Sermone: PREDICAZIONE DI MARTEDI’ 25 DICEMBRE 2012 (NATALE DEL SIGNORE) (Tit 3:4-7; Is 33:24; Mt 25:31-46)

Giustificazione per sola Fede mediante la Grazia: la conferma viene dalla Scrittura!

I versetti della lettera dell’apostolo Paolo a Tito, proposti oggi per la predicazione, si discostano un po’ dai tradizionali passi biblici che siamo soliti associare al tempo natalizio. Come molto spesso avviene nelle sue lettere, Paolo sintetizza qui, con grande efficacia, un profondo contenuto teologico. Densa, la riflessione dell’apostolo, ma tutt’altro che astrusa; al contrario, un validissimo aiuto a scoprire il significato più vero del Natale, a viverlo non superficialmente, non come una routine a volte gradita, a volte fastidiosa per gli impegni familiari e sociali che le feste portano con sé. Un aiuto a vivere il Natale come il Signore desidera che noi lo viviamo: cercando di comprendere a fondo il significato di ciò che nella festa chiamata Natale viene ricordato e celebrato, l’Incarnazione. Paolo, qui, non usa il termine “Incarnazione”. Allude, piuttosto, a questo evento parlando del tempo in cui agli esseri umani si sono manifestati la bontà e l’amore di Dio: un Dio che ha come proprio tratto distintivo la volontà salvifica nei confronti dell’umanità. “Dio, nostro Salvatore” lo definisce infatti Paolo, e inevitabilmente il pensiero corre a Maria il cui spirito “esulta in Dio, suo Salvatore” nel famoso cantico sul quale abbiamo riflettuto insieme domenica scorsa (Lc 1:47). Festeggiando il Natale noi facciamo memoria di questo kairòs, di questo tempo propizio in cui si è verificato l’evento determinante per la nostra salvezza: la venuta in terra del Figlio di Dio. E teniamo ben presente che secondo la concezione ebraica, fatta propria anche dal cristianesimo, questo far memoria non è un semplice ricordare ciò che è stato: è un ri-cordare – verbo che ha a che fare con il cuore, cioè con la parte più intima dell’essere umano – che significa riattualizzare, rendere presente. Siamo chiamati, insomma, a fare spazio dentro di noi al Salvatore che è venuto, che continua a venire, e che continuerà a venire fino alla fine dei tempi. Se davvero riusciremo a renderci consapevoli di ciò che questo significa per noi, allora anche il nostro spirito, come quello di Maria, non potrà fare a meno di esultare. Sì, proprio esultare, anche se questo verbo sembra un po’ incongruo nei tempi depressi e cupi che stiamo vivendo, in queste festività che si presentano cariche di inquietudine e di ansia: per noi o, se non proprio per noi personalmente, per tanti nostri conoscenti, parenti, o semplicemente per una moltitudine di sconosciuti che sono pur sempre nostri fratelli e sorelle; per nazioni intere, come la Grecia, la Spagna, ma anche tanta parte di questa nostra Italia, Paesi nei quali milioni di persone lottano per la sopravvivenza, Paesi nei quali tanti hanno perso, o stanno per perdere, il lavoro e la casa. Secondo criteri umani è molto comprensibile, e anche condivisibile, ciò che sentiamo spesso ripetere in questi giorni, che forse abbiamo ripetuto anche noi: questo sarà un Natale triste o, quanto meno, un Natale molto “sotto tono”. Sappiamo bene che questa affermazione non riguarda soltanto la forzata sobrietà che le difficoltà del momento impongono a tante famiglie: questo, in sé potrebbe anche essere un effetto positivo della crisi. Qui, però, non si tratta soltanto di limitare lo shopping; si tratta, per molte, per troppe persone, della perdita di ogni speranza per il futuro. Umanamente comprensibili, dunque, tristezza e pessimismo. Ma proprio qui sta il punto: al cristiano non è consentito indulgere a valutazioni basate su criteri meramente umani. Il cristiano – ricordiamolo sempre – è un uomo, una donna che non si conforma ai criteri di questo mondo: è anzi, o almeno dovrebbe essere, l’anticonformista per eccellenza, sul modello di Gesù e di sua madre (e ancora una volta mi richiamo a quel “sovversivo”, “scandaloso” cantico di Maria che è stato il testo di predicazione di domenica scorsa). Dunque, domandiamoci: può davvero un cristiano parlare di un Natale “triste”, “sotto tono”? La risposta, sorelle e fratelli, è un netto NO. Secondo uno spirito veramente cristiano, la parola “Natale” è del tutto incompatibile con parole come “tristezza” o “depressione”. Incompatibile sempre, anche nei momenti più tragici della storia e delle vicende umane. E questo perché? Non certo perché il Natale è quel tempo un po’zuccheroso nel quale tutti ci sentiamo tenuti a essere non solo buoni, ma anche allegri e felici – o, almeno, a fingere di esserlo. No, ciò che il Natale richiede ai cristiani non è un ottimismo lattemiele. Ciò che il Natale richiede è che vengano una buona volta prese sul serio queste parole della lettera a Tito: perché in Gesù Cristo Dio ci ha salvati, e ci ha “salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia […] affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna”. Questo altro non è che l’Evangelo della grazia, l’annuncio di ciò che Dio ha realizzato per noi con la venuta di Cristo: la salvezza per grazia – per sola grazia: perché altrimenti saremmo perduti – che a noi spetta soltanto accettare per fede, con un cuore ricolmo di gratitudine. È l’annuncio che costituisce il fondamento della gioia e della speranza del cristiano, l’annuncio che la Riforma ha riproposto con vigore all’attenzione dei credenti. Ecco perché per il cristiano in nessuna circostanza il Natale può essere vissuto nella tristezza: perché questa festa fa memoria della salvezza che ci è stata donata. Ma per esultare a questo annuncio di salvezza, come Maria, dovremmo essere veramente convinti di averne un disperato bisogno, di questa salvezza. Dovremmo, cioè, saperci riconoscere nel quadro desolato tracciato da Paolo allorché descrive la condizione spirituale nella quale versavano i cristiani “un tempo”, prima cioè di essere rigenerati dalla fede: erano tutti, senza eccezione (l’apostolo non esclude certo sé stesso, dal momento che usa il “noi”), macchiati da ogni sorta di vizi, di difetti, di sentimenti negativi; quanto meno, erano “insensati”, cioè moralmente e spiritualmente ottusi. Questo radicale pessimismo antropologico dovrebbe essere un atteggiamento più o meno ovvio per noi, cristiani che si riconoscono nella tradizione della Riforma; eppure non è affatto così. Credo sia ben difficile per noi riconoscerci sinceramente in questa descrizione impietosa, così come credo che ben difficilmente qualcuno di noi possa far proprio sinceramente il grido di cui si fa portavoce Isaia: “Io sono malato”. Questo perché ciascuno di noi, in fondo, si ritiene una persona moralmente sana, una persona “a posto”, una gran brava persona. E questo è il nostro guaio, questo è ciò che ci impedisce di provare la vera, genuina, profonda gioia natalizia: perché di questa salvezza che ci viene offerta come dono del tutto gratuito, noi nel nostro intimo non crediamo affatto di avere bisogno. Un dono natalizio non sgradito, certo, ma non compreso; un dono da ricevere educatamente, ma che può apparire addirittura inutile, superfluo: ecco, è così che noi, troppe volte, riceviamo l’evangelo della grazia. Ho usato il verbo “ricevere”, non “accogliere”: perché accoglierlo veramente, questo evangelo, può solo chi si sappia riconoscere malato, come il popolo di Sion. Il grande rischio che tutti noi corriamo è che questo dono ci raggiunga senza che da noi venga una vera risposta, un vero coinvolgimento, e in questo modo resti per noi inefficace. Per “accoglierlo” davvero, questo dono, noi dobbiamo renderci disponibili all’azione dello Spirito Santo, a quella “rigenerazione”, a quel “rinnovamento” di cui parla Paolo, e che solo lo Spirito può operare. Solo lo Spirito può avere la meglio sulla nostra ottusità, sulla nostra “insensatezza”. Pensiamoci: in questi pochi versetti, Paolo concentra non solo la teologia della salvezza per grazia, ma anche la teologia trinitaria. Ecco un’altra peculiarità di questa densa pagina scritturale: essa ci invita a vivere il Natale anche come festa trinitaria. Nel pensare al Natale, nel vivere il Natale, noi siamo abituati infatti a concentrare la nostra attenzione sul Figlio, sul Figlio di Dio venuto tra noi nella forma indifesa di un bambino. Ma il Bambino di Betlemme non ci sarebbe, non ci sarebbe mai stato, senza l’amore del Padre e senza l’azione potente dello Spirito. Paolo è qui in linea con tutte le narrazioni neotestamentarie, nelle quali l’intera vicenda dell’Incarnazione è messa in moto dall’impulso dello Spirito. Già lo dicevamo nella predicazione di domenica scorsa: è lo Spirito che rende Maria docile e disponibile alla volontà del Signore annunciatale dall’angelo; è lo Spirito che fa di Elisabetta una profetessa. Vivere pienamente il Natale significa, dunque, anche lasciarsi trasportare, e trasformare, dalla forza rigeneratrice dello Spirito Santo. Significa riuscire a intravedere nel Natale un anticipo di Pentecoste. “Eredi della vita eterna”, noi cristiani – afferma Paolo – viviamo “in speranza”. Come si fa a vivere “in speranza”? Direi che vive in speranza chi resta umilmente e tenacemente fedele alla vocazione ricevuta, ricordando in ogni giorno, in ogni momento della propria vita la necessità di essere rigenerato e rinnovato dallo Spirito. Necessità nostra e di tutta la chiesa, un tempo riformata eppure sempre bisognosa di continua riforma: perché nulla è scontato, nulla si acquisisce una volta per sempre. Se riusciremo a imparare tutto questo, allora potremo davvero vivere il Natale come una festa, godendoci anche le strade illuminate, l’albero, i regali. A patto però che non dimentichiamo mai l’esistenza di quei minimi con i quali Cristo si identifica nel passo di Matteo che abbiamo ascoltato, un passo famoso ma anche questo, all’apparenza, tutt’altro che “natalizio”. All’apparenza: perché, invece, coloro che in questo grande affresco del giudizio finale il re colloca alla sua destra altri non sono se non coloro che hanno saputo fare del Natale il loro stile di vita, che hanno saputo tradurre il Natale in prassi quotidiana impegnandosi per la giustizia e il rispetto del diritto, mettendosi al servizio di chi ha bisogno di aiuto. Perché solo così, incamminandoci sulla strada della diaconia vissuta nell’amore per gli altri e accogliendo nella fede l’immeritato dono della grazia e il soffio rigenerante dello Spirito Santo, potremo diventare nuove creature. È questo il mio augurio natalizio per tutti voi, per tutti noi, per la nostra Chiesa.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

News: IL NUOVO NUMERO DI “CORSOMILANOSEI”

La consueta Circolare ai membri ed agli amici della Chiesa Metodista di Padova.  Con tutte le nostre iniziative, le attività in corso ed in programma e le novità.

Per chi vuole tenersi sempre aggiornato.

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CIRCOLARE CHIESA 2 DICEMBRE 2012

News: LA TRISTE SITUAZIONE FINANZIARIA DELL’UNIONE DELLE CHIESE VALDESI E METODISTE IN ITALIA (e le iniziative della Comunità di Padova a riguardo)

Dalla circolare della Tavola Valdese, inviata qualche giorno fa alle chiese valdesi e metodiste italiane

“Da pochi giorni è stata inviata ai pastori, ai cassieri e ai concistori la situazione delle contribuzioni al 30 novembre. Purtroppo la situazione non è rosea e alla data del 30 novembre mancano circa 500.000 euro per raggiungere l’obiettivo. Una cifra enorme se si pensa che serve a coprire più di un quarto del costo del Campo di Lavoro.
Non diciamo niente di nuovo affermando che la crisi è generale, che molte sono le famiglie, anche nelle nostre comunità, costrette a ridurre drasticamente le spese: disoccupazione,
aggravi fiscali, aumento utenze, … Questo continuo aumentare dei costi interessa le famiglie ma anche le nostre chiese localmente e la nostra chiesa a livello nazionale.
Durante il Sinodo abbiamo presentata la previsione di chiusura del 2012 e soprattutto abbiamo messo tutti al corrente del fatto che la gestione del patrimonio immobiliare non avrebbe più fornito gli utili da utilizzare per la copertura del Campo di Lavoro (mediamente 200/250.000 euro l’anno). La previsione si è puntualmente avverata superando anche i calcoli più pessimistici. La Tavola ha sempre rispettato le leggi pagando quella che prima si chiamava ICI in base alle norme vigenti. Continuerà pertanto a farlo con le nuove regole che però ci fanno passare da 150.000 a circa 500.000 euro! Per questa situazione così critica, la Tavola con innegabile rammarico, è costretta a rivedere la previsione di aumento di 18 euro mensili agli iscritti a ruolo nel 2013, posponendo la decisione finale al momento in cui sarà disponibile la chiusura contabile definitiva. È vero che la gestione del nostro paese è in mano ai nostri governanti, ma le nostre scelte di vita, le nostre priorità e non solo il nostro voto alle elezioni hanno un peso notevole sulla società e sul nostro paese.
Usciamo da anni in cui la società (cioè noi) ha riconosciuto e reso primario il consumo: avere coincide con essere, gli oggetti sono status symbol, … lungi da noi una frettolosa e trita retorica sociologica. Vorremmo soltanto richiamare ognuno di noi a dare il giusto valore alle cose in base all’insegnamento di Cristo “Non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete.” (Matteo 6/25). La contribuzione, cioè la raccolta del denaro per il sostentamento della nostra chiesa, non è un ulteriore sacrificio economico richiesto ai membri. La contribuzione è una scelta individuale e responsabile; una conseguenza dell’aver scelto di far parte della chiesa valdese, di aver scelto la libertà in Cristo e per Cristo. Che la chiesa viva sostanzialmente grazie alle contribuzioni è parte della nostra predicazione ed è un richiamo coerente alla laicità, alla giustizia e alla libertà. Questo è il messaggio da far pervenire a quelle sorelle e fratelli che non contribuiscono (una percentuale molto elevata nelle nostre comunità). Se solo la metà di loro contribuisse anche con solo 10 euro l’anno avremmo risolto il problema della copertura del Campo di Lavoro. Ricordiamo, infine, che il Sinodo 2012 ha ribadito l’importanza di garantire alle chiese una buona cura pastorale e di preservare la nostra presenza ponendosi l’obiettivo di aumentare le contribuzioni del 10% e diminuire le spese del Campo di Lavoro del 3%”.

Fin qui la voce della Tavola. Ora, la riflessione della nostra piccola comunità:

Urge quindi un forte impegno da parte di tutti noi, valdesi, metodisti, sia membri di chiesa che semplici amici o simpatizzanti, nel sostenere finanziariamente, dal momento che noi non godiamo (e neanche vogliamo che ciò accada) di privilegi da parte di alcuno (leggi Stato italiano) questa nostra cara, vecchia Chiesa alla quale siamo così affezionati fin dai tempi delle prime persecuzioni medievali e dei massacri della prima età moderna.

Per questo, la Chiesa Evangelica Metodista (Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste) di Padova, rilancia la campagna “Un caffè per la tua Chiesa” già lanciata attraverso questo sito ed ora riproposta, in maniera più succinta, facendo seguito proprio al “grido d’allarme” lanciato dalla Tavola Valdese.

                                                    UNA NOSTRA PROPOSTA:
                                              “UN CAFFE’ PER LA TUA CHIESA”

Ma cosa c’entra la nera bevanda che beviamo ogni mattina con la Chiesa? C’entra, c’entra. Ricordati che i fondi pubblici derivanti dall’Otto per mille dell’irpef alla Chiesa valdese, sono destinati soltanto a sostenere attività sociali, umanitarie, educative e culturali, sia in Italia sia all’estero. In pratica, “NON UN EURO ALLE SPESE DI CULTO!” Dunque le nostre attività di culto e di evangelizzazione sono finanziate SOLTANTO dalle libere offerte e dalle contribuzioni dei membri di Chiesa e dei simpatizzanti. Questo perché riteniamo che tale posizione affermi da un lato l’indipendenza e la totale autonomia delle Chiese cristiane rispetto ai poteri pubblici, dall’altro la loro libertà e possibilità di distanziarsi datali poteri quando lo si ritenga opportuno.
Ricordati che la tua contribuzione alla chiesa è fiscalmente deducibile dalla tua dichiarazione dei redditi fino ad un ammontare annuo di 1.032, 91 euro purché tu abbia richiesto la necessaria certificazione alla chiesa locale alla quale hai fatto l’offerta.
Ricordati che la tua contribuzione deve essere PERSONALE: ogni membro di chiesa titolare di un reddito, per quanto piccolo, è invitato a dare in modo diretto la propria contribuzione, senza delegarla alla famiglia, in base al principio protestante della responsabilità personale. La contribuzione deve poi essere PERIODICA: dato che le spese ed i primo luogo i pagamenti degli stipendi sono mensili, è bene che le contribuzioni dei singoli siano versate almeno ad intervalli regolari nel corso dell’anno. Infine, la contribuzione deve essere PROPORZIONALE: infatti, con il 3% del tuo reddito netto le nostre chiese possono mantenere in modo dignitoso, senza alcuno sfarzo o spreco, pastori, diaconi e personale amministrativo, dando alle comunità gli strumenti necessari per svolgere in modo adeguato la propria missione: diffondere l’Evangelo di libertà e di giustizia di Gesù Cristo.
Ricordati quindi: 3%. LA TUA CONTRIBUZIONE: PERSONALE – PERIODICA – PROPORZIONALE – DEDUCIBILE.
E allora, il caffè cosa c’entra? Quanto costa una tazzina? Un euro? Se ci va bene novanta centesimi? E se rinunciassimo ad una o a due tazzine di caffè al giorno? Sarebbero dai trenta ai sessanta euro risparmiati al mese. Dai 360 ai 720 Euro all’anno! Un bel risparmio, no? E se li versassimo alla Chiesa? Meno caffeina in corpo, più salute nello spirito! Dai, un caffè ogni tanto ve lo potete ancora permettere!

PER CONTRIBUIRE:

CHIESA EVANGELICA METODISTA – PADOVA

C. C. POSTALE N° 13064316
BANCA ETICA, PADOVA
IBAN IT52 C050 1812 1010 00000102218
CAUSALE: “Contributo per la Chiesa Evangelica Metodista, Padova”

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 23 DICEMBRE 2012 (Lc 1:39-55, 1 Sam 2:1-10, Fil 4:4-7)

IL CANTICO DI MARIA

Come tutti sappiamo, le nostre chiese sono dotate di un ricco patrimonio di inni, spesso antichi e molto belli. Particolarmente suggestivi sono gli inni che siamo soliti cantare in tempo di Avvento. Eppure, nessuno di questi inni pur così cari alla nostra tradizione e, credo, a ciascuno di noi può competere, per potenza e per profondità teologica, con il più antico tra gli inni dell’Avvento, il cosiddetto Cantico di Maria: il più appassionato, il più impetuoso, direi il più rivoluzionario cantico di Avvento che mai sia stato cantato. Un cantico sconvolgente perché non ha nulla di pio, di devoto, come ci aspetteremmo da una composizione poetica collegata al tempo natalizio e, soprattutto, scaturita dalla labbra di una donna. Fuori dagli schemi e dalle convenzioni questo inno, fuori degli schemi e delle convenzioni la sua autrice: Maria, colei che sta per diventare la madre del Signore. La Maria del cantico è una vera figura biblica, una figura che poco o nulla ha in comune con la Maria della successiva tradizione cristiana: una Maria che l’iconografia, la letteratura, la devozione popolare – soprattutto, ma non esclusivamente, in ambito cattolico – hanno trasformato in una creatura tenera, sognante, soave, quando non addirittura sdolcinata. La Maria del vangelo di Luca è tutt’altra persona: una donna appassionata, vigorosa, fiera, entusiasta. E nel suo canto non c’è nulla della dolcezza, malinconica o gioiosa, dei nostri inni di Natale; è un canto duro, forte, inesorabile, che parla di troni che crollano e di signori di questo mondo umiliati, parla di potenza divina e di impotenza umana. È un canto intessuto di riferimenti alla Bibbia ebraica, e Maria stessa è una diretta discendente delle eroine e delle profetesse del popolo di Israele. Sulle sue labbra rivivono gli accenti di Debora, di Giuditta, di Maria sorella di Mosè, e soprattutto di Anna, il cui canto di gioia per la nascita del figlio Samuele anticipa in modo impressionante i toni del canto di Maria. Ella magnifica il Signore perché ha fatto di lei una creatura “beata”. Perché beata? Lo spiega per prima Elisabetta, la sua anziana parente: anche lei, insieme al marito Zaccaria, è stata oggetto di uno straordinario intervento divino, è stata destinata a una maternità impossibile secondo la ragione umana. Come Maria (cfr. Lc 1: 35), anche Elisabetta è ricolmata di Spirito Santo, e lo Spirito le fa fiorire sulle labbra parole che sono anch’esse una sorta di piccolo cantico: “cantico di Elisabetta”, potremmo chiamarlo. Lo Spirito ha donato a Elisabetta una lucidità e una profondità di visione spirituale che le consentono di riconoscere in Maria una creatura “benedetta fra le donne” e “beata” in quanto “ha creduto che quanto le è stato detto dal Signore avrà compimento”. È poi la stessa Maria a offrire una seconda motivazione del perché “da ora in poi tutte le generazioni” la chiameranno beata: “perché grandi cose le ha fatte il Potente”.Dio, dunque, ha fatto grandi cose a Maria; e lei, Maria, che cosa ha fatto per essere beata, per essere chiamata beata da tutte le generazioni a venire? Non ha fatto assolutamente nulla, se non ciò che viene richiesto a ciascun essere umano, a ciascuno di noi: ha creduto alle promesse del Signore, e si è resa disponibile ad essere lo strumento della realizzazione di queste promesse. Ha avuto fede, nel senso che si è totalmente affidata al Signore. Null’altro che questo era ciò che il Signore le richiedeva, null’altro che questo era ciò che a lei spettava fare. Perché il vero fare, l’unico agire veramente efficace, è ciò che viene operato dal Signore. Di questo, Maria è perfettamente consapevole. Chiamarla beata significa imparare ad adorare nello stupore le grandi cose che Dio ha compiuto in lei; scoprire in lei che Dio volge il suo sguardo a ciò che è basso e lo innalza, che la gloria e la potenza di Dio consistono nel far grande ciò che è piccolo. Chiamare beata Maria non significa edificarle altari o santuari, ma insieme con lei adorare il Dio che guarda e sceglie ciò che è basso, che fa cose grandi e il cui Nome è santo. Chiamare beata Maria significa condividere la sua consapevolezza che la misericordia di Dio “si estende di generazione in generazione su quelli che lo temono”: e sappiamo che “temere” il Signore non significa averne paura come si può avere paura di una divinità collerica e capricciosa, significa piuttosto lasciare, come Maria, che in noi si compia ciò che lo Spirito ordina; significa lasciarci ricolmare da questo Spirito – come Maria, come Elisabetta – e ricolmi di questo Spirito annunciare alle sorelle e ai fratelli che Dio è venuto e viene e continuerà a venire nel mondo. Maria testimonia – perché lo ha sperimentato di persona, nel proprio corpo – che è per vie prodigiose che Dio viene all’uomo, che Egli non agisce secondo le opinioni e le vedute umane, anzi queste opinioni e vedute le ribalta, le sovverte radicalmente. Maria sa che Dio non segue le vie che gli uomini gli vogliono prescrivere, ma che la sua via resta, al di là di ogni comprensione, libera e sovrana. Dio ama essere là dove non ci aspetteremmo di trovarlo, là dove noi stessi non vorremmo mai essere, là dove la ragione e spesso anche la nostra pietà di persone religiose si scandalizzano e si tengono pavidamente a distanza. Là egli confonde la ragione dei sapienti e sfida la nostra tiepida religiosità. Là egli vuol essere, e nessuno glielo può impedire. Solo gli umili gli prestano fede e si rallegrano che Dio sia tanto libero e tanto sovrano da fare miracoli là dove l’uomo dispera, da compiere meraviglie là dove l’uomo è piccolo e insignificante. Questo è il miracolo dei miracoli. Dio ha guardato alla bassezza della sua serva”. Alla “bassezza” o, secondo altre traduzioni, alla “piccolezza”, o all’“umiltà”, o addirittura alla “miseria” della sua serva. Il significato non cambia: Dio si rivolge a ciò che è irrilevante a occhi umani. Questa è la parola rivoluzionaria, appassionata dell’Avvento. Maria ne è la testimone: proprio nella sua irrilevanza, nella sua inconsistenza agli occhi degli uomini, Maria viene fatta oggetto dello sguardo e dell’elezione di Dio, per essere madre del Salvatore del mondo; non per qualche suo merito, ma solo ed esclusivamente perché la volontà di Dio ama, elegge e fa grande ciò che è basso, insignificante e piccolo. L’Incarnazione dimostra che Dio non si vergogna della piccolezza dell’uomo, anzi vi si lascia coinvolgere totalmente: sceglie un essere umano, lo fa suo strumento e compie il suo miracolo là dove meno lo si attende. Quando gli uomini dicono “no”, egli dice “sì”. Ecco perché il “segno” che Dio darà agli esseri umani per mezzo di Maria null’altro sarà che “un bambino […] in una mangiatoia” (Lc 2: 12). Un “segnoinsignificante” secondo i criteri umani, un segno che è fin troppo facile trasformare in un quadretto devoto, dinanzi al quale la commozione e i buoni sentimenti sono tanto facili e immediati quanto superficiali e di breve durata. Ma non è certo una cartolina natalizia il messaggio che questa nascita vuole trasmetterci. Questa nascita vuole ribadire ciò che è stato annunciato da Maria nel suo cantico: che il Dio dell’universo, il Signore e creatore di tutte le cose, vuole incontrarci e stare con noi nella debolezza e nella condizione inerme di un bambino. E questo proprio per mostrare chi è Dio, dove Dio sceglie di essere, con chi Dio sceglie di stare. Il trono di Dio nel mondo non è un trono simile a quelli umani: è una mangiatoia. E intorno a questo trono non ci sono alti dignitari, ci sono individui poco raccomandabili e di pessima reputazione, come i pastori, i quali però – non diversamente da Maria – si rivelano attenti e pronti dinanzi all’annuncio dell’angelo. Dio si nasconde in Maria “la serva del Signore”, operando in lei cose tanto “grandi” quanto silenziose e difficili da discernere per chi non sia illuminato dallo Spirito. È proprio in questo abbassarsi di Dio che avviene la più radicale contestazione di tutti coloro che il mondo e la natura umana giudicano degni di rispetto, di deferenza, di considerazione in virtù della loro posizione nella società, delle loro possibilità economiche e, soprattutto, del potere che agli occhi umani sono in grado di esercitare. È dinanzi a questo Dio il cui trono si identifica dapprima con una mangiatoia, poi con una croce, che i troni vacillano, che i potenti cadono, che coloro che stanno in alto precipitano, perché Dio è con coloro che stanno in basso. È qui che vengono ridotti a nulla i ricchi e i sazi, perché Dio è con i poveri e gli affamati, e ricolma di beni gli affamati perché i ricchi li manda a mani vuote.Sorelle e fratelli: il cantico di Maria è cantato anche per noi. E quando dico che è cantato per noi, non intendo dire che noi siamo un pubblico il cui compito si limita all’applaudire. No, non siamo invitati ad assistere a una sacra rappresentazione edificante; siamo invitati a sentirci direttamente chiamati in causa, coinvolti nell’operato del Dio sovversivo che ribalta tutti i criteri di valutazione, tutti i ruoli che il mondo ritiene sacri e intoccabili. Siamo invitati a essere noi stessi annunciatori di questo capovolgimento generale: il basso che diventa alto, il piccolo che diventa grande. Solo così potremo dirci evangelizzatori, perché in questo consiste l’Evangelo della grazia. La vocazione che ci viene rivolta attraverso il cantico di Maria è di fare totalmente nostro questo modo di pensare così alieno dalla natura umana, perché è il modo di pensare di Dio; e di darne testimonianza in ogni occasione. Anche il nostro agire, allora – l’agire di noi credenti, di noi chiesa –, dovrà essere un agire che sovverte i criteri del mondo. Certo, ci sarà chi ci esorterà alla prudenza, chi ci consiglierà di osservare maggiore discrezione, di non dare nell’occhio, di comportarci “come fanno tutti”; ci sarà chi ci metterà in guardia dal rischio di creare malintesi e scandali. Ebbene, io vi dico che non dobbiamo dare ascolto a queste voci apprensive e timorose, sorelle e fratelli. Diamo piuttosto ascolto all’energica, fresca, decisa voce di Maria. Allora – e solo allora – potremo dire di vivere pienamente il Natale. Allora – e solo allora, solo a queste condizioni – potremo sentire il nostro cuore pervaso di pace, quella pace annunciata da Paolo ai Filippesi, la pace che custodisce cuori e pensieri in Cristo Gesù, e che altro non è se non la pace del Natale.

( Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 16 DICEMBRE 2012 (Is 40:1-8; Mt 11:2-6, 1 Cor 4:1-5)

“Consolate, consolate il mio popolo”

Com’è bello questo versetto tratto dal libro del cosiddetto terzo Isaia che parla di consolazione, ma non di natura umana. No, qui è Dio stesso che dà ordine di consolare il suo popolo. A chi lo dà, questo ordine? Vari esegeti rispondono: alle schiere celesti, alle moltitudini angeliche al servizio del Signore; e anche questo è bello, perché allude a un universo animato da infinite energie spirituali tutte mobilitate nello svolgere il ministero della consolazione a beneficio di quel popolo misero e peccatore, che pure il Signore chiama il suo popolo.

“Consolate”. Non è però questa la traduzione più precisa del verbo ebraico, che significa piuttosto “prendere forza”, “confortare” nel senso etimologico del termine. Ciò che Dio vuole per il suo popolo è dunque che questo popolo si alzi e si metta in cammino. Dio vuole dare una scossa a questo popolo inerte e pertanto vuole che il messaggio raggiunga non le orecchie, bensì il cuore di Gerusalemme: il suo nucleo vitale, la sua intimità più profonda. Abbattuto, avvilito dalla lunga schiavitù babilonese, disgregato, privato delle proprie istituzioni, della propria stessa identità, il popolo di Israele deve ora acquistare consapevolezza che, per volontà del Signore, questo stato di cose è finito, “che il tempo della sua schiavitù è compiuto”.

Questo annuncio di liberazione rivolto a Israele tocca nel profondo ciascuno di noi. Chi di noi non ha bisogno di consolazione e di conforto – se non personalmente, quanto meno in una situazione collettiva come quella che stiamo vivendo? Si tratta di una situazione che genera inquietudine, apprensione, anche desolazione: per le difficoltà concrete del presente, per l’incertezza del futuro, ma anche e soprattutto, per la grave condizione di degrado morale, culturale, spirituale nel quale versa il nostro Paese. Siamo anche noi, sotto tanti aspetti, schiavi; legati a catene che, se in parte ci vengono imposte da strutture e da realtà sulle quali non abbiamo alcun potere, in parte siamo stati invece noi stessi a forgiarci. Ecco perché siamo assetati di parole di conforto. Parole che non siano superficiali, illusorie; di queste ne abbiamo sentite e continuiamo a sentirne fin troppe. Sappiamo bene di dover sempre stare in guardia da coloro che la Scrittura denuncia come falsi profeti, falsi appunto in quanto annunciatori di false sicurezze (cfr. Ger 6: 13-14; Ez 13). La consolazione fallace è moneta corrente; la consolazione vera è rara e a volte sembra davvero introvabile. La Scrittura registra senza reticenze questo dato di fatto: Qohelet ricorda “le lacrime degli oppressi, i quali non hanno chi li consoli” (Ec 4: 1); nel libro delle Lamentazioni si constata che “[Gerusalemme] fra tutti i suoi amanti non ha chi la consoli” (Lam 1: 2).

Ma la stessa Scrittura registra anche parole di consolazione/conforto autorevoli come questa di cui si fa interprete Isaia: parola autorevole perché pronunciata da Dio, e perché non si tratta di consolazione a buon mercato. Essa può infatti venire offerta da Dio solo dopo che è stato ristabilito il giusto rapporto tra Israele e il suo Dio, dopo che il debito di Israele è stato pagato. È così che Israele può rialzarsi, mettersi in marcia, continuare il cammino. E lungo questo cammino incontrerà il Signore. Questo lo annuncia una voce, “la voce di uno che grida”: forse il profeta stesso, ma l’identificazione della “voce” non ha molta importanza. Importante è ciò che la voce grida. La voce grida che il Signore si farà incontrare lungo una strada aperta nel deserto, una strada costruita appianando ogni dislivello, una strada pianeggiante e rettilinea. Una strada che deve consentire a chi ritorna da Babilonia a Gerusalemme di andare in processione festosa, senza fatica e senza deviazioni, con gioia, verso il Signore; ma è, allo stesso tempo, una strada preparata per il Signore, una strada nella quale risplenda e si manifesti al mondo intero la sua gloria. Questo è il compito al quale è chiamata Israele: eliminare tutti gli ostacoli alla costruzione di quella che deve essere “la via del Signore”.

Una via che va costruita nel deserto, nei luoghi aridi. Anche questa immagine simbolica, pur venendo da una cultura e da un’epoca così lontane da noi, pur appartenendo a un linguaggio che non è il nostro, ci coinvolge direttamente e profondamente: perché ciascuno di noi sa benissimo che “deserto”, “luogo arido”, è molto spesso il nostro cuore che, come quello di Gerusalemme, ha un disperato bisogno di conforto. E “deserto”, “luogo arido”, bisognoso di consolazione e di conforto che lo rendano verde e fertile, è molto spesso anche il mondo, la società intorno a noi. Ma perché i nostri luoghi aridi, individuali e collettivi, vengano irrigati e resi verdi e fertili, è necessario obbedire alla chiamata di questa voce che grida esortandoci a preparare la via, ad appianare le nostre asperità così da renderci disponibili alla sua venuta. Il “come” concretamente realizzare questo ci viene suggerito da Paolo allorché esorta i Corinzi a essere fedeli amministratori dei misteri di Dio. Il che altro non significa se non annunciare e testimoniare con la nostra vita il progetto di Dio, che è un progetto di salvezza e di liberazione, quindi di consolazione, nei confronti dell’umanità intera.

Una testimonianza tale da far intravedere qualcosa del regno che viene. Nel vangelo di Matteo, la predicazione di Gesù è accompagnata da fenomeni prodigiosi quali la guarigione da malattie e da disabilità, addirittura la risurrezione dalla morte – e poi quello che è l’evento più straordinario di tutti, una buona notizia annunciata ai poveri. Nel Nuovo Testamento i poveri sono sì coloro che non hanno abbondanza di beni materiali, ma sono soprattutto coloro che sanno di non essere autosufficienti, che sentono dentro di sé dei vuoti da colmare, che si sentono “luoghi aridi” bisognosi di pioggia, per usare il linguaggio di Isaia; che sentono la necessità di essere confortati. In quanto tali, sono aperti ad accogliere il lieto annuncio della grazia e del regno. Ecco: direi che essere “fedeli amministratori” significa fare nostro questo atteggiamento di apertura, accogliere l’Evangelo non però per tenerlo per noi, ma per testimoniarlo ad altri “poveri” come noi. Questo deve essere il nostro impegno; a noi – ci ricorda Paolo – spetta eseguire il compito, non valutare, giudicare i risultati. Non solo perché questo compete a Dio e non a noi, ma perché non saremmo in grado di farlo: troppe cose, in questa vita, restano per noi oscure e nascoste. Ma su una cosa possiamo essere tranquilli: se saremo amministratori fedeli, i risultati ci saranno, anche se forse noi non ce ne renderemo conto. E questi risultati si possono sintetizzare così: far sbocciare potenzialità di vita là dove, all’apparenza, sembra regnare solo la morte.

Far sbocciare la vita? Ma il destino finale di ogni essere umano non è forse la morte? Questo è ciò che grida un’altra anonima “voce” nei versetti di Isaia, in un dialogo serrato del quale è difficile riuscire a identificare gli interlocutori. All’annuncio della consolazione, all’annuncio della costruzione della strada, segue adesso un terzo annuncio che altro non è se non una amara constatazione del carattere effimero, transitorio della natura umana e di tutto ciò che riguarda l’essere e l’agire umano: “ogni carne è come l’erba […] tutta la sua grazia è come il fiore del campo”. Immagini di straordinaria suggestione e, al tempo stesso, inesorabili. Di ciò che è “carne”, cioè umano, nulla si salverà, nulla sopravviverà. Anche questa immagine è ricorrente nella Scrittura; il terzo Isaia la ripropone più avanti, in un versetto in cui Dio si presenta nuovamente come unico sicuro e affidabile consolatore di Israele “Io, io sono colui che vi consola; chi sei tu che temi l’uomo che deve morire, il figlio dell’uomo che passerà come l’erba?” (Is 51: 12). Qui, però, la caducità umana che Dio mette in risalto è quella dei nemici di Israele: usando un linguaggio colloquiale, potremmo dire che destinati a scomparire nel nulla sono i “cattivi”. Nel passo di Isaia sul quale stiamo riflettendo, invece, è proprio di Israele che si parla, del popolo del Signore, di quel popolo che il Signore stesso ha appena dichiarato di voler confortare. Anche quel popolo amato e privilegiato finirà come erba che appassisce, buona solo per essere gettata nel fuoco.

Per noi, questo memento mori può suonare angoscioso, quasi insopportabile; sì, anche per noi cristiani, sebbene la nostra fede ci insegni che l’ultima parola non spetta alla morte. Eppure credo sia salutare anche per noi essere costretti a ricordare che tutti gli esseri umani si trovano accomunati dalla condizione di “erba”, e che a tale condizione può sottrarsi soltanto chi apre il suo cuore a Dio, lasciandosi confortare da Lui, trovando cioè in Lui e in Lui soltanto la sua forza, nella consapevolezza, ribadita da Isaia, che l’unica realtà che non verrà mai meno è la parola del Signore. Per il resto, non è certo questa la sede per discutere (lo si potrebbe fare a lungo) su ciò che la morte significava per l’antico Israele e su ciò che significa per noi cristiani. Preferisco affidare alla vostra riflessione questa espressione di Karl Barth: “l’uomo come tale non ha alcun aldilà, non ha bisogno di averne, perché Dio è il suo aldilà”. Una sorta di traduzione, in linguaggio moderno, del “grido” di Isaia, che si risolve in un meraviglioso invito a concentrarci non sulla paura di morire, bensì sulla responsabilità di vivere.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 9 DICEMBRE 2012 (Lc 16:1-9, Os 6:6, Rm 13:8)

IL FATTORE INFEDELE

La parabola del fattore infedele ha sempre creato difficoltà sia agli esegeti, sia ai semplici lettori come noi. Infatti, non possiamo nasconderci che trovare nel Nuovo Testamento una storia di disonestà premiata ci lascia quanto meno sconcertati. Qui Gesù si esprime con parole di approvazione per questo farabutto di un fattore che in primo luogo va in rosso lui e poi è tanto privo di scrupoli da mettere gli altri in obbligo con sé stesso contro gli interessi del suo padrone, nel momento in cui la bufera sta per scoppiargli sulla testa. Lo licenzieranno, questo è certo, ma lui ha la fondata speranza di trovare, in quel momento, degli amici. Un calcolo così è una truffa bella e buona! È questo che non si riesce a capire: come può Gesù lodare e proporre a modello una truffa come questa? Certo, potremmo pensare che questo racconto rappresenti quanto meno una testimonianza convincente del fatto che Gesù era dotato di senso dell’umorismo e indubbiamente in questo c’è del vero; tuttavia, sarebbe riduttivo accettare questa storia come un semplice racconto umoristico. Si tratta, al contrario, di un racconto molto serio, che ci parla dell’ultima, estrema possibilità che ci resta quando il giudizio è incombente, quando veniamo messi alle strette.

Cominciamo con il partire dal presupposto che tutto quello che viene detto qui sia riferito a noi. In tal caso il bilancio della nostra vita, che Gesù pretende da noi, si presenta esattamente come un’incombente resa di conti. Noi siamo nella stessa situazione di questo fattore: abbiamo amministrato in un modo così disastroso che, alla fine, non è più possibile porvi rimedio. Siamo debitori, sempre, quali che ne siano le cause, qualunque sia la nostra situazione, qualunque sia la nostra storia personale. Alcuni di noi possono indebitarsi per negligenza, altri per errori di valutazione, altri per mancanza di adeguate cognizioni, altri ancora per mancanza di coraggio… Non importa come e in che misura: la verità è che siamo tutti nei guai, e che Gesù vuol farci capire che questa è la nostra situazione davanti a Dio. Se si procede secondo i princìpi della giustizia, tutti quanti verremo un giorno smascherati come cattivi amministratori: al massimo potremmo ammetterla, la nostra cattiva amministrazione, ma non potremo certo risanarla.

Così appare la nostra vita, se la consideriamo con gli occhi di Dio. Possiamo credere – speriamolo, almeno! – di aver avuto nel complesso delle buone intenzioni, nel corso della nostra esistenza; di aver cercato, da credenti, di compiere nei limiti delle nostre possibilità ciò che ci sembrava il Signore ci richiedesse. Ma che dire di tutti i momenti in cui ci siamo negati per stanchezza del cuore, per debolezza dello spirito, per poca energia del corpo? Che dire di tutte le occasioni in cui abbiamo avuto troppo poco tempo per le persone che avevano bisogno di noi, in cui abbiamo avuto troppo poca fantasia per portare idee nuove che aiutassero a risolvere situazioni difficili? Non che per questo dobbiamo definirci “cattivi”. Spesso, semplicemente, eravamo stanchi, eravamo oberati da impegni, non ne potevamo più – ma il bisogno c’era, e la nostra inadempienza resta, come un dato di fatto. E poi, pensiamo ai grovigli affettivi e psicologici che ci legano alle altre persone, spesso a persone che ci sono molto vicine, molto care, che amiamo sinceramente, ma alle quali finiamo per far del male senza assolutamente volerlo, o alle quali non riusciamo a offrire aiuto, pur desiderandolo intensamente, in momenti di difficoltà. Che cosa si deve fare, che cosa si può fare, quando ci si sente colpevoli nonostante si siano nutrite le migliori intenzioni, e si è incapaci di riparare in qualche modo il male involontariamente commesso?

Se ciascuno di noi riflette sulla propria vita, sulle proprie esperienze, o sulle esperienze di chi gli è vicino, non faticherà a comprendere che di questi fallimenti la vita è intessuta. Certo, ci viene detto e ripetuto – e noi diciamo e ripetiamo a noi stessi – che possiamo ritenerci responsabili soltanto delle colpe che abbiamo commesso avendone piena consapevolezza. Questa affermazione è vera, ma è al tempo stesso una scappatoia che non risolve niente. Sarà valida davvero per l’uomo che manda a monte il proprio matrimonio e fallisce nella professione, per la donna che non ce la fa con i propri figli, per la figlia che deve aver cura della madre anziana e malata e ne è schiacciata e precipita nella depressione, per il vecchio che è stato relegato in una casa di riposo e deve amaramente rendersi conto che i suoi figli, più che legarli a sé, li ha allontanati? A volte la vita è crudele perché ci costringe a fare i conti con la nostra realtà. Il bilancio della nostra vita rivela ciò che noi siamo, non ciò che noi vorremmo essere o ci illudiamo di essere. Cosa potremo dire, alla fine? Potremo dire che, è vero, abbiamo agito qua e là in modo sbagliato, ma che abbiamo fallito semplicemente perché siamo come siamo? Può, questo, essere addotto a nostra discolpa? O piuttosto non dovremmo dire che saremmo potuti essere completamente diversi se avessimo davvero fiutato l’aria della libertà e avessimo dimenticato la paura che ci ha tante volte bloccati e paralizzati ?

Gesù vuole far sì che ciascuno dei suoi ascoltatori arrivi a domandarsi: io, sono davvero senza colpa? Vuole che comincino a capire che, se uno li chiamasse a rendere conto secondo il criterio del dovere e dell’ordine, sarebbero tutti lì in coda, con i loro cento bat di olio e i loro cento kor di grano, e non sarebbero in grado di pagare il loro debito senza andare in rovina. Il problema che Gesù pone in questa parabola è: che cosa fare quando tutto ciò comincia a rendersi chiaro? Quando, da quei cattivi amministratori che siamo, abbiamo fatto bancarotta dilapidando tutto quanto ci era stato affidato; quando dobbiamo riconoscere di essere senza vie di uscita, di non sapere proprio come cavarcela: che fare, allora? Ecco che la parabola di Gesù ci suggerisce una via d’uscita che è davvero l’ultima: l’ultimo piccolo pertugio dal quale abbiamo ancora una possibilità di svignarcela. Gesù con questa parabola vuole invitarci ad essere concreti e a farci furbi, a renderci conto di quello che è il nostro interesse, il nostro unico interesse vitale in cielo e sulla terra. E questo interesse ci richiede di dire a noi stessi: “Adesso il criterio della giustizia non mi interessa più, perchè mi uccide; l’unica cosa che ora posso fare è vedere di che cosa hanno bisogno le persone che ho davanti. Le faccio venire, tremanti di paura – come ero anch’io fino a poco fa – e sto a sentire a quanto ammonta il loro debito e che cosa non possono rimborsare. Cento bat (2.200 litri) di olio, cento kor (22.000 litri) di frumento – nessuno può vivere con un debito così. Ecco allora che cosa faccio adesso: dimezzo il loro debito, divido per due o per tre, diminuisco il dovuto fino al punto in cui queste persone possono ricominciare a vivere”. Per sottrarsi al criterio della giustizia c’è un’unica via di uscita: quella della generosità, del perdono, di una vita misurata sul criterio del bisogno di chi mi sta davanti, non sul pareggio fra il dare e l’avere.

Per riprendere l’immagine centrale della parabola: Gesù vuole che ciascuno di noi si renda conto di avere bisogno, semplicemente per vivere, di un amministratore come quello che viene descritto qui. Uno che decurta i debiti del cinquanta per cento, del venti per cento, proprio come esige il bisogno e non la giustizia. E se per caso arriva qualcuno che vuole mettere le cose a posto e chiarire una volta per tutte, con l’indice alzato, che cosa è il diritto e che cosa è l’ordine, che cosa è buono e che cosa è cattivo, che cosa si deve e che cosa non si deve, allora – vuol dirci Gesù – ciò significa che uno così non ha ancora capito di essere, lui stesso, nei guai fino al collo. Un tipo così è uno che non ha ancora fatto il suo bilancio, non ha capito in che situazione si trova. È facile parlare di giustizia finché non si arriva a comprendere, anzi a sperimentare, quanto siano fragili gli esseri umani e quanto siamo fragili noi stessi.

Se arriveremo a comprendere che cosa Gesù intende davvero dire con questa parabola, avremo un meraviglioso commentario alla richiesta che lo stesso Gesù ci ha insegnato a rivolgere al Padre: “rimetti a noi i nostri debiti”: perché la verità è che non ci resta altro che questo, non ci resta altra possibilità che questa preghiera. Ma per poter rivolgere questa richiesta al Signore, anche noi dovremo avere rimessi i debiti ai nostri debitori: e questo significa che non saremo stati lì a guardare che cosa doveva esserci sulla bilancia della giustizia, ma che avremo guardato, invece, negli occhi e nel cuore degli altri e avremo visto di che cosa avevano bisogno. Quando abbiamo a che fare con Dio non possiamo cavarcela con la giustizia: l’unico mezzo per cavarcela è la bontà. Ce lo ricorda anche il profeta Osea, in un versetto ripetutamente citato da Gesù (Mt 9: 13; 12: 7). Certo, questa parola, “bontà”, è ambigua, a tanti di noi può dare fastidio, far pensare a qualcosa di dolciastro e anche a qualcosa che ha a che fare con doveri poco gradevoli: fa pensare, per esempio, al “sacrificio”. Ma Gesù vuole dirci tutt’altra cosa, qualcosa di molto pragmatico. Vuole dirci: “Fate una cosa utile per voi stessi: dovrebbe essere il vostro interesse, dovreste imparare a essere buoni proprio per motivi egoistici, perché nessuno può rimborsare il credito vantato dall’altro”.

Effettivamente, è una logica temeraria; anzi, a dirla tutta, è un imbroglio ardito e sfacciato, che mette fuori gioco le regole della morale, ma che costituisce al tempo stesso l’unica via di salvezza. Una via che ci insegna quale deve essere il nostro punto di partenza per trovare veramente Dio, quel Dio che abbiamo sempre sulle labbra: partire da ciò di cui abbiamo bisogno noi, e da ciò di cui hanno bisogno gli altri. Solo questa via ci porterà a scoprire Dio, e quindi a scoprire quell’amore nel quale, come ricorda Paolo ai Romani, consiste l’unico nostro debito con gli altri e, al tempo stesso, il pieno adempimento della Legge.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

News: FINANZIARE LE CHIESE VALDESI E METODISTE? UNA SCELTA DI LIBERTA’!!!

UN CAFFE’ PER LA TUA CHIESA

 

Ma cosa c’entra la nera bevanda che beviamo ogni mattina con la Chiesa?

C’entra, c’entra ….

Ma facciamo prima di tutto una necessaria introduzione.

I FONDI PUBBLICI DERIVANTI DALL’OTTO PER MILLE DELL’IRPEF ALL’UNIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE VALDESI E METODISTE, SONO DESTINATI SOLTANTO A SOSTENERE ATTIVITA’ SOCIALI, UMANITARIE, EDUCATIVE E CULTURALI, SIA IN ITALIA SIA ALL’ESTERO.

In pratica, “NON UN EURO ALLE SPESE DI CULTO!” come reclamizzava un efficace slogan della nostra campagna pubblicitaria di qualche anno fa.

E allora, di che cosa vivono le nostre Chiese?

Le attività di culto, di evangelizzazione e d’istruzione religiosa delle chiese metodiste e valdesi italiane sono finanziate SOLTANTO dalle libere offerte e dalle contribuzioni dei membri di Chiesa e dei simpatizzanti, dai doni di amici in Italia ed all’estero e dai proventi di alcuni immobili di reddito.

Questo perché riteniamo che tale posizione affermi da un lato l’indipendenza e la totale autonomia delle Chiese cristiane rispetto ai poteri pubblici, dall’altro la loro libertà e possibilità di distanziarsi da tali poteri quando lo si ritenga opportuno.

Ma perché contribuire dunque?

Le chiese metodiste e valdesi provvedono in modo diretto al mantenimento dei propri pastori e dei diaconi, ai costi per le costruzione dei locali di culto e per il funzionamento della Chiesa. Proprio per questo esse si affidano al libero contributo finanziario di ognuno. Che sia valdese, metodista o di qualsiasi altra o nessuna confessione religiosa.

Ricordati che la tua contribuzione alla Chiesa è fiscalmente deducibile dalla tua dichiarazione dei redditi fino ad un ammontare annuo di 1.032,91 euro purché tu abbia richiesto la necessaria certificazione alla Chiesa locale alla quale hai fatto l’offerta.

Ma con quanto devo contribuire?

Dice la Bibbia:

Ognuno darà quel che potrà, secondo le benedizioni che il Signore, il tuo Dio, ti avrà elargite. (Deuteronomio, 16,17)

A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà. (Luca 12, 48).

Secondo la tradizione biblica, in molte chiese evangeliche vige la prassi della decima, cioè la contribuzione del 10% del proprio reddito.

Nelle chiese metodiste e valdesi si indica invece il tre per cento del proprio reddito netto come percentuale adeguata alla copertura dei costi ecclesiastici, costi che si attengono sempre al principio di sobrietà che dovrebbe caratterizzare anche la vita dei credenti e, laicamente, quella delle istituzioni e di tutti i cittadini.

Ma deve essere una contribuzione personale: ogni membro di Chiesa titolare di un reddito, per quanto piccolo, è invitato (si badi bene, non obbligato ma invitato) a dare in modo diretto la propria contribuzione, senza delegarla alla famiglia, in base al principio protestante della responsabilità personale.

La contribuzione deve poi essere periodica: dato che le spese ed i primo luogo i pagamenti degli stipendi sono mensili, è bene che le contribuzioni dei singoli siano versate almeno ad intervalli regolari nel corso dell’anno. Ciò rende meno gravoso il tuo impegno ed è più efficace per la Chiesa.

Infine, la contribuzione deve essere proporzionale: infatti, con il 3% del tuo reddito netto le nostre chiese possono mantenere in modo dignitoso, senza alcuno sfarzo o spreco, pastori, diaconi e personale amministrativo, dando alle comunità gli strumenti necessari per svolgere in modo adeguato la propria missione: diffondere l’Evangelo di libertà e di giustizia di Gesù Cristo.

Ricorda quindi:

3%. La tua contribuzione: Personale – Periodica – Proporzionale  – Deducibile

E allora, il caffè cosa c’entra?

Quanto costa una tazzina? Un euro? Se ci va bene novanta centesimi? E se rinunciassimo ad una o a due tazzine di caffè al giorno? Sarebbero dai trenta ai sessanta euro risparmiati al mese. Dai 360 ai 720 Euro all’anno! Un bel risparmio, no?

E se li versassimo alle Chiese Valdesi e Metodiste? Quante comunità locali potremmo aiutare in questo modo?

Meno caffeina in corpo, più salute nello spirito! Da un bene voluttuario in meno ad un aiuto in più alla Chiesa di Nostro Signore. (Dai, un caffè ogni tanto ve lo potete ancora permettere!).

Ok, ma in pratica, come si può fare?

Molto semplice. Andare in banca oppure in posta e fare un versamento:

INTESTAZIONE:
CHIESA EVANGELICA METODISTA – PADOVA

C. C. POSTALE N° 13064316
 
BANCA ETICA, PADOVA
IBAN   IT52 C050 1812 1010 00000102218

CAUSALE: “Contributo per la Chiesa Evangelica Metodista, Padova” cosi’ se il CAF vuole avere la prova di ogni singolo versamento, e’ scritto chiaramente.

E per la deducibilità fiscale?

La certificazione fiscale viene emessa a marzo dell’anno successivo all’anno della contribuzione, per doni ricevuti dal 1/1 al 31/12.

Ma come verranno gestiti i miei soldi?

Si puo’ contribuire alla “cassa locale” oppure al “Fondo Ministero”.
Nel primo caso i soldi vengono gestiti come meglio ritiene il Consiglio della Chiesa di Padova (spese correnti, bollette, manutenzione, beneficenza, ecc.).
Nel secondo caso, l’intera somma viene inviata a Roma, alla sede della Chiesa Metodista.

In pratica, si può aiutare la Chiesa locale oppure la Sede Centrale.

FAI UNA SCELTA DI LIBERTA’: AIUTA LA TUA CHIESA EVANGELICA VALDESE E METODISTA PIU’ VICINA.

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 2 DICEMBRE 2012 (Lc 1: 67-79, 1 Sam 3: 1-10, Gal 4: 1-7)

IL CANTICO DI ZACCARIA (Lc 1: 67-79)

In questi versetti evangelici risuonano le parole di un profeta; o, più precisamente, di un uomo come tanti, il sacerdote Zaccaria, che lo Spirito di Dio spinge a svolgere un ruolo profetico. Zaccaria parla infatti “pieno di Spirito Santo”: perché è lo Spirito a mettere un essere umano in grado di svolgere una missione profetica dandogli chiarezza e lucidità di visione per comprendere e per annunciare a chi gli sta intorno con potenza e autorità, il progetto di Dio nei confronti del suo popolo. Zaccaria parla: ma sono, le sue, parole così vibranti di poesia da potersi assimilare a un canto; e infatti come “Cantico di Zaccaria” viene di solito citato questo passo di Luca. Il cantico è per Zaccaria lo sbocco di una vicenda umana fuori del comune. Ricordate? Dinanzi all’angelo che preannuncia a lui e a sua moglie Elisabetta l’arrivo del figlio tanto desiderato, precisando per giunta che si tratterà di un figlio destinato a grandi cose (“sarà grande davanti al Signore”: Lc 1: 15), l’ormai anziano Zaccaria ha una reazione di incredulità, di perplessità; una reazione più che ragionevole, in considerazione dell’età avanzata sua e di sua moglie. È, in fondo, la stessa incredulità con cui avevano reagito Abramo e Sara allorché era stata loro annunciata la nascita di Isacco. Con la differenza che il patriarca e sua moglie dinanzi a questo annuncio non avevano potuto trattenersi dal ridere, come se il Signore avesse voluto scherzare con loro (Gn 17: 17; 18: 12-15); Zaccaria, invece, non ha proprio nessuna voglia di ridere, ha il tono di un uomo stanco e rassegnato, convinto che l’ordine naturale delle cose non potrà mai cambiare, convinto che “per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo” (Ec 3: 1). Mi verrebbe da pensare che per questa sfiducia, per questo pessimismo Zaccaria venga punito divenendo muto fino alla nascita del figlio; Abramo e Sara non erano stati colpiti, infatti, da alcuna punizione, sebbene Sara avesse addirittura mentito al Signore, negando di aver riso. Ma forse al Signore piace chi, anche da vecchio, mantiene la capacità di ridere. Domandiamoci, però: davvero si era trattato di una punizione, per Zaccaria? In questa “pausa di silenzio” non sarà da vedere piuttosto un’occasione preziosa che gli è stata concessa, di pensare, di meditare su ciò che gli stava capitando – un’occasione che in circostanze normali forse Zaccaria non avrebbe mai avuto perché, esattamente come succede a noi, avrebbe sempre avuto qualcosa di più urgente da fare? Forse proprio grazie a questi nove mesi di “pausa di silenzio” trasformatasi in “pausa di riflessione”, quando nasce il bambino Zaccaria è pronto, gli si scioglie la lingua ed egli “profetizza” benedicendo il Signore con questo cantico, un cantico fittamente intessuto di riferimenti e anche di citazioni dalla Bibbia ebraica. Tra queste citazioni non mancano quelle dal profeta Malachia, colui con il quale si può considerare chiusa l’esperienza del profetismo ebraico. All’epoca di Zaccaria, da molto tempo non risuonavano più in Israele voci profetiche. Era come all’epoca di Eli e di Samuele: un’epoca in cui la parola del Signore era rara, in cui non erano frequenti le visioni. Ecco perché Zaccaria non aveva potuto credere che il Signore gli avesse rivolto la parola per mezzo del suo angelo. Zaccaria non credeva di poter avere visioni, perché non sapeva sognare. Si trattava della stessa situazione in cui ci troviamo al giorno d’oggi noi cristiani e le nostre chiese: la parola del Signore è rara, le visioni scarseggiano. Ma è davvero così stagnante, la situazione, o siamo noi ad averla resa tale? Questo che potremmo chiamare “silenzio di Dio” non sarà da attribuire a una nostra incapacità di ascolto? È molto significativo che proprio lo stanco, scoraggiato, muto Zaccaria rompa questa stagnazione, erompendo in un “cantico” che è sostanzialmente una preghiera di ringraziamento, poetica come lo sono i Salmi. Zaccaria ha messo a frutto la “pausa di silenzio” che gli è stata imposta. Egli era un sacerdote devoto, giusto e irreprensibile; eppure, probabilmente mai nella sua vita era riuscito ad ascoltare la parola del Signore con tanta attenzione come in quei mesi di attesa della nascita di suo figlio. Con tanta attenzione e con tanta prontezza, con lo stesso entusiasmo del giovanissimo Samuele. Il cantico di Zaccaria non è il cantico di un vecchio. È il cantico di un uomo senza età, eternamente giovane perché aperto all’eterna novità di Dio. Che Zaccaria, ritrovando la parola, abbia ritrovato anche la fresca energia della gioventù lo dimostra in primo luogo l’inizio del suo cantico. Zaccaria benedice il Signore: quindi, dimostra di essergli grato. E la gratitudine non è sentimento da vecchi. Tipico della vecchiaia è il ripiegarsi su sé stessi, il recriminare, il riandare al passato con nostalgia o con rimpianto; sempre, comunque, sentendosi defraudati di qualcosa, sempre con la convinzione di non aver nulla di cui ringraziare. Non fraintendetemi: questo atteggiamento “da vecchi” lo si può avere in qualunque età. Ne abbiamo la prova guardandoci intorno: quanti ne vediamo, di giovani che sono “vecchi” – quante ne vediamo, purtroppo, anche di comunità cristiane che in quanto tali dovrebbero essere e sentirsi eternamente giovani, e che invece sembrano paralizzate dalla vecchiaia, ammutolite come Zaccaria, incapaci di profetizzare e, prima ancora, di benedire, di riconoscere le grandi cose che Dio ha compiuto per loro, nel corso della loro storia. Eppure, giovani, e quindi capaci di benedire e di ringraziare, si può anche ritornare. Non è impossibile: Zaccaria ne è la prova. Perché Zaccaria benedice il Signore, il Dio di Israele? Il motivo è essenzialmente questo: il Dio di Israele ha confermato la propria identità di Dio fedele alle promesse, Dio che mantiene i patti, in primissimo luogo l’antico patto stretto con Abramo. “Patto”: questo termine trova orecchie particolarmente sensibili in una chiesa metodista. Come sappiamo, nelle chiese metodiste si è soliti, all’inizio dell’anno o in altre importanti occasioni, celebrare il culto del rinnovamento del patto. Lo scopo è quello di richiamare i credenti a una realtà che dovrebbe essere costantemente presente ai cristiani di tutte le chiese, di tutte le confessioni: Dio non abbandonerà mai gli esseri umani perché si è solennemente impegnato ad accompagnarli nelle loro vicende, a farli partecipi delle sue promesse. Zaccaria pone l’accento sull’azione salvifica e liberatrice di Dio, che libera dalla mano dei nemici coloro che si affidano a lui. Questo parlare di “nemici” potrebbe apparire vuoto di significato a noi, fortunati abitanti di un Paese in cui i cristiani non sono fatti oggetto di persecuzione e nemmeno vengono più perseguitati i protestanti, nei confronti dei quali alla persecuzione è subentrata, in genere, una cortese indifferenza. Eppure, i credenti di nemici ne hanno sempre, anche nel nostro tranquillo Occidente. Certo, esistono anche dei nemici esterni, ma io sto pensando soprattutto ai nemici interni: primo fra tutti, proprio quella stanchezza alla quale mi riferivo prima, quel vivere alla giornata, senza capacità di profetare, cioè di saper leggere nella storia il disegno del Signore. Talvolta, ne sono convinta, il nostro peggior nemico siamo noi stessi. È innanzitutto nei confronti di noi stessi, della nostra aridità, della nostra incapacità di sperare, di avere visioni, che il Signore si manifesta come salvatore e liberatore. Chi è stato liberato, salvato dall’azione potente del Signore viene messo nella condizione di fare ciò che il patto prevede per lui, o per lei: servire il Signore, e servirlo, come dice Zaccaria, “senza paura, in santità e giustizia”. Vivere in “santità e giustizia” non significa prefiggersi delle norme etiche e seguirle rigidamente; significa vivere “alla sua presenza”, in comunione con il Signore, abbandonandosi con fiducia a Lui e alla sua volontà. Ma mi piace molto che Zaccaria affermi prima di tutto che il servizio dell’essere umano a Dio deve essere prestato “senza paura”. Questo significa: non con spirito servile, bensì con spirito filiale, con la dignità di chi è libero perché è stato liberato, come spiega molto bene il passo della lettera ai Galati che abbiamo ascoltato. È questo lo stile di vita al quale è destinato anche il bambino nato a Zaccaria, colui che sarà Giovanni il Battista. Giovanni dovrà infatti andare “davanti al Signore” e preparare le sue vie; dare al popolo “conoscenza della salvezza”, cioè illustrare il piano dell’opera di Dio, fondato sul suo patto e sulla novità di Gesù. Dovrà testimoniare, con la sua predicazione ma anche e soprattutto con il suo agire, la misericordia di Dio che trova il suo culmine, la sua espressione più alta, nel perdono dei peccati. Ma è solo la vocazione rivolta a Giovanni, questa? Non è vocazione rivolta a tutti noi credenti, soprattutto in un momento storico così pieno di ambiguità, per non dire di peccato? Non è forse questa la vocazione rivolta alle nostre chiese? Certo, per ascoltare e accettare questa vocazione rivolta a un piccolo bambino dobbiamo in qualche modo diventare anche noi “bambini”. Ma non c’è Qualcuno che ci ha chiesto di diventare “come i bambini”(Mt 18: 2-4)? E quel Qualcuno non è per caso Quello di cui cerchiamo di essere fedeli discepoli nelle parole e nei fatti? Se è così, allora la preghiera di Zaccaria può diventare la nostra preghiera, il suo cantico il nostro cantico.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)