non gli ha nascosto il suo volto;
ma quando quello ha gridato a lui, Egli l’ha esaudito”. (Salmo 22,24)

Ascoltaci ed esaudiscici. Te lo chiediamo nel nome di Gesù, Amen.

Past. Daniela Santoro

Domenica delle Palme

Esulta grandemente, o figlia di Sion,
manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme;
ecco, il tuo re viene a te;
egli è giusto e vittorioso,
umile, in groppa a un asino,
sopra un puledro, il piccolo dell’asina.
(Zaccaria 9,9)

Marco 10,46-11,11  (testo)

Una storia di mantelli!

Si, mantelli. Sono loro i protagonisti nascosti del viaggio di Gesù da Gerico a Gerusalemme. L’evangelista Marco sottolinea che Bartimeo ha un mantello, che i discepoli mettono i propri mantelli sul puledro che poi daranno a Gesù, che la folla dei pellegrini stende i mantelli al passaggio di Gesù.
Il mantello è una delle poche cose che un mendicante cieco come Bartimeo possedeva ed era una grande ricchezza: lo poteva usare come cuscino, stare seduti tutto il giorno a terra non è comodo; lo poteva usare come coperta o per nascondersi alla vista degli altri, lui che per tutto il giorno era costretto ad esporsi sulla strada per sopravvivere.
Quando Bartimeo sente che sta passando Gesù, lo chiama e Gesù, a sua volta, lo fa chiamare: non si vedono, ma è come se già si conoscessero e riconoscendosi si chiamano a vicenda.
E a questo punto, dopo essere stato chiamato da Gesù, il mantello di Bartimeo prende letteralmente il volo. Bartimeo sa che andando da Gesù troverà ciò di cui ha veramente bisogno. E infatti, dopo l’incontro e la guarigione, Bartimeo non torna indietro per recuperare il suo mantello: lui segue Gesù.

Anche i discepoli rinunciano, anche se momentaneamente, ai propri mantelli quando li usano come sella sul puledro, e anche la folla vedendo arrivare Gesù stende i propri mantelli al suo passaggio  riconoscendolo come Colui che viene nel nome del Signore per portare a compimento le profezie. Tutti lodano Gesù, gli mostrano rispetto, lo acclamano… ma tutti, subito dopo, riprendono i mantelli in mano, nessuno lo segue.
E Gesù, forse perché non viene chiamato e non gli viene fatta alcuna richiesta, non parla, si limita a guardarsi attorno.

Ogni anno, ricordando la domenica delle palme, Gesù ci passa accanto. E ogni anno dobbiamo decidere cosa fare del nostro mantello.

Possiamo tenerlo strettamente in mano per paura di perdere quel po’ di sicurezza che abbiamo e limitarci a dire di credere in Gesù, quel Dio un po’ strano che vuole sconfiggere la morte morendo e che ci rende signori sul mondo invitandoci a servire il nostro prossimo.
Possiamo stendere il nostro mantello ai piedi di Gesù, confessando la nostra fede nel re che viene ad instaurare un nuovo regno… e aspettare che lui realizzi quello che noi abbiamo in mente per la nostra vita.
Possiamo gettare via il nostro mantello, perché riconosciamo come Bartimeo che dopo Pasqua qualsiasi mantello, qualunque sicurezza abbiamo in mano, non serve più a niente. E vedendolo passare, possiamo chiamarlo, attirare la sua attenzione, sapendo che lui risponderà al nostro richiamo e ci chiamerà a sua volta donandoci ciò di cui abbiamo bisogno.

Sono tre scelte diverse che per quanto abbiano le stesse parole, “credo in Gesù Cristo Salvatore”, hanno conseguenze molto diverse.

Dire “io credo” con il mantello in mano significa non aspettarci niente da Dio adesso; questa è la fede del poi, del “qui sulla terra ognuno si deve arrangiare come può, quindi si, credo, ma ne riparliamo nel regno che verrà”. Penso che questa sia una posizione molto diffusa, anche se è l’espressione di una fede senza speranza, una fede triste e solitaria.

Se dico “io credo” e stendo il mio mantello davanti a Gesù, riconosco la sua regalità, l’onore che gli spetta: penso di sapere tutto di lui, di averlo riconosciuto, come la folla che accoglie Gesù a Gerusalemme. Ma a volte Dio non è come noi vorremmo che fosse: i suoi piani non sono i nostri, e rischiamo di non accoglierlo quando i nostri pensieri e i suoi pensieri divergono, esattamente come accade alla folla nei giorni successivi; rischiamo di non riuscire a comprendere le sue parole, proprio come accade ai discepoli prima della resurrezione.

E poi c’è la fede di Bartimeo, una fede senza pretese, che non ha bisogno di vedere, ma si fida e contro ogni ragionevolezza si affida a Dio gettando via il mantello per seguire Gesù. È la fede che si esprime nel condividere con gli altri e le altre la gioia della salvezza: una fede non solitaria, ma lieta nella comunione con Dio e con gli altri.

Sorelle e fratelli, dove mettiamo quest’anno il nostro mantello?
In questo periodo stiamo sperimentando la fragilità del nostro essere umani e l’instabilità delle nostre sicurezze… ma riusciamo ad affidarci a Dio, a chiamarlo, a esprimergli il nostro dolore, la nostra sofferenza, i nostri dubbi e, come Bartimeo, a gettare il nostro mantello certi di ricevere da lui ciò di cui abbiamo bisogno? Sappiamo rinunciare alle nostre idee e alle nostre aspettative su Dio per dialogare con lui chiedendogli le risposte che non riusciamo a trovare da soli e chiedendogli il conforto che ci può consolare, quella Parola di vita capace di rinnovare la nostra speranza?

Io credo. Diciamolo con le mani libere, alzate insieme verso il nostro Salvatore.
Amen.

Inno 96 (clicca per ascoltare)
“A Gerusalemme il Signor giungeva” – Innario Cristiano, Claudiana
Ivan Furlanis, organista della Chiesa Metodista di Padova

La benedizione di Dio,
che guida le nostre speranze e i nostri sogni, ci conceda la pace;
la benedizione di Gesù Cristo,
che entra nelle nostre città per portare la salvezza, ci conceda la pace;
la benedizione dello Spirito Santo,
che ci sostiene nelle nostre paure e nelle nostre difficoltà, ci conceda la pace;
in questa domenica delle Palme,
durante il ricordo degli eventi della settimana santa, fino alla croce del venerdì santo e oltre,
per accogliere con gratitudine la speranza certa e i sogni realizzati della nuova vita
nell’alba del mattino di Pasqua. Amen.

Past. Daniela Santoro

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Fammi giustizia, o Dio!

Salmo 42
Come la cerva desidera i corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio.
L’anima mia è assetata di Dio, del Dio vivente;

quando verrò e comparirò in presenza di Dio?
Ricordo con profonda commozione il tempo in cui

camminavo con la folla verso la casa di Dio,
tra i canti di gioia e di lode d’una moltitudine in festa.

Salmo 43
Fammi giustizia, o Dio, difendi la mia causa.
Tu sei il Dio che mi dà forza; perché mi hai abbandonato?
Perché devo andare vestito a lutto per l’oppressione del nemico?
Manda la tua luce e la tua verità, perché mi guidino,
mi conducano al tuo santo monte e alle tue dimore.
Allora mi avvicinerò all’altare di Dio, al Dio della mia gioia e della mia esultanza;
e ti celebrerò con la cetra, o Dio, Dio mio!
Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora;
egli è il mio salvatore e il mio Dio.

I salmi 42-43 esprimono bene i nostri sentimenti, i nostri dubbi, le nostre domande in questi giorni.
Quando potremo incontrarci nuovamente alla presenza di Dio, cantare e gioire insieme?
Perché dobbiamo vivere nel lutto? Per quanto ancora dovremo sentirci trafitti e sconfitti?
E se Dio ci avesse davvero abbandonato? Se si fosse dimenticato di noi?

Stiamo vivendo anche noi come il salmista un periodo buio, un periodo in cui lottiamo contro un nemico più grande e più forte di noi, che intacca il nostro corpo, ma anche ciò che possediamo, i nostri pensieri, la nostra speranza, la nostra fede. Un nemico che ci fa sentire impotenti perché svela tutte le nostre fragilità e le nostre paure. Un nemico davanti al quale si può solo indietreggiare e barricarsi in casa.
È facile rassegnarsi, considerarsi in balìa del destino, preda del caos e spesso ci si limita a ripetere che alla fine andrà tutto bene.
Ma il salmista ci invita a fare qualcosa in più.
Ci invita a ricordare che le nostre vite, per quanto fragili, non sono lasciate a loro stesse;
che il nostro cammino, per quando in salita, è segnato e accompagnato;
che la nostra salvezza non è in forse;
che qualunque cosa accada, abbiamo una promessa che non verrà mai meno.

La preghiera del salmista è: “Signore, fammi giustizia!”.
Fammi giustizia. È la richiesta che rivolgiamo al giudice quando qualcosa che ci appartiene ci viene sottratto, quando un diritto ci viene negato.
Fammi giustizia. È la richiesta che rivolgiamo a Dio perché quello che ci ha fatto conoscere e ci ha donato, ci sembra che, poco a poco, lo stiamo perdendo, non ci appartiene più: la vita, il benessere, la gioia, la serenità, la comunione, l’amore, la speranza…
Ci possiamo rivolgere a Dio con fiducia perché sappiamo che lui non si limita a giudicare dall’alto dei cieli, ma agisce, lui stesso, sulla terra per ripristinare la sua giustizia. Ed è questo che gli chiediamo, di rendersi presente, di mettersi al nostro fianco, fedele alla sua Parola.
Lo chiediamo senza paura perché se il giudice-Dio accusa, lo fa per poterci difendere; e quando ci convoca non lo fa per imprigionarci, ma per liberarci. Proprio in queste settimane in cui ricordiamo la morte e la resurrezione di Gesù, corriamo il rischio di dimenticare la realtà della sua promessa, la certezza della speranza che ci appartiene e non può esserci tolta. Il Dio che si è fatto conoscere da noi, è il Dio che ci ama e che in Gesù Cristo ha fatto tutto per noi. Per questo possiamo dire con il salmista: “Signore, fammi giustizia! Riporta la mia vita e il mondo alla tua giustizia”.
Quella che stiamo vivendo non è la volontà di Dio per noi e il periodo che stiamo attraversando non è una prova per verificare la nostra fede, la nostra forza, il nostro coraggio.
Il periodo che viviamo è una galleria, buia, lunga, insidiosa… ma con una corsia d’emergenza a lato, con piazzole di sosta e telefoni per segnalare le difficoltà. Non dobbiamo attraversarla da soli: anche se sia-mo isolati, se procediamo distanziati gli uni e le une dagli altri e dalle altre, il Signore ci sostiene e vuole essere la nostra luce, vuole ancora offrirci la sua speranza e donarci la sua salvezza… qualunque cosa accada. E nel caso in cui non riuscissimo ad andare avanti e ad uscire dalla galleria, Dio assicura che ci resterà comunque accanto e il suo abbraccio ci accoglierà: tutti e tutte saremo sempre con Lui, come ha promesso. È questa la buona notizia che ci viene nuovamente annunciata oggi.

Signore, fammi giustizia! Dammi forza quando mi sento abbandonato.
Nell’oscurità della malattia, del lutto, della paura,
manda la tua luce e la tua verità perché mi guidino:
corro il rischio di perdermi, di arrendermi, di dimenticarti.
Fa’ che non mi fermi nel cammino che conduce a Te,
ma sostieni ogni mio passo, per quanto piccolo e timoroso sia.
E quando io non riuscirò più ad andare avanti, portami tu: mi affido a Te.
Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora;
egli è il mio salvatore e il mio Dio.

Amen.

Past. Daniela Santoro

IL SERVO DI DIO

Oggi è la domenica che viene dedicata nelle nostre chiese ogni anno alla CEVAA, un organismo che non tutti i nostri membri conoscono, per cui un piccolo accenno va fatto. La CEVAA è la Comunità di chiese protestanti in missione; raggruppa chiese di 24 Stati in Africa, America Latina, Europa, Oceano Indiano e Pacifico e porta la sua riflessione dentro gli Istituti di formazione teologica. (da Riforma)

Per quest’anno la CEVAA ha suggerito per la predicazione un passo di Isaia che a me è molto piaciuto e che mi ha “costretta” ad un ripasso di questo libro così spesso citato nelle nostre chiese. Ma perché questo suggerimento? Leggiamo il passo di Isaia 42, 1-9).

1 «Ecco il mio servo, io lo sosterrò; il mio eletto di cui mi compiaccio; io ho messo il mio spirito su di lui, egli manifesterà la giustizia alle nazioni. 2 Egli non griderà, non alzerà la voce, non la farà udire per le strade. 3 Non frantumerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante; manifesterà la giustizia secondo verità. 4 Egli non verrà meno e non si abbatterà finché abbia stabilito la giustizia sulla terra; e le isole aspetteranno fiduciose la sua legge». 5 Così parla Dio, il SIGNORE, che ha creato i cieli e li ha spiegati, che ha disteso la terra con tutto quello che essa produce, che dà il respiro al popolo che c’è sopra e lo spirito a quelli che vi camminano. 6 «Io, il SIGNORE, ti ho chiamato secondo giustizia e ti prenderò per la mano; ti custodirò e farò di te l’alleanza del popolo, la luce delle nazioni, 7 per aprire gli occhi dei ciechi, per far uscire dal carcere i prigionieri e dalle prigioni quelli che abitano nelle tenebre. 8 Io sono il SIGNORE; questo è il mio nome; io non darò la mia gloria a un altro, né la lode che mi spetta agli idoli. 9 Ecco, le cose di prima sono avvenute e io ve ne annuncio delle nuove; prima che germoglino, ve le rendo note».

Il cap. 42 si trova nel deutero-Isaia, anche detto “secondo Isaia” e le fonti ci dicono che venne scritto poco più di 500 anni prima di Cristo, quindi durante l’esilio di Babilonia.

Eppure ancor oggi queste parole sono (almeno per me) di una attualità e di una freschezza incredibili, se cerchiamo di non essere legati a significati negativi di alcuni termini e se cerchiamo di comprendere il perché di alcune espressioni che spero di chiarire.

Il versetto 1 presenta una figura assai particolare: IL SERVO. Nella Bibbia troviamo spesso questo termine, un vocabolo che nell’attuale linguaggio quotidiano è quasi in disuso perché oggi riveste connotazioni negative, di oppressione, di sudditanza. Ma al tempo non era così, perché i plenipotenziari di un sovrano, i ministri, i personaggi di rango di una corte erano SERVI dei loro signori, cioè nell’operare quotidiano erano i suoi portavoce.

Ecco perché grandi personaggi dell’A.T., coloro ai quali Dio dà la sua totale fiducia per incarichi importanti, sono insigniti del titolo di “SERVO”, un titolo che comporta un rapporto di affezione e di fiducia reciproco. Lo stesso Mosè è colui che riceve più spesso questo titolo e non possiamo certo dire che egli, pur riconoscendo la sua sottomissione al Signore, non trattasse con lui senza rinunciare al proprio pensiero e alla propria dignità.

Il SERVO visto in questa accezione non è quindi un essere da sfruttare, da sottomettere, infatti il versetto prosegue con parole di grande rilievo: “ … io lo sosterrò”, “… io ho messo il mio spirito sopra di lui”, “… egli manifesterà la giustizia alle nazioni”.

Insomma, il SERVO è il rappresentante del suo signore, il suo araldo, colui che ha il mandato di parlare ed agire per conto del suo signore.

E se qualcuno può ritenere che questa sia un’interpretazione fasulla, la conferma del fatto che non è così ci deriva dai versetti 2 e 3: “Egli non griderà, non alzerà la voce, non la farà udire per le strade. Non frantumerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante; manifesterà la giustizia secondo verità.” per i quali è necessario un riferimento storico.

Nell’ambito del diritto babilonese esisteva un funzionario denominato araldo del gran Re, con il compito, dopo che il re aveva emesso una sentenza capitale, di percorrere la città per renderla pubblica a gran voce nelle piazze, per verificare se qualcuno potesse ancora testimoniare a favore del condannato. L’araldo era munito di un bastone da viaggio e di una lanterna. Al termine del percorso, se non si era presentato nessuno per discolpare il condannato, l’araldo si recava nella casa del condannato e in sua presenza rompeva il bastone e spegneva la lampada, dichiarando così la sentenza inappellabile. A questo è dovuto il riferimento dei due versetti.

Ma il servo di cui ci parla Isaia non è un araldo che deve confermare una condanna, ma ha ben altri incarichi: “Egli non verrà meno e non si abbatterà finché abbia stabilito la giustizia sulla terra” (v. 4) e lo fa in forza di quanto detto ai vv. 6-7: “Io, il SIGNORE, ti ho chiamato secondo giustizia e ti prenderò per la mano; ti custodirò e farò di te l’alleanza del popolo, la luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, per far uscire dal carcere i prigionieri e dalle prigioni quelli che abitano nelle tenebre.”

Certo che questo è qualcosa di più rispetto alla cieca obbedienza della legge e alla conferma di eventuali condanne, perché, con la forza che deriva dal Signore (questa volta con la S maiuscola) il servo non solo diventa un portavoce, ma opera in prima persona per proclamare la giustizia, per illuminare coloro che sono nelle tenebre, per diventare “luce delle nazioni”.

Purtroppo, se guardiamo alla storia della cristianità, sappiamo bene che una tale vocazione missionaria è stata travisata, dando origine a comportamenti persecutori, a prevaricazioni, a guerre per “portare la verità”, comportamenti che certo hanno avuto ben poco a che fare con la giustizia e con l’annuncio, comportamenti messi in atto da chi riteneva (o ritiene ancor oggi) di essere il depositario di un’unica e certa “verità”, dando per scontato che tutti coloro che non la condividono sono per ciò stesso degni di condanna, se non addirittura di dannazione eterna.  Per fortuna, almeno nelle nostre chiese, credo che non vi sia alcuno che sia convinto di essere il detentore della verità e spero invece che ciascuno, pur animato dalla fede che confessa, sa bene che non per questo l’umanità è divisa fra coloro che sono “eletti” – e quindi depositari della verità e destinati alla salvezza – e coloro che invece non lo sono e quindi “indegni” di una prospettiva salvifica, in qualsiasi modo questa possa un domani realizzarsi.

Vivere coerentemente al servizio della giustizia di Dio significa modellare la propria vita sulla natura stessa di Dio, un Signore che noi crediamo sia animato da profonda misericordia, un Signore che non guarda al colore della pelle, un Signore che vuole che la giustizia si espanda per tutti gli abitanti della terra, anche per coloro che si trovano nelle situazioni più disperate, anche quando la legalità e l’onestà sembrano ormai irrimediabilmente compromesse.

E anche laddove ci siano queste situazioni, il SERVO del Signore è chiamato all’utopia (se volete), è chiamato a comportarsi secondo il messaggio che ha ricevuto e che deve proclamare, perché una fede intimistica, che non si rivolge con parole e fatti agli altri, non serve a nulla.

Essere “eletti” dal Signore non significa avere privilegi rispetto agli altri esseri umani, ma è soprattutto un onere che ci impegna a seguire gli insegnamenti del nostro Dio, uscendo dalle nostre cucce calde fatte dei nostri privilegi, del nostro benessere, delle nostre certezze (che spesso non vogliamo mettere in discussione per paura) e intraprendere invece un cammino di solidarietà, di condivisione, di confronto con gli altri.

Certo, dobbiamo mettere in gioco ciò che abbiamo, quel che siamo e quel che sappiamo, ma questa è ciò che dobbiamo fare, senza timidezze ma anche senza sicumera, perché essere persone di fede non ci rende migliori rispetto a coloro che non lo sono, oppure rispetto a coloro che credono in un altro Dio. Essere “missionari” del messaggio che abbiamo ricevuto e coltivato con lo studio della Bibbia significa non rintanarci nelle nostre chiese e nelle nostre case, coltivando i nostri orticelli, ma significa opporsi alle ingiustizie anche sapendo che esse continueranno ad esserci fino alla fine dei tempi.

Essere “missionari” del messaggio significa credere anche contro ogni speranza, significa prendere coscienza che qualcosa può cambiare in questo mondo così ingiusto, significa credere che l’utopia non è irrealizzabile.

E vorrei chiudere questa meditazione con un bel testo, che mi ha molto colpito, di Eduardo Galeano, giornalista e scrittore uruguaiano morto pochi anni fa:

“L’utopia è all’orizzonte.

Mi avvicino di due passi e lei si allontana di due passi.

Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là.

Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai.

Ma allora a cosa serve l’utopia?

Serve proprio a questo: a camminare.”

Voglia il Signore aiutarci nel nostro cammino di suoi servi.

AMEN

(Liviana Maggiore)

COSA SIGNIFICA “AMORE”

Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti il «non commettere adulterio», «non uccidere», «non rubare», «non concupire» e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso». L’amore non fa nessun male al prossimo; l’amore quindi è l’adempimento della legge. E questo dobbiamo fare, consci del momento cruciale: è ora ormai che vi svegliate dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.  (Romani 13,8-12)

Preparando il culto per questa prima domenica di Avvento il mio pensiero si è concentrato sul fatto che parlare di amore per il prossimo in una chiesa cristiana rischia di essere banale e assodato. Ma è proprio così?

Perché Paolo scrive quello che abbiamo letto?

Il testo si colloca nella seconda parte della lettera ai Romani, dove Paolo cerca di comunicare alcune indicazioni “pratiche” affinché ciò che ha esposto nella prima parte sulla salvezza, il peccato, la speranza, il non ritenere che solo i Giudei siano i detentori della fede, siano concetti che non devono essere solo lasciati nelle elucubrazioni teologiche o filosofiche, ma debbano essere invece parte integrante dell’etica di un credente.

In questo senso, parlare di AMORE verso il prossimo non è poi così scontato, perché è proprio l’etica, cioè il comportamento del credente che testimonia della fede che si afferma di avere, affinché, come Paolo scrive nel cap 2 (riprendendo da Isaia) “il nome di Dio non sia bestemmiato per causa nostra fra gli stranieri”.

“Ama il tuo prossimo come te stesso”. Questo è il comandamento, l’unico che li riassume tutti, l’unico che ci dovrebbe mettere in discussione, che dovrebbe essere al centro delle nostre riflessioni quotidiane sul modo di agire.

“L’amore non fa nessun male al prossimo” dice Paolo e qualche indicazione l’abbiamo avuta anche dai versetti del Salmo 122 a cui si è ispirata la nostra confessione di peccato odierna:

Quelli che ti amano vivano tranquilli. Ci sia pace all’interno delle tue mura e tranquillità nei tuoi palazzi! Per amore dei miei fratelli e dei miei amici, io dirò: «La pace sia dentro di te!» Per amore della casa del SIGNORE, del nostro Dio, io cercherò il tuo bene.

Ecco, appunto: l’amore, il vero amore, è foriero di pace, ci consente di fare in modo che coloro che amiamo vivano tranquilli, ci spinge a cercare il bene di coloro che, in maniera diretta o indiretta, incrociano la loro vita con la nostra.

Ma cos’è questo “amore” del quale parliamo? Un sentimento di affezione che ci trasporta verso l’altro?

Sicuramente sì. Per me è amore l’atteggiamento affettuoso dei miei più cari amici, come è amore quel sentimento che provo nei confronti di mio figlio o del mio compagno anche quando mettono alla prova la mia pazienza. È un segno d’amore il sentirmi dire “ti voglio bene” nel messaggio quotidiano che ricevo da una persona cara, perché so che non lo fa per abitudine, ma per confermarmi il suo sentimento, così come interpreto come segno d’amore il saluto serale di un amico (ateo) che mi apostrofa con un nomignolo affettuoso o il contatto con la mia amica più cara che manifesta il suo sincero interesse per me.

Certo, queste sono manifestazioni d’amore che mi aiutano a vivere più tranquilla, ma …. tutto qui?  Evidentemente no, perché questi diversi sentimenti sono alimento certo per la mia tranquillità e, nella reciprocità, immagino che lo stesso valga per le persone che amo.

Ma credo che l’invito di Paolo non si riferisca a una visione così riduttiva ed egoistica, perché a me, come credente, spetta il compito di dispensare amore; come figlia di Dio sono tenuta a testimoniare con la vita dell’amore immenso che ho ricevuto dal mio Signore, un amore che non si è basato solo su enunciazioni e insegnamenti teorici, ma che si è realizzato con comportamenti fattivi di quel Gesù che ha manifestato con la sua vita e con le sue opere l’amore di Dio.

Ecco allora che il cercare di realizzare l’amore non può limitarsi ad un semplice sentimento di affezione nei confronti di coloro che amiamo, ma deve diventare una reale partecipazione positiva anche nei confronti di coloro che magari non fanno parte della nostra vita o del nostro entourage.

E come cercare quindi di “dispensare” amore?

Nell’evangelo di Matteo, al cap 19 ci viene riferito che Gesù disse al giovane ricco “… ama il prossimo tuo come te stesso” e “… va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri …”

Ecco, direi che queste sono le due chiavi interpretative:

  1. Pensa a come vorresti essere trattato tu e fallo nei confronti degli altri;
    1. Vorresti un atteggiamento positivo e comprensivo nei tuoi confronti? Abbi il medesimo atteggiamento nei confronti degli altri.
    1. Vorresti essere visitato e consolato quando sei nella malattia, nell’angoscia, nel dolore di qualsiasi specie? Abbi il medesimo atteggiamento nei confronti degli altri.
    1. Vorresti che coloro che ti stanno intorno gioiscano se sei gioioso e si rallegrino delle cose belle che ti accadono? Fai anche tu così nei loro confronti.
  2. Dividi con gli altri ciò che hai. Ciò che abbiamo (e ciò che siamo) non è qualcosa che è destinato solo a noi, ma sono doni che abbiamo ricevuto per poterli condividere con gli altri.
    1. Hai la fortuna di poter essere tranquillo/a che sulla tua tavola il cibo non manca, che nel tuo armadio ci sono abiti adeguati a coprirti, che puoi contare sul fatto che, anche se non sei ricco/a, avrai di che vivere per il futuro? Dividi ciò che hai e non accumulare per te, lasciando agli altri le briciole, ciò che avanza, l’elemosina.
    1. Hai avuto l’opportunità di maturare conoscenze professionali che altri non hanno? Mettile a disposizione gratuitamente e non cercare di trarne sempre e solo un beneficio economico.
    1. Hai del tempo libero? Non dedicarlo solo a te stesso/a, ma mettiti a disposizione servendo gli altri.
    1. Hai la capacità di riflettere sui fenomeni sociali? Non buttare il cervello all’ammasso, trincerandoti nel tuo bozzolo, ma esprimi il tuo messaggio di solidarietà ed uguaglianza anche contro i potentati politici ed economici.

Queste sono solo alcune riflessioni su come si possa “dispensare” amore, un amore libero, che non chiede di essere ricambiato, ma che soprattutto non ingenera negli altri sentimenti di riconoscenza, perché il nostro fine non deve essere la riconoscenza altrui, bensì il rispetto dell’imperativo “… ama il prossimo tuo come te stesso” perché, come dice Paolo, “chi ama il prossimo ha adempiuto la legge” e non solo chi non ha ucciso, non ha rubato, non ha offeso.

Ma ancora: chi ama il prossimo come se stesso sa di aver bisogno di perdono per le numerose volte che non ha praticato l’amore e, per reciprocità, deve essere capace di perdonare quel prossimo che magari ci ha recato offesa o ci ha fatto del male.

Voglia il Signore aiutarci a percorrere le vie dell’amore.

AMEN

Liviana Maggiore

LA TESTIMONIANZA

Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.  Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunzi?  E come annunzieranno se non sono mandati? Com’è scritto: «Quanto sono belli i piedi di quelli che annunziano buone notizie!»  Ma non tutti hanno ubbidito alla buona notizia; Isaia infatti dice: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?»  Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo. (Rom 10,12-17)

I passi che abbiamo ascoltato sono solo tre fra i numerosi che troviamo nella Scrittura che raccomandano, istruiscono, incitano alla testimonianza, il che significa che nella Bibbia non c’è spazio per una fede intimistica, una fede che l’individuo coltivi solo in sé stesso, una fede non condivisa, ma soprattutto non testimoniata.

Se ci pensiamo bene è un bell’impegno quello che viene affidato ai credenti perché da questo vigoroso invito (come nello stile di Paolo) sorge spontanea una domanda: che cosa significa testimoniare la propria fede?

Beh, certamente far parte di una comunità di credenti è già una testimonianza, perché le sorelle e i fratelli coi quali condividiamo i momenti di culto sanno che quei momenti sono di condivisione fra credenti e, similmente, coloro che vincendo le proprie resistenze e timidezze entrano nelle nostre chiese possono legittimamente pensare che siamo un’assemblea di credenti, di persone che hanno accolto il dono della fede e lo dimostrano lodando il Signore insieme.  Indubbiamente questa è testimonianza, com’è testimonianza la predicazione che si può fare dai nostri pulpiti oppure in occasioni di incontri con membri di altre confessioni dove magari veniamo invitati.

Tutto giusto, ma ….. tutto qui?  Abbastanza facile, direi.  Noi siamo un’assemblea di credenti cristiani e, come tali, ci presentiamo nelle nostre chiese oppure in occasioni comunque religiose.  Ma siamo sicuri che testimoniare la nostra fede, che annunziare la buona notizia si limiti a questo?

Ovviamente questa è una domanda retorica, alla quale tutti noi risponderemmo (o dovremmo rispondere) : “No, non è solo questo”.  E allora andiamo a riflettere insieme su che altro sia la testimonianza, questo impegnativo incarico che abbiamo ricevuto ed al quale dobbiamo ottemperare per cercare di seguire gli insegnamenti che troviamo sulla Bibbia.

Nei secoli (e, in verità, ancor oggi) molti cristiani hanno interpretato la testimonianza come il diritto di imporre, con metodi più o meno violenti, la propria fede, costringendo gli altri a riconoscerla come “verità” e a convertirsi ad essa. Basti pensare alle crociate, alle persecuzioni o a certi modi di intendere l’attività missionaria in popolazioni non cristiane.  Ma questa, scusatemi, non è certo “testimonianza”.  E allora?

Premesso che nelle chiese riformate (come la nostra) uno dei principi fondamentali è che non esistono opere meritorie, cioè comportamenti che diano credito all’individuo davanti a Dio, non possiamo sicuramente sottovalutare l’importanza delle opere, cioè delle azioni e dei comportamenti che mettiamo in atto.  D’altro canto è chiarissimo quanto dice Giacomo (2,14-20):

«A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno abiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro ciò che è necessario al corpo, a che serve? Allo stesso modo è la fede: se non ha opere, è per sé stessa morta. Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demoni lo credono e tremano. Insensato! Vuoi renderti conto che la fede senza le opere non ha valore?»

So bene che dal pulpito di una chiesa metodista sto dicendo cose ovvie, ma è proprio su queste ovvietà che ciascuno di noi ha il dovere di riflettere, senza darle per scontate.

Sappiamo tutti da dove discende il termine “metodisti”: da un vocabolo di derisione che era stato appioppato ai nostri padri e fratelli fondatori, i quali si avvicinavano a coloro che soffrivano o che erano indigenti per status sociale per portare FATTIVO conforto, per aiutare nelle malattie, per condividere il cibo, per ascoltare coloro che erano disperati. E i nostri fratelli e sorelle nell’Inghilterra del ‘700 non chiedevano in cambio la conversione. Certo non nascondevano il motivo di questo loro operare, ma erano ben consapevoli che una testimonianza a parole non è quello che viene chiesto al credente, perché parlare di Dio a un affamato, a un disperato, a un sofferente e non far nulla per cercare di lenire le sue ferite fisiche e psichiche, non far nulla per dargli il cibo o gli abiti che non ha è un atteggiamento manicheo e perbenista che non serve a nulla al sofferente ed è fuorviante per chi lo dà.

Ecco allora che nascevano gruppi di aiuto, scuole, centri di accoglienza e assistenza ai derelitti ed altro ancora. Insomma, era un “metodo” quello che veniva seguito: aiutare le persone nel bisogno, non per convertirle ma per mettere in atto gli insegnamenti ricevuti.

E queste iniziative non venivano solo delegate ai pastori o a pochi membri di chiesa attivi, ma trovavano il coinvolgimento di interi gruppi che poi si sparpagliavano per annunciare la Parola di speranza e di fraternità, di uguaglianza fra gli esseri umani, di salvezza promessa ed elargita a tutti, non solo a pochi eletti “ordinati” o “studiosi”.

E questo stesso metodo, questo modo di operare lo abbiamo avuto anche a Padova più di 150 anni fa, una comunità vivace e solidale, con molte attività sociali, una comunità che non temeva certo di esporsi testimoniando la propria fede come credenti “diversi”.

Ed allora, sia i passi della Scrittura che ci intimano la testimonianza, sia la nostra stessa storia, ci interrogano oggi sulla nostra testimonianza, forse ci mettono di fronte anche alla necessità di un nuovo periodo di “risveglio” nel quale dobbiamo abbandonare le nostre timidezze e i nostri timori di essere fraintesi.

Molti sono i modi che ciascuno di noi ha per testimoniare la propria fede, per rendere palese ciò in cui diciamo di credere; ed oggi vi pongo solo alcune domande, nella speranza che possano servire per una personale riflessione:

  • Quanto spesso mettiamo a disposizione degli altri le nostre risorse personali e finanziarie in una reale condivisione, non donando quindi solo ciò che ci avanza, privilegiando i nostri bisogni non essenziali o accumulando risorse che mettiamo da parte per il futuro, mentre c’è a fianco a noi chi non riesce a sostenere il presente?
  • Quanto spesso mettiamo gratuitamente a disposizione degli altri le nostre capacità, le nostre professionalità, le nostre conoscenze?
  • Quanto spesso ci lamentiamo delle nostre scarse risorse economiche, che magari così scarse non sono se confrontate con chi ha meno, molto meno di noi, e non ci degniamo di buttare lo sguardo a coloro ai quali potremmo OFFRIRE la nostra solidarietà?
  • Quanto spesso ci interessiamo a conoscere gli altri, coloro che hanno fatto una scelta diversa dalla nostra in termini di appartenenza religiosa, oppure con coloro che seriamente hanno fatto una scelta atea o agnostica? Riusciamo a relazionarci con loro in assoluta libertà in un confronto sereno e senza la spocchia di chi ha ricevuto l’illuminazione e ha la verità in tasca, ma con reale disponibilità al confronto?
  • Quanto spesso rendiamo testimonianza agli altri della nostra scelta religiosa, della nostra fede, andando oltre la semplice descrizione delle differenze fra la chiesa di maggioranza e la nostra, facendo intendere che noi siamo nel giusto e loro sono nell’errore?
  • Quanto spesso divulghiamo i contenuti dei documenti di scelta etica, politica (non partitica), comportamentale, emessi dal nostro Sinodo, dalle nostre Commissioni, dalle nostre Assemblee per dichiarare alla collettività chi siamo e cosa diciamo? Solo per fare un esempio in tal senso: il documento sul fine vita o le prese di posizione di fronte alle scelte scelerate dei potenti?
  • Quanto spesso noi stessi, invece di chiuderci tra le rassicuranti mura della chiesa, cogliamo le occasioni per esporci, per dire all’esterno chi siamo, come individui e come comunità, in che cosa crediamo, ma sereni e desiderosi di conoscere gli altri e condividere i doni di ciascuno?
  • Quanto spesso siamo disposti ad entrare in confronto anche con i nostri fratelli e sorelle di chiesa per esprimere serenamente il nostro pensiero, perfino quel pensiero che ci mette in difficoltà e che spesso sottacciamo per evitare conflitti.
  • Quanto spesso diciamo che siamo tutti uguali, a prescindere dal colore della pelle, dai inclinazioni sessuali, dalle scelte politiche, dall’appartenenza religiosa, ma poi tolleriamo chi è diverso da noi, gli riserviamo magari un saluto, un sorriso e una stretta di mano, ma non ci interessiamo alla sua vita così diversa dalla nostra e non vogliamo entrare in autentica relazione con lui/lei?
  • Ed infine, quanto spesso facciamo tutto ciò non solo con coloro che fanno parte del nostro entourage di parentela o di conoscenze, ma ci spingiamo fuori dal nostro mondo?

Queste sono indubbiamente AZIONI come ve ne sono moltissime altre, azioni certamente NON MERITORIE, ma altrettanto certamente doverose per non rintanarci in una sterile fede individualista, che a nulla serve se non a mettere a tacere la nostra coscienza.

Voglia il Signore aiutarci e darci la volontà e la forza per renderci fattivamente testimoni della buona notizia che diciamo di aver ricevuto, affinché la nostra fede non venga vissuta solo in maniera intimistica.

AMEN

Liviana Maggiore

IL SOLE, LA LUNA E LE STELLE

Vorrei raccontarvi una storia, la storia dell’umanità e del sole, della luna e delle stelle. Una storia che inizia nel principio, per usare le parole bibliche, perché gli astri, da sempre, prima di noi, hanno il loro posto sopra di noi.

Sono proprio sole, luna e stelle che permettono e regolano la vita umana: il sorgere e il tramontare del sole e della luna scandiscono il tempo, il passare dei giorni, dei mesi, delle stagioni; ma anche regolano l’alternarsi del buio e della luce, del caldo e del freddo, e quindi della semina e del raccolto; senza dimenticare la possibilità di orientarsi… gli astri, nel principio, non erano solo compagni di viaggio, ma strumenti essenziali del viaggio, erano ciò che faceva la differenza fra carestia e abbondanza, benessere e povertà, salute e malattia.

Ma ecco che un giorno Mosè dice al popolo di Israele:

badate bene a voi stessi, affinché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito celeste, tu non ti senta attratto a prostrarti davanti a quelle cose e a offrire loro un culto, perché quelle sono le cose che il SIGNORE, il tuo Dio, ha lasciato per tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli.           (Deuteronomio 4,15.19)

Badate bene di non cedere alla tentazione di prostrarvi davanti a sole, luna, stelle, pianeti…

Ci fa quasi sorridere l’idea di pregare o offrire sacrifici a sole, luna e stelle per ricevere in cambio un buon raccolto, ricchezza, salute…

Eppure, se ci pensate, noi non siamo molto diversi dal popolo di Israele. Certo, non preghiamo e non ci prostriamo davanti a pianeti e stelle, e non ci lasciamo spaventare dai segni nel cielo, ma non lo facciamo solo perché non ne abbiamo bisogno: infatti noi sappiamo.

Noi possediamo le conoscenze e le tecniche necessarie per spiegare, ma anche sfruttare e costringere alla nostra volontà il tempo, la luce, il calore. Possiamo alzare e abbassare la temperatura a nostro piacimento; possiamo coltivare qualsiasi prodotto in qualsiasi posto e in qualsiasi stagione; possiamo rallentare o accelerare i processi di crescita. Non temiamo più gli astri e non cerchiamo di compiacerli, perché non sono più indispensabili: adesso possiamo appropriarci delle loro funzioni.

Anche per noi, come per il popolo di Israele, la creazione non è solo dono da accogliere con gratitudine e da condividere; la creazione è qualcosa di cui impadronirsi, da sottomettere e controllare; è una ricchezza da sfruttare.

Quasi senza accorgercene anche noi ci siamo costruiti delle divinità che richiedono attenzione, sacrifici, compromessi. Chi possiede acqua, aria, sole, terra, vento ha potere, ricchezza, energia, vita. Non c’è più gioia, né canto, né lode nelle parole della creazione: non siamo più compagni, non viviamo più gli uni per l’altra. Il nostro è diventato sempre più il tempo dello sfruttamento e della violenza.

Ma questo è solo l’inizio della storia, che continua con le parole di un narratore d’eccezione, il profeta Isaia:

Ecco il giorno del Signore giunge: giorno crudele, di indignazione e di ira furente,

che farà della terra un deserto e ne distruggerà i peccatori.

Poiché le stelle e le costellazioni del cielo non faranno più brillare la loro luce;

il sole si oscurerà mentre sorge, la luna non farà più risplendere il suo chiarore.

Io punirò il mondo per la sua malvagità e gli empi per la loro iniquità;

farò cessare l’alterigia dei superbi e abbatterò l’arroganza dei tiranni.    (Isaia 13,9-11)

Sorelle e fratelli, gli astri, le stelle, le costellazioni, il sole, la luna, sono creati per testimoniare il Creatore perché il progetto di Dio per noi comprende e coinvolge ogni elemento del creato. E quando noi ci allontaniamo da questo progetto, un progetto di amore, giustizia, salvezza, benessere, gli astri stessi ci avvertono.

Il giorno del Signore è il giorno in cui ci confrontiamo con la volontà di Dio per noi. E in quel giorno la terra diventa deserto, le stelle e le costellazioni non brillano, il sole che sorge si oscura e la luna non splende più.

Gli effetti della nostra gestione della creazione, li stiamo vedendo già da qualche anno: cambiamenti climatici, ghiacciai che si sciolgono, innalzamento del livello del mare, scomparsa di interi piccoli arcipelaghi, migrazioni di persone ma anche di animali, deforestazione e incendi, coltivazioni intensive che impoveriscono la terra e le popolazioni…  e spesso per contrastare gli effetti delle nostre scelte sbagliate, non facciamo che aggravare la situazione. In nome di uno sviluppo al quale non possiamo assolutamente rinunciare, cerchiamo sempre più di controllare lo scorrere del tempo, l’intensità della luce, le fonti di energia piegando la creazione alle nostre esigenze.

Continua Isaia:

In quel giorno il Signore punirà nei luoghi eccelsi l’esercito di lassù,

e giù sulla terra i re della terra;

La luna sarà coperta di rossore e il sole di vergogna                               (Isaia 24,21.23)

Così aveva detto il Signore:

«Nel tornare a me e nello stare sereni sarà la vostra salvezza;

nella calma e nella fiducia sarà la vostra forza».

Ma voi non avete voluto!

Avete detto: «No, noi galopperemo sui nostri cavalli!»

E per questo galopperete!

Tuttavia il SIGNORE desidera farvi grazia, per questo sorgerà per concedervi misericordia;

Quando andrete a destra o quando andrete a sinistra,

le tue orecchie udranno dietro a te una voce che dirà: «Questa è la via; camminate per essa!»

Egli ti darà la pioggia per la semenza con cui avrai seminato il suolo,

e il pane, che il suolo produrrà saporito e abbondante.

Sopra ogni alto monte e sopra ogni elevato colle ci saranno ruscelli, acque correnti

La luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte più viva,

come la luce di sette giorni assieme                                    (Isaia 30,15-16.18.21.23-26)

Fino a quando? È questa la domanda che con sempre più insistenza ci viene rivolta dai nostri fratelli e sorelle dei Paesi che più subiscono la nostra violenza, o la nostra indifferenza.

Fino a quando ci ostineremo a credere di essere noi a controllare il mondo e le sue risorse?

Fino a quando continueremo ad imporre a tutti e a tutto le nostre priorità, i nostri progetti, il nostro stile di vita?

Fino a quando continueremo ad illuderci di essere i sovrani del creato, invece che gli amministratori della creazione e i servitori delle creature di Dio?

Quel giorno, il giorno in cui il Signore ci ricorda che è lui la fonte della nostra vita, la sorgente della nostra energia, il senso della nostra storia, perfino la luna e il sole arrossiscono per la vergogna e ci sembra che non ci sia più nulla da fare, nessuna speranza.

Eppure le parole di Isaia non sono prive di speranza, perché Dio non smette di suggerirci la strada da percorrere, nonostante le nostre reticenze. Dio conosce la nostra umanità, la nostra fragilità, le nostre paure e ci assicura che, quando torneremo e ci affideremo a lui, collaborando al suo progetto di salvezza, allora l’ordine della creazione sarà ristabilito e il sole e la luna brilleranno di una luce mai vista perché lui stesso sorgerà e donerà la sua luce e il suo calore.

Non più il sole sarà la tua luce, nel giorno;

e non più la luna t’illuminerà con il suo chiarore;

ma il SIGNORE sarà la tua luce perenne.

Il tuo sole non tramonterà più,

la tua luna non si oscurerà più;

poiché il SIGNORE sarà la tua luce perenne,

i giorni del tuo lutto saranno finiti.    (Isaia 60,19-20)

Il sole, la luna, le stelle e noi… e ancora Dio.

È una storia che viene scritta giorno dopo giorno, e ognuno di noi ne scrive una pagina: le nostre scelte, le nostre azioni, la nostra testimonianza non sono indifferenti.

Quale sarà il finale? Nonostante tutto, Isaia è certo che il lieto fine non mancherà. Forse cambieremo mentalità, forse riconosceremo finalmente tra le tante voci che tentano di convincerci, la voce di Dio che ci indica la strada giusta da percorrere, forse riusciremo alla fine a sentirci compagni e compagne del mondo in cui viviamo… quello che è certo è che Dio non ritirerà la sua promessa: la sua luce continuerà ad illuminare il nostro buio, il suo calore continuerà a infondere coraggio, il suo amore accompagnerà sempre il nostro cammino.

Il tuo sole non tramonterà più, la tua luna non si oscurerà più;

poiché il SIGNORE sarà la tua luce perenne,

Amen.

Pastora Daniela Santoro

IL SOGNO DI SALOMONE

Davide si addormentò con i suoi padri, e fu sepolto nella città di Davide. … Salomone sedette sul trono di Davide suo padre, e il suo regno fu saldamente stabilito.

A Gabaon, il SIGNORE apparve di notte, in sogno, a Salomone. Dio gli disse: «Chiedi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone rispose: «Tu hai trattato con gran benevolenza il tuo servo Davide, mio padre, perché egli agiva davanti a te con fedeltà, con giustizia, con rettitudine di cuore a tuo riguardo; tu gli hai conservato questa grande benevolenza e gli hai dato un figlio che siede sul trono di lui, come oggi avviene. Ora, o SIGNORE, mio Dio, tu hai fatto regnare me, tuo servo, al posto di Davide mio padre, e io sono giovane, e non so come comportarmi. Io, tuo servo, sono in mezzo al popolo che tu hai scelto, popolo numeroso, che non può essere contato né calcolato, tanto è grande. Dà dunque al tuo servo un cuore intelligente perché io possa amministrare la giustizia per il tuo popolo e discernere il bene dal male; perché chi mai potrebbe amministrare la giustizia per questo tuo popolo che è così numeroso?»

Piacque al SIGNORE che Salomone gli avesse fatto una tale richiesta. E Dio gli disse: «Poiché tu hai domandato questo, e non hai chiesto per te lunga vita, né ricchezze, né la morte dei tuoi nemici, ma hai chiesto intelligenza per poter discernere ciò che è giusto, ecco, io faccio come tu hai detto; e ti do un cuore saggio e intelligente: nessuno è stato simile a te nel passato, e nessuno sarà simile a te in futuro. Oltre a questo io ti do quello che non mi hai domandato: ricchezze e gloria; tanto che non vi sarà durante tutta la tua vita nessun re che possa esserti paragonato. Se cammini nelle mie vie, osservando le mie leggi e i miei comandamenti, come fece Davide tuo padre, io prolungherò i tuoi giorni».

Salomone si svegliò, e capì che era un sogno; tornò a Gerusalemme, si presentò davanti all’arca del patto del SIGNORE e offrì olocausti, sacrifici di riconoscenza e fece un convito a tutti i suoi servitori.   (1 Re 2,10-12; 3,5-15)

Il mondo dei sogni è affascinante e incontrollabile. Basta ripensare ai nostri ultimi sogni: a volte ci capita di vivere le situazioni che più temiamo o che non sappiamo come affrontare; altre volte riviviamo situazioni in cui però personaggi, luoghi, tempi sono completamente differenti; altre volte ancora i nostri sogni sono assolutamente incomprensibili: scene sparse, senza alcun legame logico, sono popolate da persone che forse non sarebbe mai possibile riunire insieme. Nei sogni presente, passato e futuro non contano; la razionalità non è necessaria; le distanze non esistono.

Forse è anche per questo che a volte Dio si serve proprio dei sogni per comunicare con gli esseri umani, perché lì è più facile raggiungerci.

Salomone, alla morte del padre, il grande re Davide, si ritrova a capo del popolo che Dio si è scelto. Un compito difficile, tanto che Dio vuole dargli una mano e, durante il sonno, gli dice: “Chiedi ciò che vuoi che io ti conceda”.

Sembra la frase del genio della lampada: un desiderio, ma solo uno, da esaudire, un desiderio che una volta realizzato cambierà la tua vita e tutto andrà bene.

Quanti desideri affollano la nostra mente, desideri per i quali, a volte, saremmo pronti a tutt; quante cose sembra che ci manchino per poter definire soddisfacente la nostra esistenza…

Basta guardarci attorno: tante persone si lasciano tentare da facili guadagni; tante sprecano l’intero stipendio o la pensione nei giochi d’azzardo… (quante pubblicità arrivano sui nostri telefonini?) In televisione vengono trasmessi programmi che si offrono di realizzare ciò che più si desidera: migliorare l’aspetto fisico, rinnovare la casa, organizzare un matrimonio principesco, trascorrere megavacanza in zone esotiche…; quante pubblicità ci ricordano che è facile e veloce realizzare un sogno: basta chiedere un prestito, basta un giorno…

Se ci trovassimo al posto di Salomone, se avessimo la possibilità di chiedere a Dio ciò che vogliamo, che secondo noi ci permetterebbe di vivere bene, ci sentiremmo addirittura in imbarazzo.

E così Salomone pensa: forza militare eccelsa per vincere tutte le battaglie… fondi illimitati per realizzare qualsiasi progetto nel regno… fedeltà assoluta dei sudditi per evitare sommosse… sottomissione dei popoli vicini… oppure qualcosa per se stesso: vita lunga, serena, senza malattie, con molti figli, vera ricchezza di ogni famiglia del tempo, un periodo di regno tranquillo… che cosa scegliere?

Salomone sogna, e nei sogni, come abbiamo notato prima, passato, presente e futuro sono un’unica cosa, e così, prima di rispondere alla domanda di Dio, prima di scegliere, Salomone ricorda. Ricorda la storia del popolo di Israele, a partire dalle promesse fatte da Dio ai patriarchi e rinnovate nella storia gloriosa di Davide; ricorda la sua storia, il suo essere re, e la sua attenzione si sposta verso il futuro. Solo dopo aver considerato il presente, il passato e il futuro, Salomone risponde: dà al tuo servo un cuore intelligente per amministrare la giustizia per il tuo popolo e discernere il bene dal male.

Se Salomone fosse stato sveglio, probabilmente si sarebbe guardato attorno e si sarebbe lasciato condizionare e limitare dalle tante necessità del presente, ma nel sogno tutto è diverso.

Nel sogno davanti a Dio non c’è il re Salomone, con scettro in mano e corona in testa: Salomone è il servo convocato da Dio, non il potente che pretende, ma l’umile che riceve. Salomone è il giovane a capo del popolo di Dio che può riconoscere di essere inesperto e di aver bisogno di aiuto.

Nel mondo reale Salomone deve difendere il suo ruolo imponendosi agli altri, mostrandosi fermo, coraggioso, deciso… il sogno è il mondo in cui Dio ha scelto di incontrarlo per dargli la possibilità di valutare la sua offerta e decidere senza condizionamenti, liberamente. È un dono quello di poter essere se stessi, e non dover mostrare di essere quello che gli altri si aspettano.

E così nel sogno Salomone si riconosce nel popolo in cammino come uno strumento di Dio, non per realizzare il suo sogno personale di potere, ma per guidare se stesso e il popolo verso la vita che Dio ha da sempre in mente per l’umanità.

E solo adesso, finalmente, Salomone fa la sua scelta, che Dio conferma: Salomone riceve un cuore intelligente per compiere la volontà di Dio, sarà ricordato per la sua saggezza nell’ammi­ni­stra­re la giustizia, saprà distinguere il bene dal male.

Così la promessa del passato diventa presente per Salomone e per chi verrà dopo di lui. Ma Dio fa ancora di più: Oltre a questo io ti do quello che non mi hai domandato: ricchezze e gloriaSe cammini nelle mie vie, osservando le mie leggi e i miei comandamenti come fece Davide tuo padre, io prolungherò i tuoi giorni, ti benedirò, ti sosterrò.

Strana questa fine del dialogo fra Salomone e Dio: sembra che Dio con queste parole ponga una condizione alla realizzazione della promessa (se cammini nelle mie vie, se osservi le mie leggi…).

Ma, in fondo, Dio non chiede altro che quello che Salomone ha proposto: avere la saggezza per fare la sua volontà. E se Salomone ad un certo punto dovesse tentennare, sbagliare, e riporrà in altri la propria fiducia, come in effetti accade, che cosa succederà? La magia si spezzerà e la sua proverbiale saggezza lo abbandonerà?

La risposta è nella stessa frase: Dio propone Davide come modello di fedeltà. Se sfogliassimo i libri di Samuele, ci renderemmo conto che Davide non è stato proprio un credente perfetto, sempre fedele, da imitare in ogni cosa… anzi… Eppure Dio ha continuato ad amarlo e non gli ha rifiutato la promessa fatta.

Dio non torna indietro, non si lascia condizionare dalle risposte e dai comportamenti umani, e come è stato fedele alla sua promessa nel passato, con Davide, lo sarà anche con Salomone. E lo è ancora con noi oggi. Perché Dio forse non ci parlerà così chiaramente come ha fatto con Salomone, ma ogni giorno ci interpella chiedendoci di riflettere sulla nostra vita e sul nostro mondo e, alla fine, ci chiede: cosa vuoi che io ti conceda?

E qui la storia la fa ognuno di noi: sappiamo vincere la tentazione di considerare Dio un genio della lampada? Riusciamo a non lasciarci condizionare e limitare dal presente? Sappiamo chiedere qualcosa per il futuro e per la vita del popolo di cui facciamo parte, o ci limitiamo a inseguire la nostra sopravvivenza giornaliera?

Sappiamo chiedere a Dio di realizzare anche per noi la sua promessa, ricordando il passato e senza temere per il domani, o siamo così spaventati dal presente da non riuscire a fidarci della Parola di   Dio? Vogliamo chiedere a Dio la sua saggezza per fare la sua volontà?

Che Dio non si stanchi di rivolgerci ancora la sua parola, che non si stanchi di ricordarci il suo amore, che non si stanchi di proporci la sua volontà e di donarci la sua saggezza; che continui ad invitarci a partecipare al suo regno, un regno che in Gesù ha inaugurato per tutti coloro che a lui affidano la propria vita.

Che Dio ci accompagni verso il suo regno con la sua benedizione. Amen

Pastora Daniela Santoro

IL SANTO BACIO

“Del resto, fratelli, rallegratevi, ricercate la perfezione, siate consolati, abbiate un medesimo sentimento, vivete in pace; e il Dio d’amore e di pace sarà con voi. Salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo e l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”.  (2 Corinzi 13,11-13)

“Quella domenica i banchi della chiesa rimasero semi vuoti. Noi giovani, reduci dal ballo, cercavamo di soffocare gli sbadigli, mentre gli anziani bisbigliavano tra loro il peccato e la dissolutezza. Il pastore ci ammonì contro le tentazioni del periodo estivo, esortandoci a stare in guardia dai demoni che ci attiravano sulla via più larga. Per l’ennesima volta nominò l’alcol come la più grossa radice del male, e condannò senza pietà tutti i tavernieri clandestini che facevano affari nella zona infischiandosene della devastazione che provocavano”. (Mikael Niemi, Cucinare con l’orso, Iperborea 2018).

Lars Levi Laestadius, il protagonista del libro che vi ho citato, è un esperto botanico e anche un carismatico pastore di origini sami, fondatore del movimento detto Il Risveglio che a partire dalla metà dell’800 si diffonde nell’estremo Nord della Svezia e della Finlandia. L’amore per il ministero pastorale vede Laestadius sporcarsi le mani con le cose più orribili che la vita porta con sé, senza mai perdere la fede, né la voglia di testimoniare l’amore di Dio, nonostante i banchi della chiesa fossero, ogni domenica, per lo più vuoti o pieni di persone addormentate o annoiate.

“I banchi della chiesa domestica sono vuoti”, sembra urlare Paolo poco prima dei versetti che ci accompagnano questa mattina. “Non sono fisicamente con voi, sono in Macedonia, ma lo so che sono vuoti”, dice Paolo. È vero, i banchi sono vuoti! Allora come ora. Sono vuoti a causa del fatto che si manifestano degli apostoli arroganti, che si definiscono super apostoli e che mettono in dubbio le credenziali e l’autorità di Paolo. Qualcuno dice infatti: «Le sue lettere sono severe e forti; ma la sua presenza fisica è debole e la sua parola è cosa da nulla» (10, 10). I banchi sono vuoti!

E Paolo ci tiene a ricordare ai cristiani di Corinto che l’arroganza, manifestata dagli falsi apostoli, è l’opposto della debolezza attraverso cui Dio preferisce lavorare come ha dimostrato attraverso la croce di Cristo. I banchi sono vuoti perché quelli di Corinto non hanno voglia di praticare un discepolato responsabile. Come Laestadius, Paolo, si sporca le mani, si espone, si arrabbia perché quelli di Corinto hanno bisogno, per la seconda volta, che venga fatto il punto su cosa è la fede e su come deve essere vissuta. Ed è per questo che in poche frasi prepara un programma composto da una premessa e da 4 punti, precisi e motivazionali.

La premessa: “Infine, fratelli rallegratevi”. Come è possibile che i banchi siano vuoti! Non avete voglia di rivedere i vostri fratelli e le vostre sorelle? La parola adelphos può significare un fratello con gli stessi genitori fisici, ma anche fratello spirituale, un fratello o una sorella figli dello stesso Dio. I cristiani nel primo secolo si riferivano l’un l’altro come fratelli della stessa fede.

Paolo ha mantenuto uno spirito gioioso nonostante le avversità che ha affrontato (Atti 16:25, Filippesi 1:18, 2:17, 4:10). La sua gioia si basa sulla sua relazione con Cristo. Ora chiama la comunità di Corinto a rallegrarsi per la stessa ragione. È come se dicesse: “Voi non siete soli! Non potete non sentire lo sguardo amorevole di Cristo che si posa su di voi. Ed è quello sguardo che rende lieve la vostra vita nonostante affrontiate difficoltà, dolori, incomprensione. In Cristo, con Cristo, in ogni caso, è impossibile non essere rallegrati”.

Paolo offre poi un programma in quattro punti che può servire anche a noi:

  1. “ricercate la perfezione” (katartizo): la parola katartizo viene usata quando un artigiano fa un restauro di qualcosa di vecchio e danneggiato e ridà forma e valore ad un oggetto. L’idea che vuole qui illustrare Paolo riguarda il fatto che è davvero necessario essere spiritualmente in forma. Bisogna ridare valore alla nostra spiritualità, coltivarla con esercizio e passione. Bisogna andare al culto, occorre la lettura delle Scritture, è necessaria la comunione con la propria comunità. E tutto ciò solo perché non possiamo fare a meno dell’essere rallegrati nel Signore insieme alle altre e agli altri!
  2. “siate consolati” (parakaleo): la parola greca parakaleo combina due parole, para (a lato di) e kaleo (chiamare), e significa “chiamare di lato” o “incoraggiare” o “confortare”. Statevi vicino, coccolatevi, amatevi come per primo vi è vicino, vi coccola, ci ama Cristo. Sì è proprio Cristo che ti chiama, a te, personalmente, da parte, e ti dice le parole di cui hai bisogno al momento giusto.
  3. “abbiate un medesimo sentimento”. Certo Paolo lo sa che ogni comunità ha le sue caratteristiche e che all’interno di esse vi possono essere molte incomprensioni. Però Paolo sa anche, che Cristo, chiede di portare le proprie diversità nelle chiese e che le chiese stesse devono trovare il mondo affinché esse possano dialogare. Non si tratta qui di omologarsi ma di mettere in dialogo le differenze che possono pregare lo stesso Dio, lo stesso Cristo.
  4. “vivete in pace” (eirene): la pace (eirene) è una parola significativa, che è presente quasi cento volte nel Nuovo Testamento. Ha le sue radici nella parola ebraica shalom, che è stata usata frequentemente nell’Antico Testamento. Ma sia l’eirene che lo shalom possono anche riferirsi l’assenza di rancore o violenza tra individui o nazioni.

Paolo chiama i cristiani di Corinto e noi a vivere in armonia e tranquillità l’uno con l’altra. Solo seguendo questo programma di Paolo i banchi non saranno più vuoti ma pieni di gente motivata e alleggerita dal peso della vita grazie alla fede e alla comunità. Ma attenzione Paolo non parla solo dell’attenzione dovuta alla spiritualità. Paolo parla anche dei corpi delle donne e degli uomini e ricorda loro che la perfezione o il sentirsi consolati, che l’avere un medesimo sentimento e il vivere in pace hanno bisogno di esprimersi attraverso i nostri corpi. “Salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio” (v. 12).

Nella nostra cultura, i baci sono riservati a persone con le quali si ha un rapporto romantico o di parentela. Se noi però ci riconosciamo come fratelli e sorelle, siamo intimi in Cristo e quindi abbiamo un vincolo gli uni con le altre dato dalla fede! Nel Nuovo Testamento, il santo bacio era un simbolo dell’amore cristiano (l’amore che cerca il benessere dell’altra persona) piuttosto che l’eros (amore romantico). Era anche il simbolo della comunione cristiana. Gesù rimproverò Simone per non averlo salutato con un bacio (Tu non mi hai dato un bacio; ma lei, da quando sono entrato, non ha smesso di baciarmi i piedi. Luca 7:45). Nella chiesa primitiva, il santo bacio divenne parte della liturgia. Col passare del tempo, a causa di un uso improprio, la pratica si estinse nella chiesa occidentale, anche se è ancora viva nelle chiese ortodosse orientali.

Ma nulla è perduto! Possiamo ricominciare a darci il santo bacio, e vi invito a farlo, ora. Noi attraverso il santo bacio ci siamo riconosciuti in Cristo e ci sentiamo legati l’uno l’altra dalla nostra fede in Cristo.

Alla fine Paolo parla di grazia, associata a Gesù, di amore, associato a Dio, e di amicizia, associata allo Spirito Santo. Basta solo questo per riempire le nostre panche!  Le panche diventeranno piene, non scoraggiamoci!

Che Dio sia con noi nei nostri giorni e ci aiuti a riempire i banchi delle nostre chiese, che sia possibile non cadere nella trappola della tristezza; che sia possibile ripete, ogni giorno, il nostro “sì” convinto alla vita e soprattutto alla fede in colui che ci ha donato un nuovo respiro per stare al mondo con agio e sovranità.  AMEN

Pastora Daniela De Caro (sermone al culto di chiusura Assemblea II Distretto 2019)