Sermone: LA VITE E I TRALCI

«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo recide; ma ogni tralcio che porta frutto, lo purifica affinché ne porti di più. Voi siete già puri per mezzo della parola che vi ho annunciata. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutti da sé stesso se non rimane nella vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi siete i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta un frutto abbondante; perché senza di me non potete far nulla. Se uno non rimane in me, viene gettato via come il tralcio e si secca; poi li raccolgono, li gettano nel fuoco e bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre mi ha amato, così io ho amato voi; rimanete nel mio amore». (Giovanni 15,1-9)

Bellissimo questo passo dell’evangelo di Giovanni! Personalmente è uno dei passi della scrittura che più ho amato fin da giovane e sul quale spesso mi sono trovata a riflettere da sola o in compagnia.

Oggi con voi vorrei fare alcune considerazioni in merito alla narrazione sulla vigna ed ancora sul fatto che in questi 9 versetti compare ben 7 volte il verbo “rimanere” che, nella traduzione della BIR ha sostituito il verbo “dimorare” della Riveduta, però con il medesimo significato.

LA VIGNA – Nella Bibbia si parla spesso di questa pianta, tanto che, come abbiamo sentito nelle letture precedenti, Israele viene paragonata alla vigna del Signore. Credo che l’importanza data a questa pianta derivi dal fatto che il frutto della vigna, di una buona vigna, è l’uva e dall’uva si ricava il vino, una bevanda che era ed è utilizzata per festeggiare, per gioire, per condividere il piacere con gli altri, quindi una bevanda importante nel costume sociale di tutti i tempi. Ma non sempre il vino nella scrittura è simbolo di gioia, infatti viene anche presentato come una “bevanda traditrice” perché inebria e per questo da bere senza eccesso, oppure come simbolo del sangue di Cristo. Tuttavia sono molti i passi della Bibbia dove il vino è visto con approccio positivo, così come sono moltissimi i passi in cui si parla della pianta che dà l’uva.

Anche se non sono un’esperta di coltivazioni viti-vinicole, so bene, come lo saprete anche voi, che la vite ha un fusto robusto, dai cui rami scendono i tralci che porteranno l’uva.

Ebbene, in questo passo di Giovanni, Gesù dice che noi siamo i tralci, cioè siamo quella parte della pianta che sta fra il fusto e il frutto. Ma per dare buoni frutti i tralci devono essere ben saldi sulla pianta dalla quale devono trarre la linfa, la forza, per dare e sostenere buoni grappoli.

Nel racconto che abbiamo letto Gesù si paragona alla pianta ed afferma che il Padre è il vignaiolo.  Noi quindi, coloro che credono in Cristo, dovremmo essere consapevoli che non siamo tutta la pianta e che, se non diamo il frutto sperato, se ci secchiamo, il vignaiolo provvede a recidere.

RIMANERE – “Rimanete in me”. È questa l’esortazione principale di Gesù in questo passo. Già, rimanere in lui, così che Egli rimanga in noi.  È così importante questo concetto di rimanere, di dimorare, in Cristo da essere continuamente ripetuto. Rimanere saldamente in lui così come i tralci devono essere saldamente attaccati alla vigna. Rimanere in lui per non seccarci, per godere della linfa vitale che non si ferma al tralcio, ma nutre anche il frutto.

Mi viene una considerazione in proposito: se rimaniamo saldamente ancorati agli insegnamenti di Gesù siamo tralci produttivi, però dobbiamo avere la consapevolezza che siamo sempre e solo tralci, non siamo la pianta che affonda le radici nel terreno e non certo il frutto dal quale poi si trarrà il vino. Il tralcio sta nel mezzo, non è l’inizio e non è la fine del fluire della linfa. Il tralcio succhia la linfa dalla pianta, come noi possiamo trarre insegnamento e forza dalla parola del Signore, però cede parte della sua forza al frutto, affinché cresca buono e succulento. E una pianta può avere moltissimi tralci, alcuni dei quali verranno recisi perché non porterebbero frutto.

Ecco, così è la nostra missione: nella consapevolezza di essere solo dei mezzi per passare la linfa vitale, degli annunciatori della Parola, dei discepoli del maestro, noi dobbiamo condurci nei rapporti con gli altri sapendo che abbiamo l’incarico di produrre frutto, ma dobbiamo anche sapere che il frutto non resterà attaccato a noi, il frutto non apparterrà mai al tralcio. Io credo che, se noi riflettessimo su questo nostro ruolo di discepoli, consapevoli di essere solo dei mezzi, molti dei nostri sensi di onnipotenza verrebbero ridimensionati, perché spesso, nella nostra vita, non riusciamo ad accettare che il frutto, cioè coloro che ricevono da noi l’annuncio della parola (e lo ricevono con il nostro dire, ma soprattutto con il nostro agire), è completamente indipendente e libero da noi.

Ma che cos’è la linfa che passa dal tralcio, qual è la forza vitale che Gesù dice di darci quando afferma sia così potente da concederci di avere dal Padre tutto ciò che chiederemo?

Qual è il grande alimento che riceviamo dagli insegnamenti di Gesù, tanto grande da fargli dire che Egli resterà sempre in noi, mettendoci quindi in una relazione indissolubile col Padre?

L’ultimo versetto che abbiamo letto recita: “Come il Padre mi ha amato, così io ho amato voi; rimanete nel mio amore”. Eccolo l’alimento!  Ecco ciò che abbiamo gratuitamente ricevuto e gratuitamente dobbiamo porgere agli altri come discepoli di Gesù: l’amore, linfa vitale per ciascun essere umano e per l’umanità tutta.

Ma cosa intendiamo per “amore”? Certo è facile parlare d’amore con le persone a cui vogliamo bene, con coloro che sono cari al nostro cuore, ma, volando un po’ più in alto delle nostre ridotte vite di relazione, diventa più difficile definire l’amore e magari rischiamo di interpretarlo come un vago sentimento buonista che ci consente di metterci in contatto con gli altri solo per lusingare il nostro ego.

Per sapere invece cos’è l’amore nella dimensione di credenti dobbiamo rifarci ancora una volta al nostro maestro, a colui che ha condiviso con noi tutto ciò che sapeva, tutto ciò che aveva, compresa la sua stessa esistenza terrena, morendo in croce per noi, perché, come abbiamo letto nel passo di Giovanni per l’annunzio del perdono, “nessuno ha amore più grande di questo: donare la sua vita per i suoi amici”.

Ora, comprendo bene che la maggioranza di noi non è votata al martirio e comprendo bene che, nella nostra situazione sociale, non ci viene fortunatamente richiesto di dare la nostra vita, di immolarci fino alla morte per gli altri (tanti credenti però l’hanno fatto e continuano a farlo), però è altrettanto vero che, come discepoli del Signore, ci viene chiesto di spargere amore, cioè di condividere con il nostro prossimo ciò che abbiamo e ciò che siamo. Condividere non solo il surplus che ci avanza, ma condividere l’unico mantello che abbiamo con chi è ignudo. Mettere a disposizione il nostro tempo, i nostri averi, le nostre conoscenze, il nostro essere non solo quando ne abbiamo voglia, ma soprattutto quando alla nostra porta bussa qualcuno che non conosciamo, che non aspettavamo e che magari non vedremo più.

Il tralcio non giudica quanta linfa debba passare al frutto. Ne tiene una parte come proprio alimento e poi la cede tutta. Così dovremmo fare anche noi, per amore, con tutti i doni che abbiamo ricevuto, materiali e immateriali.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: OGNI GIORNO RINASCIAMO AD UNA SPERANZA VIVA!

1Pietro 1,3-9  –  Colossesi 2,12-15

 “Ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce” (Colossesi 2,15).

Fratelli e sorelle, quanto è forte e incredibile questo passo! Sì, avete sentito bene, incredibile: incredibile perché non è questa la realtà a cui siamo abituati, la realtà a cui noi stessi spesso ci sottomettiamo. Chi di noi può veramente affermare di vivere una vita totalmente coerente con quanto è scritto nell’epistola ai Colossesi? Eppure Gesù ha spogliato i principati e le potenze e lo ha fatto una volta per tutte: cioè ha reso evidente cosa sono e cosa fanno: come dice Colossesi, ne “ha fatto un pubblico spettacolo”. Da duemila anni, ormai, si tratta di uno spettacolo che potrebbe essere evidente per tutti, eppure noi siamo ancora ciechi o timorosi di denunciare quello che vediamo, nonostante questo passo, come molti altri, sia stato scritto proprio per darci la forza e il coraggio di tornare come bambini e come loro avere la capacità e l’ingenuità di porci di fronte al potere del male che ci circonda con franchezza.

Conoscete la favola di Andersen sui vestiti del re? Si tratta della storia di un re, molto vanitoso, che spendeva tutti i suoi soldi per comprarsi magnifici vestiti; ne aveva di tutti i generi e di tutti i colori, di tutte le stoffe e provenienti da tutti i Paesi del mondo. Anche noi abbiamo la passione per gli oggetti che ci fanno apparire belli, importanti, realizzati, i nostri telefonini, le automobili, i televisori, oppure le case e perfino i titoli di studio. Anche noi siamo appagati dall’apparenza, invece che cercare la vera sostanza. Nel paese del re della nostra favola, un giorno arrivarono due uomini, che dissero di essere due sarti molto famosi e che avrebbero confezionato un abito unico al mondo per il re. Un vestito magico che avrebbero potuto vedere solo gli intelligenti o le persone importanti, quelli che contavano nella vita. Un vestito che sarebbe stato visto solo dalle persone superiori. Naturalmente il re si entusiasmò subito moltissimo e fornì ai due sarti tutto l’occorrente che avevano chiesto: cioè tanti sacchi di filo d’oro, sete in gran quantità e bottoni in madreperla, che i due imbroglioni posero in due grosse borse e che nascosero. I due montarono un telaio e cominciarono a far finta di lavorare, perché, forse lo avete già capito, non avevano alcuna intenzione di fare un vestito per il re, ma solo di imbrogliarlo facendo leva sulla sua vanità. Il mattino dopo il primo ministro andò a vedere il vestito; naturalmente non vide nulla, ma non volendo fare brutta figura, disse che si trattava di un vestito bellissimo. Successivamente si recò dai due sarti lo stesso re e anche lui non vide nulla, ovviamente, ma non voleva essere da meno del suo ministro e quindi anche lui disse che il vestito era bellissimo. I due imbroglioni gli proposero di indossarlo il giorno dopo in una parata solenne. Il re acconsentì. Nelle piazze e nelle strade accorse tutto il popolo, sia perché si trattava di una festa importante, sia perché voleva vedere l’abito magico del re. Quando il re arrivò, scese il silenzio: tutti vedevano che era in mutande, ma nessuno osava dire niente, sia perché non volevano offendere il re, ma soprattutto perché ognuno temeva di essere l’unico a non vedere nulla. Finché un bambino gridò: “Guarda papà, il re è nudo!”

Il re è nudo. Come i principati e le potenze di cui parla l’epistola che abbiamo letto oggi. Nudo. Ma nessuno aveva avuto il coraggio di dirlo, così come, nella nostra società il più delle volte non osiamo alzare la voce per denunciare quello che vediamo.

Ma Gesù, ci ricorda l’autore dell’epistola, ha trionfato. Sì, fratelli e sorelle, ha trionfato, ma non utilizzando i nostri mezzi, cioè non con la forza, con il potere o il denaro, ma con la croce. Gesù ha trionfato su principati e potenze per mezzo della croce. Della croce, fratelli e sorelle! Della croce. Quando riusciremo a prendere sul serio questo messaggio? Quanto è lontana la croce dalle nostre esistenze? Quanta fatica facciamo a farla nostra? Quanta indifferenza abbiamo nei confronti della sequela di Cristo perfino noi che ci dichiariamo cristiani e che veniamo con regolarità in chiesa, che cerchiamo di essere fedeli e di impegnarci per la nostra chiesa. Ma quanto ci teniamo lontani dalla croce! Quanto è difficile liberarci da questa gabbia che ci imprigiona e che ci fa preferire la via larga e comoda, piuttosto che affrontare quella stretta e tutta in salita che il Signore ci ha indicato. Siamo circondati dal male, ma ne siamo anche sedotti e ammaliati.

Ma il Signore non si stanca mai di darci ancora e ancora nuove possibilità, come dice l’epistola di Pietro, ci permette di rinascere ad una speranza viva mediante la resurrezione di Gesù Cristo. Una speranza viva, non qualcosa di teorico, qualcosa di mistico o di esclusivamente spirituale! Una speranza viva che segna i nostri corpi e le nostre esistenze. Noi che eravamo morti a causa dei nostri peccati, noi che eravamo già condannati, siamo stati vivificati.

Sì, fratelli e sorelle, vivificati. Cioè abbiamo ricevuto una nuova vita, o come dice Pietro, una nuova speranza. Di fronte all’evidenza di quello che Colossesi chiama “il documento a noi ostile”, siamo perdonati e possiamo credere che insieme a Gesù abbiamo vinto la morte. Sì, abbiamo vinto la morte.

Non è facile parlare oggi di resurrezione: sembra una realtà lontana, lontanissima, dalla nostra esistenza quotidiana. Anche all’interno delle nostre stesse chiese, qualcuno fa fatica. Non riesce a credere a questo evento che trascende totalmente le nostre esistenze. Come credere che un uomo, un uomo qualunque abbia potuto risorgere dopo la morte? Come immaginare un’ipotesi così lontana dalle nostre esperienze quotidiane? Ma Gesù non era un uomo qualunque. La nostra fede si poggia proprio su questo. Gesù era il Figlio di Dio e se crediamo a questo e se su questo abbiamo fondato le nostre vite, o proviamo a farlo, allora dobbiamo interrogarci, profondamente, su cosa significhi per noi, per ognuno e ognuna di noi credere in Gesù Cristo.

Egli ci chiama e ci incoraggia, non vuole essere ridimensionato ad un buon predicatore, un maestro di vita, una guida spirituale. No, Gesù era il Figlio di Dio ed è morto sulla croce per tutti e tutte noi ed è risorto il terzo giorno per tutti e tutte noi: è a questo che siamo chiamati a credere, nulla di più e nulla di meno. Anche se è evidente che la nostra vita, al contrario, è circondata dalla morte. È per questo che facciamo fatica a credere nella resurrezione. Nulla, nella nostra vita concreta ce ne parla; i nostri goffi tentativi di apparire giovani e di allungare la vita non fanno che sottolineare che invece siamo mortali e abbiamo grandissima paura della nostra fine. La tentazione di rifiutare la nostra unica possibilità di vita a causa del nostro grande attaccamento a questa nostra esistenza è fortissima, ma non dobbiamo temere! Gesù, infatti, si è fatto essere umano esattamente come me e come tutti e tutte voi. Ha conosciuto la nostra vita, i nostri dolori, le nostre gioie, ha provato la fame, la sete, il piacere della tavola e dell’amicizia; un uomo che ha conosciuto la tentazione ed è entrato nella storia: un uomo completo e potremmo dire normale.

E quando sentiamo il desiderio di rifiutare la nuova vita che ci dona il Signore, perché siamo attaccati alla nostra vecchia esistenza piena di morte e di dolore, quando rifiutiamo di lasciarci convertire e di guardare con occhi rinnovati i principati e i potenti, non dobbiamo dimenticare che il Signore ci ama e ci ha amati al punto da divenire come noi, al punto da affrontare la nostra più grande paura, la morte, e non una morte qualsiasi, ma la morte di croce. Pur di liberarci dal nostro peccato, è venuto sulla terra e ha cancellato anche la traccia del nostro peccato. Quale dono maggiore poteva farci? E quindi lasciamo la nostra paura e affidiamoci con cuore riconoscente alla possibilità di vita che ci è concessa, una volta per tutte, dalla croce di Gesù.

Fratelli, sorelle se il nostro essere venuti fin qui non è vano, apriamo i nostri cuori alla gioia e alla speranza: il Signore vede il male nel quale viviamo, nel quale siamo immersi, lo conosce, ma ha scelto di darci la vita e ha trionfato sulla morte, sulla nostra morte, attraverso la sua resurrezione.

Il Signore ci doni occhi per vedere i nostri peccati e cuori per accogliere la sua luce vivificante, in modo da poter con gioia profonda vivere fino in fondo il canto di lode innalzato da Pietro: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti”.    Amen!

Erica Sfredda

Sermone: UNA VITA NUOVA

Questo sermone si può dire sia stato preparato a due mani, infatti la mia gratitudine per le riflessioni in esso contenuti vanno ad una pastora della nostra chiesa che ha tutta la mia stima, oltre che il sincero affetto e la riconoscenza per il piacere dei nostri contatti, complice la tecnologia che avvicina coloro che sono geograficamente lontani: Eleonora Natoli della chiesa di Savona.

Leggo dall’epistola di Paolo ai Colossesi 2,1-15

“Voglio infatti che sappiate quale dura battaglia combatto per voi, per quelli di Laodicea e per quanti non mi hanno mai visto in faccia, perché i loro cuori siano consolati, uniti nell’amore, per comprendere con piena certezza e per conoscere a fondo il mistero di Dio, di Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza. Dico questo affinché nessuno vi inganni con parole seducenti. Sebbene io sia fisicamente assente, nello spirito sono con voi e mi rallegro vedendo il vostro buon ordine e la stabilità della vostra fede in Cristo.

Come, dunque, avete ricevuto Cristo Gesù, il Signore, in lui anche continuate a camminare, radicati in lui e su di lui edificati, rafforzati nella fede, proprio come siete stati istruiti, pieni di gratitudine. Fate attenzione che nessuno vi irretisca mediante la filosofia e con vuoto inganno, secondo la tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo, perché in lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete tutto pienamente in lui, che è il capo di ogni principato e autorità. In lui siete anche stati circoncisi con una circoncisione non fatta da mano umana, spogliandovi del corpo della carne, ma con la circoncisione di Cristo, dato che siete sepolti con lui nel battesimo; con lui pure siete stati risuscitati per mezzo della fede operante di Dio che lo ha risuscitato dai morti. E benché foste morti nelle vostre trasgressioni e nell’incirconcisione della vostra carne, vi ha fatto viventi con lui, perdonandoci tutte le trasgressioni, cancellando il registro dei debiti contro di noi, le cui prescrizioni ci condannavano. Lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce, avendo messo a nudo i principati e le autorità, li ha esposti in pubblico, celebrando in essa un trionfo su di loro”.

Il passo che abbiamo letto porta il titolo “Avvertimento contro le false dottrine”, tuttavia nel leggerlo, oltre alla sollecitazione di vegliare per non farsi irretire dalle false dottrine e per non costruirsi idoli vani, come abbiamo letto prima in Isaia, può sorgere anche una domanda, o meglio una domanda in tre momenti:

  1. Chi è Cristo?
  2. Cosa fa Cristo per noi?
  3. Cosa compie Cristo in noi?

Certo, non è solo la lettera di Paolo ai fedeli di Colosse (città scomparsa nell’attuale Turchia) che presenta questi temi. Tutto il Nuovo Testamento è permeato da questi argomenti.  Ma, per tornare alla nostra lettura, direi che la risposta alla prima domanda è chiarissima nel versetto 15 “ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce”. Cioè Paolo per farci comprendere chi è Cristo ci fa vedere la banalità del mondo semplicemente orizzontale e ci spinge ad alzare il nostro sguardo e il nostro pensiero verso una dimensione cosmologica, perché le cose visibili, le potestà terrene, sono state ridimensionate da Lui, Lui che, attraverso la croce e la vita data per la salvezza degli uomini, ha trionfato sui legacci comportamentali, ha sconfitto una visione puramente materialistica del mondo, affermando la sua sovranità su tutto ciò, ma soprattutto facendo comprendere la Sua signoria anche sull’invisibile, su ciò che va oltre le nostre vite, in una dimensione dove lo spazio e il tempo non contano più, dove le nostre categorie mentali, la nostra cultura, i nostri comportamenti, i nostri usi sociali perdono completamente di valore, per lasciare spazio ad una pienezza che trova compimento nella salvezza che può derivarci solo dall’immenso amore di Dio, dal sacrificio della croce e dalla resurrezione di Cristo, perché Lui è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, colui che è, che era e che viene, come troviamo scritto in Apocalisse 1,8.

E veniamo ora alla seconda e terza domanda: “Cosa fa Cristo per noi?” e “Cosa compie Cristo in noi?”

La risposta mi sembra chiara: se Gesù di Nazareth per noi è il Cristo, il figlio che Dio ci ha inviato per riscattarci dalle nostre infedeltà, per insegnarci una nuova via, per redimerci dal peccato, allora Cristo ha già fatto per noi tutto ciò che poteva essere fatto, proponendoci la sua vita, il suo modo di guardare al mondo, la sua visione di amore e fratellanza, la certezza del perdono, la sua spiritualità. Ciò significa che anche noi, secondo la mente di Dio, possiamo vivere la nostra vita in comunione con quella del Cristo spirituale, oltre che negli insegnamenti del Cristo uomo.

E Paolo ci aiuta a comprendere cosa ha fatto Cristo per noi, infatti egli scrive che, attraverso il battesimo, da morti che eravamo siamo stati resuscitati, cioè, per la potenza di Dio, siamo già diventati persone nuove. E di questa “persona nuova” Paolo non dice tanto per dire, ma, come sappiamo, ha fatto l’esperienza sulla propria pelle.  Questo è ciò che Cristo compie in noi: le forze che dominano l’universo, signorie, principati, potenze non riescono più a ridurre la nostra esistenza a un triste sopravvivere, a uno sforzo che temiamo inutile per combattere giorno per giorno mille problemi.  L’invito è a vedere e vivere l’esistenza in modo nuovo perché nella nostra unione con Cristo siamo diventati persone nuove.  Ciò significa che il nostro vivere con Cristo non ha una dimensione puramente astratta ma diventa la fibra interna della nostra psiche, della nostra ragione, del nostro stesso essere. Noi non fuggiamo verso la resurrezione come fossimo proiettati verso un risarcimento futuro, ma siamo cristiani nella storia e nella storia siamo chiamati a lasciare la nostra impronta che in termini religiosi chiamiamo testimonianza, una testimonianza che deve essere svolta qui e ora, nel nostro mondo, nel momento attuale, senza rinviarla al futuro, senza aspettare domani, perché non solo il domani, ma già fra poche ore è troppo tardi per fare ciò che dobbiamo fare, per essere come dovremmo essere.

Ma come possiamo rendere questa testimonianza in un mondo così travagliato da guerre, piccole e grandi ingiustizie, soprusi, scandali, incertezze del domani?

Nei secoli, la storia dei credenti ha avuto molti e significativi testimoni. Ma fra tutti oggi mi piace ricordarne uno in particolare; non tanto perché egli sia il migliore, ma solo perché anche di recente abbiamo sentito riparlare di lui anche sui mezzi di comunicazione: Martin Luther King, del quale il giorno 4 aprile è stato ricordato il cinquantesimo anniversario della morte.

Ebbene, che cosa ha operato Cristo in lui?

Il suo essere cristiano, il suo essere una persona nuova in Cristo, il suo essere già risorto nel battesimo mediante la fede e per la potenza di Dio, ha connotato la sua esistenza. Esistenza radicalmente conficcata nella storia di quegli anni, una lotta la sua contro le potenze e le signorie che vogliono scalzare Cristo dal mondo. Una fede la sua, forte di ciò di cui Cristo ci rende partecipi e portatori, un messaggio nuovo per un mondo vecchio, sfinito, intollerabile; ancorato da millenni a dinamiche letali di lotta per la supremazia dell’uomo sull’uomo. Questo lo spirito di Cristo ha operato in lui e può operare in tutti noi, se apriamo il nostro cuore e mettiamo la nostra vita al suo servizio.

Una vita viva, non soffocata, degna di rispetto, piena di significato per gli altri, verso i quali viene testimoniata la possibilità di un rinnovamento, e di conseguenza e a maggior ragione piena di significato per se stessi.

Scrive M.L. King: “Voi avete una doppia cittadinanza: vivete sia nel tempo e nell’eternità, sia in cielo e sulla terra. Perciò la vostra fedeltà non è, in primo luogo, al governo, allo Stato, alla nazione o a un’istituzione umana; il cristiano deve essere, prima di tutto, fedele a Dio e se un’istituzione terrena è in conflitto con la volontà di Dio è vostro dovere di cristiani prendere posizione contro di essa. Non dovete mai permettere che le istanze transitorie di istituzioni umane abbiano la prece4denza sulle istanze eterne di Dio Onnipotente”.

Quindi possiamo dire che quando un cristiano è un essere umano nuovo sa prendere posizione per Dio nel mondo, sa testimoniare la su fede assumendosi i rischi che la lotta all’ingiustizia comporta, sa crescere come cittadino perché ha ben chiara l’incolmabile differenza tra le varie signorie terrene e la sovranità divina di quell’ideale spirituale e sociale che chiamiamo “regno di Dio”.

È vero, la concretezza della realpolitik permette agli Stati di funzionare ma l’ideale della sovranità del Dio giusto, rivelatosi in Cristo, permette alle donne e agli uomini di raggiungere la pienezza del valore di persona.

Quindi, fratelli e sorelle, sapendo cosa opera in noi la potenza di Cristo, cogliamo con cuore aperto un’esortazione pastorale di M.L. King: “Cercate Dio, trovatelo e fate di lui una forza nella vostra vita. Senza di lui tutti i nostri sforzi si riducono in cenere e le nostre aurore diventano le più oscure delle notti. Senza di lui, la vita è un dramma senza senso a cui mancano le scene decisive. Ma con lui noi possiamo passare dalla fatica della disperazione alla serenità della speranza. Con lui noi possiamo passare dalla notte della disperazione all’alba della gioia”.

Questo Cristo fa per noi e questo siamo chiamati a testimoniare.    AMEN

Eleonora Natoli + Liviana Maggiore

Sermone: UNA DONNA TESTIMONE

11 Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12 e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13 Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15 Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16 Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». 17 Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro»». 18 Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.  (Giovanni 20,1-18)

Una premessa: la scrittura cresce con colui che la legge. Non c’è Parola di Dio nella scrittura, ma nella lettura! Chi l’ha scritta, ha raccontato la sua esperienza di Dio. Esperienza di Dio elaborata in forma di testo. Noi non siamo la religione del libro, ma della Parola.

Nel brano appena letto viene narrata una sconvolgente esperienza di Dio, quella che fece Maria di Magdala “il primo giorno della settimana”, la domenica, dopo la morte di Gesù.

Inizia così: “Maria invece era rimasta presso il sepolcro. Perché “invece”? Perché era appena stata raccontata la corsa di Pietro e dell’altro discepolo che Gesù amava (così dice il vangelo di Giovanni) verso il sepolcro, dopo che Maria stessa aveva trovato la pietra, che chiudeva la tomba vuota, rimossa, ed era andato a dirlo ai discepoli. Pietro e l’altro apostolo videro la tomba vuota, i teli ed il sudario, l’altro discepolo si dice persino che “vide e credette”, ma poi se ne tornarono a casa. Lei, invece, Maria, rimane a contemplare il mistero, rimane “fuori vicino al sepolcro a piangere. Non riesce a tornare a casa, non riesce ad andarsene, non riesce a darsi pace. Lei che si era recata di buon mattino al sepolcro, mossa da immensa gratitudine e amore per il suo maestro, per cercare di recuperare il suo corpo senza vita, è ora immersa in lacrime di dolore.

Il suo è il pianto amaro di chi sa cosa significhi perdere l’amore che salva, è il pianto dell’umanità che ha rinchiuso in un sepolcro il suo Dio, è la tristezza profonda per un crimine assurdo, è ancora l’incapacità di comprendere come possa accadere che il Figlio di Dio rimanga definitivamente in un sepolcro. Il pianto di Maria e le sue lacrime sono l’immagine di quel dolore acuto, profondo, duro da far male a chi lo vede delle persone che hanno vissuto da vicino la morte. Non ci si riesce a muovere, o ci si muove e si dicono cose inessenziali, come questo disperato ripetere di Maria di Magdala: “Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno messo; Signore, se tu l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”.

La morte crea un vuoto terribile dentro la vita, dentro la casa, dentro i pensieri. Un vuoto assoluto che questa tomba, svuotata anche del corpo, amplifica. Quella persona amata non c’è più perché è morta, e ora non c’è più neanche il suo corpo. Come quando si ritorna dal funerale di chi ha vissuto con te, di chi hai amato e che ti ha amato: la morte ti ha tolto tutto, anche il corpo, ti ha lasciato il vuoto.

La Pasqua ha a che fare con questo, con la morte vera, con quel vuoto invisibile ed incolmabile, con quel bisogno di ritrovare il corpo, con quel desiderio inesaudibile di rivedere il corpo, persino di toccarlo. Questo è ciò che accade il mattino di Pasqua, che Gesù, che era morto, è stato risuscitato: per forza Maria di Magdala non riesce a capire, a sentire, a vedere. Per forza non riconosce gli angeli e non riconosce nemmeno Gesù: perché la sua vita è rimasta al di qua della risurrezione, al di qua della vita, impastata nella morte, dentro l’ordine del cimitero, dove tutt’al più puoi incontrare due angeli, che molto probabilmente lei scambia per dei giardinieri, degli addetti ai lavori che possono aver spostato il corpo per esigenze professionali.

Ricordiamocelo: nessuno sa effettivamente cosa sia successo con la resurrezione, e questo perché non c’erano testimoni. Questa è la grande differenza tra la Pasqua e la morte di Gesù. La morte di Gesù è stata vista da molte persone, sia discepoli, sia poi il centurione che fa la sua confessione di fede quando vede morire Gesù. Quindi ci sono tanti testimoni. Ma la resurrezione non ha testimoni e questa è la sua forza e la sua debolezza. È la sua forza perché è, appunto, una sfida aperta alla fede, nel senso che noi crediamo ciò che non vediamo. E questo è lo statuto proprio della fede. La fede è proprio questo credere nell’invisibile, nel Dio invisibile, nel Cristo invisibile. In definitiva la cosa che induce a dire che la Pasqua non è un’invenzione dei discepoli è proprio il fatto che nessuno se l’aspettava. Il fatto che loro non ci hanno creduto è il motivo per cui noi ci crediamo. Al venerdì santo non è solo morto Gesù, è anche morta la fede in lui. E quindi dopo il venerdì santo tutti erano pronti a ritornare ai loro mestieri. C’è addirittura una parola molto significativa dell’apostolo Pietro che in sostanza dice: io torno a pescare. Ma la Pasqua ha questa caratteristica: di smentire la realtà, che vorrebbe tutto finito, un capitolo chiuso. E invece no, Dio lo riapre. Naturalmente i testi balbettano, ma anche questo è un segno positivo per la fede, perché dimostra che la Pasqua è la sorpresa assoluta, ciò che nessuno immaginava. La resurrezione è il messaggio meno credibile, questo è il punto. Eppure è questo messaggio meno credibile di qualunque altro che ha fondato, o meglio, rifondato la fede che era morta, ha risuscitato la fede. A Pasqua non risuscita solo Gesù, risuscita anche la fede in Gesù. Non è la fede dei discepoli che ha resuscitato Gesù, ma è Gesù risorto che ha resuscitato la fede dei discepoli. È ai piedi del risorto che nasce la fede cristiana.

Il brano termina con questa affermazione: “Maria andò ad annunciare ai discepoli “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto”. Forse non ci rendiamo conto di questa incredibile novità: Gesù affida il suo annuncio di vittoria e di grazia ad una donna. Gesù comincia questa nuova storia, che nasce dalla sua Resurrezione, da una donna. Non comincia più come aveva cominciato all’inizio del suo ministero, scegliendo dodici uomini: Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea, Filippo e tutti gli altri. A nessuno di questi Gesù appare per primi. A nessuno di loro Gesù affida la più grande e bella notizia mai udita in questo mondo, la notizia che per una volta la morte è stata vinta, che per una volta la morte non ha avuto l’ultima parola. Questa notizia che sta al cuore della fede cristiana ed è la ragione incrollabile della nostra speranza, Gesù non l’ha affidata ai grandi apostoli uomini, uno dei quali l’ha tradito, l’altro l’ha rinnegato tre volte e tutti, senza eccezione, l’hanno abbandonato, non a loro Gesù ha affidato il messaggio più grande, quello decisivo, la parola-chiave della fede e della storia: “Risurrezione!”, quella che più e meglio di ogni altra ci porta vicino al mistero di Dio.

Affidando questa parola ad una donna Gesù va completamente contro corrente, perché allora le donne non erano accettate come testimoni nei tribunali; la loro parola non valeva niente. Gesù distrugge questa discriminazione affidando proprio a una donna la testimonianza più importante di tutte. E qual è questa testimonianza? Che colui che era scomparso, appare; colui che sembrava assente, è presente.

È presente, ma ricordiamocelo, non è riconosciuto. Questo è il destino di Dio nel mondo: essere presente e non essere riconosciuto. Si parla tanto della assenza di Dio: ma Dio non è assente, è presente, ma non è riconosciuto. Come succede qui a Gesù: “Maria vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era Gesù” (20,14). Lo vede, ma non lo riconosce. Perché non lo riconosce? Certamente perché il corpo risorto di Gesù è diverso da quello che aveva durante la sua vita, è un corpo nuovo, e il fatto che Maria non lo riconosca esprime appunto la diversità e novità del corpo risorto rispetto a quello di prima.

Ma il tema di vedere e non riconoscere è molto ampio e concerne il nostro modo di guardare tutta la realtà che ci circonda. Ad esempio: vedere il cielo e la terra e non riconoscere la mano di Dio; vedere la creatura e non riconoscere il Creatore; vedere la vita e non riconoscere “la Fonte della vita” (Salmo 36,9); vedere l’altro e non riconoscere il prossimo; vedere il prossimo, e non riconoscere il fratello; vedere un malato, un carcerato, un profugo, un affamato e non riconoscere quello che Gesù chiama uno dei suoi “minimi fratelli” (Matteo 25,40). Che cosa vuol dire “riconoscere”? Vuol dire vedere quel che non si vede, vedere oltre le apparenze, vedere quel che è nascosto agli occhi del corpo, ma è evidente agli occhi del cuore; in una parola vedere l’invisibile. Come dice l’apostolo Paolo: “Noi abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; perché le cose che si vedono sono solo per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne” (II Corinzi 4,18).

Maria non riconosce subito Gesù, ma poi lo riconosce. Quando? Quando Gesù le parla. Finché Dio resta muto, è un enigma, una grande domanda senza risposta, uno sconosciuto. Dio lo si conosce e riconosce nella sua Parola. Quando Gesù parla, allora Maria lo riconosce. E che cosa le dice Gesù? Non le dice, come potremmo aspettarci: “Io sono Gesù, non sono il giardiniere”, no, le dice: “Tu sei Maria; ti conosco e ti riconosco”. E Maria risponde: “Rabbunì!” che vuol dire Maestro! C’è dunque qui un doppio riconoscimento: Maria riconosce Gesù nel momento in cui Gesù riconosce Maria!

Ora c’è una ragione per non piangere, una sola, ma c’è: Gesù è risorto, la morte è stata vinta, l’ultima parola ce l’ha la vita e non la morte, la libertà e non l’oppressione, la giustizia e non l’ingiustizia, il bene e non il male, la gioia e non il dolore. Si, c’è una ragione per non piangere, una sola, ma c’è: è quella che celebriamo in questo culto e che vogliamo gelosamente custodire nel nostro cuore, per non dimenticarla nel giorno delle lacrime. Gesù si trova già aldilà del confine della morte, nel mondo nuovo di Dio, ma non dimentica il nostro nome e ci chiama: “Maria!” “Salvatore” “Francesco” “Mary”. Mettiamo il nostro nome al posto di quello di Maria, scriviamolo nella nostra Bibbia. Gesù risorto, dall’altro versante della realtà, ci chiama per nome a entrare nella comunità della risurrezione, dove si sa che l’ultima parola ce l’ha Lui, e non la morte, Lui, il primo e l’ultimo, il vivente nei secoli dei secoli.  AMEN

Fabio Barzon

Sermone: QUAL E’ LA STRADA?

Ed ecco che, in quello stesso giorno, due di loro stavano andando a un villaggio a circa sessanta stadi di distanza da Gerusalemme, chiamato Emmaus, e parlavano tra di loro di tutti quegli avvenimenti. Mentre conversavano e discutevano, Gesù in persona, dopo essersi avvicinato, camminava con loro. I loro occhi, però, non riuscivano a riconoscerlo. Egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che fate tra voi mentre camminate?» Ed essi si fermarono, mesti. Rispondendo, uno dei due, di nome Cleopa, gli disse: «Tu soltanto tra i pellegrini che stanno a Gerusalemme, non conosci i fatti che vi sono accaduti in questi giorni?» Lui disse loro: «Quali?» Loro gli risposero: «I fatti riguardanti Gesù, il Nazareno: era un profeta potente nei fatti e nelle parole davanti a Dio e a tutto il popolo; e i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato, perché fosse condannato a morte, e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui che doveva venire a redimere Israele; ora, però, con tutto questo oggi sono tre giorni da quando questi fatti sono avvenuti. Certo, alcune donne tra noi ci hanno lasciati senza parole: andate al sepolcro presto al mattino, non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate per dire di aver anche visto una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo. Alcuni di quelli che sono con noi sono andati al sepolcro e hanno trovato proprio come le donne stesse hanno riferito, ma lui non lo hanno visto».

E lui disse loro: «Stolti! Come siete lenti a credere a tutte le cose di cui hanno parlato i profeti! Il Cristo non doveva soffrire queste cose ed entrare nella sua gloria?»  E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti interpretò per loro tutti i passi delle Scritture che lo riguardavano.

Si erano ormai avvicinati al villaggio a cui erano diretti e lui fece come per proseguire. Essi insistettero con lui dicendo: «Rimani con noi, perché è quasi sera e il giorno volge già al suo termine». Ed egli entrò per restare con loro. E mentre era a tavola con loro, preso il pane, lo benedisse, e dopo averlo spezzato, lo diede loro. Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero; ma lui divenne invisibile ai loro occhi. E si dissero gli uni gli altri: «I nostri cuori dentro di noi non ardevano, quando ci parlava lungo la strada? Quando ci spiegava le Scritture?»

Alzatisi proprio in quel momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti insieme gli Undici e quelli che erano con loro, i quali dicevano che il Signore era veramente risuscitato ed era apparso a Simone. Essi pure spiegavano le cose avvenute loro per la via e come lo avevano riconosciuto, quando aveva spezzato il pane.  (Luca 24,13-35)

Vorrei innanzi tutto fare una premessa: noi crediamo nel Cristo risorto! Non è un’affermazione così scontata, credetemi, perché mi è capitato di sentirmi dire da persone che si definiscono credenti cristiani di avere talvolta alcune perplessità sulla resurrezione di Gesù.  Io mi chiedo come si faccia a definirsi credenti cristiani e non credere alla resurrezione, tuttavia …. non è un affare mio, anche se sono legittimata a nutrire perplessità di fronte a tali affermazioni, perché viene a mancare il più grande miracolo che ha cambiato la storia dell’umanità, senza il quale il messaggio evangelico si riduce ad una serie di insegnamenti etici, certamente importanti, ma che non richiedono un approccio di fede.

Leggendo il passo di Luca e dando quindi per scontato il fatto di credere nella resurrezione, mi sono ritrovata a pensare ai sentimenti e all’atteggiamento dei due discepoli sulla strada di Emmaus.  Immagino che costoro se ne andassero mesti per quella ventina di km da Gerusalemme. Venivano via da Gerusalemme probabilmente molto delusi perché il loro maestro, il loro leader, colui nel quale avevano creduto e che avevano seguito, era morto. E, fra l’altro, era stato messo a morte come un delinquente, come coloro che si sono macchiati di nefandezze.  Certo, avevano sentito che le donne andate al sepolcro non lo avevano trovato e che avevano avuto una visione di angeli che dicevano che egli era vivo, però evidentemente non ci avevano creduto, visto che si stavano allontanando da Gerusalemme, dove c’erano ancora i loro amici, altri discepoli di Gesù.

Non serviva più rimanere insieme perché era tutto finito. Il dolore per la morte del maestro era grande, infatti parlano tra loro di quanto accaduto. Ma forse era altrettanto grande la delusione delle aspettative che avevano riposto in Gesù: avrebbe dovuto essere il Messia che libera, che riscatta Israele. Quindi, tanto valeva venire via da Gerusalemme, perché era tutto finito. La morte aveva cancellato tutto. Poteva al massimo essere mantenuto il ricordo di un’esperienza particolare: aver conosciuto una persona speciale nella quale avevano riposto il loro amore e la loro fiducia.

La morte cancella tutto. La separazione da una persona amata porta dolore, angoscia, e nel contempo ci mette davanti ad una sorte ineluttabile dove spesso la paura la fa da padrone.

Vorrei proporvi un’esperienza personale, sperando di non scandalizzare nessuno, come invece mi è accaduto in passato. Quando è morto Giancarlo, mio marito, col quale sapete ho condiviso 33 anni di matrimonio soddisfacente, parlando con alcune persone amiche ho visto il loro stupore quando dicevo che non soffrivo la separazione, non ero addolorata per la sua morte, ma sentivo la mancanza della sua presenza, delle lunghe chiacchierate, della condivisione di interessi comuni. Soffrivo il dolore per l’assenza della persona, un’assenza che, in linea teorica, avrebbe potuto essere causata anche da altro e non solo dalla sua morte. Non ho mai avuto la percezione, neppure in maniera fugace, che la morte cancella tutto.  Non dico di aver avuto ragione. Probabilmente questo mio sentire era dovuto anche al credere profondamente che la morte è solo un passaggio, come la nascita. Probabilmente questa consapevolezza mi derivava da esperienze di premorte che, come me, molti hanno fatto. Tuttavia questo era il mio sentimento, un modo di porsi che non butta all’esterno dell’esistenza psicologica individuale la colpa della separazione, quasi che la morte non facesse parte della nostra stessa vita e, invece di essere un evento, viene quasi personalizzato per proiettare il proprio dolore che non si riesce ad elaborare.  Eppure spesso invece accade così: la morte viene subita, viene vista come qualcosa di completamente estranea a noi, alla nostra vita, qualcosa di negativo e ostile che ci porta a pensare che con la fine della vita terrena tutto finisce nel nulla.

E penso che i due discepoli così la vivessero. Se ne andavano verso Emmaus per riprendere un’altra vita, forse una vita simile a quella che avevano prima di incontrare Gesù.  La loro strada è lastricata di dolore per il lutto. Sono così compresi nel loro dolore e nei loro discorsi tristi che non si accorgono di chi sia colui che diventa il loro compagno di viaggio.  Parlano con lui, si stupiscono perfino del fatto che, venendo anche lui da Gerusalemme, non sia al corrente di quanto accaduto. La loro disperazione e il sentimento di profonda delusione fa sì che siano concentrati solo su loro stessi.

Certo sono persone per bene, infatti quando si fermano sul far della sera, invitano questo estraneo a cenare con loro e, durante il pasto, accade qualcosa che li risveglia: nello spezzare il pane, nel benedirlo e nel condividerlo, riconoscono il loro maestro. Un gesto che li riporta a un “dejavu”, un atteggiamento che li sconvolge e li riporta alla loro esperienza vissuta con Gesù.

Allora comprendono. E si stupiscono per non aver capito prima («I nostri cuori dentro di noi non ardevano, quando ci parlava lungo la strada? Quando ci spiegava le Scritture?»). E lo stupore è incontenibile: riconoscere il loro maestro in colui che era estraneo fino a poco prima fa loro credere che quanto detto dalle donne sia vero.

Siamo ancora sul far della sera, ma non possono aspettare che sorga il sole per riprendere subito la via verso Gerusalemme per dire agli amici quanto accaduto. Il prodigio è così grande da non concedere esitazioni.  Immagino che questi due siano carichi di adrenalina e vadano di buon passo, col cuore ricolmo di gioia, per raccontare agli altri la loro straordinaria esperienza. Ecco allora che la stessa strada, prima lastricata di dolore e delusione, ora è invece lastricata di fiducia, di speranza, di …. fede sul fatto che Gesù era veramente colui che era atteso.

E rieccoci a parlare della strada, della via della vita che anche noi, come loro, percorriamo.

E allora mi chiedo (e chiedo a voi): sappiamo noi quale sia la strada? Siamo certi che il nostro senso di onnipotenza ci consenta di riconoscere la presenza di Gesù accanto a noi? Sappiamo sempre che strada fare? Quante volte la facciamo distrattamente oppure la percorriamo afflitti dai nostri piccoli e grandi dolori, come fossimo assolutamente soli?

In altre parole, ci conduciamo nella vita afflitti e addolorati per tutte le nostre magagne, oppure la percorriamo con entusiasmo come i due discepoli quella sera, fiduciosi nella resurrezione di Gesù?

Ma soprattutto, qual è la strada che dobbiamo seguire?

Un tempo, quand’ero giovane in Val Senales, c’era un mio amatissimo amico che era stato la guida alpina di mio nonno. Quando la neve se ne andava, Opa Toni (così lo chiamavo), prendeva nello zaino colori e pennelli per andare a segnare i sentieri, affinché i villeggianti potessero non smarrirsi nelle passeggiate. Lui diceva che le frecce che disegnava dovevano essere chiare e ravvicinate per essere utili.

Purtroppo nei sentieri e nelle strade della vita non troviamo così sovente le frecce che ci indichino il percorso e spesso il nostro senso dell’orientamento ci inganna, presi come siamo dai nostri convincimenti personali.

E allora? Qual è la via da seguire?

Direi una sola: aprire il cuore e la mente e riconoscere che Gesù è veramente con noi fino alla fine dei tempi. È Gesù stesso che ci ha già indicato la via, perché, se abbiamo fede, non possiamo fare a meno di ricordare che lui ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita”.

Se accettiamo la presenza di Gesù nella nostra vita, la strada è già segnata.

Se accettiamo che la resurrezione che celebriamo oggi è reale, riconosceremo certamente il nostro compagno di viaggio e comprenderemo che quella resurrezione è anche per noi, come lo fu per Lazzaro, perché la morte non cancella tutto.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: LA DOMENICA DELLE PALME – Quale fede?

Giovanni 12,12-19 – INGRESSO TRIONFALE A GERUSALEMME

Il giorno seguente, la gran folla che era venuta alla festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme, uscì a incontrarlo, e gridava: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!». Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, montato sopra un puledro d’asina!» I suoi discepoli non compresero subito queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui, e che essi gliele avevano fatte. La folla dunque, che era con lui quando aveva chiamato Lazzaro fuori dal sepolcro e l’aveva risuscitato dai morti, ne rendeva testimonianza. Per questo la folla gli andò incontro, perché avevano udito che egli aveva fatto quel segno miracoloso. Perciò i farisei dicevano tra di loro: «Vedete che non guadagnate nulla? Ecco, il mondo gli corre dietro!»

Quand’ero ragazzina, per alcuni periodi vivevo in una famiglia tedesca, di fede mista luterana e cattolica. Spesso nella nostra casa di Bolzano era ospite uno zio del mio padrino, un austero vescovo luterano, il quale però, pur se con fare molto serioso, parlava volentieri con me, trasgressiva e contestatrice adolescente, su argomenti di etica e religione.

Ricordo bene quegli incontri. Ma mi piace oggi ricordare una domenica delle palme, quando zio Karl mi aiutava ad addobbare l’albero di Pasqua. Sì, proprio l’albero di Pasqua che vedeva un fascio di rami di Kätzchen (germogli pelosetti di un tipo di salice, credo) dai quali pendevano uova che avevamo prima colorato. Tutto intorno al fascio di rami erano poste foglie di palma e il vaso veniva ricoperto con un sontuoso drappo rosso. Bellissimo.

Ebbene, mentre con calma addobbavamo il nostro Osterbaum, lo zio vescovo mi faceva riflettere sul significato di questa tradizione nordica che, come peraltro l’albero di Natale, aveva origini pagane ma era stata assunta con significati religiosi. I nuovi germogli delle piante rappresentavano la rinascita primaverile, certo, ma simboleggiavano anche la grande rinascita del genere umano data dalla resurrezione di Cristo che si festeggia con la Pasqua. E le foglie di palma e il drappo rosso riportavano alla mente l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, con la gente che lo segue cantando “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” e che stende a terra i mantelli al suo passaggio.

Fin qui tutto bene e logico, ma ….. le uova? Lo zio mi disse che le uova erano un cibo povero, semplice, e rappresentavano quindi l’assoluta semplicità di questo Signore che, pur avendo la consapevolezza di essere il figlio di Dio, non entrava in Gerusalemme come un condottiero su un prestigioso destriero, ma vi entrava a cavallo di un asino, una cavalcatura che era a disposizione anche di coloro che non vantavano un alto rango sociale.

Certo, l’umile animale però non era stato scelto solo per dimostrare uno spirito semplice e povero, ma era il chiaro segno che Gesù voleva dare alla gente che attendeva il Messia e che magari ricordava quanto detto dal profeta Zaccaria: “Esulta grandemente, o figlia di Sion, manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme; ecco, il tuo re viene a te; egli è giusto e vittorioso, umile, in groppa a un asino, sopra un puledro, il piccolo dell’asina” (Zac 9,9).

Ma sui passi che abbiamo letto di Matteo e Giovanni dobbiamo fare ancora due considerazioni e credo sia doveroso per noi riflettere sulla nostra posizione.

1 – In Matteo ci viene detto che Gesù manda due discepoli a cercare il puledro d’asina e loro hanno bisogno di rassicurazione (“Se qualcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà”) e Giovanni dice chiaramente che “i suoi discepoli non compresero subito queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui”. Quindi non dobbiamo pensare che tutti avessero bene a mente la profezia di Zaccaria, tant’è che Giovanni stesso ci riferisce che la folla che gli fa festa lo fa perché ricorda i suoi prodigi e, nello specifico, la resurrezione di Lazzaro.

Direi che anche noi, come i discepoli e come la folla, troppo spesso ci dimentichiamo delle promesse del Signore, così come molti di coloro che lo seguivano si erano dimenticati della profezia del riscatto.

Ma spesso noi, che abbiamo ricevuto anche le testimonianze del Nuovo Testamento, ci dimentichiamo delle promesse del Signore, dei suoi insegnamenti, e magari per credere vorremmo vedere eventi prodigiosi, miracoli, manifestazioni eclatanti, quasi che non li avessimo costantemente sotto gli occhi se solo imparassimo a guardare la nostra esistenza con gli occhi della fede.

2 – Un’altra considerazione va fatta per i farisei. A dispetto dei connotati negativi attribuiti nel linguaggio comune odierno, va detto che i farisei erano profondamente credenti e molto legati alle Scritture. Tuttavia il loro essere ligi alla religione li portava ad essere una setta che predicava e praticava un eccessivo rigore formalista nell’osservanza della tradizione mosaica e della legge giudaica.

Da qui le loro espressioni di scherno. Da qui i vari episodi che troviamo nei vangeli, dove i farisei ci vengono presentati come coloro che vogliono provocatoriamente mettere alla prova Gesù, ponendogli domande che vorrebbero metterlo in difficoltà.

Ho molto rispetto per i farisei, perché comprendo bene che il messaggio di Gesù era certamente destabilizzante per l’ordine costituito ed inoltre costringeva (e costringe ancor oggi) le genti ad abbandonare le loro certezze consolidate per entrare in una dimensione dove non tutto può essere conosciuto, dove non tutto può essere provato, dove non c’è alcuna certezza “materiale e terrena” che conforti un atteggiamento di completa fiducia in un Signore che non vediamo, un Signore al quale dobbiamo affidarci per fede.

E allora mi chiedo e, sorelle e fratelli, faccio anche a voi la stessa domanda: “Ma la mia fede, la nostra fede, è veramente tale? Oppure, soprattutto se non coltivata con la lettura della Parola e con la preghiera, diventa un baluardo, una sovrastruttura culturale che ci deriva dalla nostra tradizione, una buona scusa per discriminare ciò che per noi è giusto o ingiusto, ma non è il faro illuminante della nostra vita.

Qualche giorno fa un giovane che frequenta anche la nostra chiesa mi scriveva che talvolta non sa se ha fede, oppure se il sentimento che pova è invece una speranza per affrontare la paura del domani, l’incertezza della vita. Io gli ho risposto che certamente la speranza è frutto anche della fede, ma non certo la speranza per lenire le nostre paure, perché la fede ha una valenza ancora diversa. La fede è quella che nel momento delle prove difficili, oppure nel momento in cui possiamo pensare di essere arrivati al termine della nostra corsa terrena, ci fa dire serenamente “Signore, sia fatta la tua volontà, anche se non comprendo. Signore, nelle tue mani affido tutto me stesso”.

E quindi, sorelle e fratelli, nel fondo del cuore, nel segreto della nostra casa, ci chiediamo mai se la fede in Colui in cui diciamo di credere fa sì che siamo disposti ad abbandonarci completamente alla Sua volontà, a vivere secondo i Suoi insegnamenti, a non temere la morte perché siamo certi che ci sarà una Pasqua anche per noi?”

Domande importanti e profonde, che non possono avere in risposta un atteggiamento farisaico, più legato al fare che all’essere.

AMEN

Liviana Maggiore

 

Sermone: PADRE NOSTRO – … non esporci alla tentazione ma liberaci dal Male

Voi dunque pregate così: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo, anche in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori; e non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno.”   (Matteo 6,9-13)

Abbiamo letto il Padre Nostro, la preghiera che Gesù ci ha insegnato, la preghiera che ci ha donato l’accesso ad un luogo nel quale diritto e giustizia si baciano, dove possiamo (e dobbiamo) considerarci fratelli e sorelle di Gesù, fratelli e sorelle tra noi. Una preghiera che per il fatto di esserci stata insegnata da Gesù non solo ci permette, ma ci autorizza a chiedere aiuto. Ancora di più: ci rende sicuri che la richiesta è già stata esaudita prima ancora che noi la formuliamo. Dio sa già di cosa abbiamo bisogno, senza che noi dobbiamo chiederglielo. Nel momento in cui Gesù ci insegna a dire Padre nostro, ci riconosce come già all’interno di una relazione con Dio, e in una relazione molto speciale perché come figli siamo quindi amati, accolti, sostenuti e protetti.

Non esaminerò ora tutte le richieste del Padre nostro, ma mi soffermerò brevemente su di una che è piuttosto inquietante, che ci interroga oggi, così come ha interrogato i nostri padri e le nostre madri: Non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal Male.

Non ci esporre alla tentazione è un po’ diverso dal cattolico romano non ci indurre, ma allude sempre e comunque ad una tentazione che esiste e dalla quale dobbiamo essere protetti. Il verbo originale indica un ingresso, un entrare, potremmo quindi tradurre: non permettere che io entri nella casa della tentazione, nel luogo metafisico della tentazione, perché già so che soccomberò; Signore aiutami, stai al mio fianco, perché all’interno della mia vita, costellata di prove e tentazioni, io da sola non ce la posso fare.

In effetti sappiamo bene, per dura e dolorosa esperienza, che il male in tutte le sue accezioni ci circonda e anche il nostro linguaggio quotidiano lo sottolinea. Tutti i giorni facciamo i conti con il male e anche con il Male. Il limitato male quotidiano del pensiero malizioso, della piccola bugia, dell’inganno a fin di bene, della scarsa volontà di impegnarsi e dell’assenza di amore per i fratelli e sorelle che incontriamo in autobus, per strada, sul posto di lavoro. Ma facciamo i conti tutti i giorni anche con il Male: quello di chi pensa di condurre i destini dell’umanità intera, seguendo i propri interessi particolari; quello di chi uccide per danaro o di chi lo fa per una passione malata; quello dei bambini maltrattati o addirittura violati. Il Male su cui sediamo comodamente, perché ciascuno di noi sa benissimo che il nostro benessere è costruito sullo sfruttamento di milioni di uomini e donne, e perfino bambini, e sul saccheggio sistematico della Terra.

Il male dunque esiste e non credo che possa mai diventare un bene, in nessun senso, neppure in quello che ci aiuti a diventare migliori o sia una prova mandataci dal Signore. Quando muore un bimbo, non è il Signore che manda una prova; quando siamo schiacciati dal dolore, il Signore non ci guarda per vedere se siamo in grado di andare avanti. No, io non lo credo assolutamente. Il Male è altro, totalmente altro, dalla realtà di Dio.

Ma, indubbiamente, esso è presente nelle nostre vite e dobbiamo anche ammettere che ci affascina, ci ammalia e seduce, segna le nostre esistenze in un modo che soggettivamente non è sempre inteso negativamente.

Il Male dunque esiste e, insieme ad esso, anche la tentazione. Gesù stesso ha dovuto affrontarla nel deserto. Tutti i giorni incontriamo la tentazione dell’ingordigia, del potere, dell’egoismo e potremmo scrivere un lungo elenco, ma, soprattutto, conosciamo una tentazione che in fondo le riassume tutte ed è la più pericolosa, quella che subdolamente entra in ciascuno e ciascuna di noi: la tentazione dell’indifferenza, dello smettere di interrogarsi, di indignarsi e di soffrire, la tentazione di negare la propria responsabilità sulla Terra, fino a quella più invischiante e pericolosa, la tentazione di lasciare Dio.

La prova dunque esiste, non possiamo che accettarlo: perché il dolore, la sofferenza, il sopruso, esistono. Ma noi possiamo soccombere oppure no. Noi possiamo resistere oppure no. Non si tratta di eroismo, non si tratta di essere campioni o peggio addirittura di magnificare il dolore, di considerarlo una cosa buona, utile per la nostra salvezza, o meritorio; si tratta di non crollare sotto il peso delle nostre esistenze. Delle nostre esistenze che sono sempre sotto il segno del dolore, della fatica, del peccato. Perché la vista quotidiana del male può farci cadere nel disfattismo, nella rassegnazione  o  nell’indifferenza. Come se non ci fosse nulla da fare e quindi noi non potessimo fare nulla, o, addirittura, come se la presenza, tenace, del male ci portasse piano piano a disinteressarci di Dio. Ci portasse a non credere che Dio sia Amore e che voglia l’amore per tutti e tutte noi. Ci spingesse a pensare che forse non può esistere Dio se siamo circondati da tanto orrore.  La richiesta, quindi, non è di sottrarci alla fatica del vivere, ma di aiutarci a restare in piedi, aiutarci ad esserci con la nostra forza, quando nella prova c’è qualcuno a noi vicino, aiutarci a non inchinarci ai tanti signori che ci tentano e ci inducono, loro sì, in tentazione.

Il Padre Nostro non è dunque una preghiera liturgica da ripetere durante il culto, ma è un programma di vita che ci ricorda che senza il Signore non possiamo nulla, ma, contemporaneamente, che siamo già col Signore e di nulla quindi dobbiamo temere. Una preghiera che ci indica la luce quando ci sentiamo nelle tenebre, una preghiera da dire insieme a chi è nelle tenebre e ci chiede aiuto per uscirne. Siamo in grado di farlo? Siamo in grado di affidarci con piena fiducia a questo Signore che ci ha chiesto di chiamarlo Padre?

Chiedere di non essere esposti alla tentazione, dunque, non significa sperare che la tentazione non ci sia, ma chiedere di essere più presenti a noi stessi, più consapevoli della presenza del Signore, del fatto che Gesù ci vede, è al nostro fianco e ci viene incontro. Significa non accontentarci del nostro tiepido vivere: se parliamo di Provvidenza, di aiuto che il Signore ci offre dobbiamo riflettere se ci crediamo oppure no, se parliamo di sequela del Signore, dobbiamo capire se siamo veramente nella sequela o se invece sopravviviamo con il nostro comodo tran tran. Siamo aperti all’ascolto della volontà del Signore? Abbiamo davvero voglia di chiedere a Dio che ci indichi la strada? O ci siamo talmente abituati al male, che non ha più molto senso per noi dire “liberaci dal Male”, se non nel senso piccolissimo, del liberaci dal male che potrebbe colpire chiunque di noi in qualsiasi momento? Il Padre Nostro ci aiuta a ricordarci, anche, che il Male esiste ed è qualcosa che è dentro di noi e che noi possiamo alimentare e far crescere come una pianticella o cercare di sradicare come un’erba cattiva.

Siamo tutti e tutte consapevoli che continueremo ad affrontare per tutta la vita il male, in un lungo percorso, talvolta leggero e talaltra pesante ed accidentato, durante il quale chiederemo al Signore di non esporci alla Tentazione di vivere senza porci domande, in un qui ed ora forse poco appagante, ma che non ci angoscerebbe, non ci interpellerebbe, non ci metterebbe in discussione continuamente; avremo sempre bisogno di chiederGli di non esporci alla tentazione di vivere senza di Lui. Infatti dire “Signore dove sei, perché mi hai abbandonato”, non è essere caduti nella tentazione, ma non interrogarci più e vivere la nostra vita normale, magari piena di buone azioni, piena di buoni sentimenti, bei sermoni e belle preghiere, ma senza Dio, è cadere nella tentazione e dunque, o Signore, non esporci alla tentazione, ma liberaci dal Male.   Amen!

Erica Sfredda

Sermone: LA PAZZIA E LO SCANDALO NELLA DEBOLEZZA DELLA CROCE

Carissimi, oggi, oltre a celebrare il 17 febbraio, grande ricorrenza per il popolo valdese che festeggia la propria emancipazione, siamo presenti a questo culto della prima domenica del periodo di quaresima.

Certamente non fa parte della nostra tradizione considerare questo periodo come un tempo di sacrifici e privazioni, però dobbiamo interpretare questi giorni che ci separano dalla Pasqua come un’attesa, un periodo di riflessione sul significato che ha per noi la croce e il sacrificio del Signore Gesù.

Certamente siamo distratti da mille cose nel corso della nostra quotidianità, tuttavia, da credenti quali diciamo di essere, non possiamo esimerci dal cogliere i messaggi che la Scrittura ci offre. Oggi quindi vediamo a cuore aperto e ci lasciamo interrogare da un passo della prima lettera di Paolo alla chiesa di Corinto.

Il mio personale ringraziamento va al pastore William Jourdan che mi ha dato un prezioso aiuto nella preparazione di questo culto, sollevandomi non poco nella situazione problematica che ho vissuto in queste due ultime settimane, pur mantenendo con voi il mio impegno per oggi.

Leggiamo quindi il passo su cui verte la predicazione di oggi.

“Poiché la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio; infatti sta scritto: «Io farò perire la sapienza dei saggi e annienterò l’intelligenza degli intelligenti». Dov’è il sapiente? Dov’è lo scriba? Dov’è il contestatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo? Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione. I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.” (1 Cor 1,18-25)

Persone perbene, ragionevoli, a seconda dei casi più pacate o più passionali, comunque, persone normali. Se ci pensiamo bene è così che ci definiamo o definiremmo se qualcuno dovesse domandarci: voi che credete in Gesù Cristo, come vi considerate, come guardate a voi stessi?  Non credo che la maggior parte di noi si consideri particolarmente al di fuori della norma, anzi, forse, talvolta, ci consideriamo anche troppo nella norma. Ma questa nostra immagine corrisponde all’evangelo che è annunciato dall’apostolo Paolo?  Questo modo di vederci e di guardare a noi è coerente con le sue parole?

Pazzia, scandalo, debolezza: è con queste parole che Paolo presenta il vangelo, parole che non rimandano direttamente a quella ragionevolezza e normalità che spesso sono nostre bandiere, che ci permettono di mimetizzarci tra gli altri senza apparire più di tanto diversi.  E riflettiamo, sorelle e fratelli, su quanto il nostro mimetizzarci nella cosiddetta “normalità” possa nascondere spesso una fede tiepida, un credere talvolta dovuto a tradizione e non a una reale nostra conversione di vita.

È questo evangelo che ci viene oggi consegnato, annunciato, che è fondamento della nostra fede. Non il nostro buon senso, non la nostra ragionevolezza, non il nostro equilibrio; è la predicazione della croce, la pazzia di Dio, la debolezza di Dio che fondano il nostro credere, che sono alla sua base. È il messaggio scandaloso che ci parla dell’azione di Dio.

Proprio oggi, in un tempo in cui abbiamo bisogno di equilibrio e di ragionevolezza da parte dei credenti, da parte delle fedi – perché di irragionevolezza ce n’è già abbastanza! – l’apostolo Paolo ci guida al centro di un messaggio che capovolge, ribalta i criteri di umana valutazione e porta con sé una strana confusione.

Paolo sa che la sua predicazione è fonte di confusione per chi lo ascolta: nel suo tempo si trova di fronte Giudei e Greci. Gli uni, come abbiamo letto nel precedente passo di Giovanni su Gesù al tempio, richiedono miracoli, opere di tangibile potenza, opere che convincono gli occhi della validità dell’annuncio; gli altri, forti della loro antica cultura, chiedono sapienza, cioè argomenti che siano capaci di mostrare la razionalità dell’annuncio, la sua pertinenza rispetto alle logiche che guidano la nostra vita (v. 22).  Eppure, l’unica risposta dell’apostolo è «ma noi predichiamo Cristo crocifisso» (v. 23).

Paolo non tenta di argomentare, non tenta di spiegare, ma mette dinnanzi ai suoi interlocutori l’unica cosa che può mostrare, l’unico segno che abbia valore: Cristo crocifisso.  Paolo non illustra né compie prodigi. Paolo non presenta la logica del messaggio evangelico con elucubrazioni filosofiche o razionali. Nulla di tutto questo. Però Paolo sa bene che nel suo uditorio ciò che egli dice crea confusione, disorientamento, scandalo.

Siamo noi consapevoli, come l’apostolo, che la nostra predicazione può essere fonte di confusione?  Siamo noi disposti ad accettare che la confusione ingeneri rifiuto, che la potenza rovesciata di questo evangelo sia snobbata, non riconosciuta, respinta?

Quanti Giudei e quanti Greci camminano nelle nostre città, vivono alla porta accanto, chiacchierano con noi ogni giorno, senza immaginare che il messaggio che abbiamo ricevuto e che portiamo nega le logiche correnti, si affida a qualcuno che nella comprensione del tempo di Paolo era uno sconfitto, un derelitto, uno che era finito male e non poteva certo avere qualcosa di buono per altri?

Forse a duemila anni distanza è più difficile comprendere lo scandalo e l’irragionevolezza della croce: anche perché la croce è divenuta il simbolo che va sempre bene! Come gioiello da appendere, come ornamento che si può mettere ad ogni parete, come simbolo della generosità umana e della disponibilità a spendersi per gli altri che affrontano la malattia.

In realtà al tempo di Paolo, annunciare che il Messia – il Cristo, appunto – era stato messo in croce, era un parlare da persone che farneticano, che non sanno bene che cosa dicono.  La crocifissione, come sappiamo, era la pena esemplare, il modo in cui il potere puniva un malfattore e mostrava a quanti avessero voluto fare lo stesso che cosa sarebbe loro accaduto.  Il potere del tempo, che era il potere romano, mostrava in questo modo la sua potenza.

Paolo osa affermare che questa comprensione delle cose è solamente apparenza. In realtà, la croce di Cristo, ci dice l’apostolo, è il trionfo di Dio su questo e su altri simili poteri, che esprimono la loro potenza nella sopraffazione.

Scandalo e pazzia sono le reazioni, i modi in cui si guarda a questo annuncio da parte dei gruppi che già prima abbiamo citato, i Giudei e i Greci, gli stranieri. Scandalo perché il Messia viene per esprimersi con potenza, non per lasciarsi schiacciare! Pazzia perché questo annuncio non aiuta a comprendere la realtà, bensì la confonde. «Ma per quelli che sono chiamati», questo annuncio è «potenza di Dio e sapienza di Dio» (v.24).

Ma noi, donne e uomini del nostro tempo, cogliamo la potenza di Dio e la sapienza di Dio che ci viene offerta in questo annuncio? Cogliamo l’altra logica, l’altra sapienza, l’altra forza che questo evangelo ci offre e ci porta?

È prima di tutto la forza dell’iniziativa di Dio nei nostri confronti: è Dio che agisce, è Dio che salva, è Dio che si fa conoscere nella propria sapienza.

Conoscete quel proverbio che dice «Aiutati che il ciel ti aiuta»? Di fronte all’annuncio di Paolo è la quintessenza dell’anti-evangelo.  Qui non c’è azione umana, non c’è invito a rimboccarsi le maniche, a fare qualcosa che ci fa stare meglio o ci fa sentire utili; c’è solo l’esigenza profonda di cogliere quella logica che scardina le logiche del nostro mondo, quel messaggio che relativizza radicalmente gli assoluti della nostra vita, anche quegli assoluti che possono sembrare buoni e positivi. C’è l’esigenza di vedere che l’evangelo è altro rispetto ai molti modelli ed espressioni di sapienza: non è annuncio di morale, non è messaggio filosofico o filosofeggiante, non è verità che contribuisce all’architettura spirituale o religiosa dell’essere umano; è momento di rottura con queste diverse realtà perché annuncia l’intervento definitivo di Dio nel mondo.

Paolo porta questo messaggio a chi vorrebbe spiegazioni e dimostrazioni.  Un messaggio paradossale.

Talvolta ho l’impressione che anche in noi cresce il bisogno, la voglia di spiegare come funziona l’evangelo, per renderlo meno scandaloso, più accettabile all’orecchio di chi ci sta intorno o anche al nostro stesso orecchio.  Eppure questo significa già fraintenderlo: non ci è dato di dimostrare, spiegare, convincere con la nostra sapienza e la nostra retorica; possiamo mostrare, possiamo illustrare, possiamo narrare la vicenda di Cristo, offrire semplicemente questa storia, portando insieme ad essa le domande che pone, il modo di guardare alla realtà che la accompagna, la comprensione del mondo che ci offre.

La predicazione della croce vive in questa debolezza, che è anche la sua forza: la debolezza di essere estranea alle logiche del mondo, di essersi inimicata queste logiche, ma proprio per questo la possibilità di offrirsi come l’alternativa inattesa.

È confidando in questa sua forza che noi possiamo annunciarla, farcene araldi, senza temere di essere considerati un po’ meno perbene e ragionevoli di come vorremmo essere.

AMEN

Past. William Jourdan – Liviana Maggiore

Sermone: LA FONTE D’ACQUA DELLA VITA

«O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte! Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il frutto delle vostre fatiche per ciò che non sazia? Ascoltatemi attentamente e mangerete ciò che è buono, gusterete cibi succulenti! Porgete l’orecchio e venite a me; ascoltate e voi vivrete; io farò con voi un patto eterno, vi largirò le grazie stabili promesse a Davide. Ecco, io l’ho dato come testimonio ai popoli, come principe e governatore dei popoli. Ecco, tu chiamerai nazioni che non conosci, e nazioni che non ti conoscono accorreranno a te, a motivo del SIGNORE, del tuo Dio, del Santo d’Israele, perché egli ti avrà glorificato».    (Isaia 55,1-5)

Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».  E colui che siede sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi mi disse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere», e aggiunse: «Ogni cosa è compiuta. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita».  (Apocalisse 21,1-6)

 

“O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte!”

Che bellissima immagine! Così festosa e luminosa! Così rassicurante e gioiosa! Davvero ci fa sentire sotto un nuovo cielo e sopra una nuova terra! O forse ci fa solo immaginare, quasi con malinconia, un nuovo cielo e una nuova terra, perché ci risulta difficile se non impossibile ipotizzare una realtà nuova, che non sia piena di morte e di dolore. Piena di morte e di dolore. Sì, perché spesso la nostra vita qui sulla terra ci appare buia e senza speranza, così buia e senza speranza da non trovare più la forza per sollevare il capo e guardarci intorno. E questa fatica, questa incapacità c’è oggi ed è molto evidente, ma c’era anche 2/3/quattro mila anni fa. In un mondo oscurato dal peccato umano, lacerato dalle grida di dolore e straziato dalla morte, ma, oggi come allora, troviamo nella Bibbia, sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento, parole di segno diverso, parole di speranza che ci indicano una strada differente, un percorso possibile, in salita, probabilmente, ma illuminato dalla luce del Signore.

E quanto ne abbiamo bisogno! Quanta necessità di essere dissetati alla fonte della vita e trovarvi refrigerio, per non cadere nella tentazione della disperazione, dell’angoscia, della perdita di qualsiasi speranza. Perché l’assenza di speranza è l’altra faccia della medaglia dell’arroganza umana che contraddistingue forse qualsiasi società, ma certamente la nostra. Viviamo in un mondo che alterna situazioni in cui ci crediamo onnipotenti ad altre di totale desolazione, senza che esista un equilibrio, una stabilità profonda che ci permetta di percepire la nostra più vera e profonda realtà: siamo uomini e donne, peccatori e peccatrici, che non hanno speranza di riscatto senza Grazia, ma contemporaneamente siamo appunto ricolmi e ricolme della Grazia e quindi possiamo guardare il mondo con gli occhi che il Signore ci ha dato, possiamo rimboccarci le maniche per renderci umili servi e serve al Suo servizio consapevoli che anche a noi, piccoli uomini e donne nell’enorme mondo che ci circonda, spetta un ruolo, spetta un compito. Il Signore ci chiama al Suo fianco, in un mondo che è pieno di dolore, di fatica, di male, ma ci promette anche di nutrirci e dissetarci. Non ci abbandona nel buio dell’esistenza, ma ci illumina con la Sua grazia e lo fa, come dice il testo dell’Apocalisse, rendendo “nuove tutte le cose”.

Molti di noi restano perplessi di fronte al libro dell’Apocalisse, perché sembra un po’ misterioso, strano, pare quasi che non parli a noi. Talvolta capita perfino che lo apprezzino di più i non credenti, che lo considerano una fantasia religiosa, ma affascinante. Perché il credente medio si sente troppo serio e composto per riuscire ad entrare in contatto con il testo dell’Apocalisse e a cogliere un rapporto tra la propria vita quotidiana e quelle immagini, per riuscire a costruire un ponte tra la propria fede, che cresce e si sviluppa all’interno della sua realtà concreta, e queste immagini, considerate poetiche, evanescenti, fuori dalla nostra portata.

Ma l’Apocalisse col suo linguaggio che ci pare descrivere un mondo irreale, fuori della nostra realtà, pieno di angeli e bestie e strani mostri, ci parla anche della lotta del Regno di Dio che viene.

La lotta del Regno di Dio che viene: la lotta, fratelli e sorelle, perché di questo si tratta, di una lotta: il Regno di Dio non è lassù nell’alto dei cieli, freddo e distante. No, il regno dei cieli è qui, al nostro fianco e lotta con noi e per noi. Il Signore si è incarnato una volta per tutte e ci ha offerto quell’acqua di cui parla alla samaritana: un’acqua che ci toglierà per sempre la sete, un’acqua che diventerà dentro di noi “una fonte d’acqua che scaturisce in vita eterna”.

E dunque dopo aver ricordato la settimana scorsa gli orrori dei lager nazisti, dopo aver bevuto, o cercato di bere, il calice amaro della consapevolezza che anche oggi in questo preciso momento ci sono in Libia, piuttosto che in Palestina, in Nigeria piuttosto che in Afghanistan uomini, donne e bambini che muoiono, che soffrono, che sono maltrattati, percossi, violati da altri uomini e donne, nonostante tutto ciò oggi vogliamo anche ricordare che possiamo chiedere e riceveremo, possiamo domandare e ci sarà risposto perché “A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita”. Gratuitamente, fratelli e sorelle, gratuitamente. Questa gratuità ci rimette al nostro posto spezzando la nostra arroganza, ma anche ristorando le nostre paure. E gratuitamente ci arriverà quello senza il quale non c’è esistenza, l’acqua. L’acqua che è fonte di vita per ognuno e ognuna di noi, acqua che ci ristora, che ci rinfresca, ma soprattutto che assicura il nostro esistere o non esistere. Utilizzare la metafora dell’acqua, dunque, ci aiuta a capire che il Signore non ci offre il di più, non ci coccola con discorsi oziosi se non addirittura inutili, ma ci offre la possibilità stessa di vivere, la possibilità di spezzare per sempre la catena, pesante e dolorosa con la quale trasciniamo il fardello che quotidianamente portiamo: il nostro peccato col suo corollario di dolore, di fatica, di ingiustizie fatte e subite. E questo dono è offerto a tutti, indistintamente, senza pregiudizio, senza confini, senza limitazioni, perché come leggiamo in Isaia: “Ecco, tu chiamerai nazioni che non conosci, e nazioni che non ti conoscono accorreranno a te, a motivo del SIGNORE, del tuo Dio, del Santo d’Israele, perché egli ti avrà glorificato”.

E questo è possibile nonostante tutto, perché il Signore ha la capacità e soprattutto l’intenzione di fare “nuove tutte le cose”, essendo l’alfa e l’omega, il principio e la fine.  AMEN

Erica Sfredda

 

Sermone: SPERARE L’IMPOSSIBILE

Romani 8:18-25

Infatti io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza.

Il passo di Paolo che abbiamo letto stamattina è di una rara potenza perché affronta il cuore stesso della nostra fede, del nostro travagliato rapporto con Dio, perché ci accompagna dalla disperazione provocata dalla nostra sofferenza fino alla speranza della nostra redenzione. Paolo afferma che

“siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza.”

Ma come si può giungere alla speranza, se si è totalmente circondati dalla disperazione? Non ho bisogno, credo, di insistere a lungo sulle sofferenze che viviamo e che ci fanno sentire vicinissimi all’apostolo. Anzi, potremmo arrivare a pensare che oggi più di allora la vita ci appare tremenda e angosciosa: in questi secoli abbiamo infatti ucciso e massacrato uomini, donne, bambini e talvolta siamo arrivati a sterminare intere popolazioni, abbiamo assistito in silenzio alla tratta degli schiavi africani, alla shoa, all’annientamento dei nativi americani; ma abbiamo anche sfruttato e depredato l’ambiente che ci circonda. Mai come ora ci pare di poter affermare che tutta la creazione geme. Tutta la creazione: gli animali in via di estinzione, spesso cacciati per puro divertimento, o quelli allevati in condizioni tremende, costretti a vivere tutta la vita all’interno di gabbie nelle quali è loro impedito qualsiasi movimento, ma anche gli ambienti naturali, distrutti e soppiantati da un ecosistema che ci toglie la vita. Non voglio fare un sermone ambientalista. Non è questo il momento, né, forse, la sede giusta, ma volevo solo rendervi presente lo sfacelo in cui abbiamo gettato, talvolta per buone ragioni, spesso solo per speculare ed arricchirci, la Creazione. L’intera Creazione. Se stessi facendo una conferenza, soppeserei i pro e i contro, valuterei l’impatto delle nostre scelte, a volte portatrici di progresso e talaltra scellerate. Ma quello che oggi voglio sottolineare è solo che non facciamo alcuna fatica a comprendere questa affermazione di Paolo:

“La creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta”

La creazione aspetta con impazienza: la creazione violata e ormai lontana dalla propria vocazione, aspetta con impazienza. La creatura umana ha costretto, dice Paolo, tutta la creazione ad essere inutile, ad essere vana, a perdere la propria vocazione e la propria identità. Ma la creazione aspetta perché, ed è questo un passo profondo e sul quale non meditiamo forse abbastanza, la redenzione non può che essere totale e riguardare l’intera creazione. Non si tratterà, dice Paolo, di un evento spirituale, un pochino astratto, a cui approdare attraverso l’ascesi, ma sarà qualcosa che ci coinvolgerà nella nostra totalità, nella nostra integrità di creature, uomini e donne, ma anche piante, animali, acque e montagne. L’aver trasformato la salvezza in qualcosa di astratto, ci permette di vivere come se essa non esistesse, di relegarla alle nostre preghiere domenicali, come se fosse cosa che in fondo non ci riguarda. Ma Paolo non pensa questo e ci ammonisce affermando che la redenzione, per essere tale, non può che riguardare tutta la creazione voluta da Dio.

Ma l’apostolo afferma che

“le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo.”

Le nostre sofferenze, le nostre tragedie, non sono paragonabili alla gloria. Cosa significa? Non si tratta di una facile scappatoia, una specie di consolazione per l’umanità avvolta nel dolore, perché, e Paolo lo sa bene, anche noi, che pur abbiamo le “primizie dello Spirito”, che pur siamo i destinatari della rivelazione, che pur abbiamo incontrato Gesù, anche noi continuiamo a gemere e soffrire e non c’è scappatoia consolatoria che tenga.

Dentro di noi non c’è realmente una possibilità di redenzione perché dietro e dentro ad ogni nostro dolore, anche il più piccolo e banale, c’è, bruciante, il tema della nostra finitezza, della nostra limitatezza che sembra distruggere la speranza. Certo possiamo sperare di trovare lavoro, una casa più bella, un buon marito, dei figli di cui andare orgogliosi, ma non possiamo cancellare la nostra finitezza. E non è pensando all’armonia dell’universo che riusciamo a sfuggire a questa angoscia di fondo, a questa consapevolezza, dalla quale non possiamo sottrarci perché anche l’eternità, vista con i nostri occhi, è limitata, è delimitata.

Possiamo immaginare un tempo lungo, lunghissimo, così lungo da non riuscire a vederne la fine, ma non possiamo capire, realmente, cosa sia l’eternità. Possiamo quindi immagine un’armonia che ci rassereni, ma sarà pur sempre e solo il contrario della disarmonia nella quale siamo immersi.

E Paolo risponde proprio a questo: non è guardando noi stessi che possiamo trovare una soluzione, non è prolungando artificialmente la nostra vita, non è annebbiandoci con l’alcool o con la musica new-age, non è ammazzandoci di lavoro, che possiamo incontrare la speranza, ma solo rivolgendoci al “completamente altro”. Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili, perché sono le nostre sofferenze, il nostro confine.

Per trovare la Consolazione dobbiamo prima di tutto accogliere la realtà che noi non possiamo dare consolazione, non possiamo essere consolazione, perché la consolazione in realtà non ci appartiene, è totalmente altro, o come dice Paolo

“la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora?”

La consolazione dunque arriva proprio quando ci lasciamo andare, quando accogliamo nel nostro cuore e nella nostra vita il totalmente Altro, colui che solo può accogliere la nostra disperazione e trasformarla in speranza. Amen!

Erica Sfredda