Tommaso

“Se non vedo e non tocco, non credo”

Per me è stato diverso, forse doveva esserlo.
Tutta la mia vita è stata la stessa,
la stessa di mio fratello gemello:
gli stessi vestiti, lo stesso primo giorno di scuola – in sinagoga,
lo stesso compleanno – spesso gli stessi regali…
anche lo stesso nome, se la gente ci confondeva.
Gesù è stata la prima persona che mi ha veramente trattato come un individuo.
Sapeva che cosa fosse importante per me. Sapeva che cosa mi rendeva me stesso.
Così forse, riflettendoci,
Gesù aveva le sue ragioni per incontrare gli altri discepoli quando io non c’ero.
Fu una settimana strana per me:
tutti parlavano di angeli e fantasmi, di corpi rubati, di viaggi e di pane spezzato…
non sapevo a cosa credere.
Avevo bisogno di vedere Gesù con i miei occhi e una settimana dopo lo feci.
Lui stava davanti a me e si rivolgeva proprio a me, a Tommaso,
invitandomi a toccarlo per assicurarmi che fosse in carne e ossa.
Per me è stato diverso, ma forse è diverso per tutti.
Gesù chiama ognuno di noi in modo diverso e ci invita nella sua vita risorta.
(R. Burgess)

Or Tommaso, detto Didimo, uno dei dodici, non era con loro quando venne Gesù. Gli altri discepoli dunque gli dissero: «Abbiamo visto il Signore!» Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato, io non crederò».
Otto giorni dopo, i suoi discepoli erano di nuovo in casa, e Tommaso era con loro. Gesù venne a porte chiuse, e si presentò in mezzo a loro, e disse: «Pace a voi!» Poi disse a Tommaso: «Porgi qua il dito e guarda le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente». Tommaso gli rispose: «Signor mio e Dio mio!» (Giovanni 20,24-28)

Se non vedo e non tocco, non credo”… e così Tommaso è diventato il diffidente per antonomasia, il credente imperfetto. Eppure, che cosa ha fatto Tommaso di diverso rispetto agli altri discepoli?
Alla notizia che il corpo di Gesù era sparito, Pietro e un altro discepolo corrono al sepolcro per verificare le parole di Maria: cercavano una prova!
Quando Gesù si mostra agli altri discepoli, non solo parla, ma fa vedere loro le mani e il costato: dà loro una prova!
Perché Tommaso dovrebbe credere senza condizioni ad un annuncio irrazionale, incredibile, solo per la parola di presunti testimoni? Perché noi dovremmo credere all’annuncio che da migliaia di anni ci raggiunge invitandoci a riporre la nostra fiducia nel Risorto?
Noi come Tommaso sperimentiamo tutta la difficoltà di comprendere e di vivere l’annuncio che ci è rivolto, quella Parola che non vuole solo essere presa in considerazione e ritenuta vera, ma pretende di rivoluzionare il nostro modo di pensare, di scegliere, di agire; una Parola che ci vuole cambiare mentre la ascoltiamo, che vuole formare la nostra identità ed esserne parte. Per questo non basta solo ascoltarla, abbiamo bisogno di incontrarla, di sperimentarla nel nostro mondo personale… ed è questo, in fondo, che chiede Tommaso.
Credere nella resurrezione di Gesù, significa dover reinterpretare tutta la sua esperienza con il Maestro, significa dover rivedere le sue convinzioni, rielaborare i suoi progetti…
“Se non vedo e se non tocco”… e quando Gesù si presenta di nuovo a tutti i discepoli riuniti, ci aspetteremmo, come si vede spesso nelle opere d’arte ispirate a questo racconto, che Tommaso metta il ditino nelle ferite. Ma questo non accade.
Tommaso vede e ascolta il Risorto, esattamente come hanno fatto gli altri discepoli una settimana prima, e dopo… si, c’è un dopo, Tommaso fa qualcosa che gli altri discepoli non hanno fatto, Tommaso adesso confessa la sua fede: “Signor mio e Dio mio!”. E con questo ha compiuto il suo personale cammino di fede. Il Risorto non è solo il maestro Gesù risuscitato, non è un Signore e un Dio qualsiasi; non è il Signore e il Dio delle persone che glielo hanno fatto conoscere. Il Risorto è il Signore e il Dio della sua vita, il Dio che lo ha raggiunto nel momento del dubbio, dell’incredulità, dell’inquietudine, donandogli la risposta di cui aveva bisogno; il Risorto è il Signore e il Dio di Tommaso.
Una sorella nella fede con cui pochi giorni fa ho scambiato alcune mail proprio su Tommaso (questo scritto nasce da questo dialogo), mi ha fatto riflettere sul nome di questo discepolo: Tommaso in aramaico, Didimo in greco, Gemello in italiano. Lei scrive: “anch’io sono gemella e per esperienza so che si ha a che fare con la ricerca continua della propria identità, con la ricerca dei particolari che ai più sfuggono, con tutto ciò che questa situazione comporta”.
Più che dubitare, Tommaso è in ricerca: l’aver conosciuto Gesù ha messo in questione la sua vita, le sue scelte, e sente che sta cambiando. Tommaso è pronto a seguire Gesù fino alla morte (Gv 11,16), ma ammette anche di non sapere dove Gesù vada e quale sia la via da seguire (Gv 14,5); sa che Gesù è risuscitato, ma che conseguenza ha questa informazione sulla sua vita, in che direzione lo porta?
Gesù sembra ascoltarlo, lo conosce e sa di che cosa lui abbia bisogno: eccolo lì, davanti a lui. E le sue parole, in questo contesto, non sono un rimprovero, sembrano più un incoraggiamento: Non essere incredulo, ma credente.
Come Filippo, quando proviamo a vivere la nuova realtà della fede nella concretezza della quotidianità, ci scopriamo sì credenti, ma anche in ricerca, con tutte le nostre domande, i nostri vorrei, potrei, non so, mi piacerebbe… perché la fede non è solo una bella e confortante frase da ricordare all’occorrenza, ma un invito a vivere in modo rinnovato la propria esistenza, ad essere persone nuove, che trovano nell’incontro con Dio la loro vera e profonda identità.
Per questo l’incredulità di Tommaso è una richiesta: poter incontrare anche lui il Risorto. In fondo, anche quando noi parliamo agli altri e alle altre del conforto, della consolazione, dell’accompagnamento, del perdono, dell’amore che riceviamo da Dio, lo diciamo sperando che la nostra esperienza possa diventare concretamente l’esperienza di chi ci ascolta, e quando questo accade, significa che Dio si è reso visibile e si è fatto incontrare, ha risposto personalmente… proprio come ha fatto con Tommaso.

(Past. Daniela Santoro)

Dio, ci troviamo in uno spazio liminale,
il caos e il disordine hanno confuso le nostre vite,
i nostri tempi, i nostri pensieri, le nostre abitudini.
Ma in questo spazio ci offri ancora un tempo
per incontrarti e ricevere la tua pace.
Ci sediamo con i discepoli sul divano, attorno al tavolo,
con le porte chiuse a chiave e aspettiamo,
intimoriti, sperduti.
Ma quando ti rendi presente,
il tuo spirito di pace riempie i nostri spazi angusti.
Raggiungici e incontraci oggi,
donaci la stessa parola di speranza che hai dato ai discepoli spaventati
quella sera di Pasqua di tanti anni fa,
rasserenaci e rallegraci.
Te lo chiediamo nel nome di tuo Figlio,
il nostro Salvatore risorto, Gesù Cristo. Amen.

(L. Grammer)

Maria!

Giovanni 20,1.11-18

Il primo giorno della settimana, la mattina presto, mentre era ancora buio, Maria Maddalena andò al sepolcro e vide la pietra tolta dal sepolcro. Allora corse verso Simon Pietro e l’altro discepolo che Gesù amava e disse loro: «Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’abbiano messo»…
Maria, invece, se ne stava fuori vicino al sepolcro a piangere. Mentre piangeva, si chinò a guardare dentro il sepolcro, ed ecco, vide due angeli, vestiti di bianco, seduti uno a capo e l’altro ai piedi, lì dov’era stato il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?» Ella rispose loro: «Perché hanno tolto il mio Signore e non so dove l’abbiano deposto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Gesù le disse: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» Ella, pensando che fosse l’ortolano, gli disse: «Signore, se tu l’hai portato via, dimmi dove l’hai deposto, e io lo prenderò». Gesù le disse: «Maria!» Ella, voltatasi, gli disse in ebraico: «Rabbunì!» che vuol dire: «Maestro!» Gesù le disse: «Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli, e di’ loro: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro”». Maria Maddalena andò ad annunciare ai discepoli che aveva visto il Signore, e che egli le aveva detto queste cose.

Maria!
In quanti modi possiamo pronunciare un nome? Provateci: possiamo chiamare Maria per sapere se è in casa, per rimproverarla o perché abbiamo bisogno di aiuto e la invitiamo a precipitarsi da noi, o al contrario le intimiamo di fermarsi e fare attenzione, possiamo pronunciare il nome in modo canzonatorio, per giocare, spaventati o contenti nel vederla…

Rabbunì!
Come avrà pronunciato Maria questa parola? Con stupore, paura, incredulità, gioia…
Sicuramente questa donna non pensava che la sua giornata comprendesse l’incontro con un morto… con il Risorto.
Al mattino presto, nella penombra che precede l’alba, Maria si reca da sola al sepolcro.
Quante volte anche noi non riusciamo a dormire: pensieri, preoccupazioni, ansia, dolore… arrivati ad un certo punto, meglio alzarsi e fare qualcosa piuttosto che continuare a girarsi e rigirarsi nel letto. E spesso ci decidiamo anche noi ad “andare al sepolcro” ad affrontare quello che non ci fa dormire.
Maria ha molto a cui pensare: venerdì ha assistito alla crocifissione di Gesù e una volta morto, ha visto Giuseppe e Nicodemo occuparsi del suo cadavere, avvolgerlo nelle bende con aloe e mirra e poi deporlo nel sepolcro del giardino lì vicino. Probabilmente non era così che voleva separarsi da Gesù: troppa gente, troppi curiosi, troppo dolore… ma adesso può avvicinarsi al sepolcro nella calma della notte, nel silenzio che accompagna il risveglio. Ha bisogno di vedere la pietra che chiude il sepolcro e che separa definitivamente Gesù dalla vita; ha bisogno di “mettere una pietra sopra”, seppellire anche lei un’esperienza, un’amicizia, un capitolo della sua vita, in un misto di ricordi, sensazioni, emozioni, parole e gesti. Vuole chiudere definitivamente la notte per poter, all’alba, iniziare un nuovo giorno.
Ma arrivata al sepolcro, lo trova aperto: la pietra è stata tolta.
Non era preparata a questo: come aprirsi a qualcosa di nuovo, se il passato non è chiuso? E poi la paura, l’incomprensione, il non sapere cosa fare… probabilmente anche noi al suo posto ci saremmo seduti su una pietra a piangere guardando il sepolcro vuoto, e sentendoci anche noi svuotati delle nostre certezze.
Ma il sepolcro non è vuoto, anzi, è fin troppo affollato: al posto del cadavere ci sono due angeli vestiti di bianco che le chiedono tranquillamente: “Donna, perché piangi?”.
Come avranno pronunciato questa frase gli angeli? Con simpatia e affetto, con severa fermezza, con stupore… quel che sappiamo è che Maria dopo aver risposto, si volta immediatamente verso il giardino e la sua attenzione è attratta da quello che lei pensa essere l’ortolano.
Stessa domanda: “Donna, perché piangi?”.
E questa volta Maria parla, non si limita a rispondere educatamente come ha fatto con i due angeli dentro al sepolcro: con l’uomo comune, che è fuori, nel giardino, come lei, Maria osa esprimere i suoi pensieri. D’altra parte, Maria avrà pregato tanto negli ultimi giorni, ma la risposta che si aspettava non era arrivata: Gesù è morto. Cosa poteva dirle Dio adesso, e cosa poteva chiedere ancora lei a Dio o ai suoi messaggeri? Invece l’ortolano conosce il giardino, può aver visto cosa è successo… se qualcuno può dar-le una risposta, è lui!

Maria!
Solo un nome, e tutto cambia. Un nome in cui sembrano concentrarsi tutte le risposte e tutte le aspettative. Un nome che invita Maria a riconoscere lo straordinario nell’ordinarietà di quella notte. Maria ha visto una pietra rotolata, un sepolcro vuoto, degli angeli al posto di un cadavere, ha sentito la loro voce chiedere il motivo del suo pianto, ha odorato l’aloe e la mirra che impregnavano le bende che ora sono per terra…
Anche noi a volte valutiamo la realtà solo basandoci sulle nostre aspettative: a volte vediamo, sentiamo, tocchiamo, incontriamo… ma non sappiamo riconoscere i messaggeri di Dio accanto a noi, non riusciamo a vedere la luce che si insinua nel buio e ci permette di vedere, prima dell’alba, il sepolcro vuoto e le bende a terra. E come Maria restiamo nel giardino a piangere e riponiamo la nostra fiducia nell’ortolano, non in Dio.
Ma basta essere chiamati per nome perché tutto cambi.
Il Risorto chiama Maria per nome portandola nel suo presente, ricollegandola a quel passato su cui avrebbe voluto “mettere una pietra sopra”. L’esperienza di nuova vita, dignità, giustizia, amore, verità vissuta con Gesù, non si conclude con la sua morte, anzi, costituisce quel passato che permette di vivere il presente nella speranza, riconoscendo i segni della presenza di Dio che illuminano il buio prima dell’alba, aprono i sepolcri nella nostra vita, ci sostengono e accompagnano nelle nostre notti insonni, nei nostri dubbi e nelle nostre paure.
Ogni volta che le nostre preghiere sembrano non trovare risposta, ogni volta che i nostri progetti svaniscono nonostante i nostri sforzi, ogni volta che la violenza ci scandalizza, che la malattia ci fa soffrire, che la paura ci assale, tutte le volte in cui non riusciamo a sentire la presenza, l’amore, la consolazione, la pace promesse da Dio, possiamo sentir chiamare il nostro nome e guardando verso il sepolcro, ci accorgeremo che la pietra non è più al suo posto, la speranza non è sconfitta e noi siamo ancora in cammino.
Il Risorto invita Maria a non trattenerlo: è un invito a vivere il presente senza aggrapparsi e rinchiudersi nel passato. E forse per questo il compito che le dà è veramente senza precedenti: Maria deve testimoniare agli altri discepoli che Gesù è risorto; che il sepolcro non è più un luogo di morte: Dio è presente anche lì con i suoi messaggeri; che le promesse di Dio si adempiono.
È lei che deve parlare, una donna comune. Siamo noi, a dover parlare, uomini e donne comuni… che si disperano, dubitano, si arrabbiano, si spaventano, indietreggiano e ci mettono un po’ a capire che cosa sta succedendo… ma quando veniamo chiamati, possiamo riconoscere e indicare la luce attorno a noi, prima dell’alba. Amen.

(Past. Daniela Santoro)

Signore Gesù Cristo,
risorto all’alba del nuovo giorno.
Nel giardino ancora umido della rugiada del primo mattino
troviamo una tomba vuota: non sei qui!
Tu sei al nostro fianco, risorto e glorificato.
Hai distrutto la morte.
Hai spezzato le catene dell’oppressione.
Ci hai preceduto nei luoghi più oscuri e spaventosi
e li hai resi inoffensivi.
Gesù Cristo,
tu che sei in eterno,
ieri, oggi e per sempre,
tua è la vittoria.
La terra ora comincia a svegliarsi,
sii con noi in questo giorno e per sempre
Amen
(D. Broom)

Domenica 19 aprile

Egli è risuscitato!

(Matteo 28,6)

Quali sono le reazioni a questa notizia?

NON E’ VERO
Alcuni della guardia vennero in città e riferirono ai capi dei sacerdoti tutte le cose che erano avvenute. Ed essi, radunatisi con gli anziani e tenuto consiglio, diedero una forte somma di denaro ai soldati, dicendo: «Dite così: “I suoi discepoli sono venuti di notte e lo hanno rubato mentre dormivamo”.  (Matteo 28,11-13)

E perché non dovrebbe essere andata così? Perché i discepoli di Gesù non avrebbero dovuto, dopo la sua morte, recuperare il cadavere e far credere che fosse risorto? In questo modo avrebbero evitato di dover ammettere, almeno di fronte agli altri, di aver riposto la propria speranza in un impostore…
No, non impostore, perché gli insegnamenti, le guarigioni, l’inclusione sociale e religiosa, il dono della dignità, non sono stati illusioni, erano reali: la vita di chi ha incontrato Gesù è veramente cambiata. Gesù non ha mai agito per se stesso e se ha parlato di sé, lo ha fatto per far conoscere Dio. La crocifissione e la morte di Gesù non cancellano la sua testimonianza.
La resurrezione però porta qualcosa in più: compie il messaggio evangelico e coinvolge tutti e tutte. L’annuncio della resurrezione infatti non raggiunge solo i contemporanei di Gesù, ma chiunque ascolti la sua storia, la storia di Dio con l’umanità. E quando la ascoltiamo ci rendiamo conto di farne parte, non come semplici comparse, ma come protagonisti. Questa scoperta, se la facciamo nostra, ci rende liberi e libere. Liberi dalla morte, dalla disperazione, dalla rassegnazione, dalla solitudine, dai giochi di potere, dalla paura, dalla vergogna, dai pregiudizi… liberi di ammettere tutti i limiti nostri e dell’umanità sapendo di essere accolti e rinnovati dall’amore di Dio, sicuri di essere stati creati non per la morte, ma per la vita, convinti che siamo chiamati a testimoniare la certa speranza del nuovo mondo di Dio.

VI SIETE SBAGLIATI
Il primo giorno della settimana, la mattina presto, mentre era ancora buio, Maria Maddalena andò al sepolcro e vide la pietra tolta dal sepolcro. Allora corse verso Simon Pietro e l’altro discepolo che Gesù amava e disse loro: «Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’abbiano messo». Pietro e l’altro discepolo uscirono dunque e si avviarono al sepolcro. I due correvano assieme, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse primo al sepolcro; e, chinatosi, vide le fasce per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro, e vide le fasce per terra, e il sudario che era stato sul capo di Gesù, non per terra con le fasce, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro, e vide, e credette. Perché non avevano ancora capito la Scrittura, secondo la quale egli doveva risuscitare dai morti. I discepoli dunque se ne tornarono a casa. (Giovanni 20,1-11)

Si, qualcosa è successo: il cadavere non è più nella tomba… ma non tutto quello che vediamo, sappiamo spiegarcelo; non a tutto quello che vediamo, crediamo.
I discepoli vorrebbero credere e per questo corrono al sepolcro per verificare, loro stessi, l’informazione. Corrono, vedono, uno crede e l’altro registra l’informazione ed entrambi, non capendo, la mettono da parte. Niente cambia: erano a casa e ora tornano a casa.
Anche a noi viene annunciata la resurrezione e anche noi corriamo, ci rechiamo nei tanti sepolcri del nostro mondo, della nostra società, della nostra vita. E i sepolcri sono ancora là, la pietra è tolta, il sepolcro è aperto, guardiamo… e torniamo a casa. Crediamo che qualcosa sia successo, che qualcosa di nuovo sia possibile… ma torniamo a casa.
È troppo poco vedere uno spiraglio di luce di vita inondare il buio della morte? È troppo poco constatare che il macigno che chiudeva il sepolcro è stato spostato eliminando la barriera che separava la vita e la morte? È troppo poco rendersi conto che Dio è signore della vita e il suo amore ha l’ultima parola anche sulla morte? È troppo poco accorgersi che possiamo oltrepassare il confine del sepolcro e collegare quei mondi che ci sembrano a volte così distanti, la vita e la morte, ma anche la gioia e il dolore, la serenità e la sofferenza, la giustizia e il pregiudizio, l’amore e l’egoismo, il cielo e la terra? La pietra è tolta, il cadavere non c’è più, Gesù è resuscitato: tutto cambia…
Eppure con i discepoli corriamo, vediamo, crediamo, non riusciamo a capire e torniamo a casa aspettando, insieme a loro, che accada qualche altra cosa.

DAVVERO?
Or Gesù, essendo risuscitato la mattina del primo giorno della settimana, apparve prima a Maria Maddalena, dalla quale aveva scacciato sette demòni. Questa andò ad annunciarlo a coloro che erano stati con lui, i quali facevano cordoglio e piangevano. Essi, udito che egli viveva ed era stato visto da lei, non lo credettero. Dopo questo, apparve in modo diverso a due di loro che erano in cammino verso i campi; e questi andarono ad annunciarlo agli altri; ma neppure a quelli credettero. (Marco 16,9-13)

È sicuramente facile credere a quello che vediamo e possiamo verificare, mentre, spesso, non osiamo credere quello che speriamo. E quanto è difficile parlare di quello che crediamo se non possiamo dimostrarlo.
Maria e i due discepoli ci provano, ma invano. I discepoli non credono alla parola della donna, ma neanche a quella più autorevole di due di loro, due del gruppo.
La resurrezione non è un’esperienza del nostro mondo. Un uomo torturato, morto su una croce, deposto in un sepolcro, non può essere vivo: dopo la morte e la sepoltura non ci può essere altro che cordoglio e pianto, anche se il sepolcro è aperto, anche se il corpo non c’è più… perché se invece fosse tutto vero… che cosa dovremmo fare? Non dovremmo cambiare il nostro modo di pensare, di agire, di relazionarci?

SI, E’ RISORTO!
Poi Gesù apparve agli undici mentre erano a tavola e li rimproverò della loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che l’avevano visto risuscitato. (Marco 16,14)

Incredulità e durezza di cuore.
Gesù è risorto? L’amore di Dio vince sulla morte? Sono creata per la vita? Dio è signore della storia?
Non ci credo finché non ne vedo le prove. O meglio, credo, perché come ai discepoli, anche a me è stato annunciato, ma finché non ne vedo chiaramente gli effetti nella mia vita, rimango in attesa, a casa, a piangere e fare cordoglio, a lamentarmi e prendermela con Dio che non fa abbastanza per me e per il mio mondo.
Incredulità e durezza di cuore sono strettamente collegate.
Credere la buona notizia della resurrezione di Gesù significa abbattere i muri della nostra cameretta allargando il nostro mondo e collegandolo a quello degli altri e delle altre, entrare nella comunione che Dio crea con noi e fra di noi.
Credere che Gesù è risorto significa riconoscere la presenza di Dio nel nostro mondo, non solo nel mio;
significa distinguere la luce che entra nei sepolcri attorno a noi perché le pietre sono state spostate, e avere il coraggio di entrare per farli diventare luoghi di vita, di amore, di condivisione, di dignità, di speranza;
significa lasciarsi consolare e incoraggiare, perché la testimonianza che abbiamo ricevuto dalle parole e dalle opere di Gesù, adesso è compiuta: Dio ci ha rivelato il suo progetto per l’umanità, un progetto di vita, e non di morte, di speranza e non di rassegnazione, un progetto per tutti e tutte, non solo per qualcuno.
Nei sepolcri si entra, o si viene portati, ma dai sepolcri si esce, si viene portati fuori.
La resurrezione di Gesù non è una notizia da conoscere, ma da vivere e condividere. Dio ha rotolato la pietra del sepolcro perché noi potessimo oltrepassare tutti i confini che ci impauriscono, che ci minacciano, che ci impediscono di vivere bene, di vivere con lui. Questa è la nostra fede e la nostra certa speranza, da vivere e condividere.

E Gesù disse loro: Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura. (Marco 16,15)

Gesù è risuscitato.

Amen.

 

INNO 110 – Gloria al Signor in terra e in ciel!

Ivan Furlanis, organista della Chiesa Metodista di Padova

Past. Daniela Santoro

Pasqua

Culto di Pasqua

Culto di Pasqua a cura delle pastore e dei pastori del VII Circuito

Saluto: Sovrintendente Maria Paola Gonano
Liturgia a cura delle/i pastore/i:
Marco Casci, Dieter Kampen,
Daniela Santoro, Laura Testa
Predicazioni: past. George Ennin, past. Davide Ollearo

LINK: https://youtu.be/R6xLCPLiFis

Venerdì santo

In questo si è manifestato per noi l’amore di Dio:
che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo affinché, per mezzo di lui, vivessimo.
In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi,
e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati.

(1 Giovanni 4,9s)

Matteo 27,27-44 (testo)

Tutto quello che precede la morte di Gesù, è scherno, beffa, derisione.
I pellegrini che si erano recati a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua, i discepoli che, nonostante gli avvertimenti, non sono stati in grado di capire il progetto di Dio, la folla che conosceva Gesù per fama, forse gli stessi farisei e dottori della legge: tutti si aspettavano qualcosa da Gesù… ma in soli tre giorni, dal lunedì al mercoledì, tutte le speranze riposte in lui vengono disilluse.
I mantelli che erano stati spiegati per accogliere il passaggio di Colui che viene nel nome del Signore, non sono sulla strada che porta Gesù al Golgota: chi lo aveva accompagnato con lodi e canti, ora lo accusa e tortura.

Vorremmo dire che non capiamo… e invece capiamo benissimo: capita anche a noi. Quando veniamo delusi nelle nostre aspettative, quando le nostre certezze e poi le nostre speranze svaniscono, si alternano in noi rassegnazione e rabbia.

Sei tu il re dei giudei? Sei tu il messia che ci era stato annunciato?
Perché, dopo essere entrato a Gerusalemme non hai chiamato a raccolta il popolo e non lo hai guidato verso la libertà?
Se non ci hai preso in giro, scendi da quella croce: chiedi a Dio di liberarti. Cogli l’attimo: dopo aver fatto credere di essere debole, innocuo, un agnello in mano ai tuoi aguzzini, ora è il momento giusto per rivelarti come figlio di Dio.
Se scenderai dalla croce, come potremmo non credere in te, non seguirti, non adorarti?
Scendi, e saremo con te. Fa’ quello che noi ci aspettiamo, e noi ti seguiremo.

Ma Gesù non risponde. E la provocazione diventa scherno, insulto, rabbia. Più la gente non capisce, più diventa violenta; più Gesù non risponde e non fa quello che gli chiedono, più viene considerato falso e lasciato solo.

Come siamo simili, noi e la folla! Sappiamo esattamente che cosa Dio dovrebbe fare per noi, ma Lui sembra non ascoltarci; gli offriamo anche delle alternative, ma lui non risponde; ci proponiamo di aiutarlo se farà ciò che ci aspettiamo da lui, ma niente, non si muove… e il dubbio si insinua nei nostri pensieri: ma, allora, le sue promesse sono false? i suoi progetti inconsistenti? le sue parole illusioni? abbiamo mal riposto la nostra fede? A volte anche noi arriviamo a supplicare, fino a quando rassegnati, delusi, arrabbiati, siamo pronti a voltare le spalle…

MATTEO 27,45-50 (testo)

Per tre ore il buio avvolge Gerusalemme e preannuncia la morte di Gesù.
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”
Chissà che cosa voleva esprimere Gesù con queste parole: abbandono, sofferenza, forse anche paura all’avvi­cinarsi della morte…
Ma anche questo grido di Gesù viene frainteso dalla folla: “Ecco, chiama Elia”.
E forse la speranza si riaccende: se Gesù non può scendere dalla croce, allora verrà Elia in suo aiuto; Dio non ci deluderà!

Ma Elia non arriva: Gesù muore, e con lui svaniscono anche le ultime piccole speranze ancora segretamente riposte negli animi dei suoi seguaci. Tutti e tutte tornano a casa, alcuni delusi, altri arrabbiati o increduli o rassegnati…

E noi? Dove siamo? Davanti alla croce, sulla via per casa o già impegnati in altre attività?
Davanti alla croce prevalgono la compassione, la rassegnazione, il dispiacere che normalmente si provano nei confronti di chi muore ingiustamente, vittima innocente.
Rassegnazione e pietà: Giuseppe d’Arimatea si preoccuperà di trovare un posto in cui posare il corpo di Gesù, mentre le donne pensano già agli oli e ai profumi per la sepoltura: che altro si può fare? Quella di Gesù è stata una bella parentesi, ma la vita è altro. La liberazione, la salvezza, il compimento delle promesse di Dio, avverranno in un altro modo… in un altro tempo.

Ma… se invece questo fosse proprio il momento giusto per rivolgerci a Dio? Il momento giusto non per dargli consigli o mostrargli la nostra contrarietà per il suo silenzio, ma per esprimere i nostri dubbi, le nostre paure, il nostro bisogno di consolazione?
Gesù, anche in questo ultimo atto della sua vita, ci un’indicazione: le sue parole sono: Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ricordate?
È con questa frase che si apre il salmo 22 (testo).

La storia del salmista, sembra rivivere e compiersi in quella di Gesù. Una storia di dolore, sofferenza, tradimento, solitudine, che viene narrata a Dio per viverla insieme a lui; la storia del presente di un uomo che confida nel futuro promesso da Dio… ma anche la storia di un Dio che non rinuncia a condividere l’esistenza umana per poterla redimere e salvare, non dall’alto dei cieli, ma nel profondo della terra; non nella pace dei cieli, ma nel trambusto della nostra vita.

E così una storia senza lieto fine, si prepara a diventare la storia della speranza; una storia di solitudine e abbandono, si rivela la storia dell’Emmanuele, del Dio con noi.

Inno 102 (clicca per ascoltare) Innario Cristiano – Claudiana
Ivan Furlanis, organista della chiesa metodista di Padova

Signore,
in questi giorni sono tante le domande e i dubbi che si affollano nella nostra mente,
sul nostro presente, ma anche sul nostro futuro;
sui nostri progetti, ma anche sul tuo progetto per noi.

Abbiamo la tentazione di considerarci semplici spettatori della settimana santa,
invece ci scopriamo parte della folla,
quella folla che pur avendoti vicino, è lontana da te.

Siamo lontani ogni volta che ci consideriamo unici artefici della nostra esistenza;
ogni volta che tristi, sconsolati, delusi,
ti accusiamo di non fare abbastanza, di deluderci, di averci abbandonato;

ogni volta che ti sfidiamo a mostrare il tuo potere, il tuo amore, la tua misericordia;
ogni volta che stendiamo i nostri mantelli al tuo passaggio, ma evitiamo di accompagnarti,
aspettando che tu compia il tuo volere per noi e non insieme a noi.
Ma ai piedi della croce ti riscopriamo nostro fratello, nostro Padre, nostra speranza, nostro Dio,
colui che “non ha disprezzato né sdegnato l’afflizione del sofferente,
non gli ha nascosto il suo volto;
ma quando quello ha gridato a lui, Egli l’ha esaudito”. (Salmo 22,24)

Ascoltaci ed esaudiscici. Te lo chiediamo nel nome di Gesù, Amen.

Past. Daniela Santoro

Domenica delle Palme

Esulta grandemente, o figlia di Sion,
manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme;
ecco, il tuo re viene a te;
egli è giusto e vittorioso,
umile, in groppa a un asino,
sopra un puledro, il piccolo dell’asina.
(Zaccaria 9,9)

Marco 10,46-11,11  (testo)

Una storia di mantelli!

Si, mantelli. Sono loro i protagonisti nascosti del viaggio di Gesù da Gerico a Gerusalemme. L’evangelista Marco sottolinea che Bartimeo ha un mantello, che i discepoli mettono i propri mantelli sul puledro che poi daranno a Gesù, che la folla dei pellegrini stende i mantelli al passaggio di Gesù.
Il mantello è una delle poche cose che un mendicante cieco come Bartimeo possedeva ed era una grande ricchezza: lo poteva usare come cuscino, stare seduti tutto il giorno a terra non è comodo; lo poteva usare come coperta o per nascondersi alla vista degli altri, lui che per tutto il giorno era costretto ad esporsi sulla strada per sopravvivere.
Quando Bartimeo sente che sta passando Gesù, lo chiama e Gesù, a sua volta, lo fa chiamare: non si vedono, ma è come se già si conoscessero e riconoscendosi si chiamano a vicenda.
E a questo punto, dopo essere stato chiamato da Gesù, il mantello di Bartimeo prende letteralmente il volo. Bartimeo sa che andando da Gesù troverà ciò di cui ha veramente bisogno. E infatti, dopo l’incontro e la guarigione, Bartimeo non torna indietro per recuperare il suo mantello: lui segue Gesù.

Anche i discepoli rinunciano, anche se momentaneamente, ai propri mantelli quando li usano come sella sul puledro, e anche la folla vedendo arrivare Gesù stende i propri mantelli al suo passaggio  riconoscendolo come Colui che viene nel nome del Signore per portare a compimento le profezie. Tutti lodano Gesù, gli mostrano rispetto, lo acclamano… ma tutti, subito dopo, riprendono i mantelli in mano, nessuno lo segue.
E Gesù, forse perché non viene chiamato e non gli viene fatta alcuna richiesta, non parla, si limita a guardarsi attorno.

Ogni anno, ricordando la domenica delle palme, Gesù ci passa accanto. E ogni anno dobbiamo decidere cosa fare del nostro mantello.

Possiamo tenerlo strettamente in mano per paura di perdere quel po’ di sicurezza che abbiamo e limitarci a dire di credere in Gesù, quel Dio un po’ strano che vuole sconfiggere la morte morendo e che ci rende signori sul mondo invitandoci a servire il nostro prossimo.
Possiamo stendere il nostro mantello ai piedi di Gesù, confessando la nostra fede nel re che viene ad instaurare un nuovo regno… e aspettare che lui realizzi quello che noi abbiamo in mente per la nostra vita.
Possiamo gettare via il nostro mantello, perché riconosciamo come Bartimeo che dopo Pasqua qualsiasi mantello, qualunque sicurezza abbiamo in mano, non serve più a niente. E vedendolo passare, possiamo chiamarlo, attirare la sua attenzione, sapendo che lui risponderà al nostro richiamo e ci chiamerà a sua volta donandoci ciò di cui abbiamo bisogno.

Sono tre scelte diverse che per quanto abbiano le stesse parole, “credo in Gesù Cristo Salvatore”, hanno conseguenze molto diverse.

Dire “io credo” con il mantello in mano significa non aspettarci niente da Dio adesso; questa è la fede del poi, del “qui sulla terra ognuno si deve arrangiare come può, quindi si, credo, ma ne riparliamo nel regno che verrà”. Penso che questa sia una posizione molto diffusa, anche se è l’espressione di una fede senza speranza, una fede triste e solitaria.

Se dico “io credo” e stendo il mio mantello davanti a Gesù, riconosco la sua regalità, l’onore che gli spetta: penso di sapere tutto di lui, di averlo riconosciuto, come la folla che accoglie Gesù a Gerusalemme. Ma a volte Dio non è come noi vorremmo che fosse: i suoi piani non sono i nostri, e rischiamo di non accoglierlo quando i nostri pensieri e i suoi pensieri divergono, esattamente come accade alla folla nei giorni successivi; rischiamo di non riuscire a comprendere le sue parole, proprio come accade ai discepoli prima della resurrezione.

E poi c’è la fede di Bartimeo, una fede senza pretese, che non ha bisogno di vedere, ma si fida e contro ogni ragionevolezza si affida a Dio gettando via il mantello per seguire Gesù. È la fede che si esprime nel condividere con gli altri e le altre la gioia della salvezza: una fede non solitaria, ma lieta nella comunione con Dio e con gli altri.

Sorelle e fratelli, dove mettiamo quest’anno il nostro mantello?
In questo periodo stiamo sperimentando la fragilità del nostro essere umani e l’instabilità delle nostre sicurezze… ma riusciamo ad affidarci a Dio, a chiamarlo, a esprimergli il nostro dolore, la nostra sofferenza, i nostri dubbi e, come Bartimeo, a gettare il nostro mantello certi di ricevere da lui ciò di cui abbiamo bisogno? Sappiamo rinunciare alle nostre idee e alle nostre aspettative su Dio per dialogare con lui chiedendogli le risposte che non riusciamo a trovare da soli e chiedendogli il conforto che ci può consolare, quella Parola di vita capace di rinnovare la nostra speranza?

Io credo. Diciamolo con le mani libere, alzate insieme verso il nostro Salvatore.
Amen.

Inno 96 (clicca per ascoltare)
“A Gerusalemme il Signor giungeva” – Innario Cristiano, Claudiana
Ivan Furlanis, organista della Chiesa Metodista di Padova

La benedizione di Dio,
che guida le nostre speranze e i nostri sogni, ci conceda la pace;
la benedizione di Gesù Cristo,
che entra nelle nostre città per portare la salvezza, ci conceda la pace;
la benedizione dello Spirito Santo,
che ci sostiene nelle nostre paure e nelle nostre difficoltà, ci conceda la pace;
in questa domenica delle Palme,
durante il ricordo degli eventi della settimana santa, fino alla croce del venerdì santo e oltre,
per accogliere con gratitudine la speranza certa e i sogni realizzati della nuova vita
nell’alba del mattino di Pasqua. Amen.

Past. Daniela Santoro

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Fammi giustizia, o Dio!

Salmo 42
Come la cerva desidera i corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio.
L’anima mia è assetata di Dio, del Dio vivente;

quando verrò e comparirò in presenza di Dio?
Ricordo con profonda commozione il tempo in cui

camminavo con la folla verso la casa di Dio,
tra i canti di gioia e di lode d’una moltitudine in festa.

Salmo 43
Fammi giustizia, o Dio, difendi la mia causa.
Tu sei il Dio che mi dà forza; perché mi hai abbandonato?
Perché devo andare vestito a lutto per l’oppressione del nemico?
Manda la tua luce e la tua verità, perché mi guidino,
mi conducano al tuo santo monte e alle tue dimore.
Allora mi avvicinerò all’altare di Dio, al Dio della mia gioia e della mia esultanza;
e ti celebrerò con la cetra, o Dio, Dio mio!
Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora;
egli è il mio salvatore e il mio Dio.

I salmi 42-43 esprimono bene i nostri sentimenti, i nostri dubbi, le nostre domande in questi giorni.
Quando potremo incontrarci nuovamente alla presenza di Dio, cantare e gioire insieme?
Perché dobbiamo vivere nel lutto? Per quanto ancora dovremo sentirci trafitti e sconfitti?
E se Dio ci avesse davvero abbandonato? Se si fosse dimenticato di noi?

Stiamo vivendo anche noi come il salmista un periodo buio, un periodo in cui lottiamo contro un nemico più grande e più forte di noi, che intacca il nostro corpo, ma anche ciò che possediamo, i nostri pensieri, la nostra speranza, la nostra fede. Un nemico che ci fa sentire impotenti perché svela tutte le nostre fragilità e le nostre paure. Un nemico davanti al quale si può solo indietreggiare e barricarsi in casa.
È facile rassegnarsi, considerarsi in balìa del destino, preda del caos e spesso ci si limita a ripetere che alla fine andrà tutto bene.
Ma il salmista ci invita a fare qualcosa in più.
Ci invita a ricordare che le nostre vite, per quanto fragili, non sono lasciate a loro stesse;
che il nostro cammino, per quando in salita, è segnato e accompagnato;
che la nostra salvezza non è in forse;
che qualunque cosa accada, abbiamo una promessa che non verrà mai meno.

La preghiera del salmista è: “Signore, fammi giustizia!”.
Fammi giustizia. È la richiesta che rivolgiamo al giudice quando qualcosa che ci appartiene ci viene sottratto, quando un diritto ci viene negato.
Fammi giustizia. È la richiesta che rivolgiamo a Dio perché quello che ci ha fatto conoscere e ci ha donato, ci sembra che, poco a poco, lo stiamo perdendo, non ci appartiene più: la vita, il benessere, la gioia, la serenità, la comunione, l’amore, la speranza…
Ci possiamo rivolgere a Dio con fiducia perché sappiamo che lui non si limita a giudicare dall’alto dei cieli, ma agisce, lui stesso, sulla terra per ripristinare la sua giustizia. Ed è questo che gli chiediamo, di rendersi presente, di mettersi al nostro fianco, fedele alla sua Parola.
Lo chiediamo senza paura perché se il giudice-Dio accusa, lo fa per poterci difendere; e quando ci convoca non lo fa per imprigionarci, ma per liberarci. Proprio in queste settimane in cui ricordiamo la morte e la resurrezione di Gesù, corriamo il rischio di dimenticare la realtà della sua promessa, la certezza della speranza che ci appartiene e non può esserci tolta. Il Dio che si è fatto conoscere da noi, è il Dio che ci ama e che in Gesù Cristo ha fatto tutto per noi. Per questo possiamo dire con il salmista: “Signore, fammi giustizia! Riporta la mia vita e il mondo alla tua giustizia”.
Quella che stiamo vivendo non è la volontà di Dio per noi e il periodo che stiamo attraversando non è una prova per verificare la nostra fede, la nostra forza, il nostro coraggio.
Il periodo che viviamo è una galleria, buia, lunga, insidiosa… ma con una corsia d’emergenza a lato, con piazzole di sosta e telefoni per segnalare le difficoltà. Non dobbiamo attraversarla da soli: anche se sia-mo isolati, se procediamo distanziati gli uni e le une dagli altri e dalle altre, il Signore ci sostiene e vuole essere la nostra luce, vuole ancora offrirci la sua speranza e donarci la sua salvezza… qualunque cosa accada. E nel caso in cui non riuscissimo ad andare avanti e ad uscire dalla galleria, Dio assicura che ci resterà comunque accanto e il suo abbraccio ci accoglierà: tutti e tutte saremo sempre con Lui, come ha promesso. È questa la buona notizia che ci viene nuovamente annunciata oggi.

Signore, fammi giustizia! Dammi forza quando mi sento abbandonato.
Nell’oscurità della malattia, del lutto, della paura,
manda la tua luce e la tua verità perché mi guidino:
corro il rischio di perdermi, di arrendermi, di dimenticarti.
Fa’ che non mi fermi nel cammino che conduce a Te,
ma sostieni ogni mio passo, per quanto piccolo e timoroso sia.
E quando io non riuscirò più ad andare avanti, portami tu: mi affido a Te.
Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora;
egli è il mio salvatore e il mio Dio.

Amen.

Past. Daniela Santoro

IL SERVO DI DIO

Oggi è la domenica che viene dedicata nelle nostre chiese ogni anno alla CEVAA, un organismo che non tutti i nostri membri conoscono, per cui un piccolo accenno va fatto. La CEVAA è la Comunità di chiese protestanti in missione; raggruppa chiese di 24 Stati in Africa, America Latina, Europa, Oceano Indiano e Pacifico e porta la sua riflessione dentro gli Istituti di formazione teologica. (da Riforma)

Per quest’anno la CEVAA ha suggerito per la predicazione un passo di Isaia che a me è molto piaciuto e che mi ha “costretta” ad un ripasso di questo libro così spesso citato nelle nostre chiese. Ma perché questo suggerimento? Leggiamo il passo di Isaia 42, 1-9).

1 «Ecco il mio servo, io lo sosterrò; il mio eletto di cui mi compiaccio; io ho messo il mio spirito su di lui, egli manifesterà la giustizia alle nazioni. 2 Egli non griderà, non alzerà la voce, non la farà udire per le strade. 3 Non frantumerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante; manifesterà la giustizia secondo verità. 4 Egli non verrà meno e non si abbatterà finché abbia stabilito la giustizia sulla terra; e le isole aspetteranno fiduciose la sua legge». 5 Così parla Dio, il SIGNORE, che ha creato i cieli e li ha spiegati, che ha disteso la terra con tutto quello che essa produce, che dà il respiro al popolo che c’è sopra e lo spirito a quelli che vi camminano. 6 «Io, il SIGNORE, ti ho chiamato secondo giustizia e ti prenderò per la mano; ti custodirò e farò di te l’alleanza del popolo, la luce delle nazioni, 7 per aprire gli occhi dei ciechi, per far uscire dal carcere i prigionieri e dalle prigioni quelli che abitano nelle tenebre. 8 Io sono il SIGNORE; questo è il mio nome; io non darò la mia gloria a un altro, né la lode che mi spetta agli idoli. 9 Ecco, le cose di prima sono avvenute e io ve ne annuncio delle nuove; prima che germoglino, ve le rendo note».

Il cap. 42 si trova nel deutero-Isaia, anche detto “secondo Isaia” e le fonti ci dicono che venne scritto poco più di 500 anni prima di Cristo, quindi durante l’esilio di Babilonia.

Eppure ancor oggi queste parole sono (almeno per me) di una attualità e di una freschezza incredibili, se cerchiamo di non essere legati a significati negativi di alcuni termini e se cerchiamo di comprendere il perché di alcune espressioni che spero di chiarire.

Il versetto 1 presenta una figura assai particolare: IL SERVO. Nella Bibbia troviamo spesso questo termine, un vocabolo che nell’attuale linguaggio quotidiano è quasi in disuso perché oggi riveste connotazioni negative, di oppressione, di sudditanza. Ma al tempo non era così, perché i plenipotenziari di un sovrano, i ministri, i personaggi di rango di una corte erano SERVI dei loro signori, cioè nell’operare quotidiano erano i suoi portavoce.

Ecco perché grandi personaggi dell’A.T., coloro ai quali Dio dà la sua totale fiducia per incarichi importanti, sono insigniti del titolo di “SERVO”, un titolo che comporta un rapporto di affezione e di fiducia reciproco. Lo stesso Mosè è colui che riceve più spesso questo titolo e non possiamo certo dire che egli, pur riconoscendo la sua sottomissione al Signore, non trattasse con lui senza rinunciare al proprio pensiero e alla propria dignità.

Il SERVO visto in questa accezione non è quindi un essere da sfruttare, da sottomettere, infatti il versetto prosegue con parole di grande rilievo: “ … io lo sosterrò”, “… io ho messo il mio spirito sopra di lui”, “… egli manifesterà la giustizia alle nazioni”.

Insomma, il SERVO è il rappresentante del suo signore, il suo araldo, colui che ha il mandato di parlare ed agire per conto del suo signore.

E se qualcuno può ritenere che questa sia un’interpretazione fasulla, la conferma del fatto che non è così ci deriva dai versetti 2 e 3: “Egli non griderà, non alzerà la voce, non la farà udire per le strade. Non frantumerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante; manifesterà la giustizia secondo verità.” per i quali è necessario un riferimento storico.

Nell’ambito del diritto babilonese esisteva un funzionario denominato araldo del gran Re, con il compito, dopo che il re aveva emesso una sentenza capitale, di percorrere la città per renderla pubblica a gran voce nelle piazze, per verificare se qualcuno potesse ancora testimoniare a favore del condannato. L’araldo era munito di un bastone da viaggio e di una lanterna. Al termine del percorso, se non si era presentato nessuno per discolpare il condannato, l’araldo si recava nella casa del condannato e in sua presenza rompeva il bastone e spegneva la lampada, dichiarando così la sentenza inappellabile. A questo è dovuto il riferimento dei due versetti.

Ma il servo di cui ci parla Isaia non è un araldo che deve confermare una condanna, ma ha ben altri incarichi: “Egli non verrà meno e non si abbatterà finché abbia stabilito la giustizia sulla terra” (v. 4) e lo fa in forza di quanto detto ai vv. 6-7: “Io, il SIGNORE, ti ho chiamato secondo giustizia e ti prenderò per la mano; ti custodirò e farò di te l’alleanza del popolo, la luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, per far uscire dal carcere i prigionieri e dalle prigioni quelli che abitano nelle tenebre.”

Certo che questo è qualcosa di più rispetto alla cieca obbedienza della legge e alla conferma di eventuali condanne, perché, con la forza che deriva dal Signore (questa volta con la S maiuscola) il servo non solo diventa un portavoce, ma opera in prima persona per proclamare la giustizia, per illuminare coloro che sono nelle tenebre, per diventare “luce delle nazioni”.

Purtroppo, se guardiamo alla storia della cristianità, sappiamo bene che una tale vocazione missionaria è stata travisata, dando origine a comportamenti persecutori, a prevaricazioni, a guerre per “portare la verità”, comportamenti che certo hanno avuto ben poco a che fare con la giustizia e con l’annuncio, comportamenti messi in atto da chi riteneva (o ritiene ancor oggi) di essere il depositario di un’unica e certa “verità”, dando per scontato che tutti coloro che non la condividono sono per ciò stesso degni di condanna, se non addirittura di dannazione eterna.  Per fortuna, almeno nelle nostre chiese, credo che non vi sia alcuno che sia convinto di essere il detentore della verità e spero invece che ciascuno, pur animato dalla fede che confessa, sa bene che non per questo l’umanità è divisa fra coloro che sono “eletti” – e quindi depositari della verità e destinati alla salvezza – e coloro che invece non lo sono e quindi “indegni” di una prospettiva salvifica, in qualsiasi modo questa possa un domani realizzarsi.

Vivere coerentemente al servizio della giustizia di Dio significa modellare la propria vita sulla natura stessa di Dio, un Signore che noi crediamo sia animato da profonda misericordia, un Signore che non guarda al colore della pelle, un Signore che vuole che la giustizia si espanda per tutti gli abitanti della terra, anche per coloro che si trovano nelle situazioni più disperate, anche quando la legalità e l’onestà sembrano ormai irrimediabilmente compromesse.

E anche laddove ci siano queste situazioni, il SERVO del Signore è chiamato all’utopia (se volete), è chiamato a comportarsi secondo il messaggio che ha ricevuto e che deve proclamare, perché una fede intimistica, che non si rivolge con parole e fatti agli altri, non serve a nulla.

Essere “eletti” dal Signore non significa avere privilegi rispetto agli altri esseri umani, ma è soprattutto un onere che ci impegna a seguire gli insegnamenti del nostro Dio, uscendo dalle nostre cucce calde fatte dei nostri privilegi, del nostro benessere, delle nostre certezze (che spesso non vogliamo mettere in discussione per paura) e intraprendere invece un cammino di solidarietà, di condivisione, di confronto con gli altri.

Certo, dobbiamo mettere in gioco ciò che abbiamo, quel che siamo e quel che sappiamo, ma questa è ciò che dobbiamo fare, senza timidezze ma anche senza sicumera, perché essere persone di fede non ci rende migliori rispetto a coloro che non lo sono, oppure rispetto a coloro che credono in un altro Dio. Essere “missionari” del messaggio che abbiamo ricevuto e coltivato con lo studio della Bibbia significa non rintanarci nelle nostre chiese e nelle nostre case, coltivando i nostri orticelli, ma significa opporsi alle ingiustizie anche sapendo che esse continueranno ad esserci fino alla fine dei tempi.

Essere “missionari” del messaggio significa credere anche contro ogni speranza, significa prendere coscienza che qualcosa può cambiare in questo mondo così ingiusto, significa credere che l’utopia non è irrealizzabile.

E vorrei chiudere questa meditazione con un bel testo, che mi ha molto colpito, di Eduardo Galeano, giornalista e scrittore uruguaiano morto pochi anni fa:

“L’utopia è all’orizzonte.

Mi avvicino di due passi e lei si allontana di due passi.

Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là.

Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai.

Ma allora a cosa serve l’utopia?

Serve proprio a questo: a camminare.”

Voglia il Signore aiutarci nel nostro cammino di suoi servi.

AMEN

(Liviana Maggiore)

COSA SIGNIFICA “AMORE”

Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti il «non commettere adulterio», «non uccidere», «non rubare», «non concupire» e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso». L’amore non fa nessun male al prossimo; l’amore quindi è l’adempimento della legge. E questo dobbiamo fare, consci del momento cruciale: è ora ormai che vi svegliate dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.  (Romani 13,8-12)

Preparando il culto per questa prima domenica di Avvento il mio pensiero si è concentrato sul fatto che parlare di amore per il prossimo in una chiesa cristiana rischia di essere banale e assodato. Ma è proprio così?

Perché Paolo scrive quello che abbiamo letto?

Il testo si colloca nella seconda parte della lettera ai Romani, dove Paolo cerca di comunicare alcune indicazioni “pratiche” affinché ciò che ha esposto nella prima parte sulla salvezza, il peccato, la speranza, il non ritenere che solo i Giudei siano i detentori della fede, siano concetti che non devono essere solo lasciati nelle elucubrazioni teologiche o filosofiche, ma debbano essere invece parte integrante dell’etica di un credente.

In questo senso, parlare di AMORE verso il prossimo non è poi così scontato, perché è proprio l’etica, cioè il comportamento del credente che testimonia della fede che si afferma di avere, affinché, come Paolo scrive nel cap 2 (riprendendo da Isaia) “il nome di Dio non sia bestemmiato per causa nostra fra gli stranieri”.

“Ama il tuo prossimo come te stesso”. Questo è il comandamento, l’unico che li riassume tutti, l’unico che ci dovrebbe mettere in discussione, che dovrebbe essere al centro delle nostre riflessioni quotidiane sul modo di agire.

“L’amore non fa nessun male al prossimo” dice Paolo e qualche indicazione l’abbiamo avuta anche dai versetti del Salmo 122 a cui si è ispirata la nostra confessione di peccato odierna:

Quelli che ti amano vivano tranquilli. Ci sia pace all’interno delle tue mura e tranquillità nei tuoi palazzi! Per amore dei miei fratelli e dei miei amici, io dirò: «La pace sia dentro di te!» Per amore della casa del SIGNORE, del nostro Dio, io cercherò il tuo bene.

Ecco, appunto: l’amore, il vero amore, è foriero di pace, ci consente di fare in modo che coloro che amiamo vivano tranquilli, ci spinge a cercare il bene di coloro che, in maniera diretta o indiretta, incrociano la loro vita con la nostra.

Ma cos’è questo “amore” del quale parliamo? Un sentimento di affezione che ci trasporta verso l’altro?

Sicuramente sì. Per me è amore l’atteggiamento affettuoso dei miei più cari amici, come è amore quel sentimento che provo nei confronti di mio figlio o del mio compagno anche quando mettono alla prova la mia pazienza. È un segno d’amore il sentirmi dire “ti voglio bene” nel messaggio quotidiano che ricevo da una persona cara, perché so che non lo fa per abitudine, ma per confermarmi il suo sentimento, così come interpreto come segno d’amore il saluto serale di un amico (ateo) che mi apostrofa con un nomignolo affettuoso o il contatto con la mia amica più cara che manifesta il suo sincero interesse per me.

Certo, queste sono manifestazioni d’amore che mi aiutano a vivere più tranquilla, ma …. tutto qui?  Evidentemente no, perché questi diversi sentimenti sono alimento certo per la mia tranquillità e, nella reciprocità, immagino che lo stesso valga per le persone che amo.

Ma credo che l’invito di Paolo non si riferisca a una visione così riduttiva ed egoistica, perché a me, come credente, spetta il compito di dispensare amore; come figlia di Dio sono tenuta a testimoniare con la vita dell’amore immenso che ho ricevuto dal mio Signore, un amore che non si è basato solo su enunciazioni e insegnamenti teorici, ma che si è realizzato con comportamenti fattivi di quel Gesù che ha manifestato con la sua vita e con le sue opere l’amore di Dio.

Ecco allora che il cercare di realizzare l’amore non può limitarsi ad un semplice sentimento di affezione nei confronti di coloro che amiamo, ma deve diventare una reale partecipazione positiva anche nei confronti di coloro che magari non fanno parte della nostra vita o del nostro entourage.

E come cercare quindi di “dispensare” amore?

Nell’evangelo di Matteo, al cap 19 ci viene riferito che Gesù disse al giovane ricco “… ama il prossimo tuo come te stesso” e “… va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri …”

Ecco, direi che queste sono le due chiavi interpretative:

  1. Pensa a come vorresti essere trattato tu e fallo nei confronti degli altri;
    1. Vorresti un atteggiamento positivo e comprensivo nei tuoi confronti? Abbi il medesimo atteggiamento nei confronti degli altri.
    1. Vorresti essere visitato e consolato quando sei nella malattia, nell’angoscia, nel dolore di qualsiasi specie? Abbi il medesimo atteggiamento nei confronti degli altri.
    1. Vorresti che coloro che ti stanno intorno gioiscano se sei gioioso e si rallegrino delle cose belle che ti accadono? Fai anche tu così nei loro confronti.
  2. Dividi con gli altri ciò che hai. Ciò che abbiamo (e ciò che siamo) non è qualcosa che è destinato solo a noi, ma sono doni che abbiamo ricevuto per poterli condividere con gli altri.
    1. Hai la fortuna di poter essere tranquillo/a che sulla tua tavola il cibo non manca, che nel tuo armadio ci sono abiti adeguati a coprirti, che puoi contare sul fatto che, anche se non sei ricco/a, avrai di che vivere per il futuro? Dividi ciò che hai e non accumulare per te, lasciando agli altri le briciole, ciò che avanza, l’elemosina.
    1. Hai avuto l’opportunità di maturare conoscenze professionali che altri non hanno? Mettile a disposizione gratuitamente e non cercare di trarne sempre e solo un beneficio economico.
    1. Hai del tempo libero? Non dedicarlo solo a te stesso/a, ma mettiti a disposizione servendo gli altri.
    1. Hai la capacità di riflettere sui fenomeni sociali? Non buttare il cervello all’ammasso, trincerandoti nel tuo bozzolo, ma esprimi il tuo messaggio di solidarietà ed uguaglianza anche contro i potentati politici ed economici.

Queste sono solo alcune riflessioni su come si possa “dispensare” amore, un amore libero, che non chiede di essere ricambiato, ma che soprattutto non ingenera negli altri sentimenti di riconoscenza, perché il nostro fine non deve essere la riconoscenza altrui, bensì il rispetto dell’imperativo “… ama il prossimo tuo come te stesso” perché, come dice Paolo, “chi ama il prossimo ha adempiuto la legge” e non solo chi non ha ucciso, non ha rubato, non ha offeso.

Ma ancora: chi ama il prossimo come se stesso sa di aver bisogno di perdono per le numerose volte che non ha praticato l’amore e, per reciprocità, deve essere capace di perdonare quel prossimo che magari ci ha recato offesa o ci ha fatto del male.

Voglia il Signore aiutarci a percorrere le vie dell’amore.

AMEN

Liviana Maggiore

LA TESTIMONIANZA

Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.  Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunzi?  E come annunzieranno se non sono mandati? Com’è scritto: «Quanto sono belli i piedi di quelli che annunziano buone notizie!»  Ma non tutti hanno ubbidito alla buona notizia; Isaia infatti dice: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?»  Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo. (Rom 10,12-17)

I passi che abbiamo ascoltato sono solo tre fra i numerosi che troviamo nella Scrittura che raccomandano, istruiscono, incitano alla testimonianza, il che significa che nella Bibbia non c’è spazio per una fede intimistica, una fede che l’individuo coltivi solo in sé stesso, una fede non condivisa, ma soprattutto non testimoniata.

Se ci pensiamo bene è un bell’impegno quello che viene affidato ai credenti perché da questo vigoroso invito (come nello stile di Paolo) sorge spontanea una domanda: che cosa significa testimoniare la propria fede?

Beh, certamente far parte di una comunità di credenti è già una testimonianza, perché le sorelle e i fratelli coi quali condividiamo i momenti di culto sanno che quei momenti sono di condivisione fra credenti e, similmente, coloro che vincendo le proprie resistenze e timidezze entrano nelle nostre chiese possono legittimamente pensare che siamo un’assemblea di credenti, di persone che hanno accolto il dono della fede e lo dimostrano lodando il Signore insieme.  Indubbiamente questa è testimonianza, com’è testimonianza la predicazione che si può fare dai nostri pulpiti oppure in occasioni di incontri con membri di altre confessioni dove magari veniamo invitati.

Tutto giusto, ma ….. tutto qui?  Abbastanza facile, direi.  Noi siamo un’assemblea di credenti cristiani e, come tali, ci presentiamo nelle nostre chiese oppure in occasioni comunque religiose.  Ma siamo sicuri che testimoniare la nostra fede, che annunziare la buona notizia si limiti a questo?

Ovviamente questa è una domanda retorica, alla quale tutti noi risponderemmo (o dovremmo rispondere) : “No, non è solo questo”.  E allora andiamo a riflettere insieme su che altro sia la testimonianza, questo impegnativo incarico che abbiamo ricevuto ed al quale dobbiamo ottemperare per cercare di seguire gli insegnamenti che troviamo sulla Bibbia.

Nei secoli (e, in verità, ancor oggi) molti cristiani hanno interpretato la testimonianza come il diritto di imporre, con metodi più o meno violenti, la propria fede, costringendo gli altri a riconoscerla come “verità” e a convertirsi ad essa. Basti pensare alle crociate, alle persecuzioni o a certi modi di intendere l’attività missionaria in popolazioni non cristiane.  Ma questa, scusatemi, non è certo “testimonianza”.  E allora?

Premesso che nelle chiese riformate (come la nostra) uno dei principi fondamentali è che non esistono opere meritorie, cioè comportamenti che diano credito all’individuo davanti a Dio, non possiamo sicuramente sottovalutare l’importanza delle opere, cioè delle azioni e dei comportamenti che mettiamo in atto.  D’altro canto è chiarissimo quanto dice Giacomo (2,14-20):

«A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno abiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro ciò che è necessario al corpo, a che serve? Allo stesso modo è la fede: se non ha opere, è per sé stessa morta. Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demoni lo credono e tremano. Insensato! Vuoi renderti conto che la fede senza le opere non ha valore?»

So bene che dal pulpito di una chiesa metodista sto dicendo cose ovvie, ma è proprio su queste ovvietà che ciascuno di noi ha il dovere di riflettere, senza darle per scontate.

Sappiamo tutti da dove discende il termine “metodisti”: da un vocabolo di derisione che era stato appioppato ai nostri padri e fratelli fondatori, i quali si avvicinavano a coloro che soffrivano o che erano indigenti per status sociale per portare FATTIVO conforto, per aiutare nelle malattie, per condividere il cibo, per ascoltare coloro che erano disperati. E i nostri fratelli e sorelle nell’Inghilterra del ‘700 non chiedevano in cambio la conversione. Certo non nascondevano il motivo di questo loro operare, ma erano ben consapevoli che una testimonianza a parole non è quello che viene chiesto al credente, perché parlare di Dio a un affamato, a un disperato, a un sofferente e non far nulla per cercare di lenire le sue ferite fisiche e psichiche, non far nulla per dargli il cibo o gli abiti che non ha è un atteggiamento manicheo e perbenista che non serve a nulla al sofferente ed è fuorviante per chi lo dà.

Ecco allora che nascevano gruppi di aiuto, scuole, centri di accoglienza e assistenza ai derelitti ed altro ancora. Insomma, era un “metodo” quello che veniva seguito: aiutare le persone nel bisogno, non per convertirle ma per mettere in atto gli insegnamenti ricevuti.

E queste iniziative non venivano solo delegate ai pastori o a pochi membri di chiesa attivi, ma trovavano il coinvolgimento di interi gruppi che poi si sparpagliavano per annunciare la Parola di speranza e di fraternità, di uguaglianza fra gli esseri umani, di salvezza promessa ed elargita a tutti, non solo a pochi eletti “ordinati” o “studiosi”.

E questo stesso metodo, questo modo di operare lo abbiamo avuto anche a Padova più di 150 anni fa, una comunità vivace e solidale, con molte attività sociali, una comunità che non temeva certo di esporsi testimoniando la propria fede come credenti “diversi”.

Ed allora, sia i passi della Scrittura che ci intimano la testimonianza, sia la nostra stessa storia, ci interrogano oggi sulla nostra testimonianza, forse ci mettono di fronte anche alla necessità di un nuovo periodo di “risveglio” nel quale dobbiamo abbandonare le nostre timidezze e i nostri timori di essere fraintesi.

Molti sono i modi che ciascuno di noi ha per testimoniare la propria fede, per rendere palese ciò in cui diciamo di credere; ed oggi vi pongo solo alcune domande, nella speranza che possano servire per una personale riflessione:

  • Quanto spesso mettiamo a disposizione degli altri le nostre risorse personali e finanziarie in una reale condivisione, non donando quindi solo ciò che ci avanza, privilegiando i nostri bisogni non essenziali o accumulando risorse che mettiamo da parte per il futuro, mentre c’è a fianco a noi chi non riesce a sostenere il presente?
  • Quanto spesso mettiamo gratuitamente a disposizione degli altri le nostre capacità, le nostre professionalità, le nostre conoscenze?
  • Quanto spesso ci lamentiamo delle nostre scarse risorse economiche, che magari così scarse non sono se confrontate con chi ha meno, molto meno di noi, e non ci degniamo di buttare lo sguardo a coloro ai quali potremmo OFFRIRE la nostra solidarietà?
  • Quanto spesso ci interessiamo a conoscere gli altri, coloro che hanno fatto una scelta diversa dalla nostra in termini di appartenenza religiosa, oppure con coloro che seriamente hanno fatto una scelta atea o agnostica? Riusciamo a relazionarci con loro in assoluta libertà in un confronto sereno e senza la spocchia di chi ha ricevuto l’illuminazione e ha la verità in tasca, ma con reale disponibilità al confronto?
  • Quanto spesso rendiamo testimonianza agli altri della nostra scelta religiosa, della nostra fede, andando oltre la semplice descrizione delle differenze fra la chiesa di maggioranza e la nostra, facendo intendere che noi siamo nel giusto e loro sono nell’errore?
  • Quanto spesso divulghiamo i contenuti dei documenti di scelta etica, politica (non partitica), comportamentale, emessi dal nostro Sinodo, dalle nostre Commissioni, dalle nostre Assemblee per dichiarare alla collettività chi siamo e cosa diciamo? Solo per fare un esempio in tal senso: il documento sul fine vita o le prese di posizione di fronte alle scelte scelerate dei potenti?
  • Quanto spesso noi stessi, invece di chiuderci tra le rassicuranti mura della chiesa, cogliamo le occasioni per esporci, per dire all’esterno chi siamo, come individui e come comunità, in che cosa crediamo, ma sereni e desiderosi di conoscere gli altri e condividere i doni di ciascuno?
  • Quanto spesso siamo disposti ad entrare in confronto anche con i nostri fratelli e sorelle di chiesa per esprimere serenamente il nostro pensiero, perfino quel pensiero che ci mette in difficoltà e che spesso sottacciamo per evitare conflitti.
  • Quanto spesso diciamo che siamo tutti uguali, a prescindere dal colore della pelle, dai inclinazioni sessuali, dalle scelte politiche, dall’appartenenza religiosa, ma poi tolleriamo chi è diverso da noi, gli riserviamo magari un saluto, un sorriso e una stretta di mano, ma non ci interessiamo alla sua vita così diversa dalla nostra e non vogliamo entrare in autentica relazione con lui/lei?
  • Ed infine, quanto spesso facciamo tutto ciò non solo con coloro che fanno parte del nostro entourage di parentela o di conoscenze, ma ci spingiamo fuori dal nostro mondo?

Queste sono indubbiamente AZIONI come ve ne sono moltissime altre, azioni certamente NON MERITORIE, ma altrettanto certamente doverose per non rintanarci in una sterile fede individualista, che a nulla serve se non a mettere a tacere la nostra coscienza.

Voglia il Signore aiutarci e darci la volontà e la forza per renderci fattivamente testimoni della buona notizia che diciamo di aver ricevuto, affinché la nostra fede non venga vissuta solo in maniera intimistica.

AMEN

Liviana Maggiore