Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 16 DICEMBRE 2012 (Is 40:1-8; Mt 11:2-6, 1 Cor 4:1-5)

“Consolate, consolate il mio popolo”

Com’è bello questo versetto tratto dal libro del cosiddetto terzo Isaia che parla di consolazione, ma non di natura umana. No, qui è Dio stesso che dà ordine di consolare il suo popolo. A chi lo dà, questo ordine? Vari esegeti rispondono: alle schiere celesti, alle moltitudini angeliche al servizio del Signore; e anche questo è bello, perché allude a un universo animato da infinite energie spirituali tutte mobilitate nello svolgere il ministero della consolazione a beneficio di quel popolo misero e peccatore, che pure il Signore chiama il suo popolo.

“Consolate”. Non è però questa la traduzione più precisa del verbo ebraico, che significa piuttosto “prendere forza”, “confortare” nel senso etimologico del termine. Ciò che Dio vuole per il suo popolo è dunque che questo popolo si alzi e si metta in cammino. Dio vuole dare una scossa a questo popolo inerte e pertanto vuole che il messaggio raggiunga non le orecchie, bensì il cuore di Gerusalemme: il suo nucleo vitale, la sua intimità più profonda. Abbattuto, avvilito dalla lunga schiavitù babilonese, disgregato, privato delle proprie istituzioni, della propria stessa identità, il popolo di Israele deve ora acquistare consapevolezza che, per volontà del Signore, questo stato di cose è finito, “che il tempo della sua schiavitù è compiuto”.

Questo annuncio di liberazione rivolto a Israele tocca nel profondo ciascuno di noi. Chi di noi non ha bisogno di consolazione e di conforto – se non personalmente, quanto meno in una situazione collettiva come quella che stiamo vivendo? Si tratta di una situazione che genera inquietudine, apprensione, anche desolazione: per le difficoltà concrete del presente, per l’incertezza del futuro, ma anche e soprattutto, per la grave condizione di degrado morale, culturale, spirituale nel quale versa il nostro Paese. Siamo anche noi, sotto tanti aspetti, schiavi; legati a catene che, se in parte ci vengono imposte da strutture e da realtà sulle quali non abbiamo alcun potere, in parte siamo stati invece noi stessi a forgiarci. Ecco perché siamo assetati di parole di conforto. Parole che non siano superficiali, illusorie; di queste ne abbiamo sentite e continuiamo a sentirne fin troppe. Sappiamo bene di dover sempre stare in guardia da coloro che la Scrittura denuncia come falsi profeti, falsi appunto in quanto annunciatori di false sicurezze (cfr. Ger 6: 13-14; Ez 13). La consolazione fallace è moneta corrente; la consolazione vera è rara e a volte sembra davvero introvabile. La Scrittura registra senza reticenze questo dato di fatto: Qohelet ricorda “le lacrime degli oppressi, i quali non hanno chi li consoli” (Ec 4: 1); nel libro delle Lamentazioni si constata che “[Gerusalemme] fra tutti i suoi amanti non ha chi la consoli” (Lam 1: 2).

Ma la stessa Scrittura registra anche parole di consolazione/conforto autorevoli come questa di cui si fa interprete Isaia: parola autorevole perché pronunciata da Dio, e perché non si tratta di consolazione a buon mercato. Essa può infatti venire offerta da Dio solo dopo che è stato ristabilito il giusto rapporto tra Israele e il suo Dio, dopo che il debito di Israele è stato pagato. È così che Israele può rialzarsi, mettersi in marcia, continuare il cammino. E lungo questo cammino incontrerà il Signore. Questo lo annuncia una voce, “la voce di uno che grida”: forse il profeta stesso, ma l’identificazione della “voce” non ha molta importanza. Importante è ciò che la voce grida. La voce grida che il Signore si farà incontrare lungo una strada aperta nel deserto, una strada costruita appianando ogni dislivello, una strada pianeggiante e rettilinea. Una strada che deve consentire a chi ritorna da Babilonia a Gerusalemme di andare in processione festosa, senza fatica e senza deviazioni, con gioia, verso il Signore; ma è, allo stesso tempo, una strada preparata per il Signore, una strada nella quale risplenda e si manifesti al mondo intero la sua gloria. Questo è il compito al quale è chiamata Israele: eliminare tutti gli ostacoli alla costruzione di quella che deve essere “la via del Signore”.

Una via che va costruita nel deserto, nei luoghi aridi. Anche questa immagine simbolica, pur venendo da una cultura e da un’epoca così lontane da noi, pur appartenendo a un linguaggio che non è il nostro, ci coinvolge direttamente e profondamente: perché ciascuno di noi sa benissimo che “deserto”, “luogo arido”, è molto spesso il nostro cuore che, come quello di Gerusalemme, ha un disperato bisogno di conforto. E “deserto”, “luogo arido”, bisognoso di consolazione e di conforto che lo rendano verde e fertile, è molto spesso anche il mondo, la società intorno a noi. Ma perché i nostri luoghi aridi, individuali e collettivi, vengano irrigati e resi verdi e fertili, è necessario obbedire alla chiamata di questa voce che grida esortandoci a preparare la via, ad appianare le nostre asperità così da renderci disponibili alla sua venuta. Il “come” concretamente realizzare questo ci viene suggerito da Paolo allorché esorta i Corinzi a essere fedeli amministratori dei misteri di Dio. Il che altro non significa se non annunciare e testimoniare con la nostra vita il progetto di Dio, che è un progetto di salvezza e di liberazione, quindi di consolazione, nei confronti dell’umanità intera.

Una testimonianza tale da far intravedere qualcosa del regno che viene. Nel vangelo di Matteo, la predicazione di Gesù è accompagnata da fenomeni prodigiosi quali la guarigione da malattie e da disabilità, addirittura la risurrezione dalla morte – e poi quello che è l’evento più straordinario di tutti, una buona notizia annunciata ai poveri. Nel Nuovo Testamento i poveri sono sì coloro che non hanno abbondanza di beni materiali, ma sono soprattutto coloro che sanno di non essere autosufficienti, che sentono dentro di sé dei vuoti da colmare, che si sentono “luoghi aridi” bisognosi di pioggia, per usare il linguaggio di Isaia; che sentono la necessità di essere confortati. In quanto tali, sono aperti ad accogliere il lieto annuncio della grazia e del regno. Ecco: direi che essere “fedeli amministratori” significa fare nostro questo atteggiamento di apertura, accogliere l’Evangelo non però per tenerlo per noi, ma per testimoniarlo ad altri “poveri” come noi. Questo deve essere il nostro impegno; a noi – ci ricorda Paolo – spetta eseguire il compito, non valutare, giudicare i risultati. Non solo perché questo compete a Dio e non a noi, ma perché non saremmo in grado di farlo: troppe cose, in questa vita, restano per noi oscure e nascoste. Ma su una cosa possiamo essere tranquilli: se saremo amministratori fedeli, i risultati ci saranno, anche se forse noi non ce ne renderemo conto. E questi risultati si possono sintetizzare così: far sbocciare potenzialità di vita là dove, all’apparenza, sembra regnare solo la morte.

Far sbocciare la vita? Ma il destino finale di ogni essere umano non è forse la morte? Questo è ciò che grida un’altra anonima “voce” nei versetti di Isaia, in un dialogo serrato del quale è difficile riuscire a identificare gli interlocutori. All’annuncio della consolazione, all’annuncio della costruzione della strada, segue adesso un terzo annuncio che altro non è se non una amara constatazione del carattere effimero, transitorio della natura umana e di tutto ciò che riguarda l’essere e l’agire umano: “ogni carne è come l’erba […] tutta la sua grazia è come il fiore del campo”. Immagini di straordinaria suggestione e, al tempo stesso, inesorabili. Di ciò che è “carne”, cioè umano, nulla si salverà, nulla sopravviverà. Anche questa immagine è ricorrente nella Scrittura; il terzo Isaia la ripropone più avanti, in un versetto in cui Dio si presenta nuovamente come unico sicuro e affidabile consolatore di Israele “Io, io sono colui che vi consola; chi sei tu che temi l’uomo che deve morire, il figlio dell’uomo che passerà come l’erba?” (Is 51: 12). Qui, però, la caducità umana che Dio mette in risalto è quella dei nemici di Israele: usando un linguaggio colloquiale, potremmo dire che destinati a scomparire nel nulla sono i “cattivi”. Nel passo di Isaia sul quale stiamo riflettendo, invece, è proprio di Israele che si parla, del popolo del Signore, di quel popolo che il Signore stesso ha appena dichiarato di voler confortare. Anche quel popolo amato e privilegiato finirà come erba che appassisce, buona solo per essere gettata nel fuoco.

Per noi, questo memento mori può suonare angoscioso, quasi insopportabile; sì, anche per noi cristiani, sebbene la nostra fede ci insegni che l’ultima parola non spetta alla morte. Eppure credo sia salutare anche per noi essere costretti a ricordare che tutti gli esseri umani si trovano accomunati dalla condizione di “erba”, e che a tale condizione può sottrarsi soltanto chi apre il suo cuore a Dio, lasciandosi confortare da Lui, trovando cioè in Lui e in Lui soltanto la sua forza, nella consapevolezza, ribadita da Isaia, che l’unica realtà che non verrà mai meno è la parola del Signore. Per il resto, non è certo questa la sede per discutere (lo si potrebbe fare a lungo) su ciò che la morte significava per l’antico Israele e su ciò che significa per noi cristiani. Preferisco affidare alla vostra riflessione questa espressione di Karl Barth: “l’uomo come tale non ha alcun aldilà, non ha bisogno di averne, perché Dio è il suo aldilà”. Una sorta di traduzione, in linguaggio moderno, del “grido” di Isaia, che si risolve in un meraviglioso invito a concentrarci non sulla paura di morire, bensì sulla responsabilità di vivere.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 9 DICEMBRE 2012 (Lc 16:1-9, Os 6:6, Rm 13:8)

IL FATTORE INFEDELE

La parabola del fattore infedele ha sempre creato difficoltà sia agli esegeti, sia ai semplici lettori come noi. Infatti, non possiamo nasconderci che trovare nel Nuovo Testamento una storia di disonestà premiata ci lascia quanto meno sconcertati. Qui Gesù si esprime con parole di approvazione per questo farabutto di un fattore che in primo luogo va in rosso lui e poi è tanto privo di scrupoli da mettere gli altri in obbligo con sé stesso contro gli interessi del suo padrone, nel momento in cui la bufera sta per scoppiargli sulla testa. Lo licenzieranno, questo è certo, ma lui ha la fondata speranza di trovare, in quel momento, degli amici. Un calcolo così è una truffa bella e buona! È questo che non si riesce a capire: come può Gesù lodare e proporre a modello una truffa come questa? Certo, potremmo pensare che questo racconto rappresenti quanto meno una testimonianza convincente del fatto che Gesù era dotato di senso dell’umorismo e indubbiamente in questo c’è del vero; tuttavia, sarebbe riduttivo accettare questa storia come un semplice racconto umoristico. Si tratta, al contrario, di un racconto molto serio, che ci parla dell’ultima, estrema possibilità che ci resta quando il giudizio è incombente, quando veniamo messi alle strette.

Cominciamo con il partire dal presupposto che tutto quello che viene detto qui sia riferito a noi. In tal caso il bilancio della nostra vita, che Gesù pretende da noi, si presenta esattamente come un’incombente resa di conti. Noi siamo nella stessa situazione di questo fattore: abbiamo amministrato in un modo così disastroso che, alla fine, non è più possibile porvi rimedio. Siamo debitori, sempre, quali che ne siano le cause, qualunque sia la nostra situazione, qualunque sia la nostra storia personale. Alcuni di noi possono indebitarsi per negligenza, altri per errori di valutazione, altri per mancanza di adeguate cognizioni, altri ancora per mancanza di coraggio… Non importa come e in che misura: la verità è che siamo tutti nei guai, e che Gesù vuol farci capire che questa è la nostra situazione davanti a Dio. Se si procede secondo i princìpi della giustizia, tutti quanti verremo un giorno smascherati come cattivi amministratori: al massimo potremmo ammetterla, la nostra cattiva amministrazione, ma non potremo certo risanarla.

Così appare la nostra vita, se la consideriamo con gli occhi di Dio. Possiamo credere – speriamolo, almeno! – di aver avuto nel complesso delle buone intenzioni, nel corso della nostra esistenza; di aver cercato, da credenti, di compiere nei limiti delle nostre possibilità ciò che ci sembrava il Signore ci richiedesse. Ma che dire di tutti i momenti in cui ci siamo negati per stanchezza del cuore, per debolezza dello spirito, per poca energia del corpo? Che dire di tutte le occasioni in cui abbiamo avuto troppo poco tempo per le persone che avevano bisogno di noi, in cui abbiamo avuto troppo poca fantasia per portare idee nuove che aiutassero a risolvere situazioni difficili? Non che per questo dobbiamo definirci “cattivi”. Spesso, semplicemente, eravamo stanchi, eravamo oberati da impegni, non ne potevamo più – ma il bisogno c’era, e la nostra inadempienza resta, come un dato di fatto. E poi, pensiamo ai grovigli affettivi e psicologici che ci legano alle altre persone, spesso a persone che ci sono molto vicine, molto care, che amiamo sinceramente, ma alle quali finiamo per far del male senza assolutamente volerlo, o alle quali non riusciamo a offrire aiuto, pur desiderandolo intensamente, in momenti di difficoltà. Che cosa si deve fare, che cosa si può fare, quando ci si sente colpevoli nonostante si siano nutrite le migliori intenzioni, e si è incapaci di riparare in qualche modo il male involontariamente commesso?

Se ciascuno di noi riflette sulla propria vita, sulle proprie esperienze, o sulle esperienze di chi gli è vicino, non faticherà a comprendere che di questi fallimenti la vita è intessuta. Certo, ci viene detto e ripetuto – e noi diciamo e ripetiamo a noi stessi – che possiamo ritenerci responsabili soltanto delle colpe che abbiamo commesso avendone piena consapevolezza. Questa affermazione è vera, ma è al tempo stesso una scappatoia che non risolve niente. Sarà valida davvero per l’uomo che manda a monte il proprio matrimonio e fallisce nella professione, per la donna che non ce la fa con i propri figli, per la figlia che deve aver cura della madre anziana e malata e ne è schiacciata e precipita nella depressione, per il vecchio che è stato relegato in una casa di riposo e deve amaramente rendersi conto che i suoi figli, più che legarli a sé, li ha allontanati? A volte la vita è crudele perché ci costringe a fare i conti con la nostra realtà. Il bilancio della nostra vita rivela ciò che noi siamo, non ciò che noi vorremmo essere o ci illudiamo di essere. Cosa potremo dire, alla fine? Potremo dire che, è vero, abbiamo agito qua e là in modo sbagliato, ma che abbiamo fallito semplicemente perché siamo come siamo? Può, questo, essere addotto a nostra discolpa? O piuttosto non dovremmo dire che saremmo potuti essere completamente diversi se avessimo davvero fiutato l’aria della libertà e avessimo dimenticato la paura che ci ha tante volte bloccati e paralizzati ?

Gesù vuole far sì che ciascuno dei suoi ascoltatori arrivi a domandarsi: io, sono davvero senza colpa? Vuole che comincino a capire che, se uno li chiamasse a rendere conto secondo il criterio del dovere e dell’ordine, sarebbero tutti lì in coda, con i loro cento bat di olio e i loro cento kor di grano, e non sarebbero in grado di pagare il loro debito senza andare in rovina. Il problema che Gesù pone in questa parabola è: che cosa fare quando tutto ciò comincia a rendersi chiaro? Quando, da quei cattivi amministratori che siamo, abbiamo fatto bancarotta dilapidando tutto quanto ci era stato affidato; quando dobbiamo riconoscere di essere senza vie di uscita, di non sapere proprio come cavarcela: che fare, allora? Ecco che la parabola di Gesù ci suggerisce una via d’uscita che è davvero l’ultima: l’ultimo piccolo pertugio dal quale abbiamo ancora una possibilità di svignarcela. Gesù con questa parabola vuole invitarci ad essere concreti e a farci furbi, a renderci conto di quello che è il nostro interesse, il nostro unico interesse vitale in cielo e sulla terra. E questo interesse ci richiede di dire a noi stessi: “Adesso il criterio della giustizia non mi interessa più, perchè mi uccide; l’unica cosa che ora posso fare è vedere di che cosa hanno bisogno le persone che ho davanti. Le faccio venire, tremanti di paura – come ero anch’io fino a poco fa – e sto a sentire a quanto ammonta il loro debito e che cosa non possono rimborsare. Cento bat (2.200 litri) di olio, cento kor (22.000 litri) di frumento – nessuno può vivere con un debito così. Ecco allora che cosa faccio adesso: dimezzo il loro debito, divido per due o per tre, diminuisco il dovuto fino al punto in cui queste persone possono ricominciare a vivere”. Per sottrarsi al criterio della giustizia c’è un’unica via di uscita: quella della generosità, del perdono, di una vita misurata sul criterio del bisogno di chi mi sta davanti, non sul pareggio fra il dare e l’avere.

Per riprendere l’immagine centrale della parabola: Gesù vuole che ciascuno di noi si renda conto di avere bisogno, semplicemente per vivere, di un amministratore come quello che viene descritto qui. Uno che decurta i debiti del cinquanta per cento, del venti per cento, proprio come esige il bisogno e non la giustizia. E se per caso arriva qualcuno che vuole mettere le cose a posto e chiarire una volta per tutte, con l’indice alzato, che cosa è il diritto e che cosa è l’ordine, che cosa è buono e che cosa è cattivo, che cosa si deve e che cosa non si deve, allora – vuol dirci Gesù – ciò significa che uno così non ha ancora capito di essere, lui stesso, nei guai fino al collo. Un tipo così è uno che non ha ancora fatto il suo bilancio, non ha capito in che situazione si trova. È facile parlare di giustizia finché non si arriva a comprendere, anzi a sperimentare, quanto siano fragili gli esseri umani e quanto siamo fragili noi stessi.

Se arriveremo a comprendere che cosa Gesù intende davvero dire con questa parabola, avremo un meraviglioso commentario alla richiesta che lo stesso Gesù ci ha insegnato a rivolgere al Padre: “rimetti a noi i nostri debiti”: perché la verità è che non ci resta altro che questo, non ci resta altra possibilità che questa preghiera. Ma per poter rivolgere questa richiesta al Signore, anche noi dovremo avere rimessi i debiti ai nostri debitori: e questo significa che non saremo stati lì a guardare che cosa doveva esserci sulla bilancia della giustizia, ma che avremo guardato, invece, negli occhi e nel cuore degli altri e avremo visto di che cosa avevano bisogno. Quando abbiamo a che fare con Dio non possiamo cavarcela con la giustizia: l’unico mezzo per cavarcela è la bontà. Ce lo ricorda anche il profeta Osea, in un versetto ripetutamente citato da Gesù (Mt 9: 13; 12: 7). Certo, questa parola, “bontà”, è ambigua, a tanti di noi può dare fastidio, far pensare a qualcosa di dolciastro e anche a qualcosa che ha a che fare con doveri poco gradevoli: fa pensare, per esempio, al “sacrificio”. Ma Gesù vuole dirci tutt’altra cosa, qualcosa di molto pragmatico. Vuole dirci: “Fate una cosa utile per voi stessi: dovrebbe essere il vostro interesse, dovreste imparare a essere buoni proprio per motivi egoistici, perché nessuno può rimborsare il credito vantato dall’altro”.

Effettivamente, è una logica temeraria; anzi, a dirla tutta, è un imbroglio ardito e sfacciato, che mette fuori gioco le regole della morale, ma che costituisce al tempo stesso l’unica via di salvezza. Una via che ci insegna quale deve essere il nostro punto di partenza per trovare veramente Dio, quel Dio che abbiamo sempre sulle labbra: partire da ciò di cui abbiamo bisogno noi, e da ciò di cui hanno bisogno gli altri. Solo questa via ci porterà a scoprire Dio, e quindi a scoprire quell’amore nel quale, come ricorda Paolo ai Romani, consiste l’unico nostro debito con gli altri e, al tempo stesso, il pieno adempimento della Legge.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

News: FINANZIARE LE CHIESE VALDESI E METODISTE? UNA SCELTA DI LIBERTA’!!!

UN CAFFE’ PER LA TUA CHIESA

 

Ma cosa c’entra la nera bevanda che beviamo ogni mattina con la Chiesa?

C’entra, c’entra ….

Ma facciamo prima di tutto una necessaria introduzione.

I FONDI PUBBLICI DERIVANTI DALL’OTTO PER MILLE DELL’IRPEF ALL’UNIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE VALDESI E METODISTE, SONO DESTINATI SOLTANTO A SOSTENERE ATTIVITA’ SOCIALI, UMANITARIE, EDUCATIVE E CULTURALI, SIA IN ITALIA SIA ALL’ESTERO.

In pratica, “NON UN EURO ALLE SPESE DI CULTO!” come reclamizzava un efficace slogan della nostra campagna pubblicitaria di qualche anno fa.

E allora, di che cosa vivono le nostre Chiese?

Le attività di culto, di evangelizzazione e d’istruzione religiosa delle chiese metodiste e valdesi italiane sono finanziate SOLTANTO dalle libere offerte e dalle contribuzioni dei membri di Chiesa e dei simpatizzanti, dai doni di amici in Italia ed all’estero e dai proventi di alcuni immobili di reddito.

Questo perché riteniamo che tale posizione affermi da un lato l’indipendenza e la totale autonomia delle Chiese cristiane rispetto ai poteri pubblici, dall’altro la loro libertà e possibilità di distanziarsi da tali poteri quando lo si ritenga opportuno.

Ma perché contribuire dunque?

Le chiese metodiste e valdesi provvedono in modo diretto al mantenimento dei propri pastori e dei diaconi, ai costi per le costruzione dei locali di culto e per il funzionamento della Chiesa. Proprio per questo esse si affidano al libero contributo finanziario di ognuno. Che sia valdese, metodista o di qualsiasi altra o nessuna confessione religiosa.

Ricordati che la tua contribuzione alla Chiesa è fiscalmente deducibile dalla tua dichiarazione dei redditi fino ad un ammontare annuo di 1.032,91 euro purché tu abbia richiesto la necessaria certificazione alla Chiesa locale alla quale hai fatto l’offerta.

Ma con quanto devo contribuire?

Dice la Bibbia:

Ognuno darà quel che potrà, secondo le benedizioni che il Signore, il tuo Dio, ti avrà elargite. (Deuteronomio, 16,17)

A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà. (Luca 12, 48).

Secondo la tradizione biblica, in molte chiese evangeliche vige la prassi della decima, cioè la contribuzione del 10% del proprio reddito.

Nelle chiese metodiste e valdesi si indica invece il tre per cento del proprio reddito netto come percentuale adeguata alla copertura dei costi ecclesiastici, costi che si attengono sempre al principio di sobrietà che dovrebbe caratterizzare anche la vita dei credenti e, laicamente, quella delle istituzioni e di tutti i cittadini.

Ma deve essere una contribuzione personale: ogni membro di Chiesa titolare di un reddito, per quanto piccolo, è invitato (si badi bene, non obbligato ma invitato) a dare in modo diretto la propria contribuzione, senza delegarla alla famiglia, in base al principio protestante della responsabilità personale.

La contribuzione deve poi essere periodica: dato che le spese ed i primo luogo i pagamenti degli stipendi sono mensili, è bene che le contribuzioni dei singoli siano versate almeno ad intervalli regolari nel corso dell’anno. Ciò rende meno gravoso il tuo impegno ed è più efficace per la Chiesa.

Infine, la contribuzione deve essere proporzionale: infatti, con il 3% del tuo reddito netto le nostre chiese possono mantenere in modo dignitoso, senza alcuno sfarzo o spreco, pastori, diaconi e personale amministrativo, dando alle comunità gli strumenti necessari per svolgere in modo adeguato la propria missione: diffondere l’Evangelo di libertà e di giustizia di Gesù Cristo.

Ricorda quindi:

3%. La tua contribuzione: Personale – Periodica – Proporzionale  – Deducibile

E allora, il caffè cosa c’entra?

Quanto costa una tazzina? Un euro? Se ci va bene novanta centesimi? E se rinunciassimo ad una o a due tazzine di caffè al giorno? Sarebbero dai trenta ai sessanta euro risparmiati al mese. Dai 360 ai 720 Euro all’anno! Un bel risparmio, no?

E se li versassimo alle Chiese Valdesi e Metodiste? Quante comunità locali potremmo aiutare in questo modo?

Meno caffeina in corpo, più salute nello spirito! Da un bene voluttuario in meno ad un aiuto in più alla Chiesa di Nostro Signore. (Dai, un caffè ogni tanto ve lo potete ancora permettere!).

Ok, ma in pratica, come si può fare?

Molto semplice. Andare in banca oppure in posta e fare un versamento:

INTESTAZIONE:
CHIESA EVANGELICA METODISTA – PADOVA

C. C. POSTALE N° 13064316
 
BANCA ETICA, PADOVA
IBAN   IT52 C050 1812 1010 00000102218

CAUSALE: “Contributo per la Chiesa Evangelica Metodista, Padova” cosi’ se il CAF vuole avere la prova di ogni singolo versamento, e’ scritto chiaramente.

E per la deducibilità fiscale?

La certificazione fiscale viene emessa a marzo dell’anno successivo all’anno della contribuzione, per doni ricevuti dal 1/1 al 31/12.

Ma come verranno gestiti i miei soldi?

Si puo’ contribuire alla “cassa locale” oppure al “Fondo Ministero”.
Nel primo caso i soldi vengono gestiti come meglio ritiene il Consiglio della Chiesa di Padova (spese correnti, bollette, manutenzione, beneficenza, ecc.).
Nel secondo caso, l’intera somma viene inviata a Roma, alla sede della Chiesa Metodista.

In pratica, si può aiutare la Chiesa locale oppure la Sede Centrale.

FAI UNA SCELTA DI LIBERTA’: AIUTA LA TUA CHIESA EVANGELICA VALDESE E METODISTA PIU’ VICINA.

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 2 DICEMBRE 2012 (Lc 1: 67-79, 1 Sam 3: 1-10, Gal 4: 1-7)

IL CANTICO DI ZACCARIA (Lc 1: 67-79)

In questi versetti evangelici risuonano le parole di un profeta; o, più precisamente, di un uomo come tanti, il sacerdote Zaccaria, che lo Spirito di Dio spinge a svolgere un ruolo profetico. Zaccaria parla infatti “pieno di Spirito Santo”: perché è lo Spirito a mettere un essere umano in grado di svolgere una missione profetica dandogli chiarezza e lucidità di visione per comprendere e per annunciare a chi gli sta intorno con potenza e autorità, il progetto di Dio nei confronti del suo popolo. Zaccaria parla: ma sono, le sue, parole così vibranti di poesia da potersi assimilare a un canto; e infatti come “Cantico di Zaccaria” viene di solito citato questo passo di Luca. Il cantico è per Zaccaria lo sbocco di una vicenda umana fuori del comune. Ricordate? Dinanzi all’angelo che preannuncia a lui e a sua moglie Elisabetta l’arrivo del figlio tanto desiderato, precisando per giunta che si tratterà di un figlio destinato a grandi cose (“sarà grande davanti al Signore”: Lc 1: 15), l’ormai anziano Zaccaria ha una reazione di incredulità, di perplessità; una reazione più che ragionevole, in considerazione dell’età avanzata sua e di sua moglie. È, in fondo, la stessa incredulità con cui avevano reagito Abramo e Sara allorché era stata loro annunciata la nascita di Isacco. Con la differenza che il patriarca e sua moglie dinanzi a questo annuncio non avevano potuto trattenersi dal ridere, come se il Signore avesse voluto scherzare con loro (Gn 17: 17; 18: 12-15); Zaccaria, invece, non ha proprio nessuna voglia di ridere, ha il tono di un uomo stanco e rassegnato, convinto che l’ordine naturale delle cose non potrà mai cambiare, convinto che “per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo” (Ec 3: 1). Mi verrebbe da pensare che per questa sfiducia, per questo pessimismo Zaccaria venga punito divenendo muto fino alla nascita del figlio; Abramo e Sara non erano stati colpiti, infatti, da alcuna punizione, sebbene Sara avesse addirittura mentito al Signore, negando di aver riso. Ma forse al Signore piace chi, anche da vecchio, mantiene la capacità di ridere. Domandiamoci, però: davvero si era trattato di una punizione, per Zaccaria? In questa “pausa di silenzio” non sarà da vedere piuttosto un’occasione preziosa che gli è stata concessa, di pensare, di meditare su ciò che gli stava capitando – un’occasione che in circostanze normali forse Zaccaria non avrebbe mai avuto perché, esattamente come succede a noi, avrebbe sempre avuto qualcosa di più urgente da fare? Forse proprio grazie a questi nove mesi di “pausa di silenzio” trasformatasi in “pausa di riflessione”, quando nasce il bambino Zaccaria è pronto, gli si scioglie la lingua ed egli “profetizza” benedicendo il Signore con questo cantico, un cantico fittamente intessuto di riferimenti e anche di citazioni dalla Bibbia ebraica. Tra queste citazioni non mancano quelle dal profeta Malachia, colui con il quale si può considerare chiusa l’esperienza del profetismo ebraico. All’epoca di Zaccaria, da molto tempo non risuonavano più in Israele voci profetiche. Era come all’epoca di Eli e di Samuele: un’epoca in cui la parola del Signore era rara, in cui non erano frequenti le visioni. Ecco perché Zaccaria non aveva potuto credere che il Signore gli avesse rivolto la parola per mezzo del suo angelo. Zaccaria non credeva di poter avere visioni, perché non sapeva sognare. Si trattava della stessa situazione in cui ci troviamo al giorno d’oggi noi cristiani e le nostre chiese: la parola del Signore è rara, le visioni scarseggiano. Ma è davvero così stagnante, la situazione, o siamo noi ad averla resa tale? Questo che potremmo chiamare “silenzio di Dio” non sarà da attribuire a una nostra incapacità di ascolto? È molto significativo che proprio lo stanco, scoraggiato, muto Zaccaria rompa questa stagnazione, erompendo in un “cantico” che è sostanzialmente una preghiera di ringraziamento, poetica come lo sono i Salmi. Zaccaria ha messo a frutto la “pausa di silenzio” che gli è stata imposta. Egli era un sacerdote devoto, giusto e irreprensibile; eppure, probabilmente mai nella sua vita era riuscito ad ascoltare la parola del Signore con tanta attenzione come in quei mesi di attesa della nascita di suo figlio. Con tanta attenzione e con tanta prontezza, con lo stesso entusiasmo del giovanissimo Samuele. Il cantico di Zaccaria non è il cantico di un vecchio. È il cantico di un uomo senza età, eternamente giovane perché aperto all’eterna novità di Dio. Che Zaccaria, ritrovando la parola, abbia ritrovato anche la fresca energia della gioventù lo dimostra in primo luogo l’inizio del suo cantico. Zaccaria benedice il Signore: quindi, dimostra di essergli grato. E la gratitudine non è sentimento da vecchi. Tipico della vecchiaia è il ripiegarsi su sé stessi, il recriminare, il riandare al passato con nostalgia o con rimpianto; sempre, comunque, sentendosi defraudati di qualcosa, sempre con la convinzione di non aver nulla di cui ringraziare. Non fraintendetemi: questo atteggiamento “da vecchi” lo si può avere in qualunque età. Ne abbiamo la prova guardandoci intorno: quanti ne vediamo, di giovani che sono “vecchi” – quante ne vediamo, purtroppo, anche di comunità cristiane che in quanto tali dovrebbero essere e sentirsi eternamente giovani, e che invece sembrano paralizzate dalla vecchiaia, ammutolite come Zaccaria, incapaci di profetizzare e, prima ancora, di benedire, di riconoscere le grandi cose che Dio ha compiuto per loro, nel corso della loro storia. Eppure, giovani, e quindi capaci di benedire e di ringraziare, si può anche ritornare. Non è impossibile: Zaccaria ne è la prova. Perché Zaccaria benedice il Signore, il Dio di Israele? Il motivo è essenzialmente questo: il Dio di Israele ha confermato la propria identità di Dio fedele alle promesse, Dio che mantiene i patti, in primissimo luogo l’antico patto stretto con Abramo. “Patto”: questo termine trova orecchie particolarmente sensibili in una chiesa metodista. Come sappiamo, nelle chiese metodiste si è soliti, all’inizio dell’anno o in altre importanti occasioni, celebrare il culto del rinnovamento del patto. Lo scopo è quello di richiamare i credenti a una realtà che dovrebbe essere costantemente presente ai cristiani di tutte le chiese, di tutte le confessioni: Dio non abbandonerà mai gli esseri umani perché si è solennemente impegnato ad accompagnarli nelle loro vicende, a farli partecipi delle sue promesse. Zaccaria pone l’accento sull’azione salvifica e liberatrice di Dio, che libera dalla mano dei nemici coloro che si affidano a lui. Questo parlare di “nemici” potrebbe apparire vuoto di significato a noi, fortunati abitanti di un Paese in cui i cristiani non sono fatti oggetto di persecuzione e nemmeno vengono più perseguitati i protestanti, nei confronti dei quali alla persecuzione è subentrata, in genere, una cortese indifferenza. Eppure, i credenti di nemici ne hanno sempre, anche nel nostro tranquillo Occidente. Certo, esistono anche dei nemici esterni, ma io sto pensando soprattutto ai nemici interni: primo fra tutti, proprio quella stanchezza alla quale mi riferivo prima, quel vivere alla giornata, senza capacità di profetare, cioè di saper leggere nella storia il disegno del Signore. Talvolta, ne sono convinta, il nostro peggior nemico siamo noi stessi. È innanzitutto nei confronti di noi stessi, della nostra aridità, della nostra incapacità di sperare, di avere visioni, che il Signore si manifesta come salvatore e liberatore. Chi è stato liberato, salvato dall’azione potente del Signore viene messo nella condizione di fare ciò che il patto prevede per lui, o per lei: servire il Signore, e servirlo, come dice Zaccaria, “senza paura, in santità e giustizia”. Vivere in “santità e giustizia” non significa prefiggersi delle norme etiche e seguirle rigidamente; significa vivere “alla sua presenza”, in comunione con il Signore, abbandonandosi con fiducia a Lui e alla sua volontà. Ma mi piace molto che Zaccaria affermi prima di tutto che il servizio dell’essere umano a Dio deve essere prestato “senza paura”. Questo significa: non con spirito servile, bensì con spirito filiale, con la dignità di chi è libero perché è stato liberato, come spiega molto bene il passo della lettera ai Galati che abbiamo ascoltato. È questo lo stile di vita al quale è destinato anche il bambino nato a Zaccaria, colui che sarà Giovanni il Battista. Giovanni dovrà infatti andare “davanti al Signore” e preparare le sue vie; dare al popolo “conoscenza della salvezza”, cioè illustrare il piano dell’opera di Dio, fondato sul suo patto e sulla novità di Gesù. Dovrà testimoniare, con la sua predicazione ma anche e soprattutto con il suo agire, la misericordia di Dio che trova il suo culmine, la sua espressione più alta, nel perdono dei peccati. Ma è solo la vocazione rivolta a Giovanni, questa? Non è vocazione rivolta a tutti noi credenti, soprattutto in un momento storico così pieno di ambiguità, per non dire di peccato? Non è forse questa la vocazione rivolta alle nostre chiese? Certo, per ascoltare e accettare questa vocazione rivolta a un piccolo bambino dobbiamo in qualche modo diventare anche noi “bambini”. Ma non c’è Qualcuno che ci ha chiesto di diventare “come i bambini”(Mt 18: 2-4)? E quel Qualcuno non è per caso Quello di cui cerchiamo di essere fedeli discepoli nelle parole e nei fatti? Se è così, allora la preghiera di Zaccaria può diventare la nostra preghiera, il suo cantico il nostro cantico.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

Eventi: DOMENICA 2 DICEMBRE 2012: GIORNATA DI FESTA PER LA NOSTRA COMUNITA’

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Domenica 2 Dicembre sarà una giornata di festa per la comunità Metodista e Valdese di Padova. Si starà assieme, in questo inizio di dicembre, iniziando alle 10 con il gruppo giovani (il primo!). Seguirà poi alle 11 il consueto culto domenicale per approdare alle 12.30 all’agape (si mangia!) curata dall’Unione Femminile. Ci sarà anche il bazar (mercatino) e, a seguire, alle 14.30 circa la lotteria.

Per partecipare al pranzo comunitario, basta telefonare ad Antonella al 3929586601

Anche chi avesse qualche oggetto in buono stato da regalarci per il nostro bazar è pregato di mettersi in contatto sempre con la nostra Antonella.

VI ASPETTIAMO (che siate membri di Chiesa o no, braccia aperte per tutti).

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 25 NOVEMBRE 2012 (Mt 25: 1-13 Ap 21: 1-7 Is 65: 17-19, 23-25)

NUOVI CIELI E NUOVA TERRA

Siamo arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico, quando la liturgia ci invita a riflettere sul significato del tempo e dell’eternità. E proprio “domenica dell’eternità” è il nome che il calendario liturgico assegna a questa domenica. Meditare sull’eternità: non è un compito facile quello che ci viene proposto oggi, perché si tratta di elaborare delle idee, delle immagini di qualcosa che sfugge alla nostra esperienza, qualcosa di cui possiamo soltanto avere qualche barlume di intuizione. Nell’eternità sfocia il tempo. Volgere la nostra attenzione all’eternità significa quindi renderci attenti al tempo che ci è stato dato come un dono, un’opportunità preziosa di cui fare buon uso, perché saremo chiamati a renderne conto; perché la nostra eternità è strettamente legata al nostro tempo, cioè al modo in cui questo tempo noi l’abbiamo vissuto. Parlavo di farne buon uso. “Buono”, in questo caso, equivale a “saggio”, “avveduto”; proprio come sagge e avvedute furono cinque delle dieci ragazze delle quali parla Gesù nella parabola riportata da Matteo. Perché sono dette “avvedute”? Non perché siano rimaste sveglie. Tutte e dieci le ragazze della parabola si sono addormentate. A differenza delle altre, però, le cinque ragazze sagge sono pronte per ciò che le attende. Come le altre, non conoscono l’ora in cui lo sposo verrà; ma appunto per questo si sono organizzate, e quando è il momento fanno quello che sanno di dover fare: preparano le lampade, utilizzando la loro scorta di olio. Le cinque sprovvedute, invece, perdono completamente la testa, con esiti disastrosi. Perché questo fallimento finale per le cinque ragazze “stolte”? Perché hanno perduto un’occasione destinata a non ripetersi più. È quanto avviene a tanti di noi. E questo succede quando non si comprende che l’attesa non è un periodo che comincia e che finisce; che non è un tempo, ma un atteggiamento, un modo di impostare la propria esistenza. L’attesa di Dio dura tutta la vita, non è a termine; e questo atteggiamento di attesa è connaturato alla fede. Non si può dire di aver fede se non si sa attendere il domani di Dio, che verrà non quando lo aspettiamo noi, ma quando lo avrà deciso Dio stesso. Si tratta di un’attesa che il credente vive in modo consapevole e, pertanto, con tranquillità, in modo rilassato. Il vero credente può permettersi il lusso di addormentarsi, perché è ben preparato per ciò che lo attende al risveglio. Il suo sonno è un sonno sereno, benefico, ristoratore; non è il sonno, magari indotto artificialmente, di chi tenta di sfuggire a una realtà che lo spaventa. Tanto nella veglia quanto nel sonno, chi ha fede vive tranquillo perché, come le cinque ragazze avvedute, si è organizzato, ha fatto scorta di olio: ha deciso, cioè, di affidarsi totalmente al Signore. E quando il Signore deciderà di venire, di irrompere nella vita del credente, il risveglio non sarà traumatico. Sarà un entrare nella casa dello sposo, per festeggiare insieme a lui. Ma come dobbiamo interpretarla, questa “venuta” del Signore nella nostra vita? L’interpretazione tradizionale la identifica con l’incontro personale che avremo con lui al momento della morte. Non credo che questa sia un’interpretazione superata, da scartare; credo, piuttosto, che debba essere ampliata. Ho parlato di un Dio che “irrompe nella vita del credente”; ebbene, questo può avvenire in qualunque momento della vita. Compreso anche il momento estremo che noi chiamiamo morte. Qualunque momento può essere un momento in cui il Signore viene da noi come uno sposo che ci apre la porta di casa sua per farci partecipare alla sua festa. Momenti del genere sono occasioni irripetibili di incontro con la grazia del Signore, da vivere nella gioia; sono momenti che, per essere vissuti pienamente, richiedono appunto una vita impostata secondo lo spirito dell’attesa. Un’attesa non inquieta, non angosciata, ma fiduciosa; un’attesa che ha il colore della speranza. Speranza e gioia. Sono questi i sentimenti che animano tanto i versetti di Isaia quanto quelli dell’Apocalisse: a far festa è Gerusalemme in Isaia, la nuova Gerusalemme nell’Apocalisse; ma anche la Gerusalemme di Isaia è una Gerusalemme del tutto nuova, rinnovata in modo radicale. In entrambi i passi biblici si annunciano nuovi cieli e nuova terra. Perché questo porta con sé la venuta del Signore: una novità di vita. Una simbologia di straordinaria suggestione, questa di Isaia, come pure quella dell’Apocalisse. Una visione abbagliante. Che cosa potremmo volere di più? Proprio nulla. E allora, la nostra reazione potrebbe essere quella di dire “Amen”, chiudere la Bibbia e andarcene a occuparci dei fatti nostri, delle concrete, pressanti e molto spesso grige e meschine incombenze quotidiane, tra le quali è davvero molto difficile scorgere qualche indizio di nuovi cieli e nuova terra, di prossima venuta dello sposo, di feste imminenti. Troppo spesso, guardandoci intorno, non vediamo altro che notte profonda, senza suoni e luci di cortei nuziali. Voci di pianto, grida di angoscia, morti premature – queste sì, invece, ne ascoltiamo e ne vediamo fin troppe. E abbiamo ampia esperienza di preghiere non esaudite. Visione abbagliante, quella di Isaia; ma pur sempre visione, non realtà. E se, invece, la “visione” di Isaia fosse tale non perché irreale, ma proprio perché capace di “vedere” più lontano e più in profondità, perché capace di mettere a fuoco una realtà più reale, più vera di quella che siamo in grado di percepire con la nostra razionalità, con i nostri sensi, con la nostra capacità di programmare solo a breve scadenza – proprio come le cinque ragazze stolte? Riflettiamo su ciò che si proponeva l’autore di questi versetti, il cosiddetto terzo Isaia. Il terzo Isaia è il profeta di un nuovo inizio per Israele: nel senso di futuro storico, ma anche di un futuro più ampio, più grande, più definitivo. Si tratta di un futuro inimmaginabile, inconcepibile, un futuro da sogno; eppure, se il profeta propone al suo popolo questa visione non è per farlo sognare, è per rivolgergli vocazione. E questo vale anche per noi: su questi versetti non dobbiamo sognare, come se dormissimo il sonno irresponsabile delle cinque ragazze sprovvedute; dobbiamo metterci in ascolto. La visione dei nuovi cieli e della nuova terra è, sì, utopia, ma è al tempo stesso realtà, perché è una possibilità che si spalanca, un compito che viene assegnato. Qual è questo compito? Innanzitutto, quello di tenere sempre le nostre lampade rifornite d’olio. Di mantenerci, cioè, sempre disponibili a riconoscere l’azione del Signore nella nostra vita, o meglio, la grazia del Signore in azione nella nostra vita. Tante volte non la sappiamo riconoscere, appunto perché non la sappiamo attendere nel vero senso della parola, perché la speranza è assente dalle nostre vite; si spiega così perché le nostre vite sembrino intessute di voci di pianto e di grida d’angoscia, di invocazioni senza risposta e di preghiere non esaudite. Noi manchiamo di speranza perché manchiamo di fede – tutti noi manchiamo di fede, nessuno escluso –, appunto per questo so bene che questo invito a riconoscere la grazia del Signore nella nostra vita può essere accolto con scetticismo, può suonare come un invito a cullarci nelle illusioni. Eppure, se pensiamo al nostro passato credo che a tutti noi capiti di riconoscere che certi fallimenti, certe occasioni mancate sono da addebitare proprio alla nostra carenza di speranza e di fede. Quello che più colpisce nel passo di Isaia è che Dio festeggia con Gerusalemme. Quando è che Dio festeggia? Quando la terra festeggia, quando la terra diventa un’unica grande città della gioia. Allora la gioia di Dio è il riflesso della gioia del mondo. Si delinea così il secondo compito verso il quale il profeta spinge la comunità di Israele, e noi con lei: suscitare una novità sulla base di questa visione che il profeta le mette dinanzi agli occhi. Isaia ci spinge a mobilitarci come credenti, come comunità umana, ad andare incontro ai nuovi cieli e alla nuova terra. Questo non significa che spetti a noi realizzare questa novità di vita. A noi spetta bussare alla porta dello sposo, cioè lasciarci coinvolgere nel progetto di Dio. E questo potremo farlo solo se la nostra attesa sarà un’attesa saldamente fondata sulla fede. Allora, sì, qualche frammento di questo “nuovo” anche noi potremo contribuire a costruirlo che ci dia il segno che questo “nuovo” non è un sogno, ma è una realtà del futuro che diventa presente. Un futuro nel quale, dice Isaia, “il lupo e l’agnello pascoleranno insieme”. Un futuro per definire il quale non saprei trovare termine migliore di “ecumenico”. È vero: l’aggettivo rimanda a un vocabolo, “ecumenismo”, che in molti di noi suscita ormai un senso di noia, di inutilità, talvolta quasi di fastidio. È triste riconoscerlo, eppure è così. Da decenni le varie confessioni cristiane si cimentano in questo sforzo, in questa tensione – non verso l’unità, questo lo sappiamo tutti molto bene, bensì verso un traguardo più modesto eppure meraviglioso, quello della “diversità riconciliata”. Ma nemmeno questo obiettivo siamo riusciti a raggiungere. Che cosa dobbiamo fare, rassegnarci? “Rassegnazione” è vocabolo che non appartiene al lessico dell’Evangelo; non ha nulla a che fare né con l’attesa, né con la speranza. Perché non provare piuttosto, a vivere in una prospettiva ecumenica a 360 gradi che si estenda ben oltre le nostre spesso misere realtà confessionali per generare una “riconciliazione delle diversità” estesa non solo a ogni realtà umana, ma al creato intero? Proviamoci tutti quanti, diversi come siamo: lupi e agnelli, leoni e buoi, senza escludere nemmeno i serpenti. Questo significherebbe davvero vivere il tempo dell’attesa costruendo in vista dell’eternità, un’eternità di benedizione. Amen.

(Sermone a cura di Caterina Griffante, Pastora della nostra comunità)

LA CHIESA EVANGELICA METODISTA DI PADOVA E’ IN FESTA!

DUE NUOVI MEMBRI ENTRANO A FAR PARTE DELLA NOSTRA COMUNITA’ PROPRIO NEL GIORNO DELLA RIFORMA

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Doppia festa domenica 28 Ottobre a partire dalle ore 11.00 per la Chiesa Evangelica Metodista di Padova. Oltre alla tradizionale ricorrenza della Festa della Riforma (come tutti sanno, il ricordo va al 31 Ottobre del 1517 quando Martin Lutero diede il via alla sua riforma della Chiesa) si festeggiavano anche due giovani (45 anni in due, come ben evidenziato dalla Pastora della comunità, Caterina Griffante) che, con la loro Professione di Fede, hanno detto sì ad un altro modo di seguire Cristo.

Si tratta di Alberto Ruggin (a destra nella foto) 25 anni, impiegato commerciale in un’azienda del settore telefonia, residente ad Este (Bassa Padovana) e Federico Tirindelli (a sinistra nella foto) studente all’università di Padova, facoltà di Scienze Politiche con indirizzo Relazioni Internazionali e Diritti Umani, 20 anni, residente a Padova ma nativo di Abano Terme. Entrambi provenienti dalla Chiesa Cattolica ed entrambi iscritti alla F.G.E.I.

Ma perché hanno compiuto questo passo che, in un Veneto dominato largamente dalla cultura cattolica appare veramente “rivoluzionario”?

Glielo abbiamo chiesto.

Alberto: “Ho deciso di aderire alla Chiesa Valdese in seguito ad un percorso personale di studio e di riflessione, al termine del quale ho potuto constatare come una persona, nel 2012, che voglia vivere veramente la propria fede in armonia con la propria affettività, non possa non riconoscersi nel protestantesimo storico. In sostanza, a mio avviso, una persona può vivere, con coerenza, il suo essere omosessuale e cristiano, in una chiesa come quella dove mi accingo ad entrare con gioia. Ho scelto, infine, di entrare come membro valdese in quanto attratto dalla figura e dalla spiritualità di Pietro di Valdo”.

Federico: “Il mio incontro con la realtà valdometodista risale all’inizio del 2010. La ricerca di una chiesa diversa da quella in cui sono cresciuto, vale a dire la Chiesa Cattolica, nasce da una mia adesione, maturata nel tempo attraverso una lettura approfondita della Bibbia, ai principi fondamentali del protestantesimo storico, vale a dire in primis la salvezza per sola Grazia mediante la fede, il “Sola Scriptura”, con contestualizzazione dei testi biblici, “Solus Cristus”, “Soli Deo Gloria”. Facendo delle ricerche in internet ho poi scoperto la comunità metodista di Padova”.

Entrambi sono particolarmente “attivi e promettenti”, non solo sul piano della realizzazione personale (Federico nutre ambizioni relativamente alla carriera diplomatica o del funzionariato internazionale mentre Alberto è il conduttore, presso una radio locale, di un programma su tematiche LGBT) ma anche in vista di un futuro sviluppo della nostra comunità.

Entrambi, infatti, hanno l’intenzione di creare un gruppo giovani nella comunità valdometodista di Padova in collaborazione (siamo ancora in fase di “studio”) con quella battista che ne condivide i locali. Oltre a ciò, nell’estate di quest’anno, hanno agganciato dei contatti con la Chiesa di Svezia (luterana) per dei possibili scambi/gemellaggi futuri, con particolare attenzione alle realtà giovanili delle due chiese. Inoltre, l’estate prossima andranno entrambi in Argentina ed in Uruguay con altri ragazzi della realtà valdometodista/battista per uno scambio con le comunità valdesi del Rio De La Plata, con il proposito di portare a casa degli spunti per arricchire la nostra comunità. Infine, uno dei loro obiettivi principali, è anche quello di divulgare la conoscenza della realtà valdometodista, ancora assai poco conosciuta in Italia, non a scopo di proselitismo ma per far capire che, per chi lo desideri, esistono altre forme possibili di cristianesimo oltre al cattolicesimo.

Torniamo alla giornata di festa, che ha visto la chiesa di Padova stracolma (non capita spesso di vedere i banchi occupati e gente in piedi!) impegnata in un culto assai sentito e partecipato, diretto dalla Pastora Caterina Griffante, allietato dal coro Gospel-Up che si è anche esibito in un mini concerto al termine del rito. E poi … tutti all’agape! Organizzata e gestita dalle appartenenti al gentil sesso della comunità, la giornata si è conclusa con il pranzo nei locali sociali della Chiesa.

“Famiglia Cristiana, o più semplicemente Famiglie?” Resoconto di un grande evento

Foto: TAVOLA ROTONDA SABATO 27 OTTOBRE 2012 "FAMIGLIA CRISTIANA? O, PIÙ SEMPLICEMENTE, FAMIGLIE?" - CHIESA METODISTA DI PADOVA - Corso Milano, 6

 

Alla presenza di una trentina di persone, si è tenuta, Sabato 27 Ottobre, presso la nostra sala di culto, la tanto attesa Tavola Rotonda dall’accattivante titolo “Famiglia Cristiana, o più semplicemente Famiglie?” organizzata dalla nostra Chiesa.

Introdotti brevemente dalla nostra Pastora, Caterina Griffante, sei rappresentanti delle istituzioni e delle confessioni religiose locali, si sono confrontati su posizioni assai diverse ma accomunati tutti da un grande rispetto ed interesse per l’argomento.

Ha moderato i lavori l’Avvocato Manuel Giacomazzi che ha iniziato il suo intervento partendo dagli articoli della nostra Costituzione (29, 30 e 31 che definiscono la famiglia in quanto “società naturale” e gli art. 2 e 3 che ne danno invece una concezione più ampia). L’Avv. Giacomazzi ha quindi dichiarato come la Corte Costituzionale, con la sentenza 138/2010, a seguito di un caso sollevato dal Tribunale di Venezia, e successivamente, a seguito di analogo caso sollevato dalla Corte d’Appello di Roma, abbia dato, unitamente alla Corte di Cassazione, una risposta forte sul tema delle unioni omoaffettive, stimolando il legislatore (Parlamento) a dare risposte in tal senso. In sintesi, ci troviamo difronte, conclude il relatore, ad un evidente “distacco” fra i nostri massimi organi giuridici (più “avanti” sull’argomento) rispetto al legislatore.

E’ stata quindi la volta di Marco Bouchard, magistrato e docente universitario, membro della Commissione del Sinodo Valdese incaricata, nel 2010, di preparare un documento ufficiale in merito alla benedizione delle coppie omoaffettive. Il Dottor Bouchard ha chiaramente ricordato come le Chiese Valdesi e Metodiste non abbiano un loro modello di famiglia da proporre, ma cerchino di contribuire ad un modello cristiano della stessa. In sostanza, queste Chiese riconoscono la pluralità dei modelli di famiglia, riconoscendo come il matrimonio e l’istuto familiare siano e debbano essere “quello che dice la legge in materia”. Il matrimonio, ha ricordato inoltre, per le chiese che si riconoscono nel protestantesimo “classico” (come appunto i Valdesi ed i Metodisti) non è un sacramento e quindi non è da considerarsi indissolubile. Queste Chiese riconoscono inoltre l’omoaffettività come una dimensione propria del singolo ma anche come unione, legame fra due persone. A questo si è arrivati allorquando, nel 2010, il Sinodo, stimolato dalla benedizione di una coppia omoaffettiva a Trapani e dalla celebrazione del battesimo di un bimbo di una coppia “arcobaleno” a Roma, avvenuti entrambi in chiese valdesi, abbia deciso di emanare un documento ufficiale sul tema affidandolo, per l’appunto, ad una commissione di cui faceva parte anche il relatore in questione. Il Sinodo delle Chiese Valdesi e Metodiste, spinto dalla situazione di clandestinità e di difficoltà in cui si trovavano e si trovano tuttora molti fedeli, si è quindi imposto una presa di posizione, ovvero la benedizione delle coppie omoaffettive solo in quelle comunità ove non vi sia una “ostilità manifesta”.

E’ stata quindi la volta di Maurizio Pioletti, responsabile della campagna “Una volta per tutti” volta alla raccolta di firme per una iniziativa di legge popolare (partita a giugno di quest’anno) in merito al riconoscimento delle unioni civili. Come ha ben detto il relatore, si tratta di una iniziativa “per una società veramente civile” e volta non solo alle coppie omoaffettive. In sintesi, la campagna mira ad estendere i diritti e i doveri del matrimonio tradizionale, ad una introduzione del P.A.C.S. (Patto di Azione Civile di Solidarietà) sul modello francese e al riconoscimento del diritto di assistenza anche alle unioni di fatto e non solo alle famiglie tradizionali.

A seguire, don Enrico Piccolo, assistente diocesano di Azione Cattolica, che si è definito “non in rappresentanza della Chiesa ma come un prete che non ha specifiche competenze in materia” ma presente a tale avvenimento “solo perché me lo hanno chiesto”. Don Piccolo, evitando di usare il termine “omosessuale”, ha semplicemente fatto notare come vi siano, nella nostra realtà locale, sempre più famiglie mononucleari, meno matrimoni e sempre più convivenze. Queste ultime viste come un “periodo di prova”. Ha inoltre evidenziato come molti divorziati risposati vivano in situazioni di povertà, dal momento che, oltre alle spese per vivere (magari anche con un mutuo alle spalle) debbano sostenere anche quelle per pagare gli alimenti all’ex consorte. Ha poi spostato l’attenzione sull’aumento di richieste, da parte di conviventi, di accedere ai sacramenti o ai corsi per fidanzati in preparazione al matrimonio. Ma, d’altra parte, ha ribadito la posizione della Chiesa Cattolica sul fatto che a tali persone (divorziati e conviventi) sia espressamente chiesto di non poter essere catechisti o padrini di battesimo. Ha quindi continuato ribadendo come le coppie conviventi siano di “difficile accompagnamento” secondo i dettami della Chiesa di Roma. L’intervento si è concluso riconoscendo come la Chiesa Cattolica sia ancora molto “guardinga” ed in fase di riflessione relativamente al riconoscimento delle famiglie di fatto.

E’ stata quindi la volta di Daniela Ruffini, Presidente del Consiglio Comunale di Padova, in rappresentanza delle istituzioni locali. La Consigliera Ruffini, in un intervento assai applaudito al termine, ha ribadito come il Comune di Padova riconosca le unioni di fatto, rilasciando un certificato anagrafico nel quale si attesta l’esistenza di una famiglia basata su “vincoli affettivi”. Un piccolo passo avanti, ha evidenziato la relatrice, compiuto dalla precedente legislatura comunale. La relatrice ha quindi precisato il cuore del suo intervento, ovvero come la politica non riesca a dare una risposta a molte persone in tema di riconoscimento delle unioni di fatto e che questo debba finire, onde evitare ulteriori sofferenze inutili. Chiaro il legame con quanto espresso in precedenza dall’Avv. Giacomazzi sul “silenzio del legislatore” in materia.

L’ultimo dei relatori, il pastore Franco Evangelisti della comunità Avventista di Padova, ha quindi evidenziato come la nostra sia una società complessa che richiede quindi una pastorale a 360 gradi. Ha poi citato le parole, oseremo dire profetiche, di Dietrich Boenhoffer “cercare Dio in un tempo senza Dio”. Ha comunque ribadito il passo biblico “E Dio li creò maschio e femmina” invitando ad una riflessione se esista o meno, nel nostro tempo, il concetto di peccato, dal momento che, sempre secondo il relatore, “Dio viene sempre più messo da parte in nome della libertà individuale”. Un Dio che con la Sua Parola “parla di una coppia che è chiamata a dare la vita”.

Ha concluso la serata un interessante e partecipato dibattito con il pubblico presente.

 

Sermone; PREDICAZIONE DI DOMENICA 4 NOVEMBRE – ROMANI 7, 14 – 25

PREDICAZIONE DI DOMENICA 4 NOVEMBRE – ROMANI 7, 14 – 25

“La legge del peccato”

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

Siamo di fronte a un passo impegnativo, complesso e anche profondamente pessimistico. L’argomentare di Paolo ha un andamento serrato, si sviluppa come una sorta di monologo interiore in cui l’apostolo si arrovella sulle mille sfaccettature di un dato di fatto molto semplice: la condizione di peccato, che è la condizione propria di ogni essere umano, sembra alla fine avere la meglio sul bene, che pure sussiste in ogni essere umano, a maggior ragione se questo essere umano è un credente in Dio.

Credo di non sbagliarmi troppo dicendo che il comune credente, il normale membro di chiesa che si confronti con questi versetti non per farne oggetto di studio biblico ma per lasciarsene coinvolgere, interpellare, prova un sentimento di rispettosa attenzione, ma al tempo stesso anche di estraneità. Facciamo fatica a riconoscerci nel tono drammatico, quasi disperato di Paolo. Per dirla tutta, ci sembra che l’apostolo carichi un po’ eccessivamente i toni. Siamo sinceri: chi di noi ha mai provato la sensazione lacerante di cui parla Paolo, la sensazione che la nostra personalità sia scissa in due: “io”, e “il peccato che abita in me”? Sì, qualcosa del genere l’abbiamo anche provato, qualche volta, ma in forma molto più blanda, molto meno tragica. Difficile, credo, che qualcuno di noi abbia mai percepito sé stesso come teatro di un conflitto all’ultimo sangue tra bene e male, tra legge di Dio e legge del peccato; che abbia mai sentito di trovarsi in una situazione senza sbocco, senza vie di uscita. Fin troppo spesso nel passato le chiese, in particolare quelle che si rifanno alla tradizione della Riforma hanno terrorizzato i fedeli e creato loro pesanti sensi di colpa con la loro insistenza sul peccato. E quando la gente viene terrorizzata non vive bene la propria fede, e non di rado finisce per abbandonare la chiesa, e anche ogni fede in un Dio visto come un essere esigente e sgradevole, un nemico nei confronti di quell’essere umano che pure è una sua creatura.

Se in queste considerazioni può esserci del vero, è altrettanto vero, direi, che attualmente anche tra i credenti si è enormemente affievolito il senso del peccato. Il passo sul quale stiamo riflettendo enuncia un concetto che è alla base della fede paolina e della fede cristiana tout court: l’incapacità dell’essere umano di compiere il bene contando solo sulle proprie forze. Ciò non significa che non ci sia speranza, che non ci sia liberazione. La situazione non è disperata, ma la speranza non viene da capacità umane; la liberazione arriva, ma non per intervento umano. Questo lo dichiara Paolo all’inizio del capitolo successivo: “la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8: 2). L’essere umano non può salvarsi da sé, è Dio che lo salva. Questo concetto sta alla base della fede cristiana; in particolare, è il nucleo del messaggio della Riforma, la quale altro non è se non un invito rivolto alla chiesa e a tutti i cristiani a riscoprire il nocciolo dell’Evangelo, lasciando cadere ogni tradizione, ogni dottrina che sia prodotto di invenzione umana. Lutero ha voluto richiamare la cristianità al cuore dell’Evangelo: la salvezza si ottiene per sola grazia, non mediante sforzi umani, sforzi destinati a fallire appunto perché l’essere umano, da sé, non arriva a compiere il bene: non può arrivarci, non ne ha le forze, non ne ha i mezzi. Era questo gioioso annuncio di libertà che un tempo in Europa occidentale, e anche in Italia, attirava verso il protestantesimo tanti cristiani inquieti. Cristiani che avevano profondo il senso del peccato, ma non potevano appagarsi di ciò che insegnava al riguardo la chiesa cattolica.

Anche adesso le chiese protestanti attirano interesse e consensi. Ma questa attrattiva non è dovuta a ciò che la Riforma insegna circa la natura umana decaduta a causa del peccato e circa l’azione salvifica della grazia. Altri sono gli aspetti delle chiese nate dalla Riforma che oggi suscitano l’apprezzamento e la stima di tante persone: le posizioni in materia di bioetica, in materia di morale sessuale, in materia di rapporti tra Stato e Chiesa. In questi ambiti, le chiese protestanti vengono ammirate perché appaiono al passo coi tempi, in grado di venire incontro alle esigenze degli uomini e delle donne del giorno d’oggi. Mi riferisco, naturalmente, alle chiese che appartengono al protestantesimo storico, come quella metodista e quella valdese; non alle cosiddette chiese libere, che in campo etico e politico hanno spesso posizioni molto conservatrici e tradizionaliste.

Come è stato rilevato all’ultimo Sinodo, le nostre chiese sono molto stimate per le loro posizioni in campo etico, sociale, politico, anche da cristiani di altra confessione o da persone indifferenti dal punto di vista religioso. Lo conferma l’incremento dell’8 per mille; lo conferma anche l’afflusso di pubblico allorché una delle nostre chiese organizza conferenze, dibattiti, incontri che toccano appunto i temi nevralgici di cui parlavo prima. Ma talvolta mi domando: se una delle nostre chiese provasse a organizzarlo, uno di questi incontri aperti al pubblico, sul tema del peccato come ineludibile condizione umana, sul tema della grazia divina come unica speranza di salvezza? Se si impegnasse, cioè, a un richiamo forte a quel tema che, ripeto, è non solo il cuore della Riforma, ma il cuore dell’Evangelo? Be’, sorelle e fratelli, non credo sia necessario un grande sforzo di immaginazione per prevedere che la sala resterebbe pressoché vuota, e i pochi posti occupati sarebbero tali grazie alla buona volontà e allo spirito di collaborazione di qualche membro di chiesa. Inutile nascondercelo: il problema del peccato, lungi dal suscitare gli interrogativi angosciosi che tormentavano Paolo, non è sentito, non interessa. Un esperto di marketing direbbe: non si vende. Una chiesa che voglia “vendersi” bene, dunque, è avvisata: eviti, per piacere, questi discorsi noiosi e fastidiosi che andavano bene per la chiesa delle origini, andavano bene per i secoli passati, non vanno più bene per i nostri tempi, quando i problemi sono altri.

Non vanno più bene, i problemi sono altri. Ma ne siamo proprio sicuri? Ho parlato di “problema del peccato”, dicendo che ai nostri contemporanei non interessa più. Messa così, la cosa è vera. Il fatto è che qui non è in gioco un astratto “problema del peccato”, non sono in gioco freddi discorsi teologici. Qui è in gioco una realistica, obiettiva conoscenza di sé stessi. Se solo riscoprissimo l’arte di far silenzio intorno a noi e in noi per guardare in profondità dentro di noi, comprenderemmo che il tormento di Paolo derivava dal fatto che l’apostolo aveva capito tutto. Aveva scoperto la verità su sé stesso e su ogni essere umano, quella stessa verità esposta senza addolcimenti, senza compromessi, nelle parole del salmo: “Ecco, io sono stato generato nell’iniquità, mia madre mi ha concepito nel peccato”. Duro? Sì, estremamente duro. Politicamente scorretto, potremmo dire. Esagerato? Se siamo onesti con noi stessi, la risposta è: no, qui non c’è alcuna esagerazione. L’essere umano non è libero di non peccare, in quanto, fin dall’inizio della sua storia, è separato da Dio. Questa è la radice del problema, dal quale derivano a cascata tutti gli altri “problemi”, anche quelli di natura etica, sociale, politica. Prendere coscienza di questo è l’unica via per cominciare a uscirne. Ma uscirne con quali mezzi? Non certo con i nostri mezzi umani, ma solo, come dice Paolo, “per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore”. E a chi insista: “e questo, in concreto, a me che cosa richiede?” risponderei con la parabola raccontata da Gesù a Pietro. A noi si richiede la consapevolezza di essere tutti accomunati nel peccato, tutti debitori impossibilitati a saldare il loro debito – se non in un unico modo, rimettendoci cioè i debiti l’uno con l’altro. È quello che ripetiamo ogni giorno nel Padre nostro, no? Non ci resta, allora, che andare, e metterlo in pratica.

Amen

Eventi: FAMIGLIA CRISTIANA? O, PIU’ SEMPLICEMENTE, FAMIGLIE?

TAVOLA ROTONDA

 FAMIGLIA CRISTIANA? O, PIÙ SEMPLICEMENTE,
FAMIGLIE?

 INTERVENGONO

Marco Bouchard, Chiesa Valdese;

Franco Evangelisti, Chiesa Avventista;

Enrico Piccolo, Chiesa Cattolica;

Daniela Ruffini, Consiglio Comunale di Padova

MODERA

 Manuel Giacomazzi

SABATO 27 OTTOBRE 2012 – ORE 17.00

CHIESA EVANGELICA METODISTA

Corso Milano 6, PADOVA

Per Informazioni 

Pastora Caterina Griffante

Telefono 049650718

Cellulare 3471720957

E mail: cgriffante@chiesavaldese.org