Sermone: Santificazione

Oggi terminiamo il ciclo di cinque predicazioni sui mandati che Dio da alla sua chiesa. Abbiamo parlato di adorazione, servizio, evangelizzazione e comunione. Oggi vorrei riprendere con voi un testo biblico che abbiamo già esaminato e vederlo sotto un nuovo aspetto.

L’ultima parola di Gesù ai suoi discepoli è riportata alla fine del vangelo di Matteo: (Mt 28,19-20)

Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente».

Abbiamo già letto queste parole quando abbiamo parlato dell’evangelizzazione. Ma il momento in cui si porta la buona novella nel mondo è abbastanza breve, contenuto nel tempo. Dopo inizia il cammino. È facile diventare cristiani. È facile sentirsi convinti di voler fare un passo che, sì, è importante, ma è pur sempre solo il primo passo. Dopo inizia il cammino. Chi diventa discepolo di Gesù ha bisogno di crescere nella fede. E dove si cresce? Nella comunità, nella comunione dei fratelli e delle sorelle di chiesa che forse hanno già fatto due o tre passi in più e possono aiutare.

Talvolta la gente mi guarda strano quando racconto che facciamo dei percorsi di catechismo di uno, due o anche più anni. Non possono immaginare che ci sarebbero tanti temi da affrontare nell’ambito della chiesa. E alla fine abbiamo sempre ancora l’impressione che non basti ancora. Nel corso dell’ultimo Sinodo qualcuno ha addirittura sostenuto che si dovrebbe aumentare il tempo del catecumenato. Non sono d’accordo, se si considera che il catechismo è spesso qualcosa che viene gestito tra il pastore e i singoli catecumeni. Se ci va bene sarà un gruppetto piccolino ma è sempre legato in qualche modo alla figura pastorale. Io penso invece che dobbiamo riscoprire la capacità di crescere insieme nella fede. Non dobbiamo vivere nell’illusione che un pastore potrebbe insegnare la fede a qualcuno  e che dopo l’ammissione in chiesa tutto funzioni senza alcuna fatica. No, non funziona così.

C’è un primo passo. Nel nostro testo è chiamato battesimo, nel contesto della nostra chiesa potremmo chiamarlo ammissione. Ma il primo passo non è ancora la meta. Come i bambini crescono lentamente e cambiano le loro idee e i comportamenti infantili, così possiamo anche noi cristiani crescere nella fede. John Wesley ha chiamato questo processo “santificazione”. Possiamo diventare santi. Che non vuol dire che ci cresce l’aureola e che ci comportiamo in modo assolutamente pio e impeccabile. Semplicemente che cerchiamo di diventare in qualche modo più simili a Gesù. Anche John Wesley ha dovuto accettare il fatto di non essere mai diventato totalmente santo, anche se lui credeva per un periodo di poter riuscirci. Lui ha fatto di tutto per essere un perfetto discepolo di Gesù. Non è mai diventato un santo nel senso di un perfetto. Perché non siamo perfetti. Ma Wesley ha fatto tanti passi su questa strada della crescita, della santificazione e ha aiutato tante persone a compiere a loro volta dei passi.

Forse è scoraggiante guardare subito a una figura come Wesley. Per questo guardiamo ancora una volta alle persone normali e soprattutto ai principianti nella fede. Mi affascina molto parlare con i bambini della fede. Loro si rapportano ai racconti biblici in modo così puro e spesso hanno una grandissima fiducia in quelle parole. Però la loro fede ha bisogno di aiuto per poter crescere.

L’altra settimana mio figlio si è messo a pregare la sera dicendo: Grazie Dio che domani sarà bel tempo. Amen. – Poi mi guarda e mi dice: L’ho fatto bene, ho detto anche grazie. – Ho cercato di spiegargli che non funziona così. Che Dio non è la macchinetta dove metto dentro la preghiera e ricevo in cambio ciò che voglio. – Il giorno dopo c’era veramente bel tempo e in macchina lui mi dice: Vedi mamma, ha funzionato!

Ci fa ridere un atteggiamento del genere. È bello che ci sia questa fiducia nel fatto che Dio gli dona cose buone e desiderate. Sappiamo però anche che verrà il momento nel quale pioverò anche dopo aver pregato, anche dopo aver detto grazie. Pioverà. Sarà poi sempre ancora il BUON Dio? Quando fallisce un matrimonio, quando arriva la malattia, quando si perde il lavoro – sarà Dio sempre ancora buono per me?

Ci sono tante persone che smettono di credere a quel punto. Ci sono tante persone per le quali Dio è buono finché funziona. Preghiera – grazie – risultato. Ma la logica di questi pensieri non è quella di una fede adulta. La fede può crescere anche attraverso i dubbi per ritrovare poi di nuovo la fiducia dei bambini.

Durante gli anni di studio mi sono scontrata con tanti dubbi. Talvolta mi sembrava di non vedere più Dio in tutte le mille teorie che abbiamo dovuto studiare. Ho imparato talmente bene a sezionare un testo biblico che alla fine non mi diceva più niente. Non sapevo più che cosa credere. A quel punto mi ha affascinato sentire predicare il mio professore. La stessa persona che mi stava insegnando a interrogare un testo biblico nella sua profondità, era in grado di predicare un testo nella sua completezza. Non lo capivo e gli ho chiesto se lui predicando facesse un passo indietro e cercasse di dimenticare tutti i suoi studi. E quell’anziano professore mi diceva invece: Ulrike non devi dimenticare niente, ma cercare di trovare una seconda ingenuità.

Sì, posso, anzi devo chiedere e addirittura dubitare. Posso scuotere tutte le vecchie dottrine della chiesa, ma posso altrimenti fidarmi che la parola di Dio agisce e ha nel suo complesso qualcosa da dirmi fino ad oggi. Le parole bibliche sono parole vive che voglio parlarci e toccarci non solo sul livello cognitivo, ma anche nel profondo del nostro essere.

Quando Gesù dice ai suoi amici: di andare nel mondo per fare discepoli. Per me è importante che nessuno venga costretto a pensare in un determinato modo. Gesù non ha mai vietato ai suoi discepoli di pensare. Ha accolto i dubbi, anzi li ha valorizzati. Se noi vogliamo crescere nella fede ci servono tutte e due. Da un lato, la nostra mente con tutti i suoi ragionamenti e con tutti i dubbi che contiene e, dall’altro lato, una profonda fiducia.

La crescita nella fede non avviene senza stimoli. Così come non funziona con nessuna crescita. Paolo usa una volta il paragone del nutrimento e paragona i principianti nella fede a quelli che si nutrono solo di latte, mentre un cristiano cresciuto a qualcuno che può mangiare anche del cibo solido.

È proprio questo che succede nei nostri culti, ma ancora molto più negli studi biblici o in tutti i vari incontri in cui parliamo della nostra fede. Riflettendo su Dio e la propria vita si cresce. Quando ammetto che i fratelli e le sorelle che mi conoscono, mettono in discussione la mia fede, allora essa prende stabilità.

Spesso non sono neanche i grandi temi teologici che ci fanno crescere ma i temi piccoli e quotidiani. Le domande sulla convivenza in famiglia e sui comportamenti sul lavoro. Spesso sorge anche il tema delle finanze. Perché Dio ha ordinato al suo popolo di portare la decima del proprio raccolto al tempio? Che cosa vuol dire questo per me oggi? – Una volta mi ha chiesto qualcuno: Deve proprio essere la decima, non andrebbe bene anche il quinto? – Quella persona non era molto abile in matematica. La Bibbia parla solo della decima e allora lasciamola così, non pretendiamo di più.

Però, scherzi a parte, penso che proprio nel nostro paese con questa sua fortissima cultura cattolica sia praticamente la sfida più grande imparare che aprire le mani, donare è un esercizio spirituale che aiuta alla crescita nella fede.

Potrei farvi ancora tanti esempi di temi quotidiani che per l’uno sono più importanti, per l’altro meno che però aiutano alla crescita. Per Gesù era sempre importante raggiungere tutto l’uomo, non solo una sua parte. Gesù non voleva solo l’intelletto di una persona, ma tutto il suo essere. E Gesù si augura che noi possiamo crescere nella fede, che la nostra fiducia in Dio diventi sempre più profonda e radicata.

Ora abbiamo affrontato cinque temi basilari della nostra fede. Cinque temi che dovrebbero essere chiari e però penso che sia importante ripensarci di tanto in tanto. La prossima settimana festeggiamo i 150 anni della nostra chiesa qui a Padova. Ci fa bene ricordarci del nostro passato per comprendere il nostro presente e per essere pronti ad affrontare il futuro. Abbiamo parlato dell’amore verso Dio, l’adorazione di Dio che è la base di tutto. Abbiamo parlato della diaconia e dell’evangelizzazione, definendole come i due remi della barca che portano in avanti quella nave che si chiama chiesa. Abbiamo riflettuto sulla bellezza e sul compito importante della comunione e ora terminiamo il nostro percorso con questi pensieri sul discepolato e la necessità di una crescita spirituale.

L’abbiamo già detto una volta. Se un albero e ben radicato e viene nutrito regolarmente, crescerà. Non si può fare niente contro. Sarà così. Per questo non dobbiamo temere niente. Se proseguiamo con ciò che viene qui predicato da 150 anni siamo su una buonissima strada e possiamo proseguire anche per i prossimi 150 anni.

E per tutto questo tempo possiamo ricordarci le parole di Gesù che dice: ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente.

Amen

Ulrike Jourdan

 

Sermone: Comunione

Abbiamo affrontato nel corso degli ultimi tre culti, tre mandati che Dio affida alla sua chiesa, ovvero l’adorazione, la diaconia e l’evangelizzazione. Oggi vorrei parlare con voi di un tema che ci tocca pienamente in una misura che non ci permette di tenerci a distanza. La comunione, cioè la convivenza in comunità.

Oggi non è più popolare essere membri di una comune o di una comunità. Il comunismo è passato. Siamo tutti individualisti ed è diventato importante avere tutte le opzioni fino all’ultimo momento. Anche quando si tratta di decisioni abbastanza semplici, rimaniamo nel vago. Da due domeniche c’è laggiù in fondo il foglio con la lista di chi verrà all’Agape del 6 novembre, che dovrebbe essere compilato. È una domanda tanto complicata? No, ma preferiamo non deciderci e così il foglio rimane vuoto.

Voi cogliete forse anche le difficoltà che porta con sé un tale comportamento. Con l’agape è abbastanza semplice da risolvere. Visto che gli ultimi anni venivano più o meno 30 persone, pensiamo che anche quest’anno arriveranno in 30 e procediamo così. Con l’appartenenza ad una chiesa diventa già più complicato. Perché essere membro di chiesa significa, almeno in una chiesa evangelica, un impegno non da poco. Perché ci si dovrebbe legare in tal modo? Perché uno dovrebbe voler fare parte di un gruppo che pretende la partecipazione regolare e per di più ancora un impegno finanziario? Quale senso ha la comunione?

Forse possiamo provare a vederlo dal lato positivo. Siccome l’appartenenza a una comunità è una cosa seria, ci aiuta il fatto che non tutti vogliano farne pare senza rendersi conto del passo che stanno per compiere. Perché chi è membro di una chiesa cristiana, è membra del corpo di Cristo. E delle membra che non sanno veramente se vogliono essere membra disturbano tutto il corpo. È il senso dell’essere membro di integrarsi nel corpo nel posto dove i precisi doni di quella membra sono necessarie. Se un corpo vuole muoversi ha bisogno di ossa, muscoli, tendini e mille altre membra che devono lavorare tutte insieme.

E sappiamo anche come può fare male se il corpo non funziona bene. Facciamo un esempio sciocco: un’unghia incarnata o un dente con un minuscolo buchino, o un livido. Cose piccole, non parliamo di vere malattie, ma quanto possono fare male! Anzi, un dente malato può fermare tutto il corpo. Ed è proprio così anche con la comunità. Cose piccole, sciocche, ridicole possono fermare tutto il corpo della chiesa.

E comunque usiamo questo sistema di fare comunità da più di 2.000 anni. Già Gesù ha voluto che i suoi discepoli facessero comunità. Un gruppo che poteva essere stabile anche dopo la sua morte e portare quindi l’evangelo in tutto il mondo. E anche Paolo non ha convertito singoli credenti ma ha formato delle comunità. Ha unito le persone così che non dovessero vivere la loro fede da sole ma potessero sostenersi a vicenda. E se proseguiamo nella storia della chiesa possiamo anche pensare a John Wesley, che forse potremmo chiamare l’inventore dei gruppi nella chiesa; è stato lui a sottolineare con grande forza l’importanza della comunione e della condivisione anche nei piccoli gruppi.

Però facciamo ancora una volta un passo indietro e consideriamo Paolo. Lui ha creato varie comunità e uno dei grandi temi nelle sue lettere sono le incomprensioni in questi gruppi. Ora vorrei leggervi una parte della lettera che Paolo scrive a una chiesa che non conosce neppure, la comunità di Roma. E ricorda a quel gruppo di investire tempo e forza nella comunione.

Lettera ai Romani 12,10-18

10 Quanto all’amore fraterno, siate pieni di affetto gli uni per gli altri. Quanto all’onore, fate a gara nel rendervelo reciprocamente.  11 Quanto allo zelo, non siate pigri; siate ferventi nello spirito, servite il Signore;  12 siate allegri nella speranza, pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera,  13 provvedendo alle necessità dei santi, esercitando con premura l’ospitalità.  14 Benedite quelli che vi perseguitano. Benedite e non maledite.  15 Rallegratevi con quelli che sono allegri; piangete con quelli che piangono.  16 Abbiate tra di voi un medesimo sentimento. Non aspirate alle cose alte, ma lasciatevi attrarre dalle umili. Non vi stimate saggi da voi stessi.  17 Non rendete a nessuno male per male. Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomini.  18 Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini.

Spesso si ritiene che Paolo sarebbe il grande teologo che ha poco a che fare con la vita concreta. Qui ciò che scrive Paolo è molto pratico. E penso che ci faccia bene meditare queste parole. Fate a gara nel rendervi reciprocamente onore. Non so chi di voi ha oggi già avuto l’idea di rendere onore a qualcuno qui. Ci è molto più facile accusare e pretendere, parlare alle spalle e mormorare, ma l’idea del rendere onore mi sembra abbastanza lontana.

In questi giorni ho letto un articolo che parla di una scuola che ha vietato un gruppo chat delle mamme (lo scambio di messaggi sul cellulare) perché è diventato troppo aggressivo e offensivo verso gli insegnanti e i singoli alunni. – È più facile dire due parole arrabbiate, aggiungendo delle faccine di rabbia che non rendere onore. Forse è tornato il tempo per ripensare le forme di convivenza.

Paolo esorta la chiesa di Roma – e anche quella di Padova – a comportarsi con rispetto ed onore. E questo vale per tutti. Gli anziani siano rispettosi nei confronti dei giovani e le persone che fanno parte da decenni della comunità siano rispettose nei confronti degli ultimi arrivati. E certamente vale anche viceversa.

E Paolo dice: Quanto allo zelo, non siate pigri; siate ferventi nello spirito, servite il Signore. Qui, Paolo ricorda, che una chiesa non fa comunione solo per stare bene insieme, ma perché ha uno scopo che è servire il Signore. È bello poter lavorare insieme. È bello percepire come quello strano corpo composto da tante membra diverse riesce a muoversi. E non può muoversi solo pian pianino ma con zelo e in modo fervente. Così sia il nostro servizio al Signore.

E Paolo continua a dire siate allegri nella speranza, pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera. La chiesa di Roma sapeva quanto può essere difficile convivere in una chiesa. Anche noi lo sappiamo. Non siamo sempre allegri e pazienti. Talvolta facciamo vedere l’esatto opposto. Ci fa male quando hanno inizio dei conflitti in chiesa. Non piacciono a nessuno. Però fanno parte del mondo reale e se non vogliamo essere una chiesa nella quale tutti si sorridono e non dicono veramente cosa pensano, così è indispensabile che ci siano anche delle contese. Il problema non è il conflitto in sé e per sè. Ciò che viene dopo è importante. Se riusciamo a parlarci dopo, a non ritirarci, a combattere per ciò che ci è importante. Questo è l’atteggiamento che ci dà speranza. È la speranza che Dio stesso agisce in mezzo a noi.

Paolo ci dice anche: Abbiate tra di voi un medesimo sentimento. Non aspirate alle cose alte, ma lasciatevi attrarre dalle umili. Non vi stimate saggi da voi stessi. Siamo abituati ad aspirare alle cose alte. A non accontentarci delle bassezze di questa vita. Siamo abituati a combattere per ciò che vogliamo. E Paolo ci dice: Non vi stimate saggi da voi stessi. Penso che questa sia l’affermazione chiave. Perché pensiamo spesso di sapere come funziona – anche quando si tratta della vita in chiesa o della fede. E se continuiamo su questa strada potremmo arrivare al punto di zittire Dio perché noi sappiamo meglio come funziona. Perché noi conosciamo questo mondo e le parole di Dio sono vecchie. Paolo ci vuole fare coraggio di non perderci nella voglia umana di avere sempre di più, e invece di goderci ciò che abbiamo e riceviamo sempre di nuovo da Dio.

Ancora un ultimo consiglio che Paolo ci dà per la vita in comunione. Non rendete a nessuno male per male. Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomini. Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini. Non è facile vivere in pace con tutti. E sappiamo quanto sia difficile non rendere il male per male. È molto più facile andare contro qualcuno quando mi succede qualcosa di scorretto. È molto più facile pensare male di una persona che non trovare qualcosa di bello e buono in qualcuno che non mi è simpatico. Ma proprio a questo Paolo ci esorta.

La comunione, la comunità, sono delle invenzioni meravigliose di Dio, ma ci danno del lavoro. Però è lavoro buono, lavoro sensato. È bello di poter investire tempo e forza nella comunità, perché è proprio questa l’idea di Dio che non dobbiamo essere da soli nella nostra fede ma possiamo aiutarci a vicenda. Penso che Dio ci voglia dire Non è bene che l’uomo sia solo; io gli farò una comunità che sia adatta a lui. (Secondo Genesi 2,18)

Io spero che noi nella nostra chiesa possiamo percepire la bellezza della comunione. Che possiamo vivere la gioia di lavorare insieme per costruire una comunione stabile. Spero anche che non dobbiamo nascondere i problemi che possono esserci quando delle persone vivono insieme, ma che possiamo crescere insieme.

Ci auguro di poter percepire Dio in mezzo a noi e di riconoscerlo nel volto degli altri. Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Evangelizzazione

Abbiamo parlato nelle ultime due settimane di due mandati che Dio da alla chiesa. Il primo era l’amore verso Dio, l’adorazione. Il secondo, l’amore verso il prossimo, il servizio in questo mondo. Oggi vorrei affrontare con voi un tema che per me dev’essere collegato al lavoro diaconale, cioè l’evangelizzazione.

Perché questi due dovrebbero essere collegati? Provo a spiegarlo con un’immagine. Conoscete le barche a remi? Si deve remare con tutte e due le braccia per potersi muovere in avanti. Se si lavora solo con un remo, la barca inizia a girare su se stessa. – Penso che sia così con la diaconia e l’evangelizzazione. Se una chiesa ha come unico scopo di aiutare le persone e dimentica di comunicare il perché, gira su se stessa. Se invece una chiesa ha tante belle parole per chiamare la gente a sé ma mancano i fatti concreti, gira sempre su se stessa, solo nell’altra direzione. Sono convinta che per una chiesa che vuole muoversi in avanti, serve l’impegno in ambedue i settori, nella diaconia come nell’evangelizzazione.

L’altra settimana abbiamo parlato della diaconia e del buon samaritano. Oggi guardiamo al tema dell’evangelizzazione.

Gesù da ai suoi discepoli un mandato che noi conosciamo come il cosiddetto mandato missionario. Alla fine del vangelo di Matteo, quando viene riassunto ancora una volta il messaggio centrale dell’evangelo, Gesù dà ai suoi discepoli, e con questo anche a noi oggi, il mandato di trasmettere la buona novella. Leggo Matteo 28,16-20

16 Quanto agli undici discepoli, essi andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro designato.  17 E, vedutolo, l’adorarono; alcuni però dubitarono.  18 E Gesù, avvicinatosi, parlò loro, dicendo: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra.  19 Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,  20 insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente». 

Forse il mandato all’evangelizzazione e quello che ci è dato nei termini più chiari nella Bibbia. E comunque ho l’impressione che è anche il mandato che ci dà più problemi. – Non lo so che cosa vi viene in mente quando parlo di evangelizzazione. Mi ricordo che ne abbiamo parlato una volta a Vicenza e una signora anziana iniziava a raccontare abbastanza entusiasta delle esperienze che aveva fatto nella sua gioventù. Si ricordava di predicatori affascinanti che riempivano le chiese e di gente che si convertiva lì. Poi questa signora si fermava, quasi sembrava che stesse riflettendo su che cosa avesse detto, guarda me e mio marito e dice: ma non immaginatevi che io mi metta adesso in piazza con dei volantini! – Penso che in questa reazione troviamo tutto lo spettro dei sentimenti quando parliamo dell’evangelizzazione.

Uno dei miei primi ricordi nell’ambito dell’evangelizzazione è che la mia comunità si era convinta di voler fare un’evangelizzazione in una tenda. C’erano delle persone che si ricordavano che si faceva questo, 20 anni prima e aveva avuto successo. Erano venute parecchi nuove persone in chiesa e ora si voleva replicare quel successo. Così si faceva un incontro con un pastore responsabile per l’evangelizzazione e quello ci chiedeva che cosa vorremmo dire alla gente che dovrebbe venire. – Noi non volevamo dire niente. Questo avrebbe dovuto farlo il pastore che doveva venire per queste serate. A noi servivano solo nuove persone in chiesa. – Per me e per una grande parte della mia comunità era quasi incomprensibile e offensivo che quel pastore dicesse che a quelle condizioni lui non avrebbe fatto nessuna evangelizzazione con noi.

Mi ci è voluto un bel po’ di tempo per poter dire: sì aveva ragione. L’evangelizzazione non è il compito di certe persone, di specialisti, ma è il mandato a tutta la chiesa di Cristo.

C’è un libro meraviglioso del pastore americano Bill Hybels. Purtroppo non è tradotto in italiano. S’intitola ‘Non evangelizzare – vivi’. Questo è stato uno dei libri che mi ha aperto gli occhi che esistono tantissimi modi per comunicare la fede. Hybels descrive nel suo libro vari personaggi biblici e spiega come loro fanno evangelizzazione.

C’è per esempio Paolo che è uno che sa argomentare. È uno studioso con una mente logica che va apposta sull’Areopago ad Atene per discutere con i filosofi della sua fede. Un uomo duro e analitico con una grande sapienza. Uno che ha studiato da uno dei migliori maestri della Torah dell’epoca. Quando Paolo si mette a evangelizzare lo fa in modo intellettuale. Perché lui è così, gli piace discutere e lottare con le parole.

Però la Bibbia ci parla anche di Pietro che è l’esatto contrario di Paolo e comunque un grande evangelista. Pietro è stato quello tra i discepoli che diceva subito ciò che pensava. Era un pescatore, non uno studioso. Uno che agisce, prima di pensare a lungo. Però aveva anche in sé una grandissima fiducia, era pieno di coraggio e così lui convinceva la gente che non poteva esserci niente di meglio che una vita insieme a Gesù Cristo.

La Bibbia ci riporta anche la storia di un uomo cieco che è stato guarito da Gesù e che poi è andato in giro a raccontare alla gente come Gesù avesse cambiato la sua vita; che Gesù gli aveva aperto gli occhi e ora poteva vedere chiaramente. Quest’uomo non aveva fatto né grandi studi teologici, né aveva mostrato gran coraggio. Lui raccontava semplicemente ciò che lui stesso aveva vissuto con Dio e ha incontrato tanti che volevano sentire questa sua storia personale e così hanno trovato una via verso Dio.

Nella Bibbia troviamo anche il racconto del pubblicano Matteo che diventa a suo modo evangelista. Ha vissuto come pubblicano, aveva tanti soldi, tanti amici e gran voglia di fare festa. Potete immaginarvi il tipo. Uno di quelli che girano nelle discoteche con mille amici e non si stancano di festeggiare. Io m’immagino un bontempone, uno simpatico, forse un po’ semplice nel pensiero. Lui ha incontrato Gesù e che cosa ha fatto? Ha fatto festa per e con Gesù. Ha presentato tutti i suoi amici a Gesù durante una grande cena. Forse quel Matteo non sarà mai diventato un intellettuale, forse non poteva mai esprimere la sua fede in parole teologicamente giuste e belle. Però è stato in grado di mettere in contatto i suoi amici con Gesù. Questa è evangelizzazione.

La Bibbia ci racconta anche di una donna che sta a un pozzo e incontra lì il Signore. Prima parlano a lungo dell’acqua. Acqua vera, bagnata e l’acqua della vita. E quando quella donna aveva colto che Gesù avesse qualcosa che lei cerca. È corsa per invitare tutte le persone che incontrava. Faceva caldo. Era l’ora di pranzo quando uno sta in casa e poi fa un bel riposino. Questa donna dev’essere stata molto convincente per portare la gente verso Gesù. Perché era convinta che lì si trovi quell’acqua viva. Lei aveva sentito la buona novella, e voleva ora che tutti quanti sentissero queste parole.

Vi faccio un ultimo esempio di un personaggio biblico. La discepola Tabita. Lei è diventata con il suo modo di vivere una delle più importanti evangeliste dei primi cristiani. Una donna umile che faceva vedere il suo amore non con parole ma con dei fatti. Lei aiutava, dove poteva aiutare. Una donna che si concentrava su altre persone ed era in grado di comunicare con questi gesti di servizio il suo amore per Cristo.

Paolo, Pietro, l’uomo cieco, il pubblicano Matteo, la donna al pozzo e Tabita: sono personaggi totalmente diversi. Mi affascina molto che nella Bibbia non ci viene riportato solo UN modo per vivere l’evangelizzazione ma tanti modi diversi così come tutte le persone sono diverse. Per tutti vale il mandato: Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli. E forse è importante che cogliamo che lì sta scritto: Andate! Non, fateli venire da noi e quando ci sono è tutto fatto. No. Andate. Trovate delle persone attorno a voi. Andate e vivete la vostra vita così che la gente vede qualcosa di Cristo in voi. Se lui è il centro della nostra vita non può rimanere nascosto.

Talvolta ne parliamo tra pastori e diciamo: è pericoloso dire troppo ai membri di chiesa che dovrebbero vivere la loro fede fuori dalle nostre chiese. C’è il rischio che non tornino. C’è il rischio che loro si trovino talmente bene nel mondo che rimangono lì.  – Quel rischio c’è. Non dobbiamo nasconderlo. Però ho anche una grande fiducia.

Sapete che in Australia nell’Outback, dove ci sono dei grandissimi allevamenti, loro non hanno dei recinti. Non tengono il bestiame costretto nei recinti, ma gli permettono di muoversi liberamente. Uno dice: e se le mucche poi si perdono? Ci sarà forse l’una o l’altra che si perde anche, ma la maggior parte torna sempre di nuovo. E perché torna? Perché la fattoria è situata vicino a un pozzo e solo lì le bestie trovano acqua. – Gesù ci ha promesso dell’acqua viva ed io sono convinta che non posso trovare da altre parti un’acqua del genere che colma tutti i miei desideri. Per questo tornerò sempre di nuovo per attingere a quell’acqua.

Penso che non dobbiamo avere paura di vivere la nostra vita con le persone di questo mondo, perché sappiamo bene dov’è la fonte dell’acqua viva. Conosciamo quel Dio che s’interessa di noi personalmente, che libera, che salva, che ha un piano per la nostra vita e che ci ama come solo un padre o una madre possono amare. Questo è per me la buona novella. Questo è il vangelo.

Ognuno di noi ha fatto le proprie esperienze con Dio. Per ognuno c’è qualcosa di importante nella propria fede, se no non verreste qui ogni domenica. Proprio queste esperienze personali vogliono essere condivise. Il vangelo è solo una buona novella quando viene trasmesso. È proprio questo mi auguro: che il vangelo, la buona novella di Dio si espanda in tutto il mondo. Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Servizio

Stiamo riflettendo in questo mese sui mandati ricevuti dalla chiesa. L’altra settimana abbiamo parlato dell’adorazione. Siamo partiti dalla domanda che pone uno scriba a Gesù chiedendo: «Qual è il più importante di tutti i comandamenti?»  E poi la risposta di Gesù:

«Il primo è: “Ascolta, Israele: Il Signore, nostro Dio, è l’unico Signore:  30 Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua”.  31 Il secondo è questo: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è nessun altro comandamento maggiore di questi». (Marco 12,28-31)

L’amore per Dio ha il primo posto, ma ciò che segue è altrettanto importante, cioè l’amore verso il prossimo e verso se stessi. – Forse qualcuno di voi, conoscendomi, sa che spesso sottolineo che non dobbiamo pensare che noi, come singole persone, saremmo il centro dell’universo. Esistono già troppe persone in questo mondo che amano soprattutto se stesse. Per questo è strano che oggi vi dica che nella Bibbia sta scritto anche Ama … te stesso.

Che cosa vuol dire amare se stesso in senso biblico? Non può essere inteso come un mettersi al centro e tutti gli altri ruotano intorno; non può essere inteso come un guardare solo più a se stessi con i propri interessi e idee. Questo non è amore, anzi è peccato, è distacco da Dio perché in un sistema del genere non c’è più spazio per Dio.

Quando Gesù ci esorta ad amarci, lui vorrebbe che fossimo in grado di guardare a noi stessi con gli occhi amorevoli di Dio. Ci sono varie cose che non mi piacciono quando guardo a me stessa. E noi evangelici siamo abituati ad un’introspezione molto profonda nella confessione di peccato. Per questo in qualche modo conosciamo i nostri lati oscuri, sappiamo bene in quale trappola cadiamo sempre di nuovo, sappiamo di non essere degni di fronte a Dio.

Quando si tratta degli altri è più facile chiudere gli occhi. Agli altri concediamo degli errori che a noi stessi non permettiamo. – Con i mei figli sto sempre ancora cercando di far passare l’idea che quando si incontra qualcuno si dice un bel ‘Buongiorno’. Questo è quello che pretendo dai miei. Dagli altri accetto anche un semplice ‘Ciao’ o un cenno di saluto muto. Può essere però imbarazzante quando i miei figli dicono a voce alta: Guarda mamma che maleducato non ci ha salutato come si deve! – Non è facile spiegare perché pretendo una cosa da loro e dagli altri, invece, può andare bene anche diversamente.

Ciò che voglio dirvi è che talvolta è più facile per noi amare gli altri che non noi stessi. Io non voglio essere debole, non voglio fallire o essere dipendente da altri. Talvolta è molto più facile dare ad altre presone che non ricevere. Ma proprio a questo Dio ci invita. Lui vuole offrirci il suo amore e ci chiede di comportarci verso noi stessi in modo amorevole.

Perché solo se possiamo amare noi stessi siamo in grado di compiere ciò che Dio ci chiede, cioè il servizio con e per gli altri, il servizio in questo mondo.

Non è un tema nuovo, già generazioni di credenti si sono chiesti che cosa Dio si aspetti da noi, che cosa vuol dire servizio in questo mondo. Così è già stato chiesto Gesù: chi è il mio prossimo?

Che cosa risponderemmo noi? Chi è il nostro, il mio prossimo? È forse la persona che sta seduta a sinistra o destra rispetto a voi? O sono i membri della propria famiglia o anche il gruppo di amici? Chi è quel prossimo che sarebbe da amare?

Gesù risponde a questa domanda con una parabola. Leggo dal vangelo di Luca nel 10 capitolo a partire dal versetto 30

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.  31 Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada; e lo vide, ma passò oltre dal lato opposto.  32 Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto.  33 Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe pietà;  34 avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, versandovi sopra olio e vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui.  35 Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: “Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno”.  36 Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?»  37 Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia». Gesù gli disse: «Va’, e fa’anche tu la stessa cosa».

Il racconto del buon samaritano è una di quelle storie che guardiamo solo da lontano e pensiamo di sapere già tutto. Non avrei neanche dovuto finire il racconto. Inizio con le prime parole e già uno sa come andrà a finire: amore per il prossimo, diaconia, carità, rispetto davanti agli estranei, accoglienza, qualche parola contro quei credenti che si accontentano di vivere la loro fede come quel sacerdote e levita. Tutto questo lo sappiamo e in teoria potrei dire ‘Amen’ e proseguiamo con l’aperitivo, perché amiamo già il nostro prossimo, facciamo diaconia e comunque non abbiamo dei pregiudizi nei confronti degli stranieri, profughi, musulmani, omosessuali e chi sa chi altro. – Quando parliamo dell’amore per il prossimo, sembra tutto chiaro – in teoria – però cerchiamo di non farlo diventare troppo pratico, perché sappiamo che poi può diventare impegnativo.

In quella parabola di Gesù ci sono due persone che s’incontrano. Uno ha bisogno di aiuto e l’altro si occupa di lui. Lo vide …, fasciò le sue piaghe, … poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. Questi due non si erano mai visti prima. Sono totalmente estranei ma in quel giorno diventano vicini. Uno fa cadere la distanza, vede e agisce. Questo è tutto. È così semplice, naturale e proprio così dev’essere. E SE è così, è buono, anzi molto buono. Però non è sempre così semplice. Abbiamo sentito qualcosa della cruda realtà nella lettura dell’Antico Testamento. Sono forse il guardiano di mio fratello? (Genesi 4,9) – Cosa ho a che fare con quello? – Anche di questo racconta la storia del Samaritano. Racconta degli altri due, del sacerdote e del levita che avrebbero anche potuto realizzare quell’incontro – ma ne perdono la possibilità. Anche loro vedono. Vedono la stessa scena dell’altro ma mantengono la distanza. L’altro rimane solo, non si costruisce la vicinanza. Loro passano, non trovano la via verso l’altro. Il sacerdote, il levita e tutti gli altri che prendono questa strada perdono la possibilità dell’incontro, perdono ciò che c’è da guadagnare lì.

Di solito pensiamo che sia il samaritano che offre: il suo tempo e denaro e non sa nemmeno se riceverà un ringraziamento per tutto ciò. Però Gesù ci dice: è lui che vince, che guadagna in questo incontro. Gesù racconta questa parabola solo perché uno scriba gli chiede: Maestro, che devo fare per ereditar la vita eterna? (Luca 10,25) Chi pone questa domanda, cerca qualcosa. Quello scriba non vuole perdere l’essenziale nella vita, vuole trovare la giusta via, la via verso la vita eterna. E Gesù gli risponde con quel racconto quotidiano e crudele. Una storia di una vittima e dei carnefici come la potremmo sentire ogni giorno al tg. Su una strada provinciale nel deserto giudaico c’è da trovare questa vita eterna. Potremmo dire anche su Corso Milano si decide se uno trova questa via o no. La domanda importante è: con chi si riesce a stabilire un rapporto? Per questo Gesù capovolge la domanda. Lui non chiede chi sarebbe il prossimo al quale si deve offrire aiuto, bensì: chi è stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni? Chi è diventato prossimo perché ha visto e agito? Il sacerdote e il levita non sono diventati prossimi. Questo è il loro grande problema. Loro non trovano la via verso la vita.

Di per sé la storia del samaritano non è un manuale che ci dice come realizzare l’amore giusto verso il prossimo. Ciò che fa quell’uomo è assolutamente ovvio e naturale. Non è niente di straordinario. È il comportamento più ovvio e ciononostante non è sempre così ovvio per noi fare ciò che è evidente. Anche per il sacerdote e il levita sarebbe stato naturale aiutare, ma non l’hanno fatto. Noi possiamo semplicemente constatare che solo il samaritano ha aperto il suo cuore ed è diventato prossimo.

Per noi è uguale. Se riusciamo ad essere prossimi a qualcuno non è niente di speciale. Succede senza scopo, è un semplice incontro. – Se noi oggi chiedessimo al samaritano come mai ha agito così, forse alzerebbe le spalle e direbbe: ma era normale.

È comunque ci sembra talmente anormale che abbiamo l’impressione che Gesú metta tutto sotto sopra quando dice: non trovi la salvezza, la vita eterna nel tempio a Gerusalemme o nelle chiese belle e protette, ma sulle strade di questo mondo. La vita eterna si trova in contatto con altre persone, diventando prossimo.

Anche noi siamo in viaggio sulle strade di questo mondo. Da Padova a Vicenza, a Venezia, a Roma o ancora più lontano. Talvolta siamo noi che rimaniamo feriti lungo la strada, talvolta abbiamo noi bisogno di qualcuno che ci viene incontro. Talvolta ci comportiamo come il sacerdote e il levita. Siamo troppo presi da noi stessi e delle nostre faccende per essere aperti a qualcun altro. Talvolta possiamo anche essere come quel samaritano. Spero che sia così, perché ci sono tante persone in questo mondo che hanno bisogno di uno che diventa per loro il prossimo. E lo spero per noi, che riusciamo ad avvicinarci alle persone perché solo così si trova la strada giusta verso una vita come Dio se l’è immaginata.

Maestro, che devo fare per ereditar la vita eterna?» Gesù dice: Va’, e fa’anche tu la stessa cosa.

È una risposta semplice come in teoria sarebbe semplice e naturale essere prossimo. Ci auguro che Dio ci aiuti ad essere prossimi quando ne abbiamo la possibilità.

Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Adorazione

Abbiamo riflettuto nelle ultime settimane sul comportamento della prima comunità cristiana a Gerusalemme. Ci siamo chiesti che cos’è una chiesa? Su che cosa si fonda? Come ci si comporta tra membri di una chiesa?

Vorrei fare ora con voi un passo in avanti e chiederci quale sia il mandato della chiesa. Qual è il compito di quel gruppo che si definisce chiesa? Che cosa dovrebbe succedere in una chiesa?

Un primo mandato di cui leggo nella Bibbia è l’adorazione.

Gesù stesso dice: Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.  38 Questo è il grande e il primo comandamento. (Matteo 22,37+38) – Chi conosce la Bibbia sa bene che la citazione non finisce così. Ma noi oggi ci fermiamo qui al primo grande comandamento. L’amore per Dio ha il primo posto. Amare Dio è il più grande mandato della chiesa. L’amore per Dio è la base della nostra chiesa. Se non si percepisse questo amore nei nostri culti, sarebbe tutto privo di senso. Se non si percepisse quest’amore nei nostri incontri, essi non sarebbero secondo la volontà di Dio. Se la nostra diaconia, l’aiuto che diamo a persone bisognose non è mossa dall’amore per Dio, non aiuta davvero.

Che cos’è l’adorazione? Se uso la parola “adorazione” insieme con “Dio” mi viene in mente quell’usanza cattolica dell’adorazione dell’ostia. Non è questo che intendo. Forse qualcuno pensa anche a certe chiese pentecostali che parlano tanto di adorazione e intendono dei canti, spesso emozionali, con i quali la comunità dà lode a Dio. – Sui vari stili musicali possiamo discuter, però in fondo non intendo con adorazione un certo stile musicale.

Adorazione è un atteggiamento del cuore, un’impostazione di vita che si dirige verso Dio. Adorazione è ciò che Dio richiede al suo popolo quando dice nel primo comandamento: Io sono il SIGNORE, il tuo Dio (…) Non avere altri dèi oltre a me. (Esodo 20,2+3) Dio vuole essere amato e non vuol essere amato un pochino tra gli altri, ma pretende un amore esclusivo.

Come si mostra quell’amore verso Dio? – Si può adorare Dio con inni e canti, anche con quelli moderni. Si può adorare Dio col suono dell’organo o della chitarra o della batteria. Si può adorare Dio anche nel silenzio. Si può adorare Dio con preghiere spontanee o recitate, con preghiere lette o disegnate. Si può adorare Dio alzando le mani o inginocchiandosi o anche semplicemente rimanendo seduti. Ciò che conta è il cuore. Perché una cosa riunisce tutti questi vari modi di adorare Dio, cioè sono privi di uno scopo. Non si adora Dio per… Forse per questo è talvolta difficile per noi adorare Dio di pieno cuore. Non si conquista niente con l’adorazione, non ci porta a nessun fine e talvolta non sembra neanche logico di investire tanto tempo per la lode di Dio.

Se parliamo di adorazione, mi viene in mente soprattutto un brano biblico che è riportato nel vangelo di Giovanni al capitolo 12

Gesù dunque, sei giorni prima della Pasqua, andò a Betania dov’era Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti.  2 Qui gli offrirono una cena; Marta serviva e Lazzaro era uno di quelli che erano a tavola con lui.  3 Allora Maria, presa una libbra d’olio profumato, di nardo puro, di gran valore, unse i piedi di Gesù e glieli asciugò con i suoi capelli; e la casa fu piena del profumo dell’olio.  4 Ma Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse:  5 «Perché non si è venduto quest’olio per trecento denari e non si sono dati ai poveri?»  6 Diceva così, non perché si curasse dei poveri, ma perché era ladro, e, tenendo la borsa, ne portava via quello che vi si metteva dentro.  7 Gesù dunque disse: «Lasciala stare; ella lo ha conservato per il giorno della mia sepoltura.  8 Poiché i poveri li avete sempre con voi; ma me, non mi avete sempre».

Ci viene qui riportato un racconto che sembrerebbe tipico per una chiesa. Gli amici di Gesù sono insieme e ognuno si rapporta con il Signore a modo suo. Marta lavora, si occupa delle cose pratiche. Da noi sarebbe responsabile per il riscaldamento in chiesa e per l’aperitivo dopo il culto e forse anche per la preparazione della Santa Cena. Forse si occuperebbe anche di portare fiori in chiesa e di tenere curati i nostri ambienti. Questi sarebbero i compiti di una Marta oggi. Sono cose importanti. Sono servizi che tante persone possono rendere alla chiesa. Però non è tutto.

Maria ha un atteggiamento molto diverso. Lei non fa niente di sensato o pratico. Al contrario. Lei spreca una libbra d’olio profumato, di nardo puro per ungere i piedi di Gesù. Quell’olio era una sostanza speciale, non viscoso ma più simile al profumo. Costava una fortuna, più o meno il salario annuale di una persona comune. – Maria non ci pensa. Lei adora di poter essere vicino a Gesù. Sente che lui non sarà più per lungo tempo così vicino ed esprime il suo pieno amore con quell’olio che lei dilapida per il suo Signore. – Maria ci mostra che cosa sia adorazione. Voler essere vicini a Dio, fargli del bene senza interrogarsi sul senso più profondo. Godere della presenza di Dio senza pensare se tutto ciò sia utile o adeguato. Questo è adorazione.

È rimasto così fino ad oggi. L’adorazione di Dio non è sempre opportuna, razionale o utile. L’adorazione non ha delle regole che la definiscano. Deve solo essere vera e venire da un cuore pieno di amore.

Gesù dice alla donna samaritana che lo incontra al pozzo: L’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. (Giovanni 4,23) Dio cerca delle persone che lo adorino. Questo mandato vale anche per la nostra chiesa, anzi non è solo un mandato, è il primo comandamento.

Quando Maria ha fatto vedere il suo amore a Gesù è stata criticata. E da parte di chi? Da quello che gestisce le finanze. – Penso che chi gestisce le finanze di un gruppo deve per forza comportarsi così, deve mettere sul tavolo degli argomenti logici come Giuda. Si sarebbero potute fare tante cose buone e sensate con questi soldi. Maria si è invece decisa di fare un gesto folle, perché aveva in testa solo l’amore.

Mi affascina sempre di nuovo in quel racconto che Gesù non agisca logicamente. Non ferma Maria per risparmiare i bei soldi. Gesù accetta invece quella prova d’amore. Lui si gode l’attenzione e accetta il dono – anche se va contro ogni senso della ragione.

Quando parliamo di amore mi piace tanto pensare ai giovani. È bello quando ti raccontano del primo grande amore. Hanno ancora dei sentimenti così forti e hanno l’impressione di dover morire quando non possono raggiungere il loro grande amore. Sarà davvero illogico spendere tanti soldi per un biglietto aereo per poter vedere il partner che fa un anno di studi all’estero, dall’altro lato del mondo. Logico – illogico – non importa. I giovani fanno delle cose illogiche quando si tratta di questioni d’amore perché se non lo fanno muoiono di mal d’amore.

È quell’amore che Gesù sente per noi e che vorrebbe vedere anche in noi. È quella passione con la quale ha amato noi. Quella passione con la quale ha combattuto per noi ed è andato fino alla croce e nella morte. Se questo non è illogico!

La nostra adorazione di Dio si mostra nella nostra vita. L’adorazione non ha a che fare con parole pie o comportamenti da santo. Adorazione è uno stile di vita. La vera adorazione si mostra in uno stile di vita capace di onorare Dio. Si potrebbe anche dire uno stile di vita pieno d’amore quando cerchiamo di vedere il mondo e le persone attorno a noi con gli occhi di Dio.

Questo diventa pratico quando uno si rifiuta di parlare alle spalle dei colleghi, o di snobbare i vicini di casa, o di guardare male i bambini che fanno chiasso. Questo è adorazione pratica. Dio non accetta neanche le piccole truffe nella dichiarazione dei redditi, le copie piratate o il lavoro in nero. Sembra illogico perché lo fanno tutti. L’abbiamo già detto oggi. Dio non è sempre logico.

L’adorazione si mostra in tutta la vita. Paolo scrive nella prima lettera ai Corinzi: Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio. (1Cor 10,31) Tutto, addirittura il mangiare e bere può essere fatto alla gloria di Dio.

Mi auguro che noi possiamo essere una chiesa che adora Dio. Una chiesa che adora essere alla presenza di Dio per farsi cambiare nella propria vita. Mi auguro che saremo in grado di cedere al momento giusto alla logica e di diventare illogici per amore. Mi auguro che possiamo godere la presenza di Dio nella nostra chiesa e nella nostra vita.

Amen

Ulrike Jourdan