Eventi: GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA – 3 marzo

GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA 2013

PREPARATA DALLE DONNE DELLA CHIESA RIFORMATA DI FRANCIA

GMP

“ERO STRANIERO E MI ACCOGLIESTE”

CHIESA METODISTA – CORSO MILANO, 6 PADOVA

DOMENICA 3 MARZO ORE 11

La Chiesa Evangelica Metodista di Padova, assieme alle sorelle ed ai fratelli di altre denominazioni cristiane, con forte spirito ecumenico, celebrerà la Giornata Mondiale di Preghiera 2013 DOMENICA 3 MARZO ALLE ORE 11 presso la sua Sala di Culto in Corso Milano, 6.

La Gmp è un movimento ecumenico universale ideato da donne che con la preghiera e l’azione intendono tentare di lenire situazioni di disagio e porre segni di solidarietà. Quest’anno i testi sono stati preparati dalle donne della Chiesa Riformata di Francia e hanno per tema “Ero straniero e mi accoglieste” (Matteo 25, 35).

Essere straniero è qualcosa che ha a che fare con l’immigrazione o l’emigrazione, ma non solo. Ci separano la cultura, i concetti religiosi diversi, oppure potrebbero essere aspetti superficiali come il colore della pelle, l’abbigliamento. Vi sono vari tipi di emarginazione che rendono la vita umana più difficile e possono perfino portare alla disperazione. La preghiera di quest’anno ci suggerisce di meditare i brani biblici del Levitico 19,1-2; 33-37 e di Matteo 25, 31-46. Ogni anno il comitato organizzatore propone una colletta da destinare a vari progetti. Tra i progetti che il comitato Gmp francese ha proposto, è stato scelto quello dell’associazione Casas (Collectif pour l’Accueil des Solliciteurs d’Asile à Strasbourg), che opera da 30 anni con l’obiettivo primario di accogliere lo straniero.

Il progetto prevede l’insegnamento del francese basilare, un supporto amministrativo e legale nella preparazione della documentazione dei richiedenti asilo; accoglienza permanente con orario continuato; dono di accoglienza per aiutare i richiedenti asilo nel percorso appena intrapreso; informazione sul diritto d’asilo e proposta di momenti di scoperta del Paese d’accoglienza. Al progetto, che è di 156.000 euro complessivi (il salario di 5,5 persone di Casas), la Gmp francese contribuirà con 25.000 euro.

VI ASPETTIAMO!!!

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013 (Is 5:1-7; Rm 5:1-9; Mc 12:1-12 testo di predicazione)

“Giustificati per il sangue di Cristo”

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Questa è una parabola difficile, dura e sgradevole. Non solo perché racconta una storia terribile, nella quale nessuno si salva, ma perché ai personaggi è concessa solo l’alternativa tra due ruoli, quello di omicida e quello di vittima, con il padrone della vigna che, alla fine, questi ruoli finisce per ricoprirli entrambi. Dicevo: non c’è solo la cupezza di questo quadro d’insieme. C’è anche il fatto, purtroppo, che questa parabola è uno di quei passi neotestamentari sui quali si è esercitato e ha trovato ampio spazio di manovra l’antigiudaismo. Sappiamo benissimo tutti a quale interpretazione si può aprire questa parabola, che ha chiaramente per modello il “cantico della vigna” che abbiamo letto nel libro di Isaia. Qui si racconta di una amara delusione, la delusione provocata da una vigna che, sebbene amorosamente coltivata e curata, non ha risposto alle aspettative del suo padrone, producendo soltanto uva selvatica. Questa vigna andrà incontro a un triste destino: sarà abbandonata, ridotta a un deserto. E nell’ultimo versetto viene reso esplicito, per chi non l’avesse capito, il significato dell’allegoria: “Infatti la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta”. Ecco dunque come la parabola della vigna, che oggi ci viene proposta nella versione di Marco ma che troviamo in tutti e tre i sinottici, si è potuta leggere come una sentenza di condanna nei confronti del popolo di Israele, identificato con i vignaioli malvagi che maltrattano e uccidono gli inviati del loro padrone – cioè i profeti, ripetutamente inviati da Dio per indurre a ravvedimento il suo popolo – e infine uccidono anche l’“unico figlio diletto” del padrone, cioè l’Inviato e il Figlio per eccellenza, Gesù. La vicenda di Gesù, in questa parabola che è anche un preannuncio della passione, altro non è che l’epilogo di una lunga storia di rifiuti. Di qui la collera di Dio, che “farà perire” quello che fino ad allora è stato il suo popolo, Israele, e affiderà “la vigna”, cioè la comunità dei credenti, “ad altri”, cioè alla nascente chiesa cristiana. Credo che questa interpretazione ciascuno di noi abbia avuto qualche occasione di ascoltarla, e temo anche che sia dura a morire, che esistano tuttora ambienti cristiani in cui la parabola dei vignaioli viene letta secondo lo schema “condanna di Israele/trionfo della chiesa”. Ecco perché questa parabola facilmente suona offensiva a un orecchio ebraico. Si tratta, comunque, di una interpretazione che attualmente nessuna esegesi seria può accogliere. Si è ipotizzato che Gesù abbia preso lo spunto da un fatto di cronaca – una sollevazione in Galilea di vignaioli contro il loro padrone, culminata nell’uccisione dell’erede; e questa ipotesi può essere sufficientemente realistica. Ciò che davvero conta, però, è che da un eventuale fatto di cronaca Gesù prende lo spunto per dire qualcosa di essenziale circa il rapporto tra Dio e l’essere umano: certo, l’essere umano in un contesto storico ben preciso, quello del popolo di Israele, contesto e popolo al quale anche Gesù apparteneva. Nell’interpretare questa parabola non si può dimenticare, come si tendeva a fare in passato, l’ebraicità di Gesù, che con il suo popolo si identificava, che amava il suo popolo, che al suo popolo non avrebbe mai augurato un destino di distruzione. In questa luce, allora, chi sono “gli altri” ai quali il padrone darà la vigna? Sono stati interpretati come “i non ebrei”, invece sono semplicemente “altri”: vignaioli diversi dai precedenti, vignaioli mossi non dall’avidità e dall’invidia ma dal desiderio di eseguire la volontà del padrone, di collaborare con lui, vignaioli consapevoli che curando gli interessi del proprietario della vigna, assecondando i suoi progetti, curano anche i propri interessi e assicurano un futuro anche ai propri progetti. Così stando le cose, è impossibile per noi cristiani sentirci rassicurati da questa parabola. Gli “altri”, le persone di fiducia alle quali il padrone si rivolgerà perché coltivino e amministrino la sua vigna secondo la sua volontà, non siamo “noi” in quanto cristiani. Perché gli “altri” sono appunto, semplicemente, coloro che fanno la volontà del Signore – cosa che, come è facile constatare, non sempre fanno coloro che portano il nome di cristiani. Indubbiamente Gesù nel raccontare questa parabola aveva in mente alcuni responsabili del suo popolo, del popolo di Israele; ma la storia, e l’insegnamento che si trae da questa storia, vale ugualmente per la comunità cristiana, per tutte le chiese che portano il nome di cristiane, e per tutti i loro responsabili – il che equivale a dire, per ciascun membro di ciascuna chiesa, perché chiunque ha scelto di appartenere a una chiesa cristiana ha una parte di responsabilità nel buon andamento della chiesa stessa. Questo dovrebbe apparire evidente in particolare a noi che ci riconosciamo nella tradizione della Riforma, secondo la quale la responsabilità dei cosiddetti “laici” non è certo minore, pur nella diversità dei ruoli, a quella dei ministri consacrati. Tutti e ciascuno di noi, allora, proprio per il ruolo che rivestiamo – quello di donne e uomini che hanno un compito nella conduzione della vigna del Signore – ci troviamo continuamente esposti al rischio di interpretare la parte dei vignaioli malvagi. In che senso? Indicazioni molto precise ce le offre il seguito del cap. 5 di Isaia, nel quale al “cantico della vigna” segue immediatamente una serie di “guai” di invettiva contro i peccati di Israele. “Guai”, per esempio, a coloro che “non pongono mente a ciò che fa il Signore, e non considerano l’opera delle sue mani” (5: 12b). “Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro! Guai a quelli che si ritengono saggi e si credono intelligenti!” (5: 20-21). La fonte di tutti i guai sta nel non conoscere o non voler conoscere la verità su Dio e la verità su noi stessi, sta nel non capire o non voler capire che cosa è Dio e che cosa è l’essere umano, e quali sono i rispettivi ruoli: non si considera ciò che il Signore ha fatto e continua a fare, e si presume di noi stessi, e quel tanto di verità che si arriva a conoscere la si travisa secondo i nostri interessi, arrivando a chiamare “bene il male e male il bene”. È ovvio poi che quando si leva ad ammonirci una voce in qualche modo “profetica”, cioè una voce che ci invita a guardare le cose secondo l’ottica del Signore e non secondo la nostra, noi tendiamo a trasformarci in vignaioli omicidi. Non c’entra niente l’appartenenza a Israele o alla chiesa: questa tentazione è sempre in agguato per chiunque. I profeti, quando sono veri profeti (cioè quando sono tali per vocazione divina e non per propria scelta), inevitabilmente danno fastidio, per vari motivi: perché scombussolano il nostro quieto vivere, perché ci costringono a guardarci in uno specchio nel quale preferiremmo non guardare, perché annunciano una Parola che sempre ci contesta, perché ci richiamano alla nostra libertà di figli di Dio, e la libertà – lo accennavamo anche domenica scorsa – a volte fa paura, proprio per le responsabilità, le fatiche, anche le sofferenze che può comportare. All’apparenza, i vignaioli malvagi sembrano mossi da spirito di libertà: non vogliono più lavorare sotto padrone, vogliono essere loro i proprietari della vigna e gestirla secondo i propri interessi. Invece, proprio con questo comportamento si rivelano per quello che sono: schiavi, schiavi di un idolo che si chiama potere, l’idolo al quale si inchina quello che nel Nuovo Testamento viene designato con il termine “mondo”. Ecco: i vignaioli sono gente asservita a criteri mondani, criteri che inducono a cercare la realizzazione della propria vita nel successo, anche se questo successo lo si ottiene chiamando bene il male e male il bene, o addirittura togliendo di mezzo chi ci è di ostacolo. Lo vediamo quotidianamente, qualche volta lo abbiamo anche sperimentato, quanta gente possa venire sacrificata, metaforicamente (ma non tanto) uccisa, affinché qualcun altro abbia la strada spianata verso il raggiungimento dei propri obiettivi. Si dirà: ma questa, appunto, è la logica del “mondo”, una logica estranea ai credenti, sia che appartengano a Israele sia che appartengano alla chiesa. Magari fosse davvero così; ma lo sappiamo benissimo che così non è. Guardiamo in casa nostra, all’interno della chiesa cristiana, all’interno della chiesa valdese, della chiesa metodista, di ciascuna delle nostre chiese. Quante volte nelle nostre chiese l’opportunismo, il desiderio di conquistare e mantenere qualche briciola di potere portano a non ascoltare, a emarginare, a deridere, a soffocare le voci profetiche che pure lo Spirito continua a suscitare tra noi? Quante volte, nelle nostre chiese, quella pietra angolare che è la parola del Signore, e coloro che con maggior coerenza se ne sono fatti interpreti, hanno dovuto subire il destino della pietra scartata dai costruttori perché considerata non adeguata, o addirittura di intralcio? Eppure, la storia di Israele rivela che è su queste voci di “opposizione”, su questa parola scartata, oppressa, non compresa, umiliata, che si è costituita l’identità del popolo. È un dato di fatto, questo, sul quale anche la chiesa cristiana, anche le nostre chiese, dovrebbero riflettere. E una riflessione merita anche il comportamento del padrone della vigna. Un comportamento paradossale: capisce che le cose si mettono male, eppure continua, ostinatamente, a mandare i suoi servi, uno dopo l’altro, perdendoli tutti, fino a perdere il suo stesso figlio. Ce la mette tutta, per ottenere i frutti della vigna: per forza, per qualsiasi via, li vuole ottenere. È un’ostinazione che per noi si trasforma in segno di speranza: perché il nostro Dio è un padrone che non si rassegna alla nostra aridità, che non si dà e non ci dà pace prima di aver ottenuto i frutti che gli spettano. In altre parole: Dio è un padrone della vigna che non abbandona i vignaioli a loro stessi, per quanto siano malvagi. La morte del suo Figlio non ha scatenato la sua ira su di noi, pur essendo noi suoi nemici: al contrario, ci ha salvati dall’ira, come annuncia Paolo ai Romani. “Giustificati per il sangue di Cristo”: è questa la nostra identità di vignaioli omicidi eppure salvati. Solo se accetteremo questa identità, allora per noi ci sarà davvero salvezza.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 17 FEBBRAIO 2013 (Is 61:1-2; Gv 8:31-32; Gal 5: 13 testo di predicazione)

17 FEBBRAIO: FESTA DI LIBERTA’

“La Libertà vi farà liberi” (Gv 8:32)

Proprio di domenica cade quest’anno la ricorrenza del giorno, 17 febbraio 1848, in cui re Carlo Alberto dichiarava i valdesi “ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de’ nostri sudditi, a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici”. Diritti civili e politici ai valdesi e tolleranza per il loro culto: nozioni scontate e superate per noi, ma che all’epoca significarono la fine di una plurisecolare emarginazione e aprirono la strada a ulteriori conquiste future. La corretta definizione di questo evento è “Emancipazione dei valdesi”, ma nell’uso corrente si è soliti parlare del 17 febbraio come di “Festa della libertà valdese”: una festa che ormai è stata fatta propria anche dai metodisti e da tutto il protestantesimo “storico” italiano che in questa occasione si sente sollecitato a riflettere sulla propria storia, rileggendola nell’ottica che è propria di tutto il protestantesimo: l’ottica, appunto, della libertà. È ciò che mi propongo e che vi propongo per questa specialissima domenica: riflettere sul rapporto inscindibile, indissolubile, tra protestantesimo e libertà, tra cristianesimo e libertà. E a questo scopo nessun testo biblico può farci da guida meglio di quel vero e proprio “manifesto della libertà cristiana” che è la lettera ai Galati, della quale ho scelto un solo, ma densissimo, versetto. Che cosa ci dice questo versetto? Ci dice, in primo luogo, che essere cristiani vuol dire essere liberi, ma che in particolare essere protestanti vuol dire essere liberi. Perché questa identità tra cristianesimo e libertà che nella Chiesa era ormai da secoli offuscata, per non dire sepolta, è stata prepotentemente riportata alla luce da Lutero. Liberare le coscienze e dare loro, per fede, la certezza della grazia: questo è stato il grande dono di quel grande movimento di liberazione che è stata la Riforma. Recentemente Fulvio Ferrario, docente di teologia sistematica alla Facoltà Valdese di Teologia, in un bell’intervento sul tema La Chiesa cattolica e il Cinquecentenario della Riforma protestante ha dichiarato di dovere, come protestante, “gratitudine a Dio per il dono della Riforma: per il dono di una fede vissuta, per quanto indegnamente, nel segno della libertà”. Essere protestante vuol dire assumere, in modo cosciente e coerente, la responsabilità, il peso, il rischio e la gioia della libertà. “Libertà” è parola affascinante, che trova in ogni essere umano un’eco immediata e profonda; una parola che risveglia l’essere umano, lo suscita alla vita. Ma qui appare una grossa contraddizione: se da un lato la libertà corrisponde a un’esigenza insopprimibile dell’essere umano, gli è essenziale, vitale, d’altro lato essa comporta responsabilità e doveri talvolta difficili da reggere. La libertà non rende più facile la vita umana. Ecco perché l’essere umano non può vivere senza la libertà, ma non sa vivere con la libertà; ama la libertà, ma è inadeguato alla libertà, ne ha anzi un’inconfessata paura. Per questo la libertà è così scarsa e precaria nel nostro mondo. Allora, dov’è l’essere umano veramente libero? Dov’è il mondo veramente libero? Dov’è la Chiesa veramente libera? Se cerchiamo una risposta in questo versetto della lettera ai Galati, ci troviamo di fronte a un discorso sulla libertà davvero sorprendente. La prima sorpresa ci coglie appena iniziato il testo: “Perché, fratelli, voi siete stati chiamati a libertà”. Perché deve essere chiamato alla libertà, l’essere umano? Non è forse libero? Proprio questa è la prima cosa che il testo ci chiede: che consideriamo e viviamo la libertà non come qualcosa di scontato, ma come una domanda che ci interpella, come un problema aperto. Io sono chiamata alla libertà. Ma allora, questo significa che forse non sono così libera come credo. In effetti, la Bibbia non mi annuncia: sorella, tu sei libera. Mi dice, prudentemente: sorella, tu sei chiamata alla libertà. La libertà è ancora davanti a te. È la tua mèta, il tuo avvenire, il tuo compimento, il tuo destino. È esterna a te. Tu non possiedi la libertà, tu vai verso la libertà; la libertà è la tua vocazione. E chi ti chiama alla libertà? Dio, dice la Bibbia – tutta la Bibbia, per esempio i versetti di Isaia che abbiamo ascoltato. Anche questo ci sorprende, perché nel comune modo di pensare di coloro che sono scettici nei confronti della religione, ma anche di tanti credenti, Dio è considerato il limite piuttosto che la sorgente della libertà. E invece, Dio ama la nostra libertà più di quanto la amiamo noi. Egli è libero, e desidera che lo seguiamo come esseri umani liberi. Perciò ci chiama alla libertà. È un appello, non un comando, perché nessuno può essere forzato alla libertà. Rispondere all’appello di Dio alla libertà e riecheggiarlo, renderlo “buona notizia” per gli umili, gli infelici, gli schiavi e i prigionieri, come dice Isaia: ecco cosa vuol dire essere protestanti. Risuona, questo appello, nella Chiesa di oggi? Non sembra. Non certo nella Chiesa romana, che sembra aver quasi paura della libertà, che della libertà evidenzia sempre i rischi anziché i benefici. Per quanto riguarda le Chiese protestanti, a cominciare dalla nostra, forse non vi troviamo altrettanta paura della libertà; vi troviamo piuttosto ciò che chiamerei una libertà non messa in pratica, una libertà ignorata, trascurata, accantonata. Ebbene, essere protestanti vuol dire riscoprire e praticare la libertà. È appunto ciò che intende Paolo quando prosegue dicendo: “non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne”. Anche questo ci sorprende: che cosa intende dire l’apostolo? Intende dire che siamo chiamati non a lodare la libertà, ma a usarla. Perché l’uomo è libero soltanto quando applica la propria libertà. L’uomo non libero non è quello che non ha libertà, ma quello che non la usa. Una libertà non utilizzata diventa presto ciò che potremmo definire una libertà arrugginita, una libertà ammuffita; il che equivale a una libertà perduta. Perciò alla domanda: che vuol dire essere protestanti? risponderemmo così: vuol dire non tanto esaltare la libertà, ma praticarla. Il rischio peggiore per la Chiesa protestante oggi non è una carenza di libertà, ma una carenza nell’uso della libertà. Ma come la si deve usare, questa libertà? Risposta di Paolo: non in modo da “vivere secondo la carne”. In sostanza, si può dire che “vivere secondo la carne” significa vivere secondo qualcosa di diverso dalla croce di Cristo. Dove regna la “carne”, cioè il criterio umano, sparisce la croce. Un cristianesimo “carnale” passa accanto alla croce e non porta la propria croce, è insomma un cristianesimo senza croce. Il retto uso della libertà è quello che dà spazio alla croce di Cristo; vorrei dire che la croce è l’altra faccia della libertà. Questo, secondo me, lo si verifica soprattutto nel rapporto tra libertà e verità. Spesso noi tendiamo a tacere o a sorvolare sulle verità in qualche modo sgradevoli. Sulle verità che potrebbero creare attriti o disagi con l’interlocutore, con chi ci sta vicino: nel dialogo ecumenico, per esempio, si tacciono molte cose, molti pensieri non vengono esternati. La croce della verità viene evitata, si preferisce la pace della mezza verità. Ebbene, che vuol dire essere protestanti? Vuol dire condurre il dialogo ecumenico in modo tale che al di sopra delle verità confessionali sia messa in luce la verità dell’Evangelo. Perché “la verità vi farà liberi”: lo abbiamo ascoltato nel vangelo di Giovanni. Chi si accontenta di mezze verità è libero solo a metà. Ma questo non vale soltanto nel dialogo ecumenico. Vale, per esempio, anche nel rapporto dei cristiani e delle Chiese con le potenze e con i potenti del mondo, o anche, molto più semplicemente, nel rapporto con la mentalità, le opinioni, i pregiudizi della società che ci circonda. Chi, in nome appunto della verità dell’Evangelo, obietta, contraddice, non segue la corrente, dovrà in qualche modo soffrire, andare incontro alla croce. Che cosa richiede, allora, l’essere protestanti? Richiede che alla verità dell’Evangelo venga data la precedenza su ogni criterio mondano. E ancora: liberi lo si diventa davvero se siamo disposti ad applicare la verità evangelica anche e innanzitutto nei confronti di noi stessi. Essere protestanti significa riuscire a lasciar cadere le immagini false e idolatriche che abbiamo costruito di noi stessi, e guardarci allo specchio alla luce del solo Evangelo. Continua Paolo: “ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri”. Il servizio è la più alta realizzazione della libertà, e l’amore è l’humus da cui nasce la libertà. Che cosa significa “servite gli uni agli altri”? Questa esortazione si può leggere con due accentuazioni. La prima: “l’uno serva l’altro” e viceversa. Viene così espressa la reciprocità sostanziale della libertà cristiana. La libertà è reale soltanto quando è reciproca, cioè quando è uguale per tutti. Io non sono libero se tu non lo sei. Se la mia libertà comporta la tua schiavitù, non è una libertà genuina. O siamo tutti uguali nella libertà, o siamo, tutti, non veramente liberi. La libertà evangelica non è una libertà sotto l’altro (che è, in fondo, la libertà nella concezione cattolica) ma con l’altro. Essere protestante vuol dire realizzare la reciprocità della libertà in modo tale che la libertà dell’uno possa essere scambiata con quella dell’altro. Seconda accentuazione: “l’uno deve servire l’altro”. Il teologo valdese Paolo Ricca negli ultimi tempi ha molto riflettuto sul concetto di “servizio” in senso evangelico, e di questa parola, “servire” (che a noi può suonare sospetta, o quanto meno difficile da accogliere) ha dato una volta questa definizione, che a me sembra molto felice: “servire significa aiutare a vivere, e a sperimentare un po’ di felicità”. E poi ha soggiunto: “il servizio più alto che si può rendere all’altro, è mettersi al servizio della sua libertà”. Dunque, a questo siamo chiamati: a servire alla libertà degli altri. Non a godere privatamente la nostra libertà, ma a considerarla e a viverla come servizio reso alla libertà dell’altro. Questo è essere protestanti. Solo se ne saremo consapevoli, e cercheremo di agire di conseguenza, celebreremo degnamente la festa di oggi, la festa del 17 febbraio, la festa della libertà.

(Predicazione a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

 

Eventi: BUON 17 FEBBRAIO A TUTTI GLI AMANTI DELLA LIBERTA’ !!!

CARLO ALBERTO
per grazia di Dio
re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme
duca di Savoia, di Genova, ecc. ecc.
principe di Piemonte, ecc. ecc.

Prendendo in considerazione la fedelta’ ed i buoni sentimenti delle popolazioni Valdesi, i Reali Nostri Predecessori hanno gradatamente e con successivi provvedimenti abrogate in parte o moderate le leggi che anticamente restringevano le loro capacita’ civili. E Noi stessi, seguendone le traccie, abbiamo concedute a que’ Nostri sudditi sempre piu’ ampie facilitazioni, accordando frequenti e larghe dispense dalla osservanza delle leggi medesime. Ora poi che, cessati i motivi da cui quelle restrizioni erano state suggerite, puo’ compiersi il sistema a loro favore progressivamente gia’ adottato, Ci siamo di buon grado risoluti a farli partecipi di tutti i vantaggi conciliabili con le massime generali della nostra legislazione.
Eppercio’ per le seguenti, di Nostra certa scienza, Regia autorita’, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo quanto segue:

I Valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de’ Nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle Universita’, ed a conseguire i gradi accademici.

Nulla e’ pero’ innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette.
Date in Torino, addi’ diciassette del mese di febbraio, l’anno del Signore mille ottocento quarantotto e del Regno Nostro il Decimottavo”.

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013 (Num 11:10-15; Lc 18:31-34; At 16:6-15 testo di predicazione)

Apriamo gli occhi ai sogni e alle vie nuove che il Signore ci indica nei sogni

Care sorelle e cari fratelli, tutti noi abbiamo dei progetti. Non importa quale sia la nostra età anagrafica, non importa quali siano le nostre condizioni sociali, economiche, culturali; non importa nemmeno che godiamo di buona salute, perché in qualsiasi circostanza, anche nelle più difficili, ci è data la possibilità di prefissarci delle mete, degli obiettivi e di impegnarci al massimo, pur nei limiti delle nostre forze e delle nostre possibilità, per realizzarli. Può trattarsi di obiettivi modesti, limitati, ma anche questo non ha importanza: l’importante è la consapevolezza che il “guardare oltre” per poter “andare oltre” sono, al tempo stesso, un dono concesso e un impegno assegnato a ciascun essere umano secondo il progetto del Signore: perché anche il Signore ha un progetto su ciascuno di noi. E qui sorgono i problemi: perché talvolta, anzi abbastanza frequentemente, i nostri progetti non coincidono con i progetti del Signore e questo riguarda anche quelli che sembrano corrispondere in tutto alla volontà del Signore che sembrano portarci a lavorare per il Signore. Ne abbiamo una conferma in questo passo degli Atti degli Apostoli. Anche Paolo e i suoi collaboratori avevano un progetto. Ma questo progetto lo veniamo a conoscere solo incidentalmente, in negativo, come un progetto abortito sul nascere, annullato. Ce lo dice quello che definirei il versetto chiave di questo passo, lo strano versetto “lo Spirito Santo vietò loro di annunziare la parola in Asia”. Paolo e i suoi intendevano probabilmente predicare l’Evangelo nelle regioni di Efeso, Smirne e Pergamo, prendendo contatto con le colonie giudaiche ma anche con i pagani del luogo. Che c’era di male? Si trattava, secondo ogni apparenza e secondo ogni criterio umano, di un progetto degnissimo, encomiabile, perfettamente in linea con quanto stabilito dalla conferenza di Gerusalemme, che aveva sancito l’apertura ai pagani. Eppure, lo Spirito Santo non lo permette. Paolo e gli altri puntano allora verso le grandi città della Bitinia sul Mar Nero, Nicomedia, Nicea; ma anche qui interviene a bloccarli lo Spirito. Certo, il gruppo di Paolo era animato dalle migliori intenzioni, e questi aspiranti missionari dovevano sentirsi estremamente frustrati vedendosi incapaci di raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati e condannati a un vagabondaggio casuale, senza meta apparente. Credo che per molti di noi non sarà difficile riconoscersi nella loro delusione, nel loro sconcerto, nella loro perplessità. Avevano pianificato un perfetto itinerario, a gloria del Signore, e ora il Signore sembrava divertirsi a mettere loro i bastoni tra le ruote. Evidentemente il Signore voleva qualcosa di diverso da loro, ma che cosa? A rivelarlo a Paolo e ai suoi collaboratori è un sogno; un sogno al quale essi decidono di affidarsi senza esitazioni. Si tratta di un momento decisivo, gravido di conseguenze, un momento la cui importanza è sottolineata, nel testo, dal passaggio dalla terza alla prima persona plurale: forse per coinvolgere maggiormente i lettori, forse perché alla base di questo testo c’erano appunti, una sorta di “diario di viaggio” redatto dai protagonisti. L’invocazione del macedone apparso loro in visione spalanca strade nuove e impreviste; il fallimento dei progetti precedenti lascia libero campo al nuovo piano ideato e attuato dallo Spirito. Naturalmente i protagonisti umani non sono automi manovrati dall’alto; sono liberi esseri umani, liberi e abbastanza dinamici per seguire con elasticità e fantasia le nuove strade che le circostanze storiche lasciano aperte. Sono tanto liberi e ricchi di fantasia da affidarsi a un sogno. Chi potrebbe affidarsi a un sogno, oggi, se non per raccontarlo allo psicanalista? Invece, Paolo e i suoi disegnano il loro nuovo itinerario sulla base del sogno, e sulla base del sogno vanno a Filippi, allora una grande città che idealmente congiungeva Roma con l’Oriente. Lo Spirito dunque ha portato Paolo e i suoi amici in una metropoli pulsante di vita, in un luogo dove “le cose avvengono”, un luogo che offre molte possibilità. Eppure, essi non stabiliscono un piano di lavoro, non cercano dei collegamenti sul posto, sembrano addirittura non sapere bene dove andare. Cercano una sinagoga per cominciare ad annunciarvi l’Evangelo, ma a Filippi una sinagoga non c’è; c’è solo un luogo di preghiera a cielo aperto, lungo un fiume o torrente adatto per le abluzioni rituali. Ci vanno, a questo luogo di preghiera, e trovano una riunione di sole donne. Come mai? Forse la locale comunità giudaica era così esigua da non annoverare quasi nessun uomo? Certo è che altri, a questo punto, avrebbero salutato e se ne sarebbero andati altrove. Gli apostoli invece predicano a queste quattro donnette, ed è notevole che questa è l’unica volta nel NT in cui un gruppo di sole donne, riunito per un atto cultuale, diventa destinatario della predicazione dei missionari. Tra queste donne che ascoltano la predicazione di Paolo c’è Lidia, che oltre ad essere donna è per giunta non ebrea, è una pagana, sebbene spiritualmente vicina al giudaismo. Ma è non è una donnetta qualunque: è una signora di buona condizione sociale e, diremmo noi, “in carriera”; è un’imprenditrice, una donna d’affari che commercia in un genere di lusso quale la porpora e dispone di una casa sufficientemente grande per dare ospitalità ai missionari ed accogliervi il primo nucleo della comunità cristiana. Perché a Lidia “il Signore aprì il cuore” e, per volontà e opera dello Spirito (non certo per merito di Paolo) questa pagana chiede di essere battezzata insieme con la sua famiglia. Perché proprio lei, tra tutte le donne che avevano ascoltato le parole di Paolo? Non sappiamo dirlo. Anche questo è uno “scherzo” dello Spirito. Comunque sia, questa donna diventa la prima europea cristiana. È l’antenata nella fede di tutti noi. Senza Lidia, oggi noi non saremmo qui. Non saremmo qui con i nostri progetti, progetti spesso frustrati e vanificati, proprio come i progetti di Paolo e dei suoi amici. Non saremmo qui a lamentarci, perché questo è uno dei tanti elementi che ci distinguono da Paolo e dagli altri primi membri della comunità cristiana e primi evangelizzatori: che loro non si lasciavano scoraggiare da nulla, mentre per noi sconforto e recriminazione sono atteggiamenti abituali. Il nostro ritratto lo troviamo non tanto in questi versetti degli Atti che ci dipingono il gruppo guidato da Paolo, un gruppo animoso, instancabile, fiducioso a dispetto di tutto e di tutti; il nostro ritratto lo troviamo piuttosto nel passo dei Numeri nel quale il popolo di Israele che “piagnucolava in tutte le famiglie, ognuno all’ingresso della propria tenda” ha ridotto all’esasperazione e quasi alla disperazione un Mosè che non sa più dove sbattere la testa. Anche noi piagnucoliamo, ci lamentiamo, ognuno nella propria chiesa e della propria chiesa. Siamo in pochi, una volta eravamo molti di più (basta guardare le vecchie foto di gruppo, basta ascoltare i ricordi dei più anziani tra i membri di chiesa…). Lavoriamo tanto, come lavoravano i nostri padri nella fede, eppure quelli mietevano successi mentre noi non troviamo ascolto… Credo sia un po’ il destino dei cristiani, questo faticare per l’opera del Signore e trovarsi poi, troppo spesso, con un pugno di mosche in mano. In particolare, almeno in Italia, credo sia questo il destino dei protestanti. Tanti protestanti in passato, fin dal ‘500, hanno avuto progetti luminosi che non sono andati in porto: costruire il regno dei santi, convertire l’Italia alla Riforma… Ciò che hanno ottenuto in passato è stata la persecuzione; ciò che ottengono, ciò che otteniamo adesso, non di rado è l’indifferenza. Tutto questo non ci piace. Non è quello che noi avremmo desiderato, che noi desideriamo; ma, soprattutto, ci sembra che ciò non corrisponda alla volontà del Signore. In altri termini: noi non riteniamo credibile che nel progetto del Signore possa rientrare anche un fallimento: che sia proprio lo Spirito a non consentirci di raggiungere la nostra Efeso, la nostra Smirne, la nostra Pergamo, la nostra Nicomedia, la nostra Nicea. Eppure, il passo di Luca che abbiamo ascoltato dovrebbe farci capire che nei piani del Signore può rientrare il fallimento più terribile, più inaccettabile di tutti, quello della croce. È possibile che anche per le nostre chiese, anche per noi, in un determinato momento o periodo storico, sia proprio nella croce e con la croce che tutto ciò che doveva compiersi viene portato a compimento. Ma questi stessi versetti di Luca ricordano che la croce non si esaurisce, non si può esaurire in sé stessa. La croce in sé non ha senso, e certo non può rientrare nel progetto di Dio. Del progetto di Dio, invece, fa parte la croce seguita dalle resurrezione; dunque, se solo avessimo fede saremmo certi che ogni nostro apparente fallimento porta alla resurrezione. Certo, porta alle resurrezione per vie misteriose e oscure, come misterioso e oscuro suona ai discepoli il discorso di Gesù: “non capivano ciò che Gesù voleva dire”. Anche per noi è molto difficile capire ciò che Gesù e il suo Spirito vogliono dirci attraverso le croci, i fallimenti che incontriamo sul nostro cammino. Non lo capiamo, e quindi piagnucoliamo e ci lamentiamo, come il popolo di Israele. E non teniamo conto che forse questi fallimenti avvengono perché noi non siamo liberi e disponibili come Paolo e i suoi collaboratori. Perché restiamo attaccati al nostro progetto, senza accorgerci che il Signore non vuole che lo mettiamo in esecuzione e vuole, invece, che anziché al progetto ci affidiamo al sogno, per cercare e trovare tutte le Lidie che il Signore vuole farci incontrare, tutti coloro che per qualche motivo sono “marginali”. Apriamo gli occhi, sorelle e fratelli; apriamo gli occhi ai sogni e alle vie nuove che il Signore ci indica nei sogni.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

Eventi: LEZIONI DI LAICITA’

Da sempre in prima linea per la battaglia in favore della laicità dello Stato e contro ogni ingerenza “confessionale” da qualunque parte provenga:

La Chiesa Evangelica Metodista di Padova, in collaborazione con la libreria IBS (ex Mel Books) dal mese di Febbraio fino a Maggio, presenterà una serie di volumi sulla laicità dello Stato.

Proprio per il fatto di essere una chiesa cristiana, la nostra Chiesa dice, ancora una volta e con rinnovata forza:

– SI’ alla libertà di ricerca

– SI’ al testamento biologico

– SI’ alla libertà di religione, di pensiero e di coscienza

– SI’ alla libertà nelle scelte procreative

– SI’ all’autodeterminazione delle persone in tutti i campi

– NO all’omofobia

Insomma, la Chiesa Evangelica Metodista (Unione delle Chiese Evangeliche Valdesi e Metodiste) di Padova ribadisce che lo Stato debba essere, necessariamente, LAICO.

Con questa rassegna, la nostra Chiesa desidera infine sensibilizzare l’opinione pubblica perché, anche a Padova, si costituisca una “Consulta per la laicità dello Stato”.

                                                  Prossimo appuntamento:

MERCOLEDì 13 FEBBRAIO ALLE ORE 18

LIBRERIA IBS
VIA MARTIRI DELLA LIBERTÀ, 1/A (angolo Piazza Insurrezione)

IL PROF. GILBERTO MURARO (già Rettore dell’Università di Padova) presenta il volume: Lezioni di Laicità. Torino, Claudiana, 2011. Quaderni di laicità. N. 3

VI ASPETTIAMO NUMEROSI!!!

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 3 FEBBRAIO 2013 (Is 55:6-12, Mt 4:1-4, Eb 4:12-13)

“Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie”

Incisivo, di straordinaria suggestione, insomma bellissimo come tanti altri passi del libro di Isaia questo testo che il lezionario ci propone per oggi. Tema centrale di questo testo è l’affermazione del ruolo decisivo della Parola di Dio, che è tutto quanto resta al popolo esiliato: tutto quanto resta, ma la Parola è l’unica cosa che conta, perché è l’unica cosa che sussiste in eterno. E questa è anche l’esperienza di tutto il popolo di Dio attraverso i secoli: l’unico tesoro che ci permette di andare avanti è la Parola di Dio, di un Dio che è sempre vicino: “cercate il Signore mentre lo si può trovare” è esortazione rivolta agli esiliati, perché non pensino che il popolo è in esilio e Dio se ne sta nella terra promessa. Dio non è legato a una terra, è legato al popolo anche quando è in esilio, è vicino a tutti gli esiliati, quindi anche a noi quando ci sentiamo lontani da Lui, abbandonati da Lui, esiliati appunto. Ma siamo sempre noi che ci allontaniamo da Dio, siamo noi che per stanchezza, per sfiducia, rinunciamo a cercarlo; perché Dio non si allontana mai da noi, dato che è il Dio “che non si stanca mai di perdonare”, che non abbandona il suo popolo, anche se talvolta segue vie che noi facciamo fatica a riconoscere, a decifrare, perché sono le Sue vie e non le nostre. E il segno più forte di vicinanza che Dio offre al suo popolo è il dono continuo, inesauribile, della sua Parola. Nell’immagine agricola di questo brano, il valore della Parola divina viene evidenziato al massimo proprio perché essa è paragonata alla realtà più desiderata e attesa in un mondo assolato come è quello palestinese: l’acqua. E come la pioggia o la neve, la Parola non resta nei cieli della trascendenza, ma penetra nel terreno arido della storia, raggiungendone anche le pieghe più oscure. Dopo averci fecondato, essa ritorna a Dio, fatta carne e sangue, cioè fede, preghiera e amore dell’essere umano verso il suo Signore. È un’immagine, dicevo, legata al mondo agricolo, un mondo nel quale noi che viviamo in una società urbana facciamo fatica a riconoscerci; eppure, nonostante questo, è un’immagine che tocca corde molto sensibili del nostro cuore, perché i nostri tempi sono spesso tempi di deserto dello spirito che ci fanno anelare, come la cerva del salmo (Sal 42: 1), a quell’acqua che è la Parola di Dio, il principio stesso della sopravvivenza spirituale in quella steppa arida nella quale tante volte abbiamo l’impressione di vivere. La Parola di Dio è per noi qualcosa di cui abbiamo bisogno come dell’ossigeno, come del pane – e appunto al pane, un cibo che per l’antico Israele, come per noi, era alla base della sussistenza, paragona e affianca Gesù la Parola di Dio nel passo di Matteo che abbiamo ascoltato. Questo perché la Parola autentica di Dio non si limita a informare, a far conoscere la volontà del Signore, ma è anche operativa; non per nulla il vocabolo ebraico dabar designa contemporaneamente “parola” e “atto”, “detto” ed “evento”. La Parola di Dio, dunque, produce vita, genera vita, feconda e fa germogliare, come dice Isaia. E questo risultato lo ottiene, in primo luogo, costringendo chi la riceve a guardarsi allo specchio, a mettersi a nudo, a lasciar cadere le maschere e le illusioni, a capire chi veramente è. “La Parola di Dio è vivente ed efficace”, dice l’autore della lettera agli Ebrei, perché è spada affilata e penetrante, perché separa, perché giudica. Perché discerne, potremmo dire in altre parole; perché distingue inesorabilmente il vero dal falso, perché ci dice la verità su noi stessi, perché rivela noi stessi a noi stessi Ecco perché ne abbiamo tanto bisogno, ne abbiamo bisogno come del pane. Ne abbiamo bisogno… l’ho ripetuto ormai tante volte. Ma è davvero così? Lo vediamo davvero intorno a noi questo bisogno disperato, questa fame, questa sete della Parola? Direi proprio di no. Direi che questa pioggia benefica che Dio continua, per sola grazia, a riversare quotidianamente su di noi viene molto spesso – anche da coloro che hanno scelto di appartenere a una chiesa – nella migliore delle ipotesi accettata come “acqua fresca”, innocua, insipida, che scorre senza lasciar traccia; nei confronti della Parola vediamo disattenzione e noia, quando non radicale rigetto. Al luogo privilegiato dove la Parola viene trasmessa e annunciata, la chiesa, tanti preferiscono altri luoghi, altre situazioni (la riunione familiare, la passeggiata, il cinema…) che appaiono infinitamente più coinvolgenti, più interessanti, più vivi di quanto sia l’ascolto di una predicazione o uno studio biblico. Che cosa significa questo? Rappresenta una smentita della necessità della Parola? Rappresenta la conferma ch l’uomo può vivere benissimo di solo pane? Certamente no. L’essere umano ha bisogno della Parola, ne ha un bisogno estremo. Il problema è che non sente, non sa di averne bisogno. Pensa di avere bisogno di tutt’altro, di potersi sfamare con un pane umano, di potersi dissetare con l’acqua di questo mondo. E la Parola non può svolgere il suo compito se non le si offre un terreno pronto a riceverla, come spiega Gesù nella parabola del seminatore (Lc 8: 4-15). Che cosa significa terreno pronto, terreno disponibile? Può significare varie cose. C’è un passo molto suggestivo del Talmud ebraico che dice: “La parola di Dio è come l’acqua. Come l’acqua, essa discende dal cielo. Come l’acqua, rinfresca l’anima. Come l’acqua non si conserva in vasi d’oro o d’argento, ma nella povertà dei recipienti di terracotta, così la parola divina si conserva solo in chi rende sé stesso umile come un vaso di terracotta”. Sì, per accogliere quest’acqua “che scaturisce in vita eterna” – per dirla con Gesù davanti al pozzo di Giacobbe (Gv 4: 14) – dobbiamo avere un cuore simile a un vaso di terracotta. Fuor di metafora, ci viene proposto un atteggiamento che ai nostri giorni nel migliore dei casi è passato di moda, nel peggiore viene sbeffeggiato: l’umiltà”, o, se si vuole, la semplicità. E “umiltà” significa anche saper fare silenzio. Perché, allora, non tentare di creare nel deserto dell’esistenza quotidiana due piccole oasi, al mattino e alla sera? Modesti orizzonti di silenzio in cui ascoltare la Parola di Dio che si rivolge a noi attraverso le parole umane della Scrittura. Ascoltiamo l’appello bellissimo di Dietrich Bonhoeffer: “Facciamo silenzio prima di ascoltare la Parola di Dio, perché i nostri pensieri sono già rivolti alla Parola. Facciamo silenzio dopo l’ascolto della Parola, perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi. Facciamo silenzio la mattina presto, perché Dio deve avere la prima parola. Facciamo silenzio prima di coricarci, perché l’ultima parola deve appartenere a Dio”. Ma “umiltà” significa anche lasciare che la Parola di Dio operi in noi quella funzione enunciata nella lettera agli Ebrei, ma anche in tanti passi della Bibbia ebraica: quella di contestarci radicalmente. E a noi non piace essere contestati, non ci piace che si cerchi di renderci diversi, nuovi. Ecco perché la Parola di Dio è respinta: perché, se è veramente Parola di Dio, porta alla croce e si identifica con la croce. Porta alla croce ed è crocifissa, non è messa sugli altari. Basti pensare a come sono finiti i primi testimoni: Giovanni il battista; Gesù stesso, abbandonato da tutti, anche da Dio; Paolo… Perché? Appunto, perché la Parola di Dio non è amata e perché Dio non è popolare, Dio è sempre minoranza in mezzo agli dèi e agli idoli. Questa è la situazione. Ma, dobbiamo domandarci: è proprio solo colpa dei destinatari della Parola o molta responsabilità non ricade anche sugli interpreti della Parola, sui ministri del culto, su tutti noi che abbiamo la splendida e terribile responsabilità di trasmettere agli altri la Parola – di permettere a questa pioggia di cadere, di distribuire questo pane? Non sarà che tanta gente in chiesa non trova la Parola che cerca, e quindi lascia la chiesa, lascia le chiese, perché perché non vi trova una luce, un aiuto reale? Io credo che molta cosiddetta “secolarizzazione” sia semplicemente il frutto di una non trasmissione della Parola di Dio, dell’Evangelo. Perché nella chiesa tendiamo a mettere al centro noi stessi, e a emarginare Dio. Perché parliamo troppo di cose e di problemi secondari, umani, e così poco di Dio. Perché riempiamo la chiesa delle nostre parole umane, perché riversiamo nella chiesa le nostre personali sensazioni, preoccupazioni, emozioni, i nostri pensieri di corto respiro, invece di farne il luogo dove viene ascoltata e accolta, in spirito di obbedienza, la parola di Dio. Ma credo che il problema sia anche, forse soprattutto, questo: che noi per primi continuiamo a preferire la quiete e i discorsi edificanti alla santa inquietudine del Dio potente e Signore, alla spada della sua Parola. Dicevo che noi esseri umani istintivamente rifuggiamo da una Parola che ci contesta, la contrastiamo o, il più delle volte, cerchiamo di ignorarla, e questo è certamente vero; eppure io mi domando… anzi no, non usiamo formule retoriche: io sono certa che una predicazione che disturba e che scuote, una predicazione che ci indica la croce, una predicazione, cioè, nella quale la Parola di Dio prevale sulle parole umane, questo tipo di predicazione è capace di riscuotere attenzione, di coinvolgere anche un uditorio religiosamente piuttosto tiepido, assai più di quanto possa farlo una predicazione che addomestica la Parola, che cerca di edulcorarla, che trasforma in inefficace “acqua fresca”la pioggia potente del Signore. Sono altrettanto convinta che questa predicazione di una Parola inefficace, imbalsamata, risponde non solo alla ricerca di facili consensi da parte del predicatore, ma anche e forse soprattutto al fatto che è il predicatore il primo a non volersi lasciar disturbare e scuotere dalla presenza di Dio; perché noi stessi annunciatori della Parola, in fondo, non vogliamo credere che Egli è veramente in mezzo a noi, ora, qui, ed esige da noi vita e morte e cuore e anima e corpo. Ecco perché tanto spesso ci comportiamo come se avessimo Dio in nostro potere, anziché lasciarci prendere totalmente in suo potere. Solo se cominceremo a imparare a lasciar filtrare, quasi in una trasparenza luminosa, la Parola che permane per sempre e che scende dall’eterno e dall’infinito di Dio, potremo far comprendere ai nostri fratelli e alle nostre sorelle in ricerca che il pane di cui sono affamati è la “parola che proviene dalla bocca di Dio”.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 27 GENNAIO 2012 (Lc 9: 61-62, Ger 4: 3, Eb 12: 1-2a)

“Nessuno che mette mano all’aratro e poi guarda indietro è adatto al Regno di Dio”

Questo brevissimo, fulmineo dialogo tra Gesù e un interlocutore sconosciuto richiede di essere inserito in un contesto più ampio che è la cosiddetta “sezione del viaggio”, un insieme di capitoli che nel vangelo di Luca ci mostra un Gesù in cammino verso Gerusalemme, questa città santa ma ambigua, al tempo stesso città del compimento a cui sono rivolte tutte le promesse di Dio e città in cui Gesù troverà la morte. Dunque, Gesù in cammino, ma non solitario: lo accompagnano i discepoli e lungo la via il suo andare è interrotto da continui incontri. Alcuni studiosi ritengono che Luca, il quale molto probabilmente si rivolgeva a una comunità di origine pagana, volesse in qualche modo rendere la missione di Gesù più comprensibile, più accessibile a una mentalità ellenistica richiamandosi a un tema presente nella tradizione religiosa greca, nella quale sono frequenti gli episodi di dèi che scendono tra gli umani prendendo figura umana. Da sempre gli esseri umani hanno compreso la vita come un cammino e per chiunque è molto coinvolgente questa figura di un Gesù in cammino con noi. Con noi, ma davanti a noi: perché lui è la guida e noi siamo invitati a seguirlo. Questo diventa chiaro nel contesto più immediato in cui si ambienta questo dialogo, che si svolge in occasione dell’ultimo di tre incontri di Gesù con altrettanti personaggi che potremmo dire “candidati al discepolato”. A loro, Gesù prospetta tre condizioni di sequela, che implicano tutte qualche forma di rinuncia a realtà per le quali è istintivo provare attaccamento, che è spontaneo percepire come irrinunciabili: un tetto sicuro, gli affetti familiari. Anzi, più che di rinuncia sarebbe il caso di parlare di distacco, di presa di distanze, di capacità di relativizzare. La condizione posta da Gesù al primo aspirante seguace è di non avere nidi, di non avere approdi sicuri. Se ci pensiamo, il rischio di fare della nostra fede e della nostra chiesa un nido o una tana è enorme. Sto talmente bene con le mie piccole certezze, con i miei ritmi, con il mio culto domenicale, non disturbatemi … Ma il Signore è continuamente in movimento, è colui che non ha dove posare il capo, e di conseguenza è colui che nemmeno a noi permette di star fermi, di rinchiuderci tra le nostre sicurezze. Chi vuol essere discepolo di Gesù deve, insomma, lasciarsi condurre soltanto dalla Parola di Dio e da ciò che questa suscita nei cuori delle persone e nelle situazioni; e questo vuol dire prepararsi a viaggiare, non importa se in senso letterale o figurato, ma comunque a viaggiare, e a viaggiare spesso senza troppe comodità, nella consapevolezza che la fede è continuo cammino, continua scoperta, continua meraviglia. La condizione posta al secondo interlocutore è più sconcertante, perché si tratta di “lasciare che i morti seppelliscano i morti”. È chiaro che qui Gesù non vuole invitare a trascurare i più elementari doveri familiari, tanto più che seppellire il padre morto era, in Israele, un dovere sacro. Gesù non mette in questione la legittimità di questa esigenza; ma ha visto che nel cuore di quest’uomo il regno di Dio, la causa di Dio, non costituivano davvero una priorità. Percorrere la strada della sequela significa relativizzare tutti i legami familiari. Seppellire il padre, magari logorarsi in conflitti riguardanti l’eredità – tutto questo è schiavitù, è morte. Ma la strada di Gesù è una strada che porta alla libertà e alla vita. Alla sequela di Gesù non possono esserci persone legate alla morte, ma gente aperta alla vita nel senso più vero, nel senso cioè della novità di vita annunciata e incarnata da Gesù. Il discepolo è una persona pronta ad affrontare le novità e i rischi che questa vita comporta, ad affrontarli senza voltarsi indietro. Ecco, è propria la tentazione di “volgere lo sguardo indietro” quella che accomuna i tre candidati alla sequela. Siamo così arrivati al “nostro” personaggio, il terzo interlocutore di Gesù, il terzo aspirante seguace, protagonista di un dialogo che viene tramandato soltanto da Luca. Qui, la tentazione è chiamata con il suo nome: si tratta, appunto, del desiderio di “volgere lo sguardo indietro” che prende forma, in questo caso, nella richiesta di “salutare quelli di casa”, di congedarsi dai familiari. Richiesta all’apparenza più che ragionevole e avallata da un illustre precedente, quello del profeta Elia, il quale lascia che Eliseo dica addio alla sua famiglia, prima che questi lo segua nella missione profetica. Che cosa possiamo dire, allora? Semplicemente, che l’appello di Gesù è qui ancora più radicale di quello di Elia, che anche la sequela è una scelta radicale. Questo significa che nulla deve poter trattenere colui o colei che ha liberamente optato per Gesù. Nulla può costituire un blocco, un impedimento, un fattore di esitazione, di ritardo. L’interlocutore di Gesù vorrebbe seguirlo, ma prima vorrebbe congedarsi dalla sua famiglia: forse per spiegare ai parenti la sua scelta e avere la loro approvazione; forse per coinvolgerli nella sua scelta; forse anche nell’inconsapevole speranza che gli argomenti dei famigliari possano essere migliori di quelli di Gesù e riescano a dissuaderlo da questa scelta così anticonvenzionale, così scomoda, anche così rischiosa, perché il vero discepolo inevitabilmente si espone al rischio di divenire, ben che vada, un incompreso e un emarginato nella sua cerchia di conoscenze e all’interno della società che lo circonda. Perché la sequela – e questo Gesù lo mette bene in chiaro – è sequela nella croce. Eppure la sequela è l’unica scelta che conduca alla vera vita. Le altre scelte, quelle che in apparenza salvaguardano la vita (il nido) o quelli che sono considerati i valori più preziosi della vita (la famiglia, gli affetti), sono in realtà scelte di morte, perché voltarsi indietro significa privilegiare il nostro passato umano rispetto al futuro che Gesù ci offre, significa restare immobili, pietrificati come avvenne per la moglie di Lot che “… si volse a guardare indietro e diventò una statua di sale”. Ciò che Gesù voleva dire agli aspiranti discepoli allora, e continua a dire a noi aspiranti discepoli di oggi, è che seguirlo non è cosa da prendersi alla leggera. Non lo era allora e non lo è adesso. Chi vuol farlo deve essere ben cosciente del costo che dovrà affrontare. Ecco quindi il motivo per il quale le persone che incontriamo in questo testo sembrano essere respinte da Gesù, o almeno scoraggiate dal seguirlo, anche se Luca non ci racconta come le loro storie personali vadano a finire. Ecco il motivo per cui tante persone che si sentono sinceramente attratte dalla proposta cristiana rinunciano, alla fine, a impegnarsi concretamente in una chiesa. Ma esiste anche l’altra faccia del problema: ci sono tanti che compiono una scelta di fede, che accettano di impegnarsi in una chiesa senza essere ben consapevoli delle esigenze della sequela, perché nessuno si è mai curato di spiegargliele chiaramente; magari anche (perché no) attingendo al patrimonio della memoria storica, ai tanti luminosi esempi del passato, a quella “grande schiera di testimoni” di cui si parla nella lettera agli Ebrei, schiera di testimoni che, grazie a Dio, non manca in nessuna chiesa. Sorelle e fratelli, questo passo di Luca ci interpella tutti molto severamente. Interpella quei tanti, troppi cristiani per i quali le esigenze e gli impegni familiari hanno sempre, regolarmente, la priorità rispetto alle esigenze della fede, e della chiesa della quale hanno liberamente scelto di essere membri. Ma interpella anche i ministri del culto, coloro che hanno la responsabilità di una chiesa. Oggi tutte le chiese sono in crisi, e forte è per un pastore la tentazione, pur di vedere i banchi affollati per il culto domenicale, di accogliere chiunque si presenti evitando di porre condizioni, minimizzando la serietà radicale di questa scelta. Sì, le chiese sono in crisi … ma non sarà da attribuire, questa crisi, anche proprio al fatto che a troppi aspiranti cristiani è stata proposta quella che Dietrich Bonhoeffer definiva con la celebre espressione “grazia a buon prezzo”, cioè proprio quella grazia che si sarebbe meravigliosamente adattata ai tre interlocutori di Gesù? Si domandava, a questo proposito, Bonhoeffer: “Il prezzo che oggi dobbiamo pagare con la rovina delle nostre chiese istituzionali non è forse la conseguenza necessaria della grazia acquistata troppo a buon prezzo? […] Si distribuivano fiumi di grazia senza fine, mentre si udiva assai raramente l’invito a seguire Gesù con impegno. […] Dove restavano gli ammonimenti di Lutero di guardarsi dall’annunziare un Evangelo che tranquillizzasse gli uomini nella loro vita senza Dio?”. Parole troppo dure queste; parole che potevano adattarsi alla realtà della Germania del 1937, quando furono scritte, ma che sono eccessive per le chiese e per i cristiani dei nostri tempi: tempi certo di indifferenza, di egoismo, di superficialità, ma, almeno nella nostra Europa, non tempi di crudeltà e di empietà come quelli del totalitarismo nazista… E io vi rispondo: vi illudete, sorelle e fratelli. Sia pure in modo diverso, anche i nostri tempi sono tempi senza Dio, anche le nostre vite, se lasciate a sé stesse, sono vite sempre e inevitabilmente senza Dio. Vite che hanno bisogno di essere risvegliate, scosse, non di essere tranquillizzate, anestetizzate. Chi vuole seguire Gesù deve sapere che non gli sarà richiesto soltanto di camminare con lui, non solo di “correre con perseveranza”, come dice l’autore della lettera agli Ebrei, ma anche di mettere “la mano all’aratro”, cioè di essere attivo, di compiere ciò che è necessario per produrre, un domani, dei frutti. Arare il terreno, e farlo secondo i criteri che il Signore indica a Israele per bocca del profeta Geremia: dissodare un campo nuovo e non seminare tra le spine, il che vuol dire non disperdere energie là dove non si può sperare di ottenere frutto, cioè, ancora una volta, in ciò che ci lega al passato, in ciò che è statico e morto, in ciò che blocca il libero fiorire del regno.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)