News: E’ DISPONIBILE IL NUOVO NUMERO DI “CORSOMILANOSEI”

E’ uscito il numero di marzo 2013 della Circolare informativa sulle attività della nostra Chiesa. Con le riflessioni della nostra Pastora, Caterina Griffante, un bilancio delle iniziative appena svolte e i nuovi appuntamenti di aprile in programma. E naturalmente gli

AUGURI DI BUONA PASQUA

 

BUONA LETTURA (e partecipate!!!)

 

Circolare di Pasqua

Eventi: SEMINARIO DI FORMAZIONE TEOLOGICA

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Continua la collaborazione tra la nostra Chiesa, il VII Circuito e la Facoltà Valdese di Teologia in Roma.

Seminario di formazione rivolto ai predicatori locali (E NON SOLO)

presso i locali sociali della Chiesa Metodista di Padova, Corso Milano, 6

SABATO 6 APRILE 2013

 Roberto Bottazzi

Temi biblici per una predicazione terapeutica

Il seminario prosegue il programma recentemente svolto sotto il titolo: “la predicazione evangelica nella prospettiva della cura d’anime”, proponendo l’esame di alcuni temi, e di alcuni testi biblici, idonei ad un annuncio positivo e liberante del vangelo

ore 10,00-17,00 (registrazione ed iscrizione partecipanti: ore 9,30-10,00)

Studenti del corso di Laurea in Scienze Bibliche e Teologiche: partecipazione alla giornata + relazione = 2 crediti

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 24 MARZO 2013 (DOMENICA DELLE PALME) (Ez 36:24-27; 1 Gv 5:19-21; Gv 17:14-16 testo di predicazione)

“Io non sono del mondo”

I versetti del vangelo di Giovanni sui quali siamo invitati a soffermarci oggi fanno parte della cosiddetta “preghiera sacerdotale”, a sua volta incastonata in quelli che vengono chiamati i “discorsi dell’addio”, quell’insieme di capitoli (dal 13 al 17) che fanno da cerniera tra la vita trascorsa di Gesù e il precipitare degli eventi: l’arresto, la condanna, la croce e poi la risurrezione. Nei discorsi che fa Gesù c’è il suo addio, il suo congedo; e in questi discorsi egli parla di sé, del Padre, dei discepoli, del mondo. Ecco: è proprio su questa parola “mondo” che vorrei soffermarmi, questa parola che è così controversa nella vita cristiana. Una parola quasi lacerata tra amore e odio: perché, da un lato, la fede cristiana si fonda su un evento, la risurrezione, che è il trionfo dell’amore di Dio per il mondo, per la vita; d’altro lato, in tutto il Nuovo Testamento, e in particolare negli scritti giovannei, ricorre il tema dell’incompatibilità tra discepolo di Gesù e “mondo”. Questo si spiega con motivazioni storiche: respinti come eretici dalla loro comunità di origine, la comunità giudaica, i cristiani nel mondo romano non godono più di quella tutela legale che l’appartenenza all’ebraismo poteva assicurare e si trovano dunque bersaglio di una doppia opposizione, di una duplice ostilità: quella ebraica, e quella della Roma pagana. Certo, è vero che in Giovanni il termine “mondo” viene anche usato in modo positivo, o quanto meno neutro: si parla del “mondo” nel quale Gesù è stato mandato dal Padre, del “mondo” del quale Gesù è la luce. Tuttavia, è innegabile che in Giovanni il mondo appaia molto spesso come realtà negativa, che sembra solo capace di odiare: “il mondo li ha odiati”, dice qui Gesù a proposito di coloro che lo seguono. Anche altrove in Giovanni troviamo questa strettissima correlazione tra “mondo” e “odio”, in modo particolarmente drammatico e quasi ossessivo in Gv 15: 18-25 (“Se il mondo vi odia … Perciò il mondo vi odia … Chi odia me, odia anche il Padre mio … Mi hanno odiato senza motivo”). Sì, sono affermazioni forti, drammatiche. Ma domandiamoci sinceramente, sorelle e fratelli: ci sentiamo veramente toccati, coinvolti personalmente da queste parole di Gesù? Non tendiamo piuttosto a leggerli, questi versetti, come testi molto suggestivi e belli sotto l’aspetto letterario, ma privi di effettivi riscontri nella nostra vita, nella nostra esperienza quotidiana? In effetti, oggi non possiamo proprio dire che Gesù sia una figura “odiata”, almeno nell’Occidente, né che i cristiani siano odiati e perseguitati; è chiaro, ripeto, che queste considerazioni valgono per il nostro Occidente, perché la situazione altrove è ben diversa, e basti pensare a ciò che avviene in certi Paesi africani. Ma adesso non guardiamo agli “altri”: siamo noi, proprio noi tranquilli cristiani occidentali, noi tranquilli cristiani di Padova, che il vangelo di questa domenica intende interpellare direttamente. E per quanto riguarda noi, ripeto, possiamo affermare che né il cristianesimo né i cristiani sono oggetti di odio. Difficile insomma affermare che la nostra società sia contrassegnata da “odio” per Dio. A me sembra, tuttavia, che se anche Dio non è odiato, pure sia rifiutato. Non vedo in giro un particolare odio nei confronti di Dio; vedo, piuttosto, rifiuto. Un rifiuto che talvolta, è vero, assume i tratti della negazione passionale da parte dell’ateo militante, ma ben più spesso è un rifiuto inespresso, e quindi un rifiuto più subdolo: un rifiuto che assume i tratti dell’idolatria. Sì, dell’idolatria: perché quando non si fa posto a Dio, questo posto viene occupato dagli idoli. Naturalmente nessuno ammetterà di essere idolatra, perché l’idolatria oggi non ha più le caratteristiche che aveva nell’antichità. Eppure, basta guardare le nostre vie, le nostre case, i nostri giornali, le nostre riviste, la nostra televisione, le nostre pagine Facebook e Twitter, tutta una serie di manifestazioni assolutamente innocue che sono ormai entrate a far parte del nostro modo di vivere, senza le quali anzi non potremmo più nemmeno immaginare di poter vivere – basta guardare tutto ciò (guardarlo ovviamente avendo occhi per vedere, guardarlo appunto senza lenti “mondane”) per scoprirvi un sottile ma ben radicato culto dell’idolo, degli idoli. Direi che questa è la manifestazione più probante di quel rifiuto di Dio che caratterizza così profondamente il nostro tempo. Potreste domandarmi: ma in fin dei conti dove li vedi, nella nostra vita quotidiana, tutti questi idoli? Risponderei, semplicemente, così: vedo dappertutto il “mondo” che vuole farsi Dio. E proprio questo mi sembra essere il significato del termine “mondo” in questi versetti giovannei, e in generale nella prospettiva del quarto vangelo: “essere del mondo” significa negare, in quanto esseri umani, di essere creature di Dio, di un Dio Padre; negare la propria filialità, in sostanza; negare quindi la propria creaturalità e assumere una posizione di auto-creazione – sono io che mi creo, sono io il creatore di me stesso –, una posizione di autonomia nel senso letterale della parola: sono io legge a me stesso, sono io che mi faccio la legge. Questo è il mondo; e questo è il motivo per cui nella prima lettera di Giovanni risuona forte l’ammonizione: “Guardatevi dagli idoli!”. Ma Gesù non è del mondo, appunto perché fa riferimento non a sé stesso ma al Padre, perché è venuto a portare non una parola propria, ma la parola del Padre. Anche i discepoli di Gesù, quindi – è Gesù stesso ad affermarlo esplicitamente –, “non sono del mondo”. E di questo essi sono ben consapevoli. Si delinea dunque per loro una tentazione che certamente fu molto forte nella comunità giovannea, ma che ha minacciato e continua a minacciare tutta la comunità cristiana nel corso della sua storia: la tentazione che potremmo definire “settaria”, la tentazione di costituirsi come isola felice popolata da gente virtuosa e soddisfatta, perché si sente “salvata”, prediletta da Dio. In mezzo a un mondo che va in rovina, o che comunque va per la sua strada, può presentarsi come un’opzione molto attraente quella di dire: io me ne separo, da questo mondo, cerco la mia personale salvezza, al massimo segnalo al mondo che sta andando in rovina, ma non me ne occupo, non voglio averci niente a che fare. Invece non è questo che Gesù dice in questa pagina di Giovanni. Gesù qui dà, piuttosto, due indicazioni. La prima è appunto quella di non fuggire dal mondo, di essere nel mondo e non fuori, non oltre, non accanto, non sopra il mondo, ma nel mondo: “Non prego che tu li tolga dal mondo”, dice infatti Gesù al Padre. Ma poi soggiunge, e questa è la seconda indicazione: “ma che tu li preservi dal maligno”. Questo che cosa significa? Significa che Gesù vuole che i suoi discepoli, essendo nel mondo, cioè pienamente inseriti nel processo storico, non si “mondanizzino”: cioè non si facciano dettare regole, criteri, stili di vita, dal “mondo”, cioè dalla cultura, dall’economia, dalla politica del tempo e del luogo in cui si trovano a vivere. Perché è proprio del mondo dire “no” a Dio per seguire una propria logica, per seguire proprie regole, che non sono la logica e le regole di Dio. Ecco perché Gesù presenta il “mondo” come nemico: perché è incompatibile con la parola del Padre. Se guardiamo alla storia della comunità cristiana nel corso dei secoli e dei millenni, vediamo che queste due indicazioni non sono state molto seguite, dato che si sono verificati proprio i due fenomeni che Gesù voleva evitare. Da un lato ci sono stati ricorrenti forme di “fuga dal mondo” con la creazione di comunità cristiane in qualche modo “separate” dal mondo: tutte le varie sètte, ma in fondo anche le comunità monastiche. Dall’altro lato, si è verificato il fenomeno della mondanizzazione della Chiesa. Pensiamo soltanto al grande evento che viene conosciuto sotto il termine (non molto esatto, devo dire, dal punto di vista storico) di “svolta costantiniana”: la Chiesa pienamente integrata nelle strutture imperiali, che finisce per diventare l’unica espressione religiosa ammessa nell’impero. Ebbene, guardando le cose dal nostro osservatorio italiano, veneto, padovano, direi senza esitazione che, almeno qui, attualmente è questa seconda tentazione a prevalere, la tentazione della “mondanizzazione” della Chiesa. Questa “mondanizzazione” la definirei più o meno così: riuscire a essere in buoni rapporti, a farsi tenere in considerazione, a farsi apprezzare, a farsi corteggiare, anche, da coloro che in qualsiasi modo detengono o rappresentano il potere, anche se si tratti di non credenti (pensiamo al singolare fenomeno dei cosiddetti “atei devoti”). Qualsiasi potere, anche un minuscolo potere, in qualsiasi ambito: politico, culturale, economico. Riuscire a essere un tassello, ma un tassello importante, irrinunciabile, nelle strutture del potere. Ovvio che raggiungere questo obiettivo ha un prezzo: il prezzo, appunto, di rinunciare alla logica di Dio in favore della logica del mondo; di abdicare, quindi, a quello che è il compito primario del cristiano, annunciare e testimoniare l’Evangelo. Il quale Evangelo non può essere che scomodo, altrimenti non sarebbe l’Evangelo di Dio, sarebbe un evangelo tutto umano. Immagino, adesso, un’altra vostra obiezione: tutto vero, ma è la Chiesa di Roma quella che ci stai descrivendo, non la nostra realtà di Chiese protestanti, povere, umili e fedeli al Signore. Rispondo: ne siamo proprio sicuri? Siamo sicuri di essere al riparo da ogni tentazione di mondanizzazione solo perché siamo una piccola Chiesa minoritaria? Non capita mai, a noi – forse proprio per il fatto di essere una piccola Chiesa minoritaria – di cercare, a livello individuale o comunitario, di essere ben accetti, bene integrati nella società (nel “mondo”) che ci circonda, e a questo scopo di rinunciare alla testimonianza che può renderci invisi, di glissare su temi che possono risultare ostici al “mondo”; talvolta, forse, addirittura arrivando al punto di nascondere la nostra identità di credenti evangelici; e tutto proprio per questo, perché abbiamo paura che il mondo “ci odi”? Si chiama idolatria tutto questo, sorelle e fratelli, e nessuno di noi può sentirsene al sicuro. Che il Signore ci venga in aiuto con il suo Spirito, che sostituisca – come dice Ezechiele – il nostro cuore di pietra con un cuore di carne, un cuore vivo, appassionato, in grado di sfidare l’odio del “mondo”.

 Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Eventi: Parliamo di LAICITA’: MERCOLEDI’ 20 MARZO ORE 18 ALLA LIBRERIA IBS DI PADOVA (EX MELBOOKS)

Continua la collaborazione tra la Chiesa Metodista di Padova e la libreria IBS. Iniziata a febbraio 2013, terminerà a maggio e consiste (come noto) nella presentazione di una serie di volumi sulla laicità dello Stato.

Prossimo appuntamento:

MERCOLEDì 20 MARZO ORE 18

LIBRERIA IBS
VIA MARTIRI DELLA LIBERTÀ, 1/A

 IL PROF. RENATO PESCARA presenta il volume:

Tra due Italie

(Torino,Claudiana, 2010. Quaderni di laicità. Supplemento)

La Chiesa Metodista di Padova, proprio per il fatto di essere una chiesa cristiana, ribadisce con forza il suo:

– SI’ alla libertà di ricerca

– SI’ al testamento biologico

– SI’ alla libertà di religione, di pensiero e coscienza

– SI’ alla libertà nelle scelte procreative e all’autodeterminazione delle persone

– NO all’omofobia.

La Chiesa Metodista di Padova, ritiene insomma che lo Stato debba essere, necessariamente, laico.

Con questa rassegna la chiesa metodista di Padova desidera sensibilizzare l’opinione pubblica perché, anche a Padova, si costituisca una “Consulta per la laicità dello Stato”.

PREDICAZIONE DI DOMENICA 17 MARZO 2013 (Lc 24:31-35; 1Cor 9:16-17; Ger 20:7-18 testo di predicazione)

Il lamento di Geremia

Questo, che nella Nuova Riveduta viene intitolato “Lamento di Geremia”, è un testo celebre, di alto profilo letterario. Geremia ha ottimi motivi per lamentarsi. Si trova in una situazione angosciosa: è stato sottoposto alla flagellazione e incarcerato, si vede ormai rifiutato da tutti, precipitato dentro a un baratro; tanto più che il personaggio che lo sta torturando è un rappresentante del potere, Pascùr, sacerdote, anzi sovrintendente del Tempio, la massima autorità sacrale. “Lamento”: certamente è un lamento, questo di Geremia, e un lamento disperato; ma nel giro di pochi versi questo lamento si trasforma in qualcosa d’altro, in un’esplosione di aggressività, un’aggressività che porta il profeta a scagliare una maledizione. Contro chi? Contro i suoi persecutori, contro coloro che lo umiliano e lo deridono? No: il profeta scaglia la sua maledizione contro Dio, quel Dio che lo ha chiamato, e che Geremia maledice appunto perché lo ha chiamato. Geremia aggredisce Dio con tale violenza da suscitare disagio: tanto è vero che questo testo, talmente duro da non permettere altra interpretazione che quella che vedremo, è stato interpretato abusivamente come espressione del fascino e della meraviglia dell’essere stati conquistati da Dio. No, il senso non è assolutamente questo, anzi è l’esatto contrario. Geremia accusa Dio, lo contesta, gli rinfaccia di averlo irretito. “Tu mi hai persuaso, Signore, e io mi sono lasciato persuadere”; altre traduzioni dicono “tu mi hai sedotto, e io mi sono lasciato sedurre”. Il senso comunque non cambia: Geremia ritiene che gli sia accaduto ciò che può accadere a chi si imbatte in qualcuno che lo adesca con il suo fascino e si serve poi spregiudicatamente di lui per le proprie mire. Come, per esempio, un innamorato potrebbe lamentarsi della seduttrice che lo ha trascinato in un’avventura amorosa finita male. Anzi, peggio: il verbo ebraico è un verbo che viene usato per riferirsi alla circonvenzione dell’incapace, quindi qui si allude a qualcosa di più spregevole, al raggiro cioè che si compie ai danni di una persona non in grado di tutelare sé stessa e i propri interessi. È a questo infatti che pensa Geremia nella sua recriminazione: Tu hai preso me che ero giovane – ricordiamo la vocazione del profeta, la sua obiezione: “Ahimè, Signore, Dio, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo” (Ger 1: 6), sì, un ragazzo che si può facilmente corrompere e circuire. Mi hai preso per attuare le tue trame, e mi hai condotto al disastro. Ti sei, quindi, comportato da vile nei miei confronti – proprio Tu, o Dio, che sei la difesa dei deboli – usandomi per un’avventura destinata al fallimento. Ed ecco la decisione del profeta: tu rivolgendomi vocazione mi hai tolto la libertà e io, ora che sono consapevole di che cosa la libertà significhi, me la riprendo. Io non parlerò più nel tuo nome, non farò più il profeta, mi ritirerò finalmente a vita privata, come tutti gli altri. Mi ritirerò a vita privata… Questa espressione richiama immediatamente alla mente di tutti noi un recente quanto eclatante caso di “rinuncia” a un altissimo ministero esercitato nel nome di Dio: la rinuncia di cui si è reso protagonista papa Benedetto XVI. Indipendentemente dai motivi che possono averla determinata (motivi sui quali non è certo questo il momento o la sede per avanzare ipotesi), credo che questa decisione raccolga molta solidarietà. È quasi inevitabile infatti che prima o poi chiunque si adopera al servizio di Dio – in qualsiasi modo, a qualsiasi livello, in qualsiasi chiesa od organizzazione religiosa – venga colto da un profondo senso di stanchezza, di frustrazione, di impotenza, addirittura di nausea, e di conseguenza venga preso dalla voglia irresistibile di “mollare tutto”. In uno degli ultimi numeri di “Riforma” Alberto Corsani, prendeva spunto dal gesto di Benedetto XVI per osservare: “In una società che, nonostante le adesioni a questa o quella chiesa o sètta, è sempre più secolarizzata, chi si dedica convinto al servizio della Parola di Dio sente su di sé la gioia della vocazione, ma può avvertire anche il peso di una responsabilità che necessita di fraternità e solidarietà – da parte dei colleghi e delle comunità; il che non sempre è facile”. Non sempre è facile. Credo che di questo, forse un po’ eufemistico, “non sempre è facile”, molti di noi, se non tutti, abbiano fatto esperienza. Credo, quindi, che Geremia possa trovare tra noi vari fratelli e sorelle in grado di solidarizzare con la sua disperazione. E di solidarizzare, forse, anche con l’esito di questa disperazione: l’invettiva contro Dio e la decisione di liberarsi di Lui, e di riprendersi così la propria libertà. Perché non c’è ombra di dubbio: Geremia ha subìto violenza da parte di Dio. Costretto a fare il profeta, in questa veste è costretto ad annunciare sempre notizie orribili (ciò che viene tradotto come “violenza e saccheggio”, in ebraico equivale più o meno a: “Aiuto! Siamo alla fine”). Per giunta, ci sono coloro che ironizzano su di lui e lo tormentano. Ma più ancora lo tormenta la parola di Dio, sempre dentro “nel suo cuore come un fuoco ardente”. Perché l’aspetto più terribile di questa situazione è che della parola di Dio non ci si libera. Il profeta vorrebbe essere solo un ex profeta, ma non ci riesce. “Sono stato sedotto – constata Geremia – mi voglio liberare, ma Tu, Dio, mi riprendi ancora, senza lasciarmi tregua. Questa parola dentro di me è fuoco che brucia la mia indipendenza, la mia libertà”. Per Geremia è impossibile non continuare a esercitare la missione profetica, anche se contro la propria volontà; esattamente come sarebbe accaduto a Paolo che, volente o nolente, si riconosceva costretto a evangelizzare. Ma per Geremia l’impegno è ormai insostenibile, e a questo punto non vede che una strada: maledire la vita; maledire non più Dio, ma sé stesso, concludendo – come concluderà Giobbe (cfr. Gb 3) – che il dono più bello che gli si sarebbe potuto fare sarebbe stato quello di non essere mai venuto al mondo, di essere stato semplicemente un aborto. Dio, con un intervento arbitrario, aveva usato violenza a Geremia predestinandolo a essere profeta prima ancora della sua nascita, anzi, addirittura prima ancora del suo concepimento (Ger 1: 5); ed ecco Geremia maledire il giorno della sua nascita, maledire colui che aveva portato a suo padre la notizia della sua nascita. Il profeta tratteggia questo quadretto tipicamente orientale, con suo padre che, secondo la tradizione, è uscito dalla camera della partoriente per aspettare fuori l’annuncio della nascita, e ora è colmo di gioia perché è nato un maschio (è noto cosa significasse in Oriente avere un maschio: assicurare l’eredità, la continuità del nome, della stirpe). Ebbene – dice Geremia – quell’annuncio non era un annuncio di gioia; e quell’uomo, il messaggero, sia maledetto, sia ridotto come una città distrutta, in cui tutto è rovina e desolazione. A questo punto potreste dirmi: e i vv. 11-13, così pieni di fiducia nel Signore? Rispondo: non è il caso di prenderli in considerazione più di tanto, perché si tratta di un inserto redazionale, introdotto per rasserenare un po’ l’atmosfera di una pagina così ardente e violenta. Questa preghiera di Geremia era così cupa e disperata da poter suonare scandalosa; ecco allora che il redattore finale inserisce come nucleo centrale del “lamento” un altro testo, forse l’elaborazione di un testo salmico, che come tutti i salmi “finisce in gloria” per far almeno baluginare un po’ di quella speranza finale che ricorre sempre nei salmi, come una luce lontana all’orizzonte. Ma è un intervento che sentiamo come stereotipato, forzato, che non riusciamo a far nostro. Direi che questi versetti provocano in noi la stessa reazione di indifferenza un po’ infastidita che potrebbero suscitarci le parole di qualche sorella o fratello di fede che, animato di buone intenzioni ma incapace di comprenderci pienamente, cercasse di confortarci in uno di quei momenti di stanchezza, di esasperazione, di ribellione ai quali accennavo prima. In effetti, il confine tra fede e bestemmia è qui veramente molto sottile, come lo è nel libro di Giobbe. Forse anzi le espressioni contenute in questi versetti sono, insieme a quelle del libro di Giobbe, le espressioni in assoluto più acri di tutta la Bibbia ebraica. Ma si deve aggiungere: esse costituiscono anche un tipo di preghiera. Dio coglie l’atteggiamento orante anche se esso si scosta dai modelli codificati nei testi liturgici – o, se si vuole, dalle nostre opinioni di “credenti perbene”. Lutero diceva: Dio gradisce e capisce certe volte molto più le bestemmie dell’uomo disperato, che non le lodi tranquille e serene rivoltegli la domenica mattina, durante il culto, dal benpensante privo di preoccupazioni. Perché Geremia, nella sua rivolta, dimostra di prendere Dio sul serio. Lo accusa, quasi lo insulta, eppure, anzi proprio così facendo, lo riconosce come il centro della propria vita. Quando il ministero che esercitiamo nella chiesa – perché non mi stancherò mai di ribadire che uno dei punti cardine della Riforma è il sacerdozio universale dei battezzati, e non mi stancherò mai di ricordare che a tutti noi è affidata una qualche forma di ministero – quando il ministero, dicevo, o la chiesa stessa ci deludono, quando Dio stesso sembra averci ingannato e tradito, non dobbiamo esitare a rivolgere anche noi a Dio il nostro “lamento”, come Geremia. Perché a Dio sono infinitamente più gradite le contestazioni, anche violente, di una “buona educazione” nei suoi confronti che, spesso, altro non è che assenza di fede. E allora, può darsi che accada anche a noi ciò che è accaduto a Geremia. Proprio nel dolore egli ha acquistato coscienza di sé stesso e gli si è aperto un sentiero di grazia. Il seguito delle sue vicende dimostra che il giovane timido e insicuro che abbiamo conosciuto all’inizio del libro è diventato un uomo risoluto, dotato di forte personalità e, soprattutto, un grande profeta e credente. Questo può accadere anche a noi: a patto che davvero ci lasciamo sedurre, violentare da Dio; a patto che dentro di noi la parola di Dio sia “come un fuoco ardente” tale da far “ardere il nostro cuore”, come ardeva il cuore ai due discepoli di Emmaus. Fuoco ardente: una realtà scomoda, inquietante, esplosiva, incontenibile, e proprio in quanto tale unica vera e possibile fonte di vita e di speranza, per ciascuno di noi, per ciascuna delle nostre chiese.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Sermone: DOMENICA 10 MARZO 2013 CULTO DEI GIOVANI (PREDICAZIONE GV 12:20-26)

Quella di domenica 10 marzo 2013 è stata una giornata particolare per la Chiesa Evangelica Metodista di Padova. Infatti, abituata al “solito” culto e alle sue 20-25 presenze abituali, si è trovata felicemente “invasa” dai giovani della FGEI del Triveneto che, con la collaborazione delle Chiese Battiste di Padova e Treviso hanno animato il culto domenicale delle ore 11.00

Coordinato da Alberto Ruggin della locale comunità di Padova, con i canti ed il “karaoke” dei giovani Battisti, la predicazione era stata affidata ad un battista (2 Cor. 1,3-7) e a Stefano Bertuzzi della comunità valdese di Trieste (Gv 12:20-26).

Non essendo però stato preparato il sermone relativo alla lettera di Paolo, un membro della comunità metodista di Padova, contattato all’ultimo momento, ha presentato una breve riflessione in materia di consolazione e di misericordia in linea con il testo paolino.

Pubblichiamo invece il sermone sul passo dell’evangelo di Giovanni.

Il pomeriggio è poi proseguito con un’agape festosa, riflessioni e momenti di divertimento presso i locali sociali.

“Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna”

Care sorelle, cari fratelli,
quando mi è stato chiesto, circa una settimana fa, di preparare una parte del sermone per questa domenica, devo ammettere che un primo momento ho reagito con un po’ di titubanza, con un po’ di incertezza. In parte perché non predico spesso – e quando lo faccio mi prendo solitamente più tempo per prepararmi – ma soprattutto perché non è facile parlare ad una comunità diversa dalla propria, ancor più sapendo che un folto gruppo di ragazzi e ragazze avrebbero ascoltato queste parole. E quindi una serie di dubbi mi hanno fatto riflettere sulle mie capacità, temendo soprattutto che, pur pregando e invocando l’aiuto del Signore, non sarei riuscito a trasmettere in maniera corretta il messaggio della Sua Parola.
Ma subito dopo sono andato a leggere i versetti che erano stati selezionati per il Sermone – o per lo meno per la parte che avrei dovuto preparare io – e se da un lato la loro lettura ha creato un aumento dei miei dubbi e delle mie preoccupazioni, dall’altra, come spesso accade nell’approccio con la Parola, tutto è apparso piano piano più chiaro.
In questi versetti di Giovanni, Gesù annuncia – e non è la prima volta che lo fa – la sua morte prematura. La annuncia subito dopo essere entrato trionfalmente a Gerusalemme; lo fa in un momento di estrema gioia, nel quale tante persone sembrano volerlo cercare e seguire. E queste persone lo cercano non soltanto per riceverne dei benefici diretti – ricordiamo che Gesù ha già compiuto miracoli per tutta la galilea – quanto soprattutto per ascoltare le sue parole piene di saggezza, le parole profetiche che si immagina siano in grado di dare una nuova speranza al popolo. La fama di Gesù l’ha preceduto, ed ora sono in molti ad acclamarlo a gran voce come un nuovo e grande re.
Nelle parole che abbiamo appena letto, scopriamo che tra coloro che cercano di avvicinare Gesù ci sono addirittura dei greci, dei pagani. Questo avvicinarsi da parte loro è un segno enorme, perché significa che il messaggio di Gesù stava già uscendo dal “ristretto” mondo ebraico. La portata della richiesta di parlare con Gesù, da parte di un gruppo di greci, è dirompente, anche se tale forza non viene subito colta dai discepoli. E infatti da lì si scatena una serie di passaparola nel quale è palpabile un certo grado di timore nei confronti di quel particolare – e inaspettato – approccio. Passaparola che finalmente giunge a Gesù. Un Gesù che come ci ha spesso abituato, risponde in modo inaspettato!
Chi di noi di fronte ad una richiesta così pressante non avrebbe cercato di sfruttare la fama acquisita. Magari in totale buona fede, ma comunque con un po’ di orgoglio e autocompiacimento! Non pensiamo soltanto a chi sfrutta la propria posizione per un tornaconto tutto personale. Riflettiamo su ciascuno e ciascuna di noi: a tutti fa molto piacere sentire di essere importanti e stimati. Io personalmente devo ammettere che siedo in prima fila tra persone a cui piace poter avere un ruolo da protagonista.
Gesù però non pensa a questo. Lui è ben conscio del suo destino e dell’importanza che avranno gli avvenimenti dei giorni seguenti: la “glorificazione” – cioè la piena rivelazione – alla quale sa di dover andare incontro non è quella delle folle festanti, ma è quella della sofferenza della croce. E Gesù ci fornisce anche una chiara spiegazione di questo: a cosa serve un leader carismatico forte che tiene per sé gloria e potere? Quale potrebbe essere il destino di un popolo che si mette interamente nelle sue mani una volta che il leader non ci sarà più? “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto”. Il frutto che deriverà dal suo insegnamento potrà crescere solamente se Gesù lo donerà a tutti e tutte noi attraverso la sua morte. “Chi ama la sua vita”, chi se ne vanta chi ritiene di poterla sfruttare egoisticamente per il proprio tornaconto personale è destinato a perdere tutto. Ma ciò non significa che la vita non ci debba interessare. Tutt’altro! Se la vita è il seme, è importante che esso contenga il germe di una pianta buona, capace di dare frutto. E da botanico posso assicurarvi che all’interno di un seme esiste un universo di vita – non starò qui a tenervi una lezione sulla composizione di un seme e su quanto esso sia in realtà estremamente complesso nelle sue seppur minime dimensioni! Il seme buono dà frutto quando scompare, abbiamo detto, e questa è una verità che vale anche per ogni uomo e ogni donna su questa terra. Tutti e tutte noi viviamo ogni giorno con il pensiero ad esempi di persone care che non sono più qui ma che continuano a guidarci. Le parole, per esempio, che ci arrivano attraverso libri più o meno antichi, sono i frutti imperituri, quasi eterni, di semi piantati anni o secoli fa. Uomini morti ma in qualche modo glorificati a vita eterna.
Ma Gesù va oltre. Lui è molto di più che un esempio da seguire. Il suo estremo sacrificio verrà compiuto per tutto il genere umano. Per riscattarlo dal peccato dell’odio e della divisione all’interno di esso e soprattutto con Dio. Divisioni che crolleranno, nel momento in cui anche i Greci, i pagani, beneficeranno dei frutti del seme Gesù.
E qua diventa chiaro un altro elemento importante del passo biblico: dicevamo all’inizio, che nelle parole lette, Gesù annuncia la Sua stessa morte. Ma egli in realtà fa di più. Qui Gesù annuncia la Sua resurrezione. Per tutti. Qui Lui dice che dopo di Lui ci sarà di nuovo Lui. In altra forma magari, ma sempre Egli stesso! E noi saremo insieme a lui se sapremo davvero stargli accanto, e così ci troveremo anche molto più vicini a Dio.
Quindi, sorelle e fratelli, viviamo la nostra vita nella pienezza di ciò che ci offre, ma non cerchiamo di trattenere di essa ciò che non ci appartiene. Agiamo nella consapevolezza che anche noi abbiamo il dovere di essere seme, sia come singoli ma soprattutto come Chiesa. La testimonianza che ci è stata chiesta è grande: in questi giorni che si avvicinano alla Pasqua rivivremo il sacrificio di Gesù. Non dobbiamo pensare a ciò come un semplice rito: perché nella nostra esperienza quotidiana possiamo – e dobbiamo – essere artefici di piccole/grandi risurrezioni. Il sacrificio che ci viene chiesto è esattamente questo: di essere portatori di una nuova speranza per l’umanità, non solo per noi ma per la vera e unica vita eterna.
Sermone a cura di Stefano Bertuzzi, della Chiesa Evangelica Metodista di Trieste

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 3 MARZO 2013 (Num 23:7-8,20 Rm 11:32 Mt 25:35 testo di predicazione)

“Fui straniero e mi accoglieste”

“Fui straniero e mi accoglieste”. Sulla scorta di queste parole del vangelo di Matteo, l’accoglienza allo straniero è diventata norma di comportamento per tutti coloro che vogliono essere cristiani. Sono parole che sentiamo risuonare molto frequentemente nelle cerchie dei credenti, a qualsiasi chiesa appartengano; parole che vengono spesso adottate come testo base per un culto, come avviene per noi oggi, o per un incontro di preghiera e di riflessione, o anche per qualche convegno o giornata di studi. Sono parole che sentiamo necessarie tanto più ai nostri giorni: viviamo in un’epoca in cui i viaggi e i soggiorni all’estero e anche i trasferimenti definitivi dal proprio paese a un paese straniero, sono esperienze familiari a tutti, specie ai più giovani. In particolare, l’Italia è diventata terra di immigrazione, meta transitoria o definitiva di uomini e donne provenienti soprattutto dalle aree più disagiate e problematiche del mondo. Di qui la grande attualità, e anche la grande e forse un po’ troppo facile popolarità, di queste parole tramandateci da Matteo. Perché parlo di “facile popolarità”? Perché, secondo me, queste parole vengono spesso interpretate dai cristiani in un modo un po’ superficiale e anche un po’ autocompiaciuto, come esortazione a essere “buoni” (cioè “comprensivi”/ “generosi”/ “ospitali”/ “tolleranti” e così via) nei confronti del “povero” straniero. “Noi” siamo coloro che hanno sempre e soltanto qualcosa da “dare”, gli “stranieri” (e quando si parla di “stranieri” in questo contesto si sottintendono ovviamente sempre gli stranieri poveri, i diseredati, coloro che più facilmente sono oggetto di discriminazione e di emarginazione) sono coloro che hanno sempre e soltanto qualcosa da ricevere. Sorelle e fratelli, devo dirvi che questa lettura non solo mi dà un po’ fastidio, ma mi sembra molto riduttiva: riduttiva rispetto a ciò che in generale la Bibbia dice sul rapporto con lo straniero ma anche riduttiva proprio in relazione a questa espressione di Matteo. Mi accoglieste”, è il testo. Ebbene, che cosa si intende con “accogliere”? Certamente, si intende anche aprire le porte a chi chiede di venire a vivere tra noi, trattandolo con benevolenza e offrendogli, al bisogno, ospitalità e ogni altro genere di aiuto. Ma vorrei che riflettessimo un momento sull’uso che facciamo di questo verbo proprio in contesti che hanno a che fare con la nostra vita di fede. Non parliamo forse di accogliere ciò che Dio ci offre come un dono – per esempio, e in primissimo luogo, di accogliere il dono della salvezza per grazia? In questo caso, non si tratta di piegarci benignamente verso qualcuno che si trova, in qualche modo, in una situazione di inferiorità; si tratta, al contrario, di aprirci, di renderci disponibili a Dio, o comunque a qualcosa che ci viene da Lui. Siamo noi, in questo caso, che dobbiamo tendere le mani verso ciò che ci viene donato dall’alto e che sappiamo bene di non potere in alcun modo ripagare. Perché questo non dovrebbe valere anche per l’interpretazione di queste parole del re-giudice? Che cosa dice, infatti, il re-giudice? Dice che accogliendo lo straniero accogliamo Lui. Ma questo, allora, significa che lo straniero non è – o non è soltanto – destinatario della nostra generosità; è anche, portatore di doni, strumento di Dio per operare il nostro bene. Ricevere lo straniero come una grazia di Dio: direi che la Bibbia ci offre molti suggerimenti che vanno in questa direzione. Ma soffermiamoci un momento, prima di tutto, a considerare che cosa dice la Bibbia ebraica sullo straniero. Ci sono due tipi di straniero: c’è quello che è “dentro le tue porte” e che deve essere accolto e amato come se fosse un israelita (“amate lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”); e poi c’è lo straniero che è fuori della porta, fuori dei confini di Israele, cioè i popoli vicini con i quali Israele deve convivere, cosa non facile perché essi costituiscono, per Israele, o una tentazione o una minaccia. La tentazione consiste nel conformarsi agli usi e costumi di quei popoli, adottando le loro pratiche cultuali e persino le loro divinità, dimenticando l’Iddio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. È la tentazione di “essere come gli altri popoli”, anziché essere il popolo di Dio, la tentazione sottile e perenne del conformismo che già l’apostolo Paolo combatteva esortando i cristiani a “non conformarsi a questo mondo”. (Tra parentesi, ma non poi tanto: questo ammonimento vale per i cristiani di tutti i tempi, vale anche e più che mai per noi, sorelle e fratelli. Ricordiamolo, una chiesa conformista diventa straniera, straniera questa volta in senso assolutamente negativo, rispetto alla sua vocazione, e questo accade quando si appiattisce sulla mentalità, sui valori, sugli stili di vita del “mondo”, diventa cioè mondana, qualche volta senza neppure accorgersene. Allora, anziché essere testimone e parabola del regno di Dio, la chiesa non è altro che la versione religiosa del mondo, e quindi diventa straniera a Dio). Oltre che tentazione, lo straniero “fuori della porta” è anche sempre stato una reale minaccia per Israele: sono stati tanti i tentativi di cancellare il popolo di Israele dalla faccia della terra. Ma proprio in questo quadro di tentazione e minaccia che i popoli stranieri costituiscono per il popolo di Dio, nella Bibbia incontriamo figure di stranieri che finiscono invece per rivelarsi strumenti preziosi di Dio in favore del popolo di Israele. Particolarmente suggestiva è la figura dello straniero come profeta. È una figura che percorre l’intera Bibbia. Ricordate da chi viene pronunciata la prima confessione di fede cristiana? Non da uno dei discepoli, ma da uno straniero, il centurione che sotto la croce dice “Veramente quest’uomo era figlio di Dio!”. Ma fermiamoci sulla storia di Balaam: ne abbiamo ascoltato solo pochi versetti, ma è una storia lunga, che occupa ben tre capitoli del libro dei Numeri. Balaam è un indovino, un mago che un giorno viene chiamato dal re di Moab, Baalac, affinché maledica Israele, un popolo del quale Baalac ha una grande paura e che vuole indebolire privandolo dell’aiuto divino. Durante il viaggio un angelo blocca la strada di Balaam, il quale però non lo vede; ma lo vede la sua asina, alla quale Dio dà la parola in modo che possa difendersi dalle bastonate di Balaam rivelandogli la presenza dell’angelo, e questo angelo ordina a Balaam di dire su Israele soltanto quello che Dio gli suggerirà di dire. Finalmente tutto è pronto per la maledizione di Israele, ma Balaam per tre volte di seguito non maledice, ma benedice Israele, perché così Dio gli comanda di fare. Il re Baalac ovviamente è furioso e caccia malamente Balaam, che non solo non ha maledetto Israele, ma lo ha addirittura benedetto. Cerchiamo di cogliere il senso di questa storia molto bella, che ho qui riassunto per sommi capi. Qui, innanzitutto, c’è uno straniero che diventa profeta. Che cosa significa che uno straniero diventa profeta? Significa tante cose, ma la più importante mi sembra questa: che in Dio non ci sono stranieri perché in lui non ci sono confini. Con grande libertà Dio parla agli altri popoli attraverso il suo popolo, e parla al suo popolo attraverso altri popoli. Si serve di Abramo per benedire tutte le famiglie della terra e si serve di Balaam per benedire i figli di Abramo. Ma se è così, se lo straniero può diventare profeta e Dio può parlare al suo popolo attraverso voci esterne e non soltanto interne, allora dobbiamo, come comunità cristiana che vive in terra italiana, tendere l’orecchio e ascoltare (accogliere) non solo le voci che vengono dall’interno, dalla nostra comunità, dall’ambiente che ci è familiare, ma anche le voci che vengono dall’esterno, le voci, appunto, degli stranieri, perché proprio da lì possono provenirci messaggi da parte di Dio. Messaggi, e anche benedizioni. E qui c’è un insegnamento fondamentale per noi, un insegnamento che non dovremmo mai dimenticare e che invece sempre di nuovo dimentichiamo: noi non possiamo disporre di Dio. Noi non possediamo Dio, noi non possiamo tenerlo nelle nostre mani. Dio non si fa catturare, il suo Spirito soffia dove vuole: tra noi, come tra quelli che sono stranieri rispetto a noi. Rispetto a noi, ma non rispetto a Dio, perché in Dio non ci sono stranieri, c’è solo una comunità di esseri umani tutti ugualmente peccatori e tutti ugualmente perdonati, come ricorda Paolo nel versetto della lettera ai Romani che abbiamo ascoltato. Accogliamo dunque Dio nello straniero che è tra noi, accogliamo ciò che Dio vuol dirci attraverso lo straniero che è tra noi; perché può darsi che lo straniero sia portatore di una benedizione per noi, come Balaam lo fu per Israele. E può darsi che Dio voglia fare di noi, a nostra volta, degli strumenti per la benedizione dello straniero. Ma che cosa significa essere, come Balaam, portatori di una benedizione? Significa ravvisare in questo la nostra ragion d’essere, il senso della nostra esistenza. Quello che Balaam è per Israele, Israele lo è per il mondo: una benedizione. E questo devono essere per il mondo i cristiani. Gente che pronuncia una benedizione, ma che prima ancora è una benedizione, come Gesù lo è stato per la sua generazione e tutte le altre in seguito. Essere una benedizione per chi ci sta accanto: esistiamo per questo. Siamo chiamati a esserlo noi per gli stranieri che vivono con noi: sia che questi stranieri siano cristiani come noi, della nostra o di un’altra confessione; sia che seguano altre fedi religiose; sia che non si riconoscano in alcuna fede. Perché non è un’etichetta religiosa che può impedire a Dio di servirsi di chiunque come strumento del proprio amore. E possono esserlo, una benedizione, gli stranieri nei nostri confronti: tutti gli stranieri, qualsiasi straniero. Possiamo dunque chiedere allo straniero: “Sii una benedizione per il paese che ti ospita”. E dobbiamo chiedere a noi stessi di essere noi una benedizione per gli stranieri che ospitiamo.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante