Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 28 LUGLIO 2013 (Mt. 6:19-24; Col. 3:1-15)

NESSUNO PUO’ SERVIRE DUE PADRONI

 

 

Non è possibile servire due padroni contemporaneamente: così dice Gesù. Veramente, nella strade del mondo avviene: fin troppo spesso! Nel corso della storia ci sono sempre stati personaggi pubblici, con responsabilità – non importa se piccole o grandi – che si sono presentati e fatti credere difensori del bene pubblico mentre erano in tutt’altro affaccendati. Per la disgrazia del nostro paese, questo fenomeno ci è fin troppo noto e tanto ne dobbiamo sentire tutti i giorni da esserne profondamente nauseati. Quando poi l’inganno si svela e la realtà sotterranea viene alla luce, quella pratica ha già prodotto mali devastanti e assai difficile è il risanamento. Gesù rivolgeva il suo insegnamento a persone che vivevano in un contesto tutto permeato di religiosità. Non parlava a un mondo di atei. Le sue parole più dure erano rivolte a coloro che la religione e il timore di Dio intendevano impersonare. Anche noi, oggi, ci troviamo in un contesto che è fortemente permeato di religiosità che, audacemente, dice di essere cristiana. Ma la domanda d’obbligo è questa: è possibile essere cristiani a metà? La parola dell’evangelo, le parole del Cristo lo escludono. No, non è possibile. Paolo dice ai Colossesi: voi siete morti. Siete morti in Cristo. Infatti, avendo conosciuto il Cristo e grazie alla fede in lui, i Colossesi avevano rotto nettamente i legami culturali e spirituali con un mondo che aveva una raffinata religiosità. Avevano anche rotto con la mentalità del tempo e del luogo dove vivevano: Colosso, fra il 60 e l’80 d.C., posta in quella che oggi è la Turchia, era una città prevalentemente pagana ma percorsa da molte correnti religiose e filosofiche; era anche assai ricca per i traffici e i commerci che aveva sviluppato. Tutto questo mondo aveva perso di qualsiasi valore ai credenti di Colosso. Adesso la loro vita era diversa, era nuova rispetto al contesto che li circondava. Nei versetti che abbiamo letto Paolo elenca tutto il negativo di cui ci spogliamo e poi dà una piccola descrizione di quello che caratterizza la nuova vita come la indica anche nella lettera ai Galati: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, e autocontrollo. Solo la comunione con lo Spirito santo può produrre questa svolta straordinaria e del tutto immeritata. Da qui viene l’appello: abbiate l’animo alle cose di sopra, non a quelle che sono sulla terra! Resuscitati con Cristo come è possibile proporsi un altro fine se non quello di piacere al Signore facendo la sua volontà? È chiaro: chi porta il nome di cristiano non può più servire due padroni. Chi ha incontrato il Cristo ne ha la vita sconvolta: ora vive un’altra vita che, però, sfugge allo sguardo degli uomini, perché è nascosta con Cristo in Dio. La vita! Questo fenomeno misterioso si manifesta in noi in modi diversi e in diversi gradi:

 

— vita dei sensi, con la quale entriamo nel mondo;

 

— vita dell’intelligenza, che pone principi, deduce conseguenze, penetra cause, crea per mezzo delle idee;

 

— vita dei sentimenti, quella che compenetra e dirige le altre: infatti, cosa sarebbe l’esistenza senza di lei!

 

Superando queste sfere che strutturano il nostro essere, troviamo la vita della fede. Non è distinta dalle altre, anzi: le penetra e dà loro una impronta particolare; dà compiutezza, vorrei dire coronamento. Per mezzo della fede ci è dato di entrare in comunicazione con l’invisibile e con l’inarrivabile. Ci è dato di potere attingere a verità eterne e persino di poter contemplare, attraverso le opere che egli compie in noi e nel mondo, Colui che dal profondo dei cieli ci ama e ci attende. Veniamo sanati dalle frustrazioni inutili e futili, perché possiamo fiduciosamente umiliarci delle nostre colpe e sentirci sollevati e consolati dalla sua mano. Paolo spiega ai credenti che la loro vita è nascosta perché il suo principio è interioree la maggior parte delle sue manifestazioni sono invisibili. Chi può dire i drammi che talora si svolgono nel profondo dell’anima cristiana? Quando assale la prova, quando il dolore ferisce, chi può vedere quali rivoluzioni avvengono talvolta senza che alcuno se ne avveda? Ma ciò che gli uomini immediatamente non vedono è visto da Dio che è appunto il nostro fermento interiore: è nascosto perche lotta con noi e per noi. La vita cristiana è nascosta anche perché non cerca la gloria di questo mondo: non fa niente che non sia alla luce del sole, ma evita i fasti e le manifestazioni esteriori. Resta umile davanti a Dio e davanti agli uomini e, finché è così, è realmente efficace. Ma vi è un’altra ragione ancora: è nascosta perché in questo mondo è solo abbozzata; è una vita in germe, in crescita, è in continuo divenire giorno dopo giorno fino all’ultimo dei giorni. Il credente morto e risuscitato con Cristo, è unito a Dio per mezzo di questa sua nuova vita che circola in noi come una linfa. Ci sono domande che dobbiamo sempre tornare a porci: siamo coscienti di possedere questa vita? E se la possediamo non la lasciamo mai ristagnare? Non ha intermittenze? Nella preghiera, nel nostro vivere quotidiano, torniamo al principio dal quale ci viene la vita: a Dio. Allora essa riprenderà il suo corso in noi verso le rive dell’eternità. Un giorno, questa nostra condizione paradossale di gente la cui vita non ha realtà nel mondo se non nella fede, nella speranza e nell’amore, verrà meno, cesserà – e colui che è la nostra vita non sarà più nascosto in Dio, ma sarà presente in tutti e in tutto. Che il nostro cuore ne provi gratitudine e gioia. AMEN.

 

Sermone a cura della nostra Predicatrice Locale, Febe Cavazzutti Rossi

 

 

 

 

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 14 LUGLIO 2013 (Gv 18:33-38; testo di predicazione: Ef 2:19; Eb 13:14)

Cittadini del regno “altro”

Dei due popoli ne ha fatto uno solo

Accingendomi a preparare questa predicazione ho aperto, come faccio di solito, il lezionario Un giorno una parola alla data di oggi, per vedere quali fossero i testi indicati per il culto. Come sapete, però, il lezionario oltre ai testi espressamente intesi per il culto propone anche altri versetti biblici. Ebbene, da uno di questi versetti sono stata particolarmente colpita: è quello tratto dalla lettera agli Efesini, che ricorda come i cristiani non siano “più né stranieri né ospiti”, quindi gente di passaggio, in uno stato provvisorio e precario, bensì persone che hanno trovato una residenza stabile, sicura, eterna, la migliore che si possa desiderare, perché sono diventati “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”. Un’unica grande famiglia, come spiega Paolo nei versetti precedenti; una famiglia “allargata”, potremmo dire usando un termine di attualità, e meravigliosamente allargata in quanto, “mediante il sangue di Cristo”, giudei e stranieri sono diventati un unico popolo; anzi, lo “straniero” proprio non esiste più, è una qualifica che a nessuno può essere più attribuita, dopo che Gesù Cristo “dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione” (Ef 2: 11 sgg.). Si tratta di un versetto bellissimo, anche in considerazione del contesto al quale fa riferimento, e già questo potrebbe spiegare il fatto che abbia attirato la mia attenzione. Ma c’era una ragione in più, una ragione che non mi è risultata immediatamente chiarissima: questo versetto me ne richiamava un altro, ma quale? Alla fine, la risposta è arrivata quando il mio sguardo è caduto sul segnalibro del lezionario, segnalibro sul quale la Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha fatto stampare il “versetto dell’anno” 2013. Questo versetto, tratto dalla lettera agli Ebrei, dice: “Perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura”. Ecco, era questo il versetto che mi era venuto istintivo collegare nella mia mente a quello della lettera agli Efesini. I due versetti, a prima vista, sembrerebbero quasi dire l’opposto. Scrivendo agli Efesini, Paolo mette l’accento sulla fine del pellegrinare, sulla meta finalmente raggiunta, sulla città che spalanca le sue porte, una città che è al tempo stesso cerchia familiare, grembo accogliente, comunità che trasmette un senso di appartenenza, di stabilità, di calore – che dona, soprattutto, un’identità a chi non l’ha mai avuta. Per l’autore della lettera agli Ebrei, invece, il viaggio è ancora in pieno svolgimento, l’itinerario è tutt’altro che concluso, la città è tuttora oggetto di ricerca, una ricerca piena di desiderio, illuminata dalla speranza, ma che si prevede ancora molto, molto lunga. Ho pensato, allora, che sarebbe stato interessante prendere entrambi questi versetti a base della riflessione che vi propongo oggi, e cercare di capire che cosa essi vogliono veramente dirci – o, meglio, che cosa essi vogliono veramente dire non tanto a noi, quanto di noi. Chi siamo – chi siamo chiamati ad essere? Come ci vuole il Signore: cittadini o pellegrini? Stanziali o viandanti? Come ci vuole il Signore? È questa, certo, la domanda fondamentale che dobbiamo porci e alla quale dobbiamo cercare di rispondere. Ma domandiamoci, intanto: noi, che cosa vogliamo essere, che cosa ci sentiamo? Entrambe le cose, direi: cittadini e pellegrini, stanziali e viandanti. La nostra civiltà è certamente di matrice sedentaria, tant’è vero che tende istintivamente a respingere, a rifiutare i nomadi che si accampano ai bordi delle nostre città. D’altra parte, mai come in questi tempi l’umanità si è fatta frenetica nel voler viaggiare, migrare, cercare; in senso fisico, materiale, ma anche in senso spirituale. Spesso questa irrequietezza interiore è solo segno di scontentezza, di insoddisfazione, di un’attesa frustrata; ma può anche essere un sintomo positivo, il segno della nostra incapacità di appiattirci su un’esistenza opaca e banale e il nostro continuo bisogno di cercare qualcosa di altro, di diverso, la nostra esigenza di metterci in movimento verso una meta che forse non abbiamo del tutto chiara nella mente, ma dalla quale ci attendiamo che dia un senso al nostro vivere. In questo caso – nel caso cioè in cui la nostra irrequietezza deriva dal fatto che non ci sentiamo appagati da ciò che ci circonda e, soprattutto, da ciò che noi stessi siamo – direi che ci troviamo in piena sintonia con quanto leggiamo nel versetto della lettera agli Ebrei. Tra parentesi, un’esortazione analoga la troviamo attribuita a Gesù in un vangelo apocrifo, quello che va sotto il nome dell’apostolo Tommaso: “Siate gente di passaggio”. Mi piace molto questa esortazione così straordinariamente incisiva e suggestiva, e mi sembra del tutto in linea con la predicazione di Gesù quale ci viene tramandata dai testi canonici. Il cristiano è viandante e pellegrino, dunque. Eppure, al tempo stesso, ci dice la lettera agli Efesini, il cristiano ha già concluso il suo viaggio, è già entrato nella città. Contraddizione, dunque? No, nessuna contraddizione. Due diverse angolature, piuttosto, di un’unica realtà: la realtà del regno, quel regno che Gesù è venuto ad annunciare. Il regno è una realtà che ha molti volti, ma che si caratterizza soprattutto per un tratto: è un regno che proviene da “altrove”. Così è solito parlarne Gesù. Così ne parla, in particolare, nel passo di Giovanni che abbiamo ascoltato, un passo drammatico che tutti noi conosciamo bene ma sul quale sarà il caso di soffermarci ancora una volta, perché ci può essere di aiuto nel nostro tentativo di comprendere che cosa significa essere viandanti e, al tempo stesso, stabili residenti. Il regno del quale Gesù è Signore è un regno che non segue le regole dei regni di questo mondo, né è ispirato dallo spirito che domina in essi. A Pilato, che rappresenta il regno di questo mondo, Gesù intende dire: “Il mio regno non è di questo mondo, ma è in questo mondo, e io sono nato per questo, per testimoniare in questo mondo di un regno che non è di questo mondo. Ma io lo testimonio davanti a te, lo porto di fronte a te, Pilato”. Gesù dice, in sostanza: “C’è un altro modo di essere re, è possibile un altro regno. E io sono nato per testimoniarlo, per portarlo, per introdurlo nella storia del mondo, che finora è andata invece in una maniera completamente diversa”. È come se ci fossero due regni contrapposti, in questo mondo: uno è quello del potere, l’altro quello della croce. Per Pilato, questa dichiarazione di Gesù, se solo avesse voluto e saputo ascoltarla davvero, avrebbe potuto aprire prospettive insospettate: dunque esiste un altro modo di regnare, il modo di Gesù; esiste un altro modello di regno, un regno dalle dimensioni inedite, “nuove” perché rispecchiano un “nuovo” criterio di regalità. Pilato, almeno per quanto ne sappiamo, non fu toccato dalle parole di Gesù, non fu nemmeno sfiorato dal sospetto che questo “nuovo” criterio di regalità, questo criterio di regalità “altro” potesse davvero esistere; ma, insieme a Pilato e dopo Pilato, ogni successiva generazione è chiamata (e, quindi, anche noi lo siamo) a confrontarsi con questa rivelazione: esiste un “nuovo”, un diverso modo di regnare, e si tratta di un “regnare” che significa dare la propria vita su una croce. Pilato siede su un trono; Gesù regnerà dalla croce, e prima sarà flagellato, insultato, oltraggiato. In fin dei conti, la parola chiave che contrappone i due regni è questa: verità. Pilato non sa che cos’è la verità; Gesù sì. L’antitesi, dunque, non è soltanto tra un regno del potere e un regno della croce; è anche tra un regno del potere e un regno della verità. E questa verità è “straniera” nel regno del potere, così come Gesù è “straniero” al potere in quanto ne rappresenta l’esatto opposto: non solo in questo momento in cui è “legato” (cfr. Gv 18: 24), impossibilitato a difendersi, a opporre la minima resistenza, ma in tutta la sua vita. Gesù non ha, non ha mai avuto nulla in comune con l’uomo di potere. Lo conferma anche qui, dinanzi a Pilato, allorché afferma: “per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità”. Per testimoniare: non per comandare, per imporre. Questa è una grande differenza dai regni e dai regnanti di questo mondo, che comandano, ordinano, impongono, mentre Gesù testimonia. Testimonia che cosa? La verità, appunto, ma non la sua verità, bensì la verità di Dio. Una verità di cui Gesù non si appropria, una verità alla quale Gesù non mette, per così dire, le mani addosso, proprio in quanto vuol essere e presentarsi come testimone, non come padrone della verità. Pensiamo soltanto a che cosa sarebbe stata la storia cristiana di questi duemila anni se si fosse svolta secondo il paradigma che qui Gesù indica, quello di essere semplicemente testimoni della verità e non di imporla. Pensiamo a che cosa sarebbe la nostra vita di cristiani ora, se noi sapessimo “testimoniare” la verità nel senso di viverla, di lasciarci abitare dalla verità, di diventare donne e uomini che la verità guida, ispira, fa vivere. Senza mai dimenticare che la nostra parola “martire” deriva da un vocabolo greco che significa “testimone”, e che la testimonianza può quindi talvolta identificarsi con quello che noi chiamiamo martirio. Anche questa possibilità fa parte del regno “altro”, del regno della verità che si identifica con il regno della croce. Dunque, alla domanda: chi siamo? Cittadini o pellegrini? Stanziali o viandanti?, sulla scorta di questo passo di Giovanni potremmo forse rispondere così: siamo entrambe le cose, abbiamo una doppia appartenenza, una provvisoria e una definitiva, e questo comporta una sfida che Gesù ci chiede di raccogliere. Viandanti nel regno del potere, siamo chiamati a vivere in questo regno da stranieri, in quanto (“mediante il sangue di Cristo”) siamo cittadini del regno “altro”, quello della croce e della verità. Impariamo dunque una buona volta, sorelle e fratelli, a essere stranieri – stranieri a ogni logica di potere, di sopraffazione, di intolleranza – per diventare davvero cittadini, per riscoprire la nostra vera identità di “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”. Che il Signore ci guidi. Amen

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 7 LUGLIO 2013 (Is 43:1-7; Mt 28:16-20)

Domenica 7 Luglio è stata una giornata speciale. I giovani evangelici del Nord Italia che si riconoscono nella F.G.E.I. (Federazione Giovanile Evangelica Italiana) hanno tenuto un “precongresso” in vista del grande Congresso nazionale in autunno. Il tutto per unire, in un grande spirito fraterno, i  giovani e le giovani delle Chiese Battiste, Metodiste e Valdesi con proposte, idee ed obiettivi . I giovani hanno scelto di condividere con la nostra comunità il momento del culto, prendendosi carico dell’organizzazione della liturgia e della predicazione.

Ecco quindi il testo del sermone, tenuto da Stefano Bertuzzi, della Chiesa Evangelica Metodista di Trieste e consigliere della F.G.EI.

Tu sei prezioso ai miei occhi

Tu sei prezioso

“Quale dichiarazione d’amore intensa e straordinaria è quella che fa il Signore, per mezzo delle parole del profeta Isaia, nei confronti del suo popolo: “Tu sei prezioso ai miei occhi, sei stimato e io ti amo!”; “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio!”. Un annuncio, oltre che di amore, anche di salvezza. Forse uno dei più caldi, avvolgenti e forti dell’antico testamento, che troviamo, tra l’altro, in uno dei libri caratterizzati da parole di condanna tra le più severe e dure di tutta la Scrittura. Dobbiamo precisare però, che a differenza dei primi capitoli dello stesso libro, scritti probabilmente da Isaia in persona, qui ci troviamo di fronte alle parole del cosiddetto Deuteroisaia, un secondo profeta con lo stesso nome del primo, o forse, addirittura, un gruppo di profeti provenienti dalla “scuola” del primo. E questo profeta, si trova a predicare in un tempo ed in un contesto molto differenti rispetto al primo, cioè nel sesto secolo prima di Cristo, durante l’esilio di Israele in Babilonia. Se avete avuto modo di seguire il percorso che la Fgei – la Federazione Giovanile Evangelica Italiana – ha fatto negli ultimi anni, vi ricorderete che il tema del sermone consigliato per il culto giovani nel 2012 era centrato sul capitolo 29 del libro di Geremia, profeta che anch’esso si rivolge agli esiliati in Babilonia attraverso – tra i molti altri – lo storico versetto 7: “Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene”. Seguito, poco più avanti, da un’altra frase d’amore: “Voi mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il vostro cuore; io mi lascerò trovare da voi”. Qui però, quello stesso sentimento d’amore che troviamo in Isaia è “a parti invertite”: sarà Israele a cercare con tutto il suo cuore il Signore; sarà Israele ad amarlo! D’altra parte Geremia è un profeta concreto, quasi un “politico” – come lo avevamo definito durante il culto organizzato a Trieste su questo tema – il quale vuole indicare al popolo la strada da seguire per una permanenza serena in Babilonia e per un rapido ritorno in patria. Isaia, il cui nome in ebraico significa “il Signore ha salvato”, è invece il poeta della fede, il profeta – appunto – della salvezza. Possiamo dire quasi che, mentre Geremia sembra parlare alla testa, al cervello, Isaia invece si rivolge al cuore – o forse di più – direttamente alle membra di chi lo ascolta. Due esperienze profetiche straordinarie e complementari che racchiudono l’eccezionale unicità della voce del Signore. Nei pochi versetti di Isaia che abbiamo letto quest’oggi, quella voce di Dio è capace di ripercorrere metaforicamente – ma anche pragmaticamente – la storia del rapporto con il suo popolo: “Cosí parla il Signore, il tuo Creatore, o Giacobbe, colui che ti ha formato, o Israele”. Un chiaro riferimento sia alla creazione del genere umano sia alla scelta della discendenza di Abramo, Isacco e poi Giacobbe – o Israele – come popolo eletto. Ma ci sono anche i riferimenti all’attraversamento delle acque – e il pensiero va subito a quelle del Mar Rosso – così come quello del fiume; due attraversamenti che fanno pensare all’inizio e alla fine dell’esodo, con l’ingresso glorioso nella terra promessa attraverso il Giordano. E poi ancora il fuoco, nel quale Dio si è manifestato più volte e in diverso modo. Un fuoco che diventerà persino lampada al piede che non brucia ma illumina il sentiero, e guida nel cammino. Tuttavia il Signore non si ferma alla storia, al passato: così, dopo la dichiarazione d’amore, scopriamo la profezia, la promessa: “Non temere, perché io sono con te; io ricondurrò la tua discendenza da oriente, e ti raccoglierò da occidente”. Il Signore, dunque, non ama “e basta”: il suo amore si tramuta in azioni tangibili, in questo caso nel ritorno dall’esilio in Babilonia verso la terra della promessa, nella riunificazione della sua grande famiglia con Lui stesso. Un impegno tremendamente importante per un popolo che certamente si sentiva solo e abbandonato e che, probabilmente, iniziava a dubitare della potenza, se non addirittura della presenza del suo Dio. Ora, con queste parole, il Signore di Israele gli dona nuova speranza: Lui c’è, è forte, lo ama, lo ricondurrà nella terra che gli appartiene, ricreando la Sua comunità, la Sua famiglia. Eppure la promessa e la profezia che leggiamo nel capitolo 43 di Isaia contengono qualcosa di più. La Parola che illumina e guida qui non è soltanto rivolta al popolo di Israele in esilio, ma interessa tutte e tutti noi: “Dirò al settentrione: «Da’!» E al mezzogiorno: «Non trattenere»; fa’ venire i miei figli da lontano e le mie figlie dalle estremità della terra : tutti quelli cioè che portano il mio nome, che io ho creati per la mia gloria, che ho formati, che ho fatti”. I figli e le figlie di Dio devono giungere a lui “da tutte le estremità della terra”, da ogni luogo su questo pianeta per riunirsi in quella grande famiglia di cui dicevamo poco fa. Ed è impossibile non rileggere queste parole alla luce di quanto detto da Gesù in Matteo al capitolo 28: “Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. “Tutti i popoli”! “Le estremità della terra”! Ecco che qui scopriamo come il Signore non si rivolga soltanto al popolo di Israele: la chiamata di Dio avviene per tutte e tutti in maniera collettiva, ma nel contempo è anche personale! E lo stesso vale per le sue dichiarazioni d’amore. Sorelle e fratelli, il Signore chiama per nome ognuna e ognuno di noi: in “Giacobbe”, in “Israele”, oggi leggiamo Federico, Alberto, Caterina. “Ti ho chiamato per nome, tu sei mio”! Ciascuna e ciascuno può sentirsi ora formato da Dio, riscattato dal giogo della schiavitù; può appartenere a Lui nella libertà che Egli ci dona con la Sua infinita bontà. Adesso siamo finalmente consapevoli che quando ci troviamo ad affrontare le acque tempestose delle nostre tribolazioni, i fiumi in piena fatti di ostacoli all’apparenza insormontabili, il fuoco dei problemi quotidiani dai quali, spesso, ci sentiamo divorati, Egli è con noi per darci forza, coraggio, aiuto e soprattutto protezione. Ciascuna e ciascuno di noi è prezioso ai suoi occhi: prezioso per come è, prezioso perché è una sua figlia o un suo figlio. Il Signore, dunque, ci ama personalmente. Il Signore, dunque, ci salva personalmente! Preparando il sermone di oggi ho incrociato una frase che mi ha molto colpito e che credo descriva bene l’importanza che deve avere Dio nelle nostre vite, anche e soprattutto alla luce delle parole che abbiamo appena letto, anche e soprattutto alla luce delle sue dichiarazioni di amore, aiuto e protezione: “dobbiamo smettere di dire a Dio quanto grandi siano i nostri problemi e cominciare a dire ai nostri problemi quanto grande sia Dio”! Sorelle e fratelli, siamo qui oggi a celebrare una domenica “speciale”, un culto che noi giovani abbiamo voluto condividere con questa bellissima e accogliente comunità, all’interno di una serie di incontri giovanili che hanno attraversato tutto il nord Italia. Incontri che fanno parte, a loro volta, di un percorso molto più ampio di avvicinamento al Congresso della Fgei, previsto nel prossimo autunno. E in questa giornata abbiamo voluto sentirci tutte e tutti insieme chiamati a far parte della stessa comunità, della stessa famiglia. Se, infatti, è vero che il messaggio di Isaia è rivolto al popolo di Israele in esilio, e contemporaneamente a ciascuno e ciascuna di noi – passando dunque dal “collettivo” al “personale”, con l’avvento di Gesù quell’annuncio percorre anche la strada inversa. L’“Io sono con te” di Isaia diventa l’“io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” che abbiamo letto in Matteo. La promessa del Signore è dunque quella di rimanerci accanto, come singoli ma anche – e forse soprattutto – come comunità. E in quanto giovani della Fgei – anche se, a dire il vero, non molto numerosi in questa occasione – in quanto giovani battisti, metodisti e valdesi, in quanto giovani delle – e nelle – nostre chiese, vogliamo oggi condividere con voi il messaggio di unità che ci è stato dato: unità nelle differenze, nelle diverse radici e storie personali; unità tra generazioni e culture a volte lontane; unità nell’amore unico che il Signore dimostra a noi, alla sua chiesa e al suo popolo. Popolo che ha riscattato e salvato, e accanto alla quale sarà per i secoli dei secoli. Amen”

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 30 GIUGNO 2013 (Ez 34:11-16; 1Tm 1:15-16; testo di predicazione: Lc 19:1-10)

SOLA GRATIA

In questa notissima pericope di Luca possiamo riconoscere una delle tante variazioni che il Nuovo Testamento ci offre su un unico tema, un messaggio che è il nucleo, il cuore dell’evangelo: la salvezza per grazia. Ebbene, nella storia di Zaccheo l’annuncio della salvezza per grazia – questo annuncio di una serietà estrema, l’annuncio cruciale, determinante per ciascuno di noi – viene trasmesso in una forma imprevedibile: sotto forma di commedia. Sì, proprio così: di commedia. Sappiamo che questa parola denota un lavoro teatrale divertente per intreccio e per dialogo e, nel significato più antico del termine (quello usato anche da Dante) un’opera letteraria che narra una vicenda a lieto fine; e tutti questi caratteri noi li ritroviamo nel nostro racconto. Un racconto evangelico che, non a caso, affascina i bambini e ha un grande successo quando viene proposto alla scuola domenicale. La scena è Gerico, una città della Giudea il cui nome è familiare al lettore della Bibbia; all’epoca era stata riedificata da Erode il Grande, che l’aveva dotata di un ippodromo e di un anfiteatro. Una città ricca, dunque. E “ricco”, ci informa Luca, è anche il protagonista, Zaccheo; ricco di una ricchezza male acquistata perché gli derivava dalla sua professione di “capo dei pubblicani”, cioè dei collettori di tasse per conto della potenza occupante, i romani. I pubblicani erano odiati e temuti dai loro connazionali, e sapevano bene di esserlo. Potremmo dunque aspettarci di trovarci di fronte a un personaggio da un lato conscio del suo status e del suo potere, e quindi freddo e altero, dall’altro emarginato, e quindi cupo, diffidente, scostante; una figura, in ogni caso, drammatica ben più che comica. Ma Zaccheo è tutt’altro. Non è un notabile che incede tronfio e solenne; è un ometto “piccolo di statura” e curiosissimo, deciso a tutti i costi a dare almeno una sbirciata a questo famoso predicatore itinerante di passaggio per la città. Sembra di vederlo correre affannosamente qua e là come un topolino, allungando il collo per cercare di riuscire a vedere qualcosa tra la folla, e alla fine rischiare di esporsi al ridicolo, nonché alla possibilità di una caduta rovinosa, comportandosi come un ragazzino, arrampicandosi su un albero. Zaccheo è proprio un personaggio da commedia; ed è irresistibilmente simpatico. Simpatico non soltanto per il suo modo di agire così buffo ma così spontaneo, ma perché questo suo impuntarsi a voler vedere Gesù lo presenta come una persona non appagata di sé, del proprio ambiente, della propria vita; lo presenta come un ricco che, tuttavia, sente dentro di sé una povertà sostanziale, sente un vuoto. Il rabbi itinerante ha fama di taumaturgo; e forse, inconsciamente, Zaccheo sente di avere anche lui bisogno di un intervento miracoloso. E l’intervento miracoloso si verifica, nella forma semplicissima di un dialogo. Un dialogo condotto nel segno della spontaneità – della stessa spontaneità che aveva spinto Zaccheo ad arrampicarsi sul sicomoro – e della festa. Perché qui si parla di un invito a casa, un invito a casa che certamente implica un invito a pranzo, e i banchetti hanno sempre qualcosa di festoso. Ma l’invito a casa, in questa circostanza, avviene in una forma davvero singolare: perché non parte dal padrone di casa, parte dall’ospite, dall’invitato che si autoinvita, contravvenendo a tutti i precetti della buona educazione. E non si tratta nemmeno di una richiesta, dell’espressione di un desiderio: “mi piacerebbe fermarmi a casa tua, posso essere tuo ospite?”. No, è un’affermazione perentoria quella di Gesù: sbrigati a scendere da quell’albero, dice a Zaccheo, “perché oggi debbo fermarmi a casa tua”. A Zaccheo non viene lasciata alcuna possibilità di scelta: la visita deve avvenire oggi, non in un altro giorno; e non è rinviabile, perché si tratta di una necessità assoluta: “oggi debbo fermarmi a casa tua”. Preso così alla sprovvista, per giunta pubblicamente stanato dal suo nascondiglio tra i rami dell’albero, Zaccheo potrebbe sentirsi a disagio, imbarazzato, anche offeso. Al contrario: è felice dell’invito di Gesù, e probabilmente è anche gratificato, perché si sente prescelto: proprio lui tra i tanti, proprio lui in mezzo a quella grande folla che gli impediva di vedere. Lui che si sforzava faticosamente di vedere, è stato visto. È, la sua, la gioia di chi sente che sta per accadergli qualcosa di molto importante, qualcosa che darà alla sua vita una svolta, ma una svolta in positivo. La sua vita verrà capovolta e rinnovata, addirittura ri-creata. Il senso di quanto sta avvenendo è già anticipato nella prima parola che gli rivolge Gesù: è il suo nome, “Zaccheo”, che significa “Dio ricorda”. Dio “si ricorda” dell’essere umano e con questo “ricordarsi” di lui gli dà la vita: “si ricorda del suo santo patto, del giuramento che fece ad Abramo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita”, canta il quasi omonimo di Zaccheo, Zaccaria (Lc 1: 72-75). Questo ricordo, questa memoria costante di Dio nei confronti di ciascuna delle sue creature, nel caso di Zaccheo si manifesta innanzitutto nello sguardo che Gesù rivolge al pubblicano, e poi nella sua strana e un po’ scandalosa decisione, commentata dalla folla con un mormorio indispettito e probabilmente un po’ invidioso. Perché non solo Zaccheo ha visto Gesù, non solo Gesù ha visto Zaccheo, ma anche la folla ha visto. Che cosa ha visto la folla? Che Gesù “è andato ad alloggiare in casa di un peccatore”. Verissimo. Tanto vera, questa affermazione, che è lo stesso Zaccheo a confermarla implicitamente, con la sua promessa di restituire il quadruplo di ciò che ha frodato. Un’altra conferma viene dallo stesso Gesù, quando afferma di essere venuto “per cercare e salvare ciò che era perduto”. Che Zaccheo sia un peccatore è, dunque, fuori discussione. Ma anche qui sentiamo la cadenza lieve della commedia. Il dramma è completamente assente da questa scena. Zaccheo prende coscienza della sua condizione di peccatore, eppure non se ne sente sopraffatto, non è spinto alla disperazione; tutt’altro. Perché il momento in cui se ne rende conto è lo stesso momento in cui sa che il peccato gli è stato perdonato. Se, dunque, la folla mormora “è andato ad alloggiare in casa di un peccatore” sottintendendo “che vergogna!”, Zaccheo si ripete la stessa frase sottintendendo “che meraviglia!”, e Gesù la sottoscrive dichiarando “questo è il mio mestiere, di venire a cercare e salvare i peccatori”. Il mestiere di Gesù, come ribadisce anche il v. 15 di 1 Tm (“Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori”); il mestiere di Gesù che è lo stesso mestiere del Padre suo, come ci ricorda, tra tanti, il passo di Ezechiele che mostra il Signore come Pastore di Israele, alla ricerca della pecora perduta. Come il Padre suo, e al contrario della folla, Gesù i peccatori li cerca per salvarli, non per giudicarli. Non giudica nemmeno Zaccheo. A Gesù non interessa il peccato di Zaccheo, gli interessa l’azione di grazia operata dal Padre per mezzo suo: “oggi la salvezza è entrata in questa casa”. Ecco perché tanta urgenza: era in gioco la salvezza di Zaccheo. E il fatto che Zaccheo sia stato fatto oggetto di grazia, abbia ricevuto il dono della salvezza, lo si comprende anche dall’altro dono che Zaccheo contemporaneamente riceve da Gesù: quello di una ritrovata identità. Le parole che rivolge a Gesù sono infatti le parole gioiose di una persona che ha trovato, o ritrovato, la libertà – da che cosa? Dal peccato, certamente; ma da un peccato che si esprimeva sotto forma di ruolo obbligato, di maschera oppressiva (il ruolo, la maschera del collaborazionista, del profittatore, del disonesto) che nascondevano e soffocavano la vera identità del peccatore, l’identità di “figlio d’Abraamo”. È notevole che questa stessa espressione venga usata da Gesù in un altro straordinario episodio riportato da Luca, quello della guarigione della donna che da ben diciotto anni “era tutta curva e assolutamente incapace di raddrizzarsi”. Anche in questo caso, Gesù rivendica vigorosamente il diritto della donna a riacquistare non solo la salute fisica, ma la propria identità: “E questa, che è figlia di Abraamo … non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?” (Lc 13: 11, 16). Anche su Zaccheo gravava un peso che ne deformava non i lineamenti esterni, ma la fisionomia interiore. Anche Zaccheo, dunque, è stato oggetto di una guarigione; anche Zaccheo, sia pure metaforicamente, è stato fatto rialzare. E anche nel suo caso, come in quello della donna rattrappita, la guarigione coincide con il recupero di un’identità che è tutt’uno con il recupero della dignità, quella dignità che deriva dall’appartenenza alla nobilissima stirpe dei “figli di Abraamo”. È proprio una splendida commedia, la storia di Zaccheo. Non solo perché ha un lieto, lietissimo fine. Ma anche – e soprattutto – perché mostra con quale finissimo umorismo agisca Gesù. L’effetto umoristico, lo sappiamo, si ottiene giocando con ciò che è incongruo, spiazzante; ed è proprio così che si comporta Gesù. Non dovrebbe andare a casa di un peccatore, e ci va. E colui che era perduto si ritrova invece salvo, trasformato per giunta in un uomo generoso e disponibile. Sorelle e fratelli, forse la dottrina della salvezza per grazia potremmo tradurla così: renderci disponibile all’umorismo di Dio. Al suo coglierci di sorpresa, venendoci a trovare quando non ce lo aspettiamo. Al suo fare, di noi perduti, dei salvati, rivestiti della dignità di figli di Dio. Da parte nostra, basta che lo vogliamo cercare – anche se non riusciamo a vederlo, Lui riesce sempre a vedere noi. Basta cercarlo senza stancarci, e accoglierlo quando ci dice “oggi debbo fermarmi a casa tua”. Perché a ciascuno di noi lo dice, o lo dirà; e quello è il momento propizio, l’attimo da cogliere, il kairòs, e non c’è alternativa: o afferrarlo subito, o perderlo per sempre. E se lo accoglieremo, anche per noi la sua visita sarà occasione non di un giudizio, ma di un evangelo, del lieto annuncio che “oggi la salvezza è entrata in questa casa”. Amen

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

 

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 16 GIUGNO 2013 (Mt. 7:12-23; 1Pt 1:3-7 e 21-25; testo di predicazione: Gen. 1:9-13))

LA BELLEZZA DELLA CREAZIONE

CreazioneLe due descrizioni della creazione che sono contenute nel libro della Genesi, possono essere viste come una specie di racconto di quello che l’uomo antico timoroso di Dio si figurava circa le origini del mondo e che, a un certo punto, è stato messo in scrittura. Ma non è così. Come la moderna esegesi ci insegna, non ci troviamo di fronte a un racconto ma a uno straordinario concentrato di dottrina che è stata distillata nel corso di molti, molti secoli. Nei pochi versetti sulla creazione tutto è calcolato, giustificato, precisato: ogni frase, addirittura ogni singola parola ha un suo codice di lettura che, a sua volta, richiede studio, riflessione, approccio umile per leggerne il senso profondo. Un compito al di là di quello potremmo nemmeno lontanamente affrontare qui, oggi, in una calda domenica di estate. Però possiamo fare un piccolo passo: in quei pochi versetti che abbiamo letto possiamo cogliere alcuni piccoli segni significativi per noi, per rallegrarci e aprire il nostro cuore alla lode. Nel terzo giorno della creazione, Dio compie due opere. La prima è un atto di saggezza: pone dei confini e determina dei limiti. La seconda è di depositare nel cuore della scura terra il primo grado di vita organica. In ebraico la parola vita non è la stessa usata per gli animali: ma è comunque vita vera. E il verde, che diventa la veste della terra, è distinto in erbe e in alberi. Tutte le erbe sono i primi amici soccorrevoli che Dio ha posto sulla terra per l’umanità. Dio ci ha dato gli alberi come amici soccorrevoli, aperti ad offrirci rifugio, nutrimento, bellezza, conforto e guarigione. Penso talvolta che, forse, chi ama le erbe della terra è più capace di intuire l’amore di Dio. Purché questo amore per la bellezza del verde non si limiti a una dolcezza emotiva fugace quanto inutile. E non sia neppure un amore egocentrico, che cerca di trarre il massimo dei benefici con il massimo dello sfruttamento: questo è il genere di amore di cui gli uomini e le donne del mondo sono prodighi come, purtroppo, ci è fin troppo noto. È necessario possedere e mettere in atto quella scintilla dell’amore gratuito che viene dall’alto e che – secondo il pensiero teologico metodista – Dio ha sicuramente posto come dono di grazia in ogni umana creatura che viene al mondo: un amore intelligente, curioso, che cerca, che osserva, che impara a capire e sa avere cura. Se è così fatto non cadrà nell’errore di scambiare la creatura con il Creatore. Infatti, Dio ha posto confini e limiti e la distanza fra creatura e Creatore è siderale, come lo sono le galassie dal nostro minuscolo pianeta.La nostra struttura di umani è molto simile a quella di un albero perché, come l’albero, siamo su tre livelli fra loro in strettissima interdipendenza:

– un livello profondo e nascosto, dove è radicato e dove trova nutrimento;

– la superficie dove cresce e attinge energia vitale, dove si esprime, produce bellezza nelle sue stesse forme, e generosità nell’abbondanza dei frutti;

– e poi i cieli, verso cui si drizza perché solo da lì può catturare la luce e il calore del sole, per scambiare gli elementi vitali e, a sua volta, rendere pura l’aria, l’elemento primario di vita.

Anche noi abbiamo radici profonde, che vengono da molto lontano e sono nascoste nel nostro io. Cresciamo, ci esprimiamo e ci muoviamo nei vari ambiti delle umane società, ma se il nostro spirito non si drizza verso i cieli infiniti per trovare la luce e il calore che accendono in noi la capacità di amare, anche se biologicamente viviamo, siamo morti. Dio ha visto il difficile vivere dell’umanità che ha abbandonato i perfetti equilibri posti nella creazione. Diversamente da quello che credono le antiche religioni e, oggi, il cattolicesimo – cioè, che la natura umana è buona – il protestantesimo afferma che la natura umana è cattiva: è malata, si è corrotta, non è più in grado di produrre frutti sani. Per questo Dio ha posto un figlio d’uomo sulla terra, che ha la bellezza e la perfezione del primo albero della creazione. Un Figlio in cui non esiste frattura fra i tre livelli della vita e in cui è pienamente realizzata l’intercomunione fra cielo e terra. Gesù lo dice molte volte: In verità vi dico che il Figlio non può da se stesso fare cosa alcuna, se non la vede fare dal Padre; perché le cose che il Padre fa, anche il Figlio le fa ugualmente (Giov.5,19). L’intima interazione fra cielo e terra produce quello che l’evangelo chiama frutti buoni: in altri termini, produce opere che sono frutto di amore. E Gesù dice ancora: Non vi è amore più grande di quello di dare la propria vita (Giov.15,13). Questa è la grandezza dell’amore nel quale siamo invitati a entrare. È l’amore di colui che si è spogliato della gloria di Dio, si è umiliato fino alla morte peggiore riservata ai malfattori, e per questo suo dono Dio lo ha risorto e lo ha elevato al di sopra di tutte le cose. Un amore indelebile, alto e fulgido oltre i secoli, al di sopra della storia, eppure all’altezza minima del minimo degli esseri umani: perché possa credere e in quella fede trovi vita nuova. Non c’è persona che non aspiri a opere alte, di valore. Ma non inganniamoci: siamo tutti piante malate, siamo tutti alberi storti al di là delle belle apparenze, e siamo del tutto incapaci di produrre frutti sani. Tutti, senza eccezione. È per questo che Dio ci ama. Per questo ci ha donato il modello dell’amore perfetto, vale a dire della pienezza di vita: in modo che ci vediamo brutti come siamo realmente ma non disperiamo, anzi con fede ci affidiamo a Lui e a Lui solo. Il dono del Figlio, il dono del Cristo alla umanità è talmente grande, non misurabile, che – dice l’apostolo – gli angeli desiderano fissarvi lo sguardo. Non dobbiamo mai perdere il senso della grandiosità di questo dono e viverlo per fede con costanza. Allora Egli viene e ci trasforma: da esseri deboli e malati quali siamo, ci fa essere testimoni credibili dell’amore del Cristo, rigenerati dalla parola di Dio viva ed eterna che abbiamo ascoltato anche oggi e che ci accompagnerà sempre. Non saremo mai più soli. Lo sappiamo per esperienza: non è una strada facile. Come tutti quelli che percorrono le strade del mondo, dobbiamo affrontare dolori che a volta sembra vogliano schiacciarci. Teniamo dunque salda la fede che è più preziosa dell’oro finissimo: non siamo soli a combattere. Il Cristo ha combattuto per noi e ha vinto per noi: non per un’ora o un giorno, ma per l’eternità. L’ultimo capitolo dell’ultimo libro delle Scritture, l’Apocalisse, raffigura la città di Dio oltre il tempo, al centro della quale c’è l’albero della vita le cui foglie curano le nazioni. E allora, è scritto, non sarà più notte e Dio sarà luce per i suoi figli per l’eternità. (Ap., 22;1-5). Rallegramoci, carissimi, amiamoci gli uni gli altri, in lui il nostro cuore si rallegri e trovi pace. AMEN

 

 

Sermone a cura della nostra Predicatrice Locale, Febe Cavazzutti Rossi

 

 

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 9 GIUGNO 2013 (Lc 14:15-24; At 13:32-39; testo di predicazione: Is 55:1-3)

ASCOLTATE E VENITE A ME

Davvero sorprendente, questo inizio del cap. 55 di Isaia. Una serie di inviti, ma inviti che suonano come ordini; per giunta, senza alcun contenuto religioso. Gli ascoltatori vengono esortati a comprare acqua, vino e latte e grano; e poi vengono esortati a mangiare di gusto, a saziarsi, a passarsela allegramente. Sembrano le grida di un venditore che cerca di attirare i passanti; in effetti, è probabile che questi versetti abbiano il loro modello proprio nelle grida dei venditori che reclamizzavano le loro mercanzie sulle piazze, usando formule fisse, familiari agli uditori. Quelli di noi che hanno una certa età forse potranno ricordare come anche nelle nostre città, in passato, le strade risuonassero di inviti di questo genere, provenienti da venditori ambulanti o dalle bancarelle al mercato. Dunque, una serie di richiami clamorosi, proprio “da mercato”. Ma l’altro fatto sorprendente è che questi richiami vogliono, sì, “piazzare” un insieme di generi alimentari di prima necessità e di larghissimo consumo; ma non li vogliono vendere. Vogliono offrirli gratuitamente, questi beni; vogliono regalarli. A chi? A tutti, a ogni categoria di persone; perché l’invito, questo invito perentorio, questo invito al quale sembra impossibile sottrarsi, è rivolto tanto a coloro che “non hanno denaro” quanto a quelli che denaro ne hanno, e lo spendono liberamente, ma rischiano di fare cattivi affari, di farsi imbrogliare acquistando, magari a caro prezzo, merci senza valore, alimenti che non soddisfano il palato e nemmeno nutrono. Quando mai ci capita di vederci rivolto un invito del genere? Mai, certamente. E se anche ci capitasse, credo che questo invito lo accoglieremmo con una certa diffidenza. Cibi squisiti offerti gratuitamente? Sì, certo, ne abbiamo esperienza in occasioni particolari: matrimoni per esempio, o inaugurazioni di mostre, o convegni importanti o altri eventi mondani o culturali, quando ricchi buffet colmi di cibi stuzzicanti e appetitosi e di bevande di ogni tipo vengono messi a disposizione degli invitati, i quali di solito non si fanno pregare e si avventano sui tavoli come cavallette affamate. Ma qui, è chiaro che l’offerta gratuita non è rivolta a un ristretto e selezionato gruppo di persone e non riguarda tartine, pasticcini e bicchieri di prosecco. L’offerta è rivolta all’intero popolo di Israele – e in esso all’intera umanità – e riguarda prodotti che sono fondamentali per la sussistenza umana, indispensabili addirittura, dato che fra questi c’è l’acqua, senza la quale non si sopravvive; e questi prodotti offerti in dono vengono garantiti come di primissima qualità. E allora, è inevitabile che scatti il sospetto: qui c’è qualcosa sotto. Nessuno offre qualcosa di importanza vitale senza richiedere un contraccambio. Che la merce propagandata con tanta insistenza sia davvero qualcosa di indispensabile alla vita, e quindi qualcosa di straordinariamente prezioso, ce lo fa comprendere il v. 3, con il brusco cambiamento di tono, lo scarto improvviso che ci porta dal vociare del mercato alla Voce per eccellenza, la voce solenne e autorevole di Dio che, come in tanti altri testi profetici, esige di essere ascoltata. Il tema dell’ascolto era già apparso alla fine del versetto precedente, con l’invito ad “ascoltare” (“ascoltatemi attentamente, e mangerete ciò che è buono”) che subentra all’invito a “comprare”. Ma ora ci viene detto che ciò che l’essere umano ricava dall’ascoltare non è più soltanto il mangiare, il mangiare di gusto, a sazietà; no, dall’ascoltare deriva il “vivere”. Il vivere, come viene subito precisato, nell’ambito di “un patto eterno”, un patto che offre all’intero popolo di Israele quelle stesse “grazie stabili” (cioè durature, imperiture) che Dio ha garantito a Davide (cfr. per es. 2 Sam 7: 8-16). Il venditore che propaganda le sue merci, dunque, altri non è che Dio; e la merce che Egli offre a costo zero è la sua grazia. In altre parole, Dio offre come merce gratuita null’altro che sé stesso. Ecco perché risuona così appassionato, così urgente il suo appello, questo appello nel quale Dio non chiede soltanto “ascoltatemi”; soggiunge anche “venite a me”. Da “comprate e mangiate” si passa dunque ad “ascoltate e venite a me”; dall’invito che è un ordine si passa all’invito che è una supplica. Sì: qui Dio quasi supplica il suo popolo – supplica ciascuno di noi – di degnarlo della sua, della nostra attenzione; di non passare oltre, di non lasciarlo lì come una merce rimasta invenduta sul banco, perché nessun possibile acquirente l’ha trovata utile né interessante. Notano gli esegeti che il grido di un venditore sul mercato non differisce dall’invito a un banchetto. Luca riporta la parabola, narrata da Gesù, di un uomo che aveva preparato “una gran cena” invitando una quantità di ospiti, e venuto il momento aveva inviato il suo servo a cercarli, uno per uno, per condurli nella sua casa, al banchetto. Naturalmente questo ricco e generoso padrone di casa è figura di Dio, ed è singolare che anche qui, come nel testo di Isaia, Dio si presenti in atteggiamento di umile ricerca di attenzione: si offre alla sua creatura, all’essere umano, andando addirittura a cercarlo per mettergli liberamente a disposizione i suoi beni, la sua casa, tutto sé stesso. Isaia non accenna alla risposta di Israele all’invito divino, mentre il punto nodale della parabola di Luca sta proprio nelle varie risposte degli invitati, che consistono tutte in più o meno motivati ed educati rifiuti. Gli invitati reagiscono appunto come saremmo portati, credo, a reagire tutti noi dinanzi a un’offerta troppo generosa, troppo eccezionale rispetto ai modesti e mediocri standard ai quali siamo abituati. I casi sono due: o sotto a tanta liberalità c’è un imbroglio, o questo padrone di casa è un riccone eccentrico, che vuole introdurci in un ambiente che non è il nostro. In ogni caso, non abbiamo bisogno di lui. Meglio lasciarlo perdere e ripiegarci sulla nostra routine, sulle occupazioni e sulle incombenze che ci sono familiari, sul nostro grigiore quotidiano. Nel testo di Isaia, Dio dichiara che l’acqua e il grano e il vino e il latte e tutti i “cibi succulenti” da lui gratuitamente offerti al suo popolo si identificano con le “grazie stabili promesse a Davide”. Nel discorso riportato dagli Atti degli apostoli, Paolo indica la piena realizzazione di queste promesse fatte a Davide nel perdono dei peccati altrettanto gratuitamente offerto da Dio per mezzo della morte e risurrezione di Gesù. Perdono offerto da Dio a “chiunque crede”: “chiunque crede” dice infatti Paolo ai suoi ascoltatori, gli appartenenti alla comunità ebraica di Antiochia, “è giustificato di tutte le cose, delle quali voi non avete potuto essere giustificati mediante la legge di Mosè”. Tanto gli inviti che risuonano in Isaia quanto la parabola di Luca adombrano dunque null’altro che il cuore della fede cristiana: l’annuncio della salvezza per grazia. Per sola grazia, come sottolineò Lutero. Perché la grazia è un dono che va, sì, comprato; ma comprato in modo paradossale, comprato senza denaro, in quanto non ha prezzo. Va comprato semplicemente ascoltando l’invito, andando verso il padrone di casa, accettando ciò che ha da offrirci. Va comprato solo pronunciando un “sì”. Se accettiamo l’invito rivoltoci dalla parola di salvezza di Dio, la pienezza della sua benedizione ci attende. Ma il problema resta sempre lo stesso: noi tendiamo a non ascoltare l’invito. Perché? Sostanzialmente, direi, per due motivi. Il primo: noi non riusciamo a credere che la grazia possa essere “comprata senza denaro”, senza che noi, in qualche modo, ci diamo da fare per meritarla – perché tutto ciò che ha veramente valore bisogna, in qualche modo, guadagnarselo, e una grazia che ci piove addosso, che ci investe senza alcun nostro sforzo o merito non può essere vera grazia. Lo abbiamo dipinto con tratti un po’ sommari e grossolani, ma in sostanza questo è il modo di rapportarsi a Dio comune a tanti cristiani, non soltanto a coloro che si riconoscono nella tradizione della chiesa di Roma; e qui, allora, si profila in tutta la sua urgenza, per le chiese nate dalla Riforma, il dovere di riscoprire e di testimoniare con coerenza e vigore l’annuncio – che è davvero un lieto annuncio, un evangelo – della giustificazione per sola grazia. Parlo di riscoprire, perché si tratta di un annuncio che anche nell’ambito del protestantesimo si è un po’ appannato, tende ad essere relegato in secondo piano, come se fosse semplicemente un’arida questione dottrinale e non un caso di vita o di morte (“ascoltate e voi vivrete”, abbiamo letto in Isaia). E qui arriviamo al secondo motivo per cui noi tendiamo a non ascoltare l’invito di Dio: perché “la merce non interessa”. Giustificazione? Chi ha bisogno di giustificazione? Noi ci sentiamo a nostro agio con noi stessi, non ci sentiamo in condizione di peccato. Perché la nostra coscienza è diventata pressoché impermeabile alla nozione stessa di “peccato”, e di conseguenza non sente alcun bisogno del perdono di Dio, che è l’essenza stessa della sua grazia. E quello che per noi fa testo è ciò che noi sentiamo di essere, non ciò che la parola di Dio dice che noi siamo. Sorelle e fratelli, facciamocene una ragione: non è da noi che viene la salvezza. Ciò di cui abbiamo bisogno è imparare di nuovo ad ascoltare “attentamente”, come dice Isaia – che cosa? Non certo la nostra coscienza, che è ingannevole, perché la nostra è una coscienza addomesticata che ci porta a respingere l’invito, a lasciare sul banco la merce preziosa senza degnarla di uno sguardo; ma la parola di Dio, che ci svela la nostra vera identità di peccatori sempre di nuovo bisognosi della sua grazia. Ascoltiamo questa parola, e vivremo. Amen.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante